Ero un ragazzotto sui sedici anni quando ero sfollato presso i villini di Federici, prima della Cava di Martini. Dopo l'armistizio, con altri miei coetanei, ci aggiravamo spesso presso le caserme abbandonate dai militari, per cercare di "sciacallare " qualche cosa. Una volta, insieme col mio amico Nello, riuscimmo a catturare, nel maneggio della caserma Piave, due cavalli sciolti. Li cavalcammo a pelo ed uscimmo dalla porta carraia; attraversata la campagna di San Giacomo, arrivammo ai Cioccati, e lì il proprietario di una tenuta acquistò i nostri cavalli per duemila lire. I Tedeschi, per evitare i saccheggi da parte dei civili, saltuariamente pattugliavano ogni dove, richiedendo. l'apposito permesso da loro rilasciato a chiunque incontrassero in giro per Nettuno. Quando poi vedevano civili aggirarsi intorno alle caserme, sparavano per disperderli ed intimidirli. Un'altra volta una mattina, ero solo, nei pressi delle stalle della stessa caserma, trovai una cassetta nera piena di finimenti per cavalli. Nel percorrere il breve tratto che va dal cancello della caserma allo stradello di Martini, m'imbattei in una pattuglia di tedeschi che transitava su di una motocarrozzetta; fui fermato e condotto al comando con la refurtiva.
La stessa mattina, i Tedeschi avevano operato un vasto controllo in piazza, dove tantissime donne anziane con tre vecchi facevano la fila per prendere il pane, davanti il forno di Palazzetti: Il controllo verificò che solo qualcuno era autorizzato a circolare; gli altri furono tutti portati, prima di me, al comando. Quando giunsi, essendo un ragazzo, fui sottoposto ad un lungo interrogatorio, anche da parte dell'interprete, che conoscevo di vista. Ma il comandante decise ugualmente di mandarmi nei sotterranei del comando, dove trovai molte donne stipate e piangenti, in preda alla disperazione; erano quelle che facevano la fila in piazza, prive di permesso " verde ". Rimanemmo rinchiusi, senza mangiare, fin verso le sedici. Poi sopraggiunsero alcuni tedeschi armati di mitra e, facendoci uscire dal portone di sotto, ci sospinsero per la salita di Via Duca degli Abbruzzi, già tristemente famosa per le fucilazioni lì operate, e ci caricarono come sacchi di patate, su un camion coperto da un tendone, che era stato approntato per la bisogna, davanti al Comando. Ricordo come risolsero, per le più anziane, la salita sull'automezzo: due Tedeschi, con un fucile tenuto uno per il calcio e l'altro per la canna, collocavano l'arma sotto il sedere delle malcapitate e, con movimento repentino, le sollevavano verso il pianale del camion, contemporaneamente un altro da dietro, dava una spinta in avanti. Quando erano fortunate, cadevano con le mani avanti sulle ginocchia che si sbucciavano, altri invece si scorticavano gli stinchi prendendo brutte storte, i più sprovveduti cadevano a faccia avanti procurandosi serie contusioni. Venne il mio turno per salire e lo feci sveltamente, senza aiuto. Chiusero quindi la sponda e calarono il tendone. Dentro il camion c'era un piagnisteo generale per la prossima fine che avremmo fatto di lì a poco, come per i lamenti dovuti ai ferimenti riportati. Alcune svennero, altre se la fecero sotto; insomma, ci ritrovammo tutti calcati uno sull'altro come e peggio delle bestie.
Piangente ed impaurito, mi rannicchiai a sedere nel cantone dello sportello. Due tedeschi giovani salirono, armati di mitra e si posero a sedere dietro, sul ciglio della sponda. Tra i pianti ed i lamenti si sentiva chi invocava la Madonna di San Rocco; chiedevano la grazia! Partimmo senza sapere dove ci avrebbero portato. Io intanto, tra un pianto ed un singhiozzo, guardavo con la coda dell'occhio, attraverso uno spiraglio, tra il tendone laterale ed il Tedesco, che mi stava quasi sopra, la strada. Malgrado guardassi con attenzione, non riuscii a capire quale strada stessimo percorrendo. Intanto, li dentro, cercavano di fasciarsi le ferite; scorsi anche delle lacrime negli occhi del giovane Tedesco che stava dall'altra parte.
Dopo tanta strada, percorremmo una gran salita. Le donne mi chiedevano ogni tanto dove eravamo ma io rispondevo: E che ne sò! ", Poco più avanti, il camion si fermò; aprirono le sponde e ci ordinarono di scendere. Col cuore in bocca eseguimmo l'ordine, coscienti che di lì a poco ci avrebbero fatto fuori tutti. Alcune riconobbero subito che ci trovavamo al bivio tra Albano e Genoano. Con le armi ci obbligarono a raccoglierci tutti a lato della strada, io mi confusi tra le donne ero il più piccolo quando, d'un tratto, i Tedeschi risalirono sul camion e ripartirono di corsa. La Madonna ci aveva fatto la grazia ! In un momento tutto il nostro gruppo di persone sparì dalla strada per dileguarsi tra i vigneti sottostanti. Incredibile! Ma tutti si precipitarono di corsa per mettersi in salvo. Anche . le più vecchie. Feci altrettanto. Allora riconobbi, tra queste, una certa Maddalena e la madre di Rolando B..
Sempre per la campagna, arrivammo nelle vicinanze di Lanuvio: qui trovammo rifugio in una stalla piena di vacche, e vi trascorremmo la notte.
Eravamo una trentina in tutto, ed i vaccari vedendoci stanchi ed affamati, ci portarono latte e pane e ci permisero di pernottare lì dentro. Riposammo come potemmo tra le bestie; io trovai una mangiatoia quasi libera e mi addormentai lì dentro. Esausti ed intirizziti, fruimmo del calore animale per riacquistare le forze. Appena si fece giorno, ci rimettemmo subito in cammino, sempre per le campagne, per arrivare alla Campana, dove tutte quelle povere donne avevano i familiari. Il nostro arrivo -determinò una festa, poiché già ci avevano dati per morti. Chi era ferito al viso, chi alle gambe, chi zoppicava e chi aveva i piedi sanguinanti per il cammino, ma per fortuna eravamo tutti salvi. Ci aveva inteso la Madonna! |