Villa Donati |
A non far dormire i fratelli Donati, aveva contribuito un altro imprevisto. A Otricoli, in provincia di Terni, era morta il giorno avanti la loro nonna paterna, Adele; e poiché a Nettuno non si sapeva come affrontare il viaggio, partì dall'Umbria una macchina per pigliare i Donati e portarli al funerale. La macchina, per l'esattezza, non era proprio un tassi; ma la sua funzione era quella, specie nei paesi in cui, ad avere la patente di guida, erano pochini e, quando si doveva prendere a nolo un'auto, bisognava procurarsi prima l'autista. Nel caso dei Donati, lo stesso noleggiatore, Bramante Pagliari, si mise al volante. Un bell'uomo, imponente; e anche la sua macchina - una Lancia Augusta, terza serie, quattro sportelli, targata TR 3971 - aveva tutto per farsi notare. Era appartenuta, tra l'altro, al capostazione di Nettuno, che l'aveva venduta l'anno prima, attraverso un autosalone di Roma.
Una coincidenza che non può passare sotto silenzio. Sembra anzi il contrassegno della predestinazione da apporre al viaggio senza ritorno di Bramante che, diciamolo subito, fu la prima vittima che i nettunesi e gli anziati dovettero annotare nel rendiconto dello sbarco. Da Otricoli si era portato appresso il figlio Mario di 15 anni; e ci aveva messo parecchio, giunto in piazza Mazzini, a trovare la villa. L'indirizzo, certo, se l'era scritto su un pezzo di carta. Ma alle nove di sera, con i tedeschi che non lasciavano trapelare una luce, e tutte le case vuote, e nessun'anima in giro, a chi bussare e come orientarsi? Più si movevano, padre e figlio, e più si ritrovavano al punto di partenza. Risolse il loro rebus, alle undici sonate, uno dei fornai di Margherita Ricci, che li incontrò a due passi dalla meta.
Non era il momento, con i Donati, d'indugiare nei convenevoli. Ciro e Pietro, però, non si potevano spostare; e il programma era che soltanto Ada andasse al funerale. All'alba, naturalmente, bastò un'occhiata ai palloni e alle navi per capire che qualsiasi programma non stava più in piedi. Bramante non perse tempo, sulla terrazza. Si rivolse al figlio: "Spicciamoci; altrimenti restiamo bloccati qui". I Donati - purtroppo inascoltati - provarono a dissuaderlo, e comunque non fecero più partire Ada. Con Bramante e il figlio, partì invece un altro nettunese. Giuseppe Moroni, che aveva bisogno d'un passaggio per ricongiungersi alla famiglia sfollata a Roma.
Mezz'ora più tardi, percorrendo via Gramsci con la sua Lancia Augusta, il noleggiatore di Otricoli venne ucciso per sbaglio. Si era dovuto fermare e accostare al muro di villa Borghese, perché la strada era piena di vetri, strani frammenti imbrattati d'una sostanza gelatinosa. "Valli a scansare, sennò buchiamo", disse al figlio. Aveva fatto pochi passi, Mario, e già lo bloccavano le grida di Moroni: "Fermo, fermo: alza le mani!". Si voltò. Vide lo stesso Moroni fuori della macchina, con le braccia in alto. Vide pure lo sportello che si apriva dalla parte del padre. Poi una raffica di mitra, e non vide più niente.
La lapide che ricorda
la morte di Bramante
Pagliari |
Nel punto in cui Bramante cadde, poco prima della palazzina che, arretrata dal muro di cinta, è stata in seguito ceduta in affitto agli uffici dell'acquedotto di Carano, c'è oggi una lapide: l'ha fatta mettere don Steno Borghese alla fine della guerra, con queste parole: "Nel tentativo di ricollegarsi con i suoi fu colpito senza ragione". Ma Mario, immediatamente arrestato con Moroni, e trascinato come un prigioniero di guerra negli scantinati della casa da gioco senza licenza che è tutt'ora il disabitato Paradiso (dove conobbe il principe Borghese, anch'egli in gattabuia), non si era ancora reso conto della morte del padre. Parlò dell'accaduto al principe; e questi, che stava cominciando a chiarire la sua posizione agli americani, fu autorizzato ad accompagnare il ragazzo alla ricerca del padre. I resti della Lancia Augusta, distrutta, davano l'idea che le avessero poi tirato una bomba a mano. Don Steno, che era avanti, vide per primo il corpo di Bramante sul marciapiede, con la giacca gettata da un lato. Non fece avvicinare Mario, e lo portò via.
Che cosa provocò l'errore? A sparare fu uno dei rangers. Di sicuro, l'apparizione di quella Lancia Augusta, sbucata velocemente da dove si sospettava che fosse annidato il nemico, era stata scambiata a quell'ora per una fuga di fascisti o tedeschi non più in divisa. Può darsi che Bramante, che era grosso, e si doveva rigirare, e ci metteva sempre un po' a uscir dalla sua auto, avesse compiuto senza rendersene conto una mossa che sembrò una minaccia: quella, per esempio, d'una mano in procinto di estrarre un'arma. Lo si può presumere, sempre che sussista un filo di logica nella illogicità umana.
Mario venne rilasciato dopo diversi giorni. Ospitato dalla famiglia Donati fino alla liberazione di Roma, si sforzò in quei quattro mesi di saperne di più, rivolgendosi a ogni soldato americano. Nemmeno potè avere il corpo del padre per riportarlo a Otricoli. Gli risposero che non era stato più ritrovato. Il suo proposito era di procurarsi un mitra e ammazzare almeno tre rangers. Lo placò John Vita, conosciuto presso i Donati e divenuto suo amico: "La colpa è della guerra. Non è nostra; non è di nessuno".
La colpa, invece, è di chi scatena la guerra. Forse, nel fattore sorpresa, che disorientò sia i tedeschi che gli alleati, c'è pure l'origine della morte assurda dell'autonoleggiatore di Otricoli. Alexander e Clark, oltre ad armare la loro spedizione, si erano dovuti interessare di altri problemi, apparentemente secondari, come quello del primo contatto e dei rapporti con i residenti di Anzio-Nettuno. Si trattava soprattutto di riedificare, come esigenza di governo, un edificio che era crollato.
La soluzione, nella pace e per la pace, non poteva che essere quella garantita da Roosevelt e Churchill: la soluzione della democrazia, ovvero l'autodeterminazione del popolo italiano. D'accordo sulla questione di principio, gli alleati lo furono meno nelle vicende politiche che avevano indotto anche il comando militare a pronunciarsi contro Vittorio Emanuele III.
Dal quartier generale di Algeri, dove aveva preso il posto di Eisenhower, era stato Henry Maitland Wilson, detto "Jumbo", a spedire ai capi di stato maggiore di Londra e Washington dei telegrammi che auspicavano nell'Italia già liberata un governo che corrispondesse alle aspirazioni popolari, basato quindi sui partiti antifascisti.
I telegrammi, a Washington, sfondarono una porta aperta. Roosevelt non voleva altro. Scrisse a Churchill: "Nella situazione attuale, il comando in capo e i suoi consiglieri politici, sia britannici sia americani, hanno raccomandato di dare immediato appoggio al programma dei sei partiti d'opposizione. In tal modo, una volta tanto, le condizioni politiche armonizzano felicemente con quelle militari... Non riesco assolutamente a capire perché dovremmo ancora esitare a sostenere una politica che si accorda così bene coi nostri obiettivi militari e politici. La pubblica opinione americana non potrebbe mai approvare la nostra costante tolleranza e il nostro apparente appoggio a Vittorio Emanuele".
Churchill la pensava però diversamente. La sua difesa di Vittorio Emanuele è stata per gli storici la confessione del conservatore che, apprestandosi ad abbattere il nazi-fascismo, aveva temuto il diffondersi del comunismo o, come diceva lui, la bolscevizzazione dell'Europa. Cercò un argine nelle monarchie, sebbene fosse stato tra i primi a far leva sui movimenti popolari.
Il maresciallo Tito |
Si era così impegnato ad aiutare i partigiani da far paracadutare suo figlio Randolph tra le file del maresciallo Tito; e tuttavia si battè con altrettanto impegno per il trono di Pietro II di Jugoslavia e per Giorgio II re di Grecia: nei confronti dei quali, per altro, era pure giusto che gli inglesi avvertissero, da alleati, un obbligo che non potevano avere con Vittorio Emanuele.
Non fu che l'anticomunismo a rendere Churchill così sollecito dei regnanti in disgrazia. Si era dovuto già giustificare con Rooseveit, che magari subodorava qualche particolare intreccio: "Vittorio Emanuele non è nulla per noi, salvo il fatto che è stato lui, insieme con Badoglio, a metterci in mano la flotta italiana". La presa di posizione del generale Wilson lo spiazzò. Ma soprattutto una mossa di Stalin che, senza consultarsi con gli alleati, aveva accreditato un ambasciatore russo presso Badoglio, gli fece puntare i piedi: "Ritengo che non sarebbe saggio, senza ulteriore esame, accettare il programma dei cosiddetti sei partiti e chiedere l'immediata abdicazione del re e la nomina del signor Croce a luogotenente del regno. Comunque, io consulterò il Gabinetto di Guerra circa quella che voi definite una decisione politica della massima importanza". |