La prima, Bianca Bellanti in Amoretti, fiorentina, trasferitasi a Nettuno nel 1920, aveva ottenuto dopo l'8 settembre di circolare liberamente con la fascia della Croce Rossa al braccio: il che le permise più d'un salvataggio anche tra gli uomini, sottratti alle retate e alle deportazioni dei tedeschi, come mariti delle gestanti che non videro mai. In seguito, dovette pure lei sottostare all'ordine di sfollamento. Ebbe asilo con la famiglia in una cascina tra Borgo Montello e le Ferriere, senza mai staccarsi dalla cassettina di legno in cui teneva i ferri del mestiere.
Non lontano, anzi vicinissimo alla sua casa, più adatto però alla destrezza d'un equilibrista che ai cauti passi dell'ostetrica, si trovava invece il rifugio di Libera Ada Mantovani in Lucci, la "sora Ada". Era stato ricavato da un pozzo, ancor'oggi intatto, nel cortile dell'istituto religioso dedicato a Santa Lucia Filippini, sulla sinistra del viale che dalla piazza di Anzio sale alla stazione. In disuso la carrucola e la corda del secchio, ci si serviva delle grappe di ferro ben murate per scendere fino a otto-nove metri di profondità e pervenire a due cunicoli, uno di fronte all'altro, nei quali erano stati disposti dei lettini.
In questa tana da talpa, abitava la "sora Ada" con il marito e i figli; e lì vennero più volte i messi della Campana a prenderla nel mezzo della notte per le missioni più urgenti. Quando però non si faceva più in tempo a ricorrere a lei e alla "sora Bianca", ecco l'iniziativa e l'esperienza di quelle che avevano dovuto fare i conti con diverse gravidanze. La più pronta era Perfetta Colaceci, vedova Conti, detta "la mammana di Ravenna". Una contadina con i muscoli e i calli d'un uomo e le ali da angelo. Suo marito era morto da più di dieci anni, e tutto il peso della casa, con l'orto, il bestiame, i quattro figli da crescere, era caduto sulle sue spalle. Le aveva curve dalla fatica, dopo aver zappato dalla mattina alla sera e portato le vacche a pascere. Eppure, oltre al coraggio, non le venne mai meno il fiato per rimettersi in moto, attraversare la campagna sotto le bombe e imporre alla guerra di far posto a un'altra creatura: perché la vita, quando diventa impossibile, va "castigata vivendola", come raccomandò il poeta della Maremma.
Il principe
Stefano Borghese |
Tra i benefattori, per completare la lista, dev'essere incluso il principe Stefano Borghese, detto Steno. Quando tutto si sfasciò, da lui venne almeno l'idea d'un governo giusto che non c'era. Da anni, pareva che la carica di sindaco (il podestà, per il fascismo che lo nominava d'autorità) fosse stata abolita a Nettuno. Si andò avanti per parecchio col commissario prefettizio. C'era già stato nel 1935; e lo si ritrova sette anni dopo nella persona di Ignazio De Matteis, del quale si è detto. Ritiratesi a Roma, ebbe almeno il merito di delegare il principe Borghese a rappresentarlo in loco. Nella disgrazia, fu una fortuna. Magrolino, pochi capelli in testa, un uccellino di fronte ai falchi del comando tedesco, don Steno seppe invece farsi rispettare. La sua fermezza consentì di salvare il salvabile.
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