Conti impegnato a ping-pong
sotto lo sguardo attento di Altobelli |
Eravamo appena ad un terzo del nostro cammino, ma allora non potevamo saperlo. Neanche i più ottimisti tra noi avrebbero scommesso una lira sulla nostra presenza al Santiago Bernabeu domenica 11 luglio.
Intanto, arrivati a quel punto, potevamo già stilare un primo bilancio. Volevamo qualificarci per la seconda fase del mundial, e c'eravamo riusciti. La Polonia, battendo larghissimo il Perù nell'ultimo incontro, ci aveva soffiato il primato nel girone, acquisendo il diritto ad affrontare due formazioni sulla carta più malleabili delle nostre, l'Unione Sovietica e il Belgio. Squadroni partiti entrambi con l'etichetta universale di possibili outsiders, ma che sul campo dopo un avvio eccellente (l'Urs's aveva messo sotto il Brasile, pur perdendo, il Belgio aveva addirittura battuto l'Argentina nella gara d'esordio) non avevano tenuto fede alle promesse.
A noi, secondi a Vigo, spettavano proprio l'Argentina e il Brasile, cioè la squadra campione del mondo e quella che aveva le maggiori chances di diventarlo da lì a pochi giorni. Accettammo il verdetto del campo (e di una formula sulla quale ci sarebbe parecchio da discutere) senza battere ciglio. Sapevamo, ormai, di poter contare soltanto sulle nostre forze. Tutti erano già pronti a celebrarci un funerale coi fiocchi. Eravamo vittime predestinate, non restava che attendere il colpo di grazia.
Da parte nostra, però, avevamo ormai trovato la compattezza che, come ho detto all'inizio, ha rappresentato l'arma decisiva per la vittoria finale. Ci conoscevamo a fondo, ormai, e ci stimavamo profondamente. Bearzot, il tecnico più contestato del mondo, era riuscito a costruirci attorno una barriera, a legarci l'un l'altro come in una vera e propria famiglia.
Una famiglia di amici. Zoff ne era il capo incontrastato. È un uomo eccezionale, il capitano, e non solo perché, a quarant'anni suonati, riesce ancora ad essere il più grande portiere del mondo. Di lui impressionano la calma, la filosofia, la saggezza. È grande dentro di sé, prima che tra i pali. È una miniera di consigli, di esperienza, di parole dette al momento giusto, e nel contempo, è uno come gli altri. Sa stare in mezzo ai compagni come un coetaneo, come uno qualunque, e pensare che Bergomi, ad esempio, potrebbe tranquillamente essere suo figlio!
Già, Bergomi. È stata una delle più belle sorprese di questa mia avventura, dal punto di vista umano prima ancora che da quello tecnico. È taciturno, compassato, serio. I compagni lo chiamano già "zio", a diciott'anni, per la sua calma, la sua imperturbabilità.
Mai una parola fuori posto, mai un gesto di fastidio. È sempre disponibile, sempre pronto a spezzare il suo silenzio con un sorriso, a rendersi utile, a darti una mano. Sul campo, poi, è stato fantastico. Pensate, a diciott'anni s'è trovato buttato nella mischia, nel match col Brasile, obbligato a fronteggiare prima Serginho poi Socrates. Con la Polonia gli è toccato Lato, un altro che avrebbe dovuto sgretolarlo dall'alto della sua esperienza, con la Germania addirittura Rummenigge. Ricordo che, nell'intervallo della finalissima, mi mostrò una caviglia: era gonfia come un melone. Ma non disse niente, strinse i denti e non mollò un palmo di terreno. Alla fine, il complimento più bello glielo ha fatto proprio il campione tedesco: "Ed io che credevo di essere stato fortunato per aver evitato Gentile!" ha detto Karl Heinz.
Dovrei scrivere un altro libro sui miei compagni al mundial. Ma ricostruire certe scene, certe situazioni, raccontare certe battute non è possibile: ci vorrebbe una macchina da presa, e forse non basterebbe a farle rivivere come le ho vissute io.
Prendete Selvaggi. È sicuramente il buontempone del gruppo, quello che riesce ad infondere allegria alla compagnia nelle giornate più grigie. A ruota, Ciccio Graziani: sono entrambi una miniera inesauribile di barzellette, di racconti divertenti, di scherzi inimmaginabili.
Poi ci sono quelli che parlano meno: Bergomi, appunto, Vierchowod (piace già molto a Liedholm, con quella sua aria serissima), Franco Baresi. Poi quelli come me, quelli cui piace scherzare ma che "sentono" il gioco e la partita come un virus: Tardelli, Gentile, Oriali, Cabrini, Antognoni.
E Paolo Rossi, mi chiederete? In fondo è stata una sorpresa anche lui. È molto diverso da come può apparire all'esterno. Per lui, questa del mundial di Spagna è stata un'avventura terribile, specie all'inizio. Si sentiva pressato dall'opinione pubblica, caricato di responsabilità insostenibili per uno che in pratica tornava a giocare su certi livelli dopo due anni e mezzo di inattività forzata. Noi cercavamo di stargli il più vicino possibile, di distrarlo affinchè pensasse ad altro. Nelle prime tre partite, ha subito il peso dell'attesa che era stata riposta in lui ed era tesissimo, nervoso.
Poi s'è sbloccato. Già contro l'Argentina, se ricordate bene, andò molto meglio, muovendosi nel ricordo di quando era stato chiamato il Pablito mundial. Mancò un goal più che altro per sfortuna, nell'azione che poi portò alla rete di Cabrini (ricordate il mio colpo di tacco?), ma cominciò a smarcarsi e a concludere come ai vecchi tempi.
Qualcuno ha scritto che la sua resurrezione è legata in buona parte alla mia assistenza, all'appoggio che ho sempre cercato di garantirgli, ed è uno dei complimenti più belli che mi siano mai stati fatti, lo posso dire soltanto che ho fatto del mio meglio. Servire un assist, spedire in goal un compagno mi da quasi la stessa soddisfazione di quando sono io a riuscire ad infilare la porta.
Lo faccio per Pruzzo, da anni, e l'ho fatto per Rossi. Sono due attaccanti completamenti diversi; Pruzzo è il classico centravanti di potenza, ha uno stacco eccezionale, di testa spedisce la palla dove vuole, con forza inaudita, come se colpisse di piede.
Rossi invece è una volpe. Molti dicono che fa goal solo da un metro di distanza, ma questo è un pregio, non una pecca. Paolo sa sempre dove arriverà il pallone e si fa trovare pronto all'appuntamento, lo crosso e so benissimo, anche se non lo vedo, che Paolo sarà esattamente nel punto dove spioverà la palla. Ce l'ha nel sangue, come i brasiliani il samba. Pare abbia una calamità nei piedi e nella testa. Non ha un gran fisico, ma marcarlo deve essere un inferno: si muove in continuazione, nel dribbling sguscia via come un'anguilla, crea spazi e s'inserisce nei triangoli al momento buono. E poi, sempre, dove non arriva con la potenza arriva con la furbizia, perché è scaltro come nessun altro attaccante al mondo.
Fuori dal campo è molto riservato. Ha legato molto con tutti i compagni della Juventus, che del resto conosce dai tempi del mundial in Argentina. Gli piace scherzare, stare in compagnia, è di un'incredibile disponibilità con la gente. Ha detto che la storia della squalifica lo ha cambiato, che ora non ha più voglia di essere "mister simpatia", di parlare con tutti, di concedersi in continuazione, ma in fondo continua ad essere quello di sempre: un ragazzo tanto famoso quanto semplice. La grinta, perché ne ha da vendere, non la tira fuori per far dispetto alle persone moleste, ma solo quando serve, come contro il Brasile, la Polonia, la Germania. Ma ve lo ricordate? Spuntava da tutte le parti del campo, sotto rete era un castigo di Dio: bastava appoggiargli la palla nell'area avversaria, se non lo fermavano in qualche modo (contro il Brasile, c'era un rigore clamoroso, proprio su di lui) andava in goal, e non esisteva la possibilità di impedirglielo.
Con me è nata subito un'intesa spontanea, come tra lui e Bettega in Argentina. E pensare che non avevamo mai giocato accanto, praticamente! Anche questo è stato uno dei miei grandi motivi di soddisfazione, in Spagna. Non dimenticherò mai quello che mi disse sotto la doccia, dopo rincontro Italia-Polonia: "Sul pallone che mi hai crossato c'era scritto 'basta spingere'".
Ecco, questi erano alcuni fra i miei compagni d'avventura al mundial che ci ha laureati campioni del mondo. Ragazzi come me, professionisti in campo, sportivi e amici fuori. Ora me li ritroverò davanti, uno a uno. In Roma-Juventus mi marcherà Gentile, oppure Cabrini. Contro l'Inter dovrò vedermela con Bergomi od Oriali. Meno male che il presidente Viola ha preso Vierchowod, altrimenti, mi beccavo anche lui. Come saranno i nostri scontri? Scontri tra professionisti. Se ci sarà da mollarmi un calcione me lo molleranno, com'è già successo altre volte.
In campionato, ognuno ha una maglia, non c'è spazio per i sentimentalismi. Faccio un esempio: io sono grande amico di Giancarlo Antognoni. Sarà un caso, ma quando c'è da giocare con la Fiorentina tutte le entrate pesanti le faccio su di lui. L'ultima volta, ad un certo punto mi ha detto: "Ma non capisco, siamo in undici e tu proprio a me devi la sciare i segni?". .
Ricordo anche una partita con la Juventus a Torino. Gentile, dopo uno scontro un po' duretto, mi è venuto incontro sorridendo: "Spero non ti sia fatto male, tra quindici giorni dobbiamo giocare assieme in nazionale...". Con Oriali è sempre la stessa musica: quest'anno ce le siamo suonate dal primo minuto all'ultimo in almeno tre occasionerà campionato e coppa Italia. Ma anche con Lele non ci sono problemi: le botte si danno e si prendono, come succede la domenica tra i ragazzini sui campi di periferia.
Il calcio è anche questo, picchiarsi in allegria e sempre, comunque, nel rispetto delle regole.
lo, che pure non guardo mai troppo per il sottile, non sono mai stato espulso per un fallo di gioco, né credo mi succederà in futuro; meno che mai, di certo, se affronterò qualcuno dei miei colleghi campioni del mondo.
Li abbraccio tutti, in questo momento, dovunque si trovino. E li ringrazio. Ringrazio soprattutto quelli che non hanno giocato, quelli che soffrivano in panchina o addirittura in tribuna. Si sono sempre allenati con serietà, non si sono mai lamentati, erano i primi a correre ad abbracciarci a partita finita.
È anche merito loro, se il finale è stato bellissimo come sapete. |