100libripernettuno.it




Bruno Conti
Il mio Mundial

A tutti i tifosi italiani

HOME - OPERE

CAP. 04 - PALLA AL CENTRO SI COMINCIA


 


Italia-Polonia, Vigo.
Un contrasto tra Conti ed il polacco Jatocha

La Polonia. Il mio esordio al mundial. La notte di domenica la passai regolarmente in bianco, e riuscii ad addormentarmi solo alle quattro, incoraggiato dai primi sbadigli di Tardelli, ma fu un inferno anche il giorno appresso.
La partita al Balaìdos era alle 17, e io non facevo che guardare l'orologio. Ripetevo tutto il mio solito rituale, rompevo continuamente le scatole al magazziniere chiedendogli notizie dei miei parastinchi, delle cavigliere, dei miei scarpini. Mi sentivo tanto il guerriero che prepara le armi prima della sfida finale, e subito dopo mi sembrava tutto un po' ridicolo. In realtà avevo paura e basta; paura che andasse male, paura che i polacchi ci facessero a fette come Boniek aveva sentenziato da qualche giorno: l'avevamo visto alla tivù spagnola, subito dopo pranzo: "Vinciamo 2 a O" aveva detto "con buona pace dei miei amici juventini". Sul campo, appena usciti dal tunnel degli spogliatoi, pensai per un attimo che l'incubo fosse finito. Ecco, mi dicevo, ci siamo: ora pensa soltanto a giocare come sai. Ma al momento dell'inno nazionale mi è ripresa la tremarella. Sarò fuori dai tempi, ma a me l'inno di Mameli fa sempre il solito scherzo; mi prende un groppo alla gola, mi sento venire meno, e poi è terribile: tutti sull'attenti, schierati come un plotone prima che suoni la carica. È una tortura dover star fermi, in quei momenti, con tutto quello che ti senti ribollire dentro: sei nervoso, sei come una bomba innescata, hai solo voglia di esplodere sul campo, ma devi stare fermo, devi aspettare.
Anche quel giorno ho aspettato. Tanto, come sempre, col primo fischio dell'arbitro la tensione s'attenua, i muscoli si sciolgono, anche la testa ricomincia il suo tran-tran abituale: pensi solo a giocare, pensi a fregare il tuo avversario e a fargli goal, il resto non ti interessa più.
Dico queste cose come se fossi l'unico calciatore del mondo, ma chissà quanti di voi le hanno provate giocando con gli amici. Quello che è certo è che i miei sentimenti, contro la Polonia come in tutte le gare di questo mundial, erano quelli di tutti i miei compagni: giocavamo solo per andare avanti, pensando ai risultati come a nessun'altra cosa.
Il nostro rendimento, il nostro volerci qualificare senza affrettare i tempi, senza disseminare per strada troppe energie, avrebbe dovuto dimostrare che non era la qualificazione ad interessarci più di ogni altra cosa, ma quello che poteva essere dopo.
Non bruciammo tutto, contro la Polonia come contro il Perù o il Camerun, perché eravamo tesi, ma anche perché volevamo tenere in serbo le energie migliori per quando ci sarebbero servite davvero.
Comunque, non andò male contro i polacchi. Li avevamo studiati a lungo, al videotape, e avevamo visto anche la strapazzata che ci avevano regalato ai mondiali di Germania. Ma quella, senza togliere niente a questa squadra, era un'altra Polonia, con meno polmoni, forse, ma con molto più cervello, con molta più classe: il Lato e lo Szmarmach di allora, e soprattutto il Deyna e il Gadocha erano giocatori di assoluto rilievo internazionale.
La Polonia che ci siamo trovati davanti era soprattutto Boniek, Bunkol, Smolarek, Zmuda, il solito Lato; una squadra meno entusiasmante dal punto di vista delle geometrie di gioco, ma comunque non meno pericolosa della precedente. Noi l'imbrigliammo bene, sia nel primo tempo sia nella ripresa. Nei secondi quarantacinque minuti potevamo segnare almeno due volte: prima con quel colpo di testa respinto sulla linea, a portiere battuto, poi con la traversa di Tardelli. Ricordo ancora le imprecazioni di Marco: "Che ti dicevo? La jella non mi molla un secondo...".
Dalla panchina, ci urlavano di non cedere, di non buttarci giù per tanta sfortuna. C'era anche chi rispondeva per le rime: picchiavamo, contenevamo, contrattaccavamo. La rigiocassimo altre dieci volte, quella partita, non finirebbe più zero a zero. Tardelli aveva annullato Boniek, Gentile e Cabrini costrinsero Lato e Smolarek a fare i terzini per tutta la partita, ma allora, probabilmente, noi per primi non eravamo perfettamente consci delle nostre possibilità. La Polonia era l'avversaria più temibile del girone e, sotto sotto, un pareggio ci stava anche bene.
Non affondammo l'acceleratore più tanto, né, del resto, lo fece la Polonia. Certo è che eravamo caricati, caricati come poche altre squadre, anche se non so fino a che punto si vedesse.
In questo, nella carica dico, ho la presunzione di aver fornito un bel contributo anch'io: ho portato in nazionale il nostro rito, sì, il rito della Roma.
È una specie di usanza tribale, un grido di guerra che ricorda la danza maori che ho visto ballare agli Ali Blacks, nazionali neozelandesi del rugby. Il nostro rito, comunque, è più semplice, più popolare, più sanguigno. Mettiamo al centro dello spogliatoio Zoff (nella Roma tocca a Tancredi), gli appoggiamo tutti e dieci una mano sulla schiena e io grido: "Chi si ritira dalla lotta..."; e tutti in coro, sempre urlando: "È un gran fijo de'na ...". Serve a caricarci e poi porta bene. Da quando lo facciamo, nella Roma, lottiamo per lo scudetto, e in nazionale, al primo esperimento, abbiamo vinto un mondiale: come si fa a non crederci, in queste cose?




OPERA APPARTENENTE AL FONDO BIBLIOGRAFICO
"100 LIBRI PER NETTUNO"
AUTORIZZAZIONE PER LA PUBBLICAZIONE
CONCESSA DAL COMUNE DI NETTUNO E DA BRUNO CONTI

Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta e trasmessa
in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti.