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CIAK, SI GIRA!
Anzio, Nettuno e dintorni...

a cura di:
VINCENZO MONTI
ALBERTO SULPIZI

Progetto grafico e impaginazione
ALESSANDRO TOFANI


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INDICE -
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12 - MOVIELAND:
RICORDI, CURIOSITA’, PERSONAGGI
"L'invasore ": Una metafora bifrone

Rocco Paternostro

Nel 1943, allorché tutta la vita nazionale era attraversata da una profonda crisi, nel campo della cinematografia si ebbero tre eventi contrastanti tra loro. Da un lato, Luchino Visconti e Vittorio De Sica firmarono due film cult, Ossessione e I bambini ci guardano, da un altro, Nino Giannini iniziò a girare L'invasore, un film che gran parte della critica specialistica ha ascritto al genere sentimentale, ma che io non esito a definire, per ora, enigmatico per struttura e linguaggio, e quindi per la sua complessità.
A dimostrazione di ciò valgano le contrastanti letture date dalla esigua critica che ad esso si è interessata. Un primo punto su cui la critica si divide è relativo al tempo e al luogo in cui il film è stato girato. Alcuni sostengono essere stato girato negli studi di Cinecittà non precisando i tempi di lavorazione. Altri, al contrario, vogliono che il film sia stato girato a Nettuno precisamente a Villa Borghese tra il venti e il venticinque luglio del 1943, ovvero tra il primo bombardamento da parte degli Alleati di Roma e la seduta del Gran Consiglio del fascismo, in cui l'ordine del giorno Grandi, votato a maggioranza, decretò la caduta di Mussolini. Certo, a meno che si voglia prendere del tutto per buona la tesi secondo cui il film fu girato in appena cinque giorni, tesi confutabile, del resto, sia perché dalla lettura-visione del film è possibile notare come non fosse girato unicamente a Nettuno, ma anche negli studi di Cinecittà, soprattutto per alcuni ambienti ricostruiti artificialmente, sia perché se così fosse apparirebbe assai problematica da accettare la testimonianza di Massimo Mida secondo cui Giannini per terminare il film si servì di alcune inquadrature della La città degli eroi, film iniziato nel 1943 e terminato solo nel 1945 dal regista tedesco Veit Harlan su sollecitazione del ministro nazionalsocialista Joseph Goebbels, certo – dicevo – a meno che si voglia prendere per buona tale tesi, solo allora si potrebbe sostenere l’ipotesi che il film fu girato unicamente a Nettuno. Ma ciò significa non voler considerare una serie di fattori importanti. Da un lato, i tempi di lavorazione che appaiono veramente esigui se ridotti ad appena cinque giorni; dall’altro, le vicende storico-belliche di quell’anno, che, se non considerate, significherebbe rinchiudersi in una sorta di voluta, colpevole reticenza intellettuale, poiché quelle furono vicende che condussero l’Italia nel precipizio di una guerra interna devastante, durata circa due anni, a partire dall’otto settembre del 1943 (giorno e anno dell’armistizio firmato da Badoglio), ad arrivare al venticinque aprile del 1945, giorno e anno della liberazione di Roma da parte degli Alleati. Tali vicende, soprattutto quelle immediatamente a ridosso dell’otto settembre, dovettero certamente determinare l’interruzione momentanea de L'invasore, il quale ripreso più tardi, terminò sicuramente prima del 1945, e ciò viene confermato direttamente dalla testimonianza di Massimo Mida, e indirettamente dal fatto che l’attore Osvaldo Valenti, che nel film di Giannini interpreta il ruolo del capitano Roger de La Fierte, fu fucilato insieme all’attrice e sua compagna Luisa Ferida, dalla divisione partigiana Pasubio, alla quale si erano spontaneamente consegnati, a causa del loro passato fascista, nella speranza di aver salva la vita, il trenta aprile del 1945, durante la sollevazione di Milano contro il nazifascismo. Come se non bastasse, c’è da aggiungere che Giannini, il quale tra il 1935 e il 1939 aveva già diretto film come La signora è servita, Verso la terra del Negus, Se quell’idiota ci pensasse, nel 1944 aveva legato il suo nome alla regia di due film quali Vivere ancora e Si chiude l’alba. Fatto quest’ultimo non trascurabile, perché da esso è possibile desumere come L’invasore certamente dovette essere del tutto terminato, anche se non montato, entro il 1944. Che così fosse del resto è ulteriormente dimostrato dal linguaggio del film, linguaggio che lo colloca indiscutibilmente all’interno di quei canoni contenutistico-estetici propri della cinematografia degli anni trenta e quaranta; ovvero da una parte, la retorica dei “fascistissimi film del regime” e, dall’altra, il versante della commedia dei “telefoni bianchi”; i primi – come è stato scritto – celebrativi, encomiastici, apologetici; i secondi lievi, leziosi, divertiti e informati a un intimismo piccolo-borgese. L’invasore di ciò è una sintesi riuscita: ai motivi della commedia sentimentale unisce quelli più propriamente politici di piena adesione al fascismo e dai toni propagandistici, che lo pongono accanto al film di Vèit Harlan, in cui, sempre a fini propagandistici, si narra la leggendaria resistenza della città di Kolberg, un piccolo porto della Alta Prussia sul Baltico, assediata dalle truppe di Napoleone nel 1806. Ne L’invasore si narra la resistenza del Piemonte iniziata e attuata nel Castello dell'Olmo, nei confronti degli invasori austriaci, al tempo della Guerra di Successione Polacca (1733-1738) combattuta su opposti schieramenti tra la grande Austria e il piccolo Piemonte. Del resto che la storia del film di Giannini sia ambientata nel Settecento è possibile evincerlo non solo dal colloquio tra il Conte di Valpreda, capitano piemontese dei granatieri e il maresciallo austriaco Von Bruchen, ma anche dalle citazioni letterarie presenti che, da una parte rimandano alla cultura teatrale classicista settecentesca (si veda l’episodio della messa in scena di una favola mitologica di chiara impronta metastasiana, scritta dalla marchesa zia, proprietaria del castello in onore del maresciallo Von Bruchen) e dall’altra, all’episodio letterario della Vergine Cuccia, narrata dal Parini ne Il Giorno (si veda la scena dell’allusione al ferimento da parte di un soldataccio austriaco della gentile cagnetta della marchesa zia). Ma per capire come Giannini nel suo film di fatto operasse una sintesi tra motivi sentimentali e quelli propriamente politici è necessario soffermarci brevemente sulla storia del film. La vicenda inizia un anno prima dell’invasione del regno del Piemonte retto da Carlo Emanuele III di Savoia e si svolge nel Castello dell’ Olmo (il nome del castello rimanda sicuramente a Nettuno in quanto è allitterazione di Olmata, via dove è situata Villa Borghese in cui furono girate parecchie scene del film) ove la proprietaria, la marchesa, zia della contessa Diana di Valpreda, ospita per un breve soggiorno il maresciallo austriaco Von Bruchen, il quale vi ritornerà un anno dopo, allorché in seguito all’invasione del Piemonte da parte dell’Austria, nel conflitto scoppiato tra le principali potenze europee per la successione al trono di Polonia, nominato capo supremo dell’esercito invasore, aveva eletto tale castello come sede del suo stato maggiore, anche perché come tale era stato scelto dal capitano Roger de la Fierte, giuntovi con un piccolo drappello di uomini in avanscoperta. A questo punto la vicenda politica si intreccia con quella sentimentale. Il capitano Roger che per il passato era stato innamorato corrisposto della contessa Diana di Valpreda, rincontratala nel castello, inizia a corteggiarla nella speranza di riaccendere il vecchio amore. Diana gli fa presente che ella ora è sposata e lo respinge con gentilezza. Al Conte di Valpreda sposo di Diana nel frattempo viene affidato l’incarico di far saltare un ponte nelle vicinanze del castello per impedire l’unica via di fuga agli austriaci. Avvistato dal nemico si rifugia nel castello presso la moglie che lo nasconde nella propria camera. Roger, insospettito, chiede di visitare l’appartamento della contessa e si imbatte nel conte che lo atterra e che, impadronitosi dei suoi abiti, fugge così travestito. Egli fa saltare il ponte per cui era già morto, nel suo tentativo di fare altrettanto il podestà. I piemontesi allora sferrano l’attacco finale in cui gli austriaci vengono sconfitti. I due coniugi, dissipati i malintesi che per il passato li avevano divisi e divenuti ormai veri eroi nazionali, trovano finalmente l’amore, e felici assistono all’esaltazione del popolo piemontese che ha riacquistato la propria libertà. Questa è la storia del film che per quanto riguarda la parte sentimentale è narrato con un linguaggio cinematografico proprio della commedia dei “telefoni bianchi”, in alcuni casi persino ironicamente corrosivo e pungente quando si rappresentano i vizi, le paure e le debolezze del maresciallo Von Bruchen. Ma tale storia altro non è che la metafora, ammantata nei panni del passato, della situazione dell’Italia di quel particolare e critico momento storico proprio degli anni quaranta. In tale metafora sta l’ambiguità o meglio l’enigmaticità del film, in quanto tale metafora ha una natura bifronte: può essere infatti letta da un duplice punto di vista, correlativo di due diversi momenti storici della nostra nazione, ma accomunati da un unico denominatore: lo stato di sofferenza profonda di un popolo schiacciato dal peso di una guerra catastrofica. Innanzitutto, molto probabilmente, dato l’anno di inizio dei lavori del film, nell’intenzione di Nino Giannini la cui adesione e fedeltà al fascismo non è da mettersi in dubbio, L’invasore altro non era che l’esercito alleato sbarcato in Sicilia, e questo spiega anche il perché la parte di Diana di Valpreda fu affidata a Miriam di San Servolo, alias Miriam Petacci, sorella di Claretta, l’amante di Mussolini, la quale aveva già legato il suo nome ad altri film quali Vie del cuore (1942) di C. Mastrocinque, L’amico delle donne (1942), e Sogno d’amore (1943) entrambi di F.M. Poggioli, tratto quest’ultimo da una commedia di A. Kosorotov e che restò incompiuto. Di Osvaldo Valenti, l’interprete di Roger de la Fierte, ho già detto. Ma ancora restano da chiarire alcuni enigmi del film: innanzitutto perché compaia il nome di Roberto Rossellini, quale supervisore, e perché venne rappresentato per la prima volta solo nel 1949 e in seguito negli anni 1950-51, quasi in sordina e senza recensioni. Rossellini, che durante gli anni trenta e quaranta fu collaboratore del rivoluzionario ultrafascista Asvero Gravelli, dopo aver girato una lunga serie di documentari, negli anni quaranta legò il suo nome a tre regie: La nave bianca (1941), Un pilota ritorna (1942) e L’uomo della croce (1942) il cui linguaggio cinematografico seguiva i dettami della retorica fascista, ma già nel 1937 allorché aprì Cinecittà, (progettata dall’ingegnere Carlo Roncoroni e dall’architetto Gino Peressutti su spinta e iniziativa del regime i cui lavori inaugurati alla presenza dello stesso Mussolini ebbero inizio il ventisei gennaio 1936 e terminarono 457 giorni dopo), Rossellini aveva firmato la sceneggiatura di un film Luciano Serra pilota diretto da G. Alessandrini che insieme a Il signor Max di M. Camerini furono i due più importanti lungometraggi dell’epoca. Rossellini, quindi, come del resto molti intellettuali dell’epoca, aveva salde credenziali presso il fascismo. Ma, dopo la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale con Roma città aperta del 1945 ruppe con il linguaggio che sino ad allora aveva caratterizzato la sua cinematografia e con questo film, vero capolavoro del neorealismo italiano, iniziò la sperimentazione di un nuovo linguaggio cinematografico che trovò conferma e solidità con gli altri due film che compongono la sua trilogia di quegli anni, ovvero con Paisà (1946) e Germania anno zero (1947). La problematica della resistenza comune alla nazione intera era fatta proprio da Rossellini, per cui in quei film che rappresentavano la sofferenza di un popolo, quel popolo vi si riconosceva e prendeva coscienza di ciò che era stato. Insomma, con la trilogia di cui detto, Rossellini aveva operato una svolta a 360 gradi della sua cinematografia e s’era saldamente accreditato presso la nuova classe dirigente dell’Italia democratica e la nuova Bildung che andava ormai formandosi. E se si riflette come con la pubblicazione, prima delle Lettere e poi via via dei Quaderni del carcere, Gramsci fornisse al neorealismo la base teorico – concettuale che gli mancava, apparirà evidente come la nuova poetica allora affermatasi potesse permettere, in quanto la esigeva, una nuova lettura del film di Giannini. L’allegoria di cui il film era originariamente portatore poteva essere letta ora in modo diverso: l’invasore non era più l’esercito alleato sbarcato in Sicilia, ma il giogo nazista sopportato dall’otto settembre 1943 sino alla liberazione di un popolo inerme, indifeso e allo sbando. E Rossellini divenne il garante di tale operazione apparendo, quando il film fu proiettato nel 1949, come supervisore accanto al nome di Giannini. Una operazione di compromesso e insieme indolore che mirava a garantire la paternità del film a Giannini e insieme una sua nuova lettura in nome della conciliazione della nazione. Del resto segni di tale operazione sono visibili all’interno dei titoli di testa e della locandina del film dai quali vennero cancellati i nomi dei due protagonisti: quelli di Miriam di San Servolo (alias Miriam Petacci) e di Osvaldo Valenti, i più compromessi, come già detto, con il regime fascista.

 

 


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