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Bruno Conti
Il mio Mundial

A tutti i tifosi italiani

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CAP. 18 - CHE SI FORTE BRU'


Bruno Conti, piangente, riceve l'applauso dei suoi
concittadini.


Il lungomare di Nettuno trasformato
nel carnevale di Rio


Bruno Conti visibilmente emozionato, viene proclamato cittadino illustre di Nettuno; al suo fianco la moglie Laura, in basso i figli Andrea e Daniele

Disteso sui sedili della macchina che correva verso casa mia, socchiusi gli occhi per qualche istante. Un mese prima, ero il folletto della Roma approdato alla corte di Bearzot, ora ero un campione del mondo, un azzurro entrato nella leggenda come Combi e Meazza, Ferrari e Schiavio, Monzeglio e Serantoni, Piola e Colaussi, Oliveri e Locatelli. Erano nomi che sentivo da ragazzino, nei racconti di mio padre, pure lui giovanissimo quando, nel '34 e nel '38, l'Italia aveva messo in ginocchio il mondo.
lo e i miei compagni, a quasi cinquant'anni di distanza, eravamo stati altrettanto grandi. Me lo ripetevo in continuazione, quasi volessi convincermene, mi sembrava troppo bello, troppo grande per essere vero.
Rivivevo per l'ennesima volta, ancora, i momenti che ci avevano portati al trionfo con la Germania. Ricordavo le perplessità della vigilia, l'assenza di Bettega (chissà quanto deve aver sofferto, davanti al televisore...), e poi via via la squalifica di Gentile, gli infortuni di Tardelli, di Collovati, di Graziani, di Antognoni. Eppure tutto era filato liscio, eravamo stati più forti anche della sfortuna.
Ricordavo le facce sorridenti dei negri del Camerun. E il loro sorriso a fine partita. Forse allora, lasciando Vigo, ci eravamo resi conto per la prima volta che il nostro o-la-va-o-la-spacca ci avrebbe portato molto lontano. Avevamo tutti, dentro, una rabbia che gli altri non conoscevano.
Anche mia moglie, accanto a me, sorrideva tranquilla. Quella vittoria, quell'atmosfera di trionfo le regalava finalmente la serenità che non avevamo avuto per settimane. Si era sobbarcata ad un viaggio abbastanza duro, da sola, pur di starmi vicino, si era accontentata per giorni di uno sguardo, di una passeggiata mano nella mano nel giardino dell'albergo, non aveva mai avuto un momento di nervosismo o di stanchezza. Per lo meno, era sempre stata presente a se stessa, preoccupata soltanto di farmi stare tranquillo, di farmi conservare la concentrazione che mi serviva per giocare bene. Non ringrazierò mai abbastanza Laura per quello che mi ha dato in quei giorni in Spagna.
Pensavo anche ai marmocchi, ad Andrea e Daniele. Due ragazzini fantastici. Chissà come avevano vissuto, loro ancora così piccoli, quell'avventura che stava scatenando la passione di un intero paese.
Quando saranno grandi, pensavo, racconterò loro tutto fino alla noia perché voglio che anche loro conoscano ogni dettaglio di questa favola incredibile.
La macchina filava tranquilla, e io mi stupivo della quantità di bandiere tricolori che spuntavano a destra e a sinistra. Ce n'erano sui balconi, nelle vetrine, attaccate ai semafori e ai cartelli stradali, persino svolazzanti dai finestrini delle auto e dei camion che correvano verso il sud. Ora capivo quello che era successo, ora mi rendevo conto di cosa avevamo fatto vivere a quella gente, ai tifosi, agli appassionati dello sport più bello del mondo.
Arrivammo a Nettuno senza che quasi me ne rendessi conto, stordito com'ero da quei pensieri, assorto nei ricordi di quelle giornate che ora mi sembravano scivolate via in fretta, dopo le notti insonni, dopo i pasti consumati controvoglia, dopo le mille tensioni che mi avevano attanagliato.
Era una serata dolcissima. La gente aveva invaso le strade, dall'ingresso della città al lungomare, il serpente della folla si allungava interminabile. Sentii una stretta al cuore. Ero convinto che mi avrebbero dedicato una festa, ma quello era un trionfo, un ricevimento degno di un imperatore romano.
Erano migliaia. Mi riconobbero subito, dentro la macchina. Si buttarono in mezzo alla strada. C'era gente che allungava le mani, non so nemmeno io quante ne avrò strette, e tutti dicevano, col delizioso accento di casa mia, quello che per me è rimasto il più bel complimento: "Che si forte Bru!". C'era gente che piangeva. Ad un certo punto, arrivati in piazza, ho sentito il bisogno di sporgermi, di farmi vedere da tutti, di dividere quell'abbraccio nella maniera più completa.
Salii sul tettino della vettura, stringendo mio figlio che era un po' spaventato da quella baraonda, e salutando quei tifosi, quelle persone impazzite di felicità. Piangevo senza più riuscire a trattenermi. Era troppo bello.
"Bruno, Bruno" ritmava la folla. Arrivati in piazza, ho subito trovato con gli occhi mio fratello. È saltato sulle teste di centinaia di tifosi, mi si è buttato addosso e ci siamo abbracciati: sentivo un terribile groppo alla gola, non riuscivo a dire nulla.
Sulla scalinata del Comune, dove la folla si muoveva come in un formicaio, distinsi la sagoma dei miei genitori: mio padre, la camicia sbottonata, aveva gli occhi lucidi. Li raggiunsi correndo, sforzandomi di trattenere le lacrime.
Ma appena dentro, sulle note dell'inno nazionale, ricominciai a piangere senza ritegno. Ricordo perfettamente che, all'indomani, mio figlio Andrea me ne chiese la ragione: "Perché piangevi tanto, papà?" "Perché ero tanto, tanto felice", gli risposi abbracciandolo.
Il sindaco mi dedicò un bellissimo discorso. Vorrei ripeterlo, ma credo di ricordarne a malapena due o tre battute. Ero stravolto dalle grida della gente, dall'entusiasmo, dalle strette di mano.
Mi sono affacciato un paio di volte al balcone della sala del consiglio. Mi hanno salutato come se fossi stato il presidente della repubblica, e avrei voluto avere lo spirito di Pertini, per ringraziare tutti con una delle sue formidabili battute, ma non riuscivo a spiccicare parola.
Poi siamo usciti tutti di nuovo, sulla piazza, dove avevano sistemato un palco. Mi hanno premiato come "cittadino onorario di Nettuno", mi hanno riempito di targhe e di medaglie, mi hanno messo un microfono in mano, e non so come, e sono riuscito a dire qualcosa. Ho cercato di spiegare a tutti il mio stato d'animo, l'impressione incredibile che mi faceva vederli tutti lì a festeggiarmi. Ho detto che quello che avevo vissuto era forse niente rispetto a quello che provavo allora, a casa mia "Siete voi i campioni del mondo del tifo", ho gridato ad un certo punto Ho voluto anche ricordare, come ultimo saluto a quella gente, i nomi dei ragazzi che mi erano stati vicini sin dai primi giorni di quell'avventura. "Loro non sono qui, adesso. Stanno rientrando dalla Spagna con i mezzi che hanno trovato. Chi in macchina, chi in treno, chi con l'autostop. In Spagna, non mi hanno mai fatto mancare per un solo istante la loro passione, il loro affetto. Abbracciando loro, contro la rete del Santiago Bernabeu, è come se vi avessi abbracciati tutti".
Continuavamo a chiamarmi per nome, a suonare trombe e tamburi, a gridare "Roma, Roma". Mi sembrava di impazzire. Volevo toccarli stringerli, volevo sentire dire che tutto quello che vedevo era vero che non si trattava di un sogno. Una città mi stava festeggiando come se fossi stato un eroe nazionale, un salvatore della patria. Come posso descrivervi quello che sentivo dentro? Il lungomare, al tramonto, mi sembrò quello di Copacabana. lo adoro Nettuno, vivrò sempre qui, è la mia città, è la città che mi ama, che mi ha fatto sentire importante.
Non riuscivo più a staccarmi da quel palco, anche se ormai sentivo il bisogno di tornare a casa, di appartarmi con i miei, di dedicarmi solo a loro.
Mi condussero giù quasi sollevandomi sulle teste, sulle braccia, sulle mani di migliaia di tifosi che avrebbero voluto tenermi ancora lì, in mezzo al loro entusiasmo. Raggiungemmo casa con grande fatica, la strada era tappezzata di bandiere e di striscioni col mio nome a caratteri cubitali, avevano dipinto bandiere tricolori dappertutto, anche sfruttando il bianco delle strisce pedonali.
C'erano altre bandiere, e fiaccolate, e cartelli anche sulla strada di casa mia, nell'interno, verso la campagna. Ma confesso di averle viste soltanto, per pochi attimi.
Ormai sentivo solo il bisogno di stare con i miei, di isolarmi dal resto. La nottata passò tra racconti e altra commozione, mio fratello che mi riferiva nei minimi dettagli quello che succedeva davanti alla tivù durante le partite e, subito dopo, in piazza, davanti al Comune, sul lungomare, in spiaggia.
Riuscii ad andare a letto solo tardissimo, ripensando per l'ennesima volta alle cose, alle persone che mi avevano tenuto compagnia in quelle giornate di sogno. Rivedevo Bearzot e il presidente Sordillo, De Gaudio e Vantaggiato, Matarrese e Borgogno, Carraro e Franchi. Ripensavo a Vecchiet e ai suoi collaboratori, a Della Casa, a De Maria, a Selvi. Rivedevo le flebo negli spogliatoi, con le vitamine per vincere la stanchezza. Vedevo il sorriso di Maldini e Vicini, che sembravano davvero due giocatori come noi.Risentivo i brontolii di Ballerini e Roberto dell'lnter, i due magazzinieri. Ripensavo a Lorenzo, il cuoco, che con i suoi spaghetti e il suo riso mi aveva fatto sentire a casa sin dal primo giorno. Rivedevo anche Cinti, il cineoperatore che ci aveva aiutato a sfogliare uno a uno i fotogrammi degli altri protagonisti del mundial, rivivevo l'impressione suscitatami dal Brasile, le imprecazioni che avevo dedicato a me stesso dopo gli errori col Camerun e con l'Argentina.
"Potevi segnare la metà dei goal di Paolo Rossi" mi ripetevo sforzandomi di tenere gli occhi chiusi "e invece eccoti qua, con quell'unico gol letto".
Ma proprio in quel momento mi tornarono alla mente gli abbracci, gli inni, gli striscioni, le scritte. Potevo segnare di più, ma per quella gente non contava. Come dicevano? Per il mondo sei Bruno Conti, per Nettuno sei Marazico. Cosa importavano i goal fatti o fatti fare? Cosa importava la fame di episodi per i quali passare alla storia? Cosa importava rivangare il passato, ripensare alle occasioni perdute? Ero Marazico, ero campione del mondo.
Rividi Quiroga, il portiere del Perù, lanciarsi invano a caccia del pallone che gli avevo sparato nel sette. Rividi l'abbraccio dei miei amici manganellati dalla polizia al Bernabeu. Rividi Bearzot che mi abbracciava gridandomi di non rompergli un altro paio di occhiali. Rividi Rossi che mi urlava grazie dopo la pennellata sulla sua testa d'oro, contro la Polonia. Rividi la coppa, stretta dalle nostre mani verso il cielo.
E così, gli occhi gonfi di pianto, mi addormentai dolcemente.

 


OPERA APPARTENENTE AL FONDO BIBLIOGRAFICO
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