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QUEI GIORNI
A NETTUNO

22 GENNAIO - 26 MAGGIO

di
FRANCESCO ROSSI
SILVANO CASALDI

Edizioni Abete

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12 - IL MURO DELLA MORTE


 


Via della
Resistenza Nettunese

Alla fine della resistenza si giunse attraverso trattative, nelle quali i tedeschi promisero che non avrebbero compiuto alcuna rappresaglia contro la popolazione, né contro i militari. In pratica, poterono imporre le loro condizioni, minacciando la distruzione del paese. Al mattino del 12 settembre, davanti al negozio di Valeri, il commissario di polizia Pietro Li Voti e un ufficiale tedesco col megafono dissero ai ragazzi di piazza Mazzini che non c'era più niente da fare. Poco più tardi, il colonnello Toscano dovette riunire i soldati della caserma Piave e convincerli ad arrendersi, mentre girava per Nettuno una camionetta con la bandiera bianca. Era mezzogiorno.
Le rappresaglie, invece, furono tante. Sono queste le pagine più buie: quelle della caccia all'uomo, delle deportazioni, dei colpi alla nuca. Vanno però rilette con la consapevolezza delle responsabilità e soprattutto con i sentimenti che nel dopoguerra portarono Nettuno al gemellaggio con Traunreut. I nostri amici della Baviera, che ci accolgono a braccia aperte nella loro modernissima cittadina (sorta una trentina d'anni fa proprio nel punto in cui Hitler teneva nascosta dall'ombrello dei boschi una delle più grosse polveriere del suo esercito) e che ogni anno ci restituiscono la visita, cominciando col venire alla processione del primo sabato di maggio, quando la Madonna delle Grazie esce da San Rocco per la consueta capatina alla collegiata di San Giovanni, e rimangono a tuffarsi nel nostro mare per tutta la stagione del sole; gli amici di Traunreut, si diceva, rappresentano con noi la realtà della libertà e della pace conquistate col sangue.
Il muro che da piazza Mazzini scende alla spiaggia, crivellato dalle scariche che infierirono sui martiri, è appunto il simbolo di tutto ciò, contro il nazi-fascismo. Le esecuzioni erano una pratica da sbrigare alla svelta, senza preamboli. Un ragazzo dell'Armellino, trovato con le pinze in mano ad aggiustare il recinto delle vacche e preso dai tedeschi per un sabotatore (era stato spezzato il cavo d'un telefono da campo, a pochi metri da lui), venne caricato di peso su una motocarrozzetta e portato al comando. Lo lasciarono di fuori per pochi minuti, consegnandolo ai colleghi del corpo di guardia: appena il tempo, per un sergente e quattro soldati, di entrare e uscire. Poi lo ripresero per trascinarlo al muro, gli fecero voltare la testa, e il sergente lo uccise con tre colpi di pistola, alla presenza delle donne che stavano facendo la fila per il permesso di circolazione.
Non aveva alcun dubbio, quel sergente, sul fatto d'aver compiuto il suo dovere, come riteneva che gli imponessero la disciplina della wehrmacht e la legge marziale. Si presentò il giorno dopo al forno di Alfonso Bernardini in via Cavour (lo stesso che oggi porta il nome di Paoloni), dove era abituato a prendersi sottobanco qualche pagnotta. Uno dei fornai, Dante
Castaldi, gli chiese se non provasse rimorso per la sorte del ragazzo, e lui si meravigliò: "Perché mai? Anzi, ho fatto in modo che non soffrisse".


L'arco del Baluardo

Alla ferocia della guerra si aggiungeva, nell'Italia divisa, la viltà delle delazioni. Gli antifascisti, costretti con le famiglie a darsi alla macchia, dovevano guardarsi anche dalle trappole. Vi incappò Mario De Franceschi (il primo sindaco eletto a Nettuno dalla democrazia nel 1946). Non era di quelli che non sapessero delle esche. Tuttavia, quando l'informarono che girava la voce che la sua casa, perquisita e messa sottosopra, fosse stata lasciata aperta a tutti, non seppe resistere. Come rimise il naso nel Borgo, appena passato l'arco del Baluardo, trovò ad aspettarlo un colonnello tedesco.
Non potè che sentirsi spacciato. In piazza Mazzini, altri sventurati, probabilmente arrestati nei paesi del circondario, erano già addossati al muro della morte. Sembrò a De Franceschi di non conoscere nessuno. Riconobbe invece, tra i tedeschi che si apprestavano a interrogarlo, la signora Tortora. Una strana donna, sulla sessantina. Scostante, spettinata, mal vestita, le calze che le pendevano dalle ginocchia: tutta l'incarnazione della trascuratezza. Si era trasferita a Nettuno, diceva, per stare vicina alla figlia e al genero (un sergente d'artiglieria che fino all'8 settembre si era occupato d'una batteria antiaerea). De Franceschi l'aveva conosciuta nel Borgo, riportandone l'impressione d'un fenomeno, per averla sentita parlare in sei lingue. Alla signora Tortora si aggrappò dunque con lo sguardo, e lei convinse il colonnello tedesco a rilasciarlo.
Nessuno seppe mai quale fosse il nome della trasandata signora. Anna? Giulia? Argea? De Franceschi, dal canto suo, aveva tutte le ragioni d'immaginarla con qualche grado in più della semplice interprete dei tedeschi. Dopo lo sbarco, quando la jeep del tenente italo-americano De Rubeis si fermò davanti all'abitazione di lei in fondo a via Veneto, e ci si aspettava di vederla uscire con le manette ai polsi, si scoprì invece che l'ufficiale era andato a ringraziarla per i servizi resi agli alleati. Si trattava di un'agente dell'lntelligence Service, dirottata a Nettuno dalla Turchia.




OPERA APPARTENENTE AL FONDO BIBLIOGRAFICO
"100 LIBRI PER NETTUNO"
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