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QUEI GIORNI
A NETTUNO

22 GENNAIO - 26 MAGGIO

di
FRANCESCO ROSSI
SILVANO CASALDI

Edizioni Abete

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47 - IL SILENZIO STAMPA


Per un monito, dovrebbero essere da esposizione permanente soprattutto le conseguenze delle armi. Al contrario, dietro il paravento della sicurezza di stato, il potere cela spesso i suoi eccessi, decidendo ciò che l'opinione pubblica deve e non deve sapere. Anche nelle democrazie più consolidate e vaccinate contro le infezioni della censura, uno dei dibattiti più frequenti riguarda la libertà della stampa: è giusto che pubblichi tutto o è più giusto che abbia un correttivo?
La tentazione d'imporglielo dev'essere forte, se non ne sono immuni taluni sacerdoti del diritto e della giustizia, come si è veduto in Italia nei casi dei giornalisti arrestati per la divulgazione di segreti d'ufficio. Che cosa, allora, avrebbero dovuto fare durante la guerra nel Pacifico il presidente, il congresso e la corte suprema degli Stati Uniti con il direttore del giornale che diede la notizia che gli americani conoscevano il codice dei giapponesi, invitandoli così a inventarne subito un altro? Mandarlo alla sedia elettrica? Oppure ricorrere a una legge speciale che rendesse tabù ogni informazione d'interesse nazionale?
Nell'isoletta di Bedloe, la statua della libertà non si è dovuta vergognare per provvedimenti del genere. La stampa americana - anche in atti meno eclatant! delle denunce di strage nel Vietnam e dello scandalo del Watergate che fece gettare la spugna a Nixon - ha dimostrato che i popoli veramente liberi sono quelli che conoscono la verità. Ma a Nettuno, nei giorni della crisi, la verità era molto brutta, e al comando alleato non piacque che tutti la potessero vedere. Oltre a non comunicare più alcuna notizia ai giornalisti, che si presentavano tutte le mattine nella grotta di via Romana dal colonnello Joe Langevin, capo dell'ufficio stampa, ritirò loro il permesso di trasmettere qualsiasi servizio dalla testa di sbarco: col risultato di seminare il panico e far trovare in pieno dramma le redazioni in patria, nelle quali rimbalzavano da Napoli e Algeri le voci più disparate.
Il black-out, spiegarono i generali sul campo, l'avevano provocato i titoli dei giornali che, provenienti da Napoli, erano comparsi al fronte: come si può ottenere il sacrificio dai propri soldati, se vengono scoraggiati da ciò che leggono? L'ideale, per loro, sarebbe stato che "i giornalisti avessero smesso di scrivere, finché il pericolo non fosse scomparso; oppure dovevano sottoporre i resoconti a un esame assai severo... Ogni cosa sarebbe stata più semplice se fossero rimasti a battere a macchina i loro pezzi a Caserta e Napoli, in base alle veline del comando d'armata".
Fu Alexander, il 14 febbraio, a riunire a Nettuno i corrispondenti e redarguirli. Non gli disse, certo, che fossero dei collaboratori dei tedeschi, ma nemmeno gli disse che erano dei collaboratori dell'esercito alleato con quello che dettavano ai giornali. Respinse le loro obiezioni con una domanda: "Chi di voi si è trovato a Dunkerque?". Nessuno rispose, "lo c'ero, e so che qui è improbabile che si ripeta una Dunkerque". Tuttavia, Lucas non ne fu tranquillizzato abbastanza, e confidò al proprio diario: "I giornalisti erano infuriati. Avevo dovuto per la prima volta rendermi conto che si potesse sul serio pensare alla nostra sconfitta... Mi sono preso un brutto spavento".
Da parte dei giornalisti, qualche considerazione di più largo respiro. Quasi vent'anni dopo, riviste le cose con occhio distaccato, Vaughan-Thomas ne ha tratto una morale rassicurante: "Alexander, da uomo ragionevole, sentì il peso delle proteste della stampa e promise che tutta la faccenda sarebbe stata riesaminata al suo ritorno a Napoli... Ma si può immaginare qualcosa di simile presso Kesselring o dietro il fronte dell'armata rossa? Il comandante in capo che, in una crisi della battaglia, trovava il tempo per incontrarsi coi rappresentanti della stampa e si sforzava di comprendere il loro punto di vista... Questo era un aspetto della democrazia che gli alleati tentavano di difendere".
Tale difesa dev'essere totale. Se non si ha ben presente la contrapposizione potere-libertà di stampa, si rischia di assecondare il gioco di chi ha interesse a svicolare. Prendiamo Churchill. Giudicò catastrofico il notiziario della emittente americana NBC e altrettanto catastrofiche le cronache dell'"Evening Standard", del "Daily Mail" e altri giornali che, a quel punto, non potevano ignorare che sul fronte di Nettuno l'iniziativa era passata al nemico. Si inquietò più di Alexander, mentre "Roosevelt ammetteva pubblicamente che la situazione era tesa. "Perché questo disfattismo?", si domandava Churchill. I censori avrebbero dovuto imporre un alt alla circolazione di voci allarmistiche".16
Così il premier da premier. Anche lui, però, era stato giornalista. Nell'ottobre del 1899, quando aveva venticinque anni, venne inviato dal "Morning Post" nel Sudafrica, con un compenso di duecentocinquanta sterline al mese e le spese pagate, affinchè informasse i sudditi di sua maestà britannica della guerra con i boeri. Le sue corrispondenze si basarono su quello che vedeva e non su quello che gli passava il comando (successivamente, chiarì meglio la sua opinione sul capo della spedizione, il generale Redvers Buller, scrivendo di lui che "seppe avanzare di castroneria in castroneria, di disastro in disastro, senza rimetterci la popolarità né presso il pubblico inglese né presso le sue truppe").
Con questi servizi, che cosa poteva aspettarsi il giornalista Churchill? "Le verità poco gradevoli che snocciolavo - ecco il suo bilancio - sollevarono molta indignazione. La mia asserzione che "il boero che si batte individualmente, spostandosi a cavallo in una regione familiare, vale da tre a cinque regolari", fu presa per un insulto ai nostri soldati. Si trovava assurda la mia pretesa che occorresse mettere in linea un quarto di milione d'uomini... I vecchi colonnelli e generali del "Buck and Dodder Club" erano fuori della grazia di Dio. Alcuni di loro mi spedirono un telegramma che diceva: "I suoi amici fedelissimi di questo club sperano che lei smetta di fare delle figure da cretino". Ma presto i fatti avrebbero dato ragione alle mie parole da cretino. A rinforzare i nostri effettivi nel Sudafrica vennero mandati diecimila uomini fra quelli dell'Imperiai Yeomanry e altre formazioni. E, prima che vincessimo, erano stati riuniti sul suolo sudafricano più di un quarto di milione di soldati inglesi. Mi avevano dato del bambino, ma potevo consolarmi con la frase biblica: "Meglio un bambino povero e saggio che un vecchio re sciocco"".
Un ottimo giornalista. Di questa sua esperienza, e del fondamentale ruolo d'una stampa libera e vigilante, il premier perse però la memoria, mentre altri giornalisti snocciolavano da Anzio-Nettuno le sgradevoli verità che lui aveva snocciolato dal Sudafrica.
Il che non significa che non stesse con gli occhi aperti di fronte alla realtà: che era quella descritta dai corrispondenti cui aveva imposto il silenzio, e Churchill lo sapeva benissimo. "L'atteso sforzo decisivo del nemico per buttarci a mare ebbe inizio il 16 febbraio: i tedeschi lanciarono da Campoleone in direzione sud oltre quattro divisioni, appoggiate da 450 pezzi d'artiglieria... L'attacco fu scatenato in un momento difficile per noi, per il fatto che i rinforzi americani e la 56a divisione britannica erano appena giunti dal fronte di Cassino per sostituire la nostra valorosa I divisione e si trovarono così immediatamente impegnati nel vivo della battaglia. Un cuneo assai pericoloso si aprì nel nostro schieramento, che fu costretto ad arretrare in tal punto verso il perimetro iniziale della testa di sbarco... Tutto era allora in forse. Nessuna ulteriore ritirata era possibile... lo non avevo alcuna illusione circa l'importanza della posta: era questione di vita o di morte".




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