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QUEI GIORNI
A NETTUNO

22 GENNAIO - 26 MAGGIO

di
FRANCESCO ROSSI
SILVANO CASALDI

Edizioni Abete

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43 - CENTO AM - LIRE


In questo brevissimo tratto, piazza del Mercato-via Romana e viceversa, si sarebbe consumata senza gloria, come in un giro vizioso, l'intera missione del comandante del VI corpo d'armata. Gli accusatori - quasi tutti inglesi - si sono accaniti contro di lui. Sintomatico che fin dal primo giorno il loro maggior rappresentante sul fronte di Anzio-Nettuno, William Ronald Campell Penney, avesse sempre da ridire su Lucas, che pure non si era fatto trovare impreparato dal sopralluogo di Alexander e Clark, poche ore dopo lo sbarco. Li aveva accompagnati nell'ispezione, gli aveva mostrato le truppe attestate, aveva concordato con loro il da farsi. Saputo inoltre del contrattempo degli inglesi, presi alla sprovvista dalle mine, si era recato con una barca a discuterne proprio con Penney, che stava sulla "Bulolo". Tuttavia, come per una ipotesi di assenteismo, è stato rimarcato che Lucas il 22 gennaio non sbarcò, che attese l'indomani, che si decise a lasciare la "Biscayne" - sulla quale aveva diviso la cabina con Truscott - per andarsi a tappare nella sua cantina di Nettuno.
Nella cantina, c'erano pure diversi inglesi. Di questi, il più vicino al comandante fu un ufficiale delle guardie scozzesi, il maggiore John Hope, anzi lord John. Figlio d'un marchese, si vedeva che aveva studiato a Eton: una distinzione che contrastava con la pipa ricavata dalla pannocchia di granturco, ch'era il simbolo del virginiano Lucas, nativo di Kearneysville. Per quella rossa faccia da contadino, Hope disse d'aver provato subito simpatia. Gliela dimostrò a modo suo, rivelando le confidenze che forse non ricevè mai.
Una volta, il 24 gennaio, si sarebbe limitato a osservarlo in silenzio. Lucas non si staccava mai dalle sue mappe. All'improvviso, una voce che doveva essere un vocione: "Sentaaa, Hope: sicuro che attaccherò. Ma che cosa debbo attaccare? Lei che cosa attaccherebbe?". "Signore - rispose Hope - perché non manda una pattuglia sulla strada di Albano a vedere che cosa sta succedendo?". "Ma certo, si potrebbe anche farlo. Diavolo, io voglio attaccare".7
Un'altra volta, dato che Lucas stava sempre lì a elaborare, esaminare i piani e approvarli pure quando erano sbagliati (come avvenne per quello dei rangers falcidiati a Cisterna), che cosa fece il riservatissimo lord? Non fece niente.
"Ma - testuale - avrebbe tanto voluto domandargli: perché non vai al fronte a vedere con i tuoi occhi?".8
Per smuovere Lucas, per la verità, ci voleva il carro-attrezzi. Di rado, la sua jeep osò un più lungo rally di quello che, da un capolinea all'altro, compie ogni venti minuti l'autobus dell'Acotral, collegando Nettuno col porto d'Anzio: dal quale, smanioso com'era di scorgere e accogliere i rinforzi, fu di continuo attratto. Alexander,durante le sue prime visite, gli fece compagnia e sostò con lui a seguire le operazioni di scarico delle Liberty, compiacendosene: "Very well".
L'apprezzamento, nella circostanza, doveva essere esteso al gruppo d'italiani che, come i carabinieri del capitano Pezzella, erano giunti in centocinquanta da Pozzuoli. Si trattava di volontari, reclutati nel centro di raccolta di Battipaglia: un campo aperto, senza recinzione, dove si ammassavano profughi e sbandati dell'8 settembre, infilandosi in ogni porta e accampandosi come capitava, con le tende e le carcasse degli automezzi. Erano stati convinti da un italo-americano, il maresciallo Savino, a entrare nella 66a compagnia per l'accatastamento delle armi e delle munizioni, dato che la manodopera scarseggiava. Così, da più di due mesi, per il compenso di un dollaro al giorno, pari a cento am-lire, avevano seguito la quinta armata e, da uomini di fatica, si erano fatti le ossa a Maddaloni, Venafro e Teano.


Deposito di munizioni

Vennero mandati d'urgenza nella testa di sbarco, perché giusto di loro si aveva bisogno per svuotare le navi che attraccavano al molo e quelle ancorate fuori del porto e più al largo. Tutti disarmati, sebbene vestissero la divisa americana. Si distinguevano per la mostrina col disegno dello stivale, cucita sulla manica sinistra. Per lo più romani, toscani, umbri, diversi di Prosinone, e c'era pure un milanese. Speravano di riunirsi al più presto alle famiglie. Tre di loro, Umberto Coppola, Marco Ambrosini e Vittorio Bergami, tutti e tre anziati, avevano anzi brindato al ritorno a casa sull'imbarcadero di Pozzuoli.
Li accolsero il mucchio delle macerie e le ruspe che, dal porto e da piazza Pia, stentavano ad aprirsi la strada verso la Nettunense e il lungomare. La desolazione, la polvere e subito la visione del paese annientato avevano fatto chiudere gli occhi a un altro anziate, Lucio Castaidi, aggregato al 57° battaglione della III divisione americana e sbarcato a Foglino, ventiquattr'ore prima di loro. Le famiglie di Marco e Vittorio, morto di recente, erano sfollate a Roma. Umberto impiegò quindici giorni a ritrovare i suoi che, per mettersi al sicuro, non avrebbero potuto scegliere un posto più malsicuro: il fosso della Moietta, destinato a riempirsi di sangue. La madre, la moglie, quattro figli, un fratello e la sorella con tre figli: una carovana che Umberto, con i pochi mobili che gli erano rimasti, riuscì a portar via in tempo e pigiarla tutta in un baraccone, montato alla meglio nel fazzoletto di terra che possedeva a Nettuno, al di sopra della caserma Piave, dove si sta ultimando il palazzetto dello sport.
Per lui, Vittorio, Marco e gli altri scaricatori, il dormitorio era più distante. Dovettero farselo da sé, scavando col piccone e la pala nei campi del Quartaccio, tra la Campana e Piscina Cardillo. Stava lì il deposito della 66a compagnia; ma loro erano ormai del mestiere e avevano imparato, ficcati nelle buche e coperti dalle tavole, a convivere con le casse delle bombe. La sera del 23 gennaio, quando arrivarono e videro sul piazzale della Divina Provvidenza cinque-sei tedeschi laceri, sospinti dai paracadutisti del 509° che li avevano scovati in fondo a una rimessa del palazzo del presidio, si sentirono più tranquilli, e nemmeno li sfiorò il presentimento dell'apocalisse incombente.
Lucas, al contrario, se la sentì sempre addosso. Perché allora, nella cantina di via Romana, non prestò ascolto al saggio consiglio, non pronunciato, e tuttavia percepibile, sottinteso, del maggiore Hope? Ma sarebbe bastato - non diciamo a cancellare i vizi d'origine, la mezza forza, il destino dell'operazione Shingle, che non si potevano cancellare - bensì a risparmiargli la destituzione e farlo vivere forse più a lungo (il tormento del torto ricevuto, più che l'umiliazione, l'avrebbe condotto alla tomba nel 1949)? I nodi vengono al pettine, anche nella rilettura di ciò che è stato archiviato; ed è certo che i maggiori responsabili dei quattro mesi di calvario di Nettuno-Anzio sono altri: Lucas ha dovuto pagare per tutti.


Il generale George S.
Patton

Ne era consapevole. I suoi giudizi non hanno risparmiato nessuno. Scrisse che si sentiva "un agnello portato al macello". Scrisse, su Churchill e Alexander, che lo lasciava stupefatto "l'ignoranza in materia militare manifestata da capi di popoli che sono in guerra da così lungo tempo". Scrisse che tutto era stato organizzato in fretta e male e che, con un'altra settimana di tempo, si sarebbe potuto "salvare dozzine di vite. Ma l'ordine viene dal ministro civile di un altro paese, il quale accantona impazientemente dettagli del genere".
Uno sfogo. Con i suoi convincimenti - l'abbiamo già detto - Lucas avrebbe dovuto rifiutare il comando del VI corpo d'armata. Citare poi Patton (che, alla partenza per Nettuno, gli aveva dato la benedizione: "John, in tutto l'esercito non c'è nessuno che vedrei meno volentieri finire ammazzato, ma mi sembra proprio che tu non possa uscirne vivo") serve a dimostrare che pure colui che avrebbe voluto "salvare dozzine di vite", non fece abbastanza per salvarle. Il che non può far sottacere che sia stato condannato ingiustamente e non abbia potuto gioire per la guerra vinta come ogni americano.
Qualche comparsa, per l'esattezza, la fece anche lui al fronte, allorché si trattò di puntare i piedi. Il capitano Nicholas S. Mansell, un innamorato dell'Italia, caduto nei pressi di Campo di Carne mentre saltava fuori dalla trincea, ha saputo fissare con una pennellata l'avvenimento nel suo diario: "Un gran trambusto. Chi lo crederebbe? Il vecchio Charlie Pannocchia è stato qui per vedere Penney...". Ma questi che fie ricavò? "Nessuna vantazione operativa - ha lasciato scritto - nessun ordine, nessun obiettivo, nulla di nulla". Un'esagerazione. Il generale Clark, sebbene tardi e con un peso sulla coscienza, ha ristabilito la verità: "Penney cominciava a provare una vera allergia per il povero Lucas. Il quale sapeva che gli sparavano alle spalle e che gli inglesi avrebbero ottenuto la sua testa. Così avvenne. Essi misero su una congiura contro di lui".




OPERA APPARTENENTE AL FONDO BIBLIOGRAFICO
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