Ivanoe Bonomi
Alcide De Gasperi
Pietro Nenni
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L'arrivo degli alleati fu subito accolto come la fine della guerra. Anche a Roma, che non era proprio dietro l'angolo, a stento si riuscì a trattenere l'esultanza; ma ormai, con i tuoni delle cannonate e i lampi che si scorgevano dalla parte del mare, erano tutti convinti che la liberazione fosse in marcia. Questione di ore; e sarebbero arrivate dall'Appia le jeep a scacciare gli aguzzini di via Tasso. I primi a non dubitarne furono tre dei padri della nostra democrazia, Ivanoe Bonomi, De Gasperi e Nenni, rifugiatisi nel seminario di San Giovanni in Laterano. Bonomi fungeva da capo del Comitato di Liberazione Nazionale per l'Italia centrale. Era stato svegliato alle prime luci dell'alba da un messaggio in codice che preannunciava la fine dell'oppressione tedesca: "La zia è malata, e sta per morire".
La conferma giunse poche ore dopo dal gruppo dei profughi scampati in Vaticano. A una loro amica, il segretario del barone Ernst von Weizsaecker, ambasciatore di Germania presso la Santa Sede, aveva confidato che il colonnello Dollmann e il capo della gestapo, Herbert Kappler, stavano facendo le valigie: "Pensiamo che in due o tre giorni si ritireranno dalla capitale". Bisognava quindi dargli il benservito. Giorgio Àmendola, comandante dei GAP (Gruppi di Azione Patriottica), era già con la bandierina alzata per il via alle azioni di sabotaggio, mentre ('"Unità", nella sua tipografia clandestina, preparava un'edizione straordinaria con il titolo a nove colonne: "Roma insorge".
Uscì maggiormente allo scoperto uno dei più spericolati agenti segreti: l'americano Peter Tompkins. Apparteneva all'OSS, e proprio il mattino del 22 gennaio - spedito dalla Corsica con un mas italiano che lo aveva deposto su un canotto di gomma, a sud di Orbetello - era ricomparso al centro di Roma (che conosceva a menadito, per avervi lavorato da giornalista prima della guerra, quale corrispondente dell'"Herald Tribune" di New York). Più che persuaso di poter mettere nel sacco i tedeschi e promuovere l'insurrezione dei romani, Tompkins trasmise invano al generale Clark un piano per l'immediato lancio di paracadutisti addirittura al galoppatoio e nel prato di piazza di Siena, appena al di là di Porta Pinciana.
Su tanta euforia, non tardò la doccia fredda. Pochi giorni dopo lo sbarco, all'indirizzo londinese del colonnello Warden (il nome convenzionale di Churchill), un dispaccio di Alexander inaugurava la serie delle brutte notizie: "Siamo ancora sulla costa: Campoleone e Cisterna non sono state conquistate". Non era più il caso - questo il generale lo lasciò pensare al primo ministro - d'essere soddisfatti di Lucas. Fin allora, tuttavia, la liberazione era stata una realtà per i nettunesi. La ebbero davanti agli occhi, nel mare pieno di navi e anche nell'ultima sequenza dei tedeschi che, due a piedi e uno in bicicletta, cercavano una scappatoia tra i sentieri dei Cioccati, dopo aver gettato l'uniforme dietro una siepe; e poterono toccarla, la liberazione, le sei nettunesi imprigionate nelle scuderie del comando di piazza Mazzini, al buio, tra la sporcizia, i polsi legati agli anelli che erano serviti a tener fermi i cavalli. |