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QUEI GIORNI
A NETTUNO

22 GENNAIO - 26 MAGGIO

di
FRANCESCO ROSSI
SILVANO CASALDI

Edizioni Abete

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34 - L'ARRIVO DEI CARABINIERI


 


Il capitano
Silvio Pezzella

Anche i carabinieri, invece, ebbero presto il loro daffare. È inesatto che fossero già sulle navi la notte dello sbarco (e tanto per fare i pignoli, non erano 150, ma 148: 2 ufficiali, 9 suttufficiali e 137 tra appuntati e carabinieri semplici). Arrivarono il 3 febbraio, quasi due settimane più tardi, e il loro viaggio fu dei più brutti, sia per il mare in tempesta, sia per l'accoglienza dei tedeschi che dai castelli romani, avendo sotto gli occhi i movimenti del porto di Anzio, potevano prendere di mira qualsiasi barca si accostasse al molo.
Fin dalla partenza, non tutto andò liscio alla nostra rapppresentativa. Era stata trasportata con otto camion al porto di Napoli e imbarcata la sera precedente su uno degli LST tanto ricercati da Churchill; e vi rimase per ore, in attesa del fischio .per salpare, che non venne.
Era una di guelfe giornate in cui, il mare, è meglio lasciarlo stare. Pioggia, vento e cavalloni che facevano sobbalzare gli scafi dentro i ripari. Con quel pachiderma del mezzo da sbarco, si sarebbe rischiato il naufragio. Il contrordine giunse a mezzanotte passata. I carabinieri, rimessi a terra, ricaricati sui camion, vennero condotti a Pozzuoli, da dove alle quattro e mezza del mattino affrontarono la burrasca con una torpediniera americana.
Ci misero dodici ore, da Pozzuoli a Nettuno-Anzio. Non c'era nemmeno lo spazio per rigirarsi, nella piccola unità della marina militare; e gli spruzzi, le onde correvano sulla tolda. Accucciati sottocoperta, uno addosso all'altro, ebbero tutti il mal di mare. Né il tempo inclemente usò la clemenza di tener lontana l'aviazione tedesca, che per fortuna mancò il bersaglio. Lo mancarono pure i cannoni che diedero alla benemerita il benvenuto nella rada di Anzio. Tra le bombe che sollevavano colonne d'acqua, i 148 carabinieri scesero con la certezza d'essere ormai all'inferno.
Li guidava un napoletano, l'avvocato Silvio Pezzella, che con tutti i guai della guerra non avrebbe mai immaginato di continuare a indossare l'uniforme fino al 1951, l'anno in cui si congedò. Era capitano di complemento, reduce dal fronte balcanico, sbandato come la maggior parte degli italiani, sconvolto dal cumulo di macerie che aveva trovato al posto della sua casa in via Pietro Colletta, tra il rettifilo e porta Capuana; oggi è un tenente colonnello in pensione, domiciliato tra cielo e mare, al culmine di Posillipo, non lontano dalla stadio di Fuorigrotta, e quindi divertito dai virtuosismi di Maradona (del quale è tifoso, come lo fu di Aitila Sallustro all'Ascarelli), sicuramente appagato dalle promozioni e dagli encomi ricevuti nella carriera militare.
Entrato nell'esercito come bersagliere e passato ai carabinieri nel 1940, aveva fatto parte della legione di Bolzano, che gli assegnò la tenenza di confine a Vipiteno, prima di mandarlo in Serbia. Ma la croce di guerra al valor militare, l'ebbe per il lavoro svolto dalle nostre parti: preceduta dalla citazione di merito con cui,, nell'esultanza per la liberazione di Roma, lo gratificò il generale Giuseppe Pieche, allora comandante dell'arma dei carabinieri: "II capitano Silvio Pezzella, al seguito della quinta armata americana, nella zona di sbarco fortemente battuta dall'offesa nemica prestò efficace, intelligente, coraggiosa collaborazione al comando alleato, riscuotendone il plauso".
La sua compagnia, posta al servizio di Lucas con l'etichetta di "contingente R", fu divisa in tre parti: la prima - 25 uomini, con il sottotenente Francesco Farina - ad Anzio; la seconda - 15 uomini, con il maresciallo maggiore Giovanni Raimondo - a Nettano; il resto - con il capitano - a ridosso della prima linea, nella campagna che dalla Campana s'allunga verso la macchia dell'Armellino e il bosco di Padiglione. "Nel bosco - abbiamo appreso da Pezzella - si celavano diversi carri del generale Harmon, e c'erano anche dei cannoni e un deposito di munizioni degli inglesi. Noi stavamo ai margini, provvedendo alla sorveglianza. Si dormiva nelle trincee, con nient'altro che il pastrano, una coperta di casermaggio e il telo di tenda mimetizzato. Tutta roba nostra, compreso l'armamento, che consisteva nelle pistole e nei soliti moschetti 91. Gli americani ci diedero soltanto gli automezzi per le perlustrazioni, il controllo dei casolari isolati (nei quali si sospettava che s'annidassero le spie, oltre i disertori) e la scorta ai profughi: che venivano radunati nella chiesa di Santa Teresa e avviati alle navi per il trasferimento al sud. Il mio pensiero è per tutti i caduti, anche se rimpiango maggiormente i miei carabinieri Pietro Chinchero e Mario Rossi. Morirono assieme a molti delle sfortunate popolazioni, che non vollero staccarsi dalla loro terra".




OPERA APPARTENENTE AL FONDO BIBLIOGRAFICO
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