Bruno Conti raggiante con la coppa in mano.
Bearzot.. sogna mentre Causio sembra dire: "Hai visto che ce l'abbiamo fatta?" |
Ho voluto parlare prima di Bearzot, poi delle ore di lucidissima follia che seguirono la conquista della coppa mundial: mi sembrava un tributo giusto, e poi, nell'euforia che ancora oggi mi coglie ogni volta che rievoco certi momenti, temevo di dimenticare la persona più importante. Senza Enzo Bearzot non ci sarebbe stata quest'Italia
Dunque, ero campione del mondo. Preparati i bagagli, mi stesi un attimo sul letto. Volevo assaporare per qualche minuto, da solo, la gioia che sognavo da una vita. Mi raggiunse, davvero come in un sogno, una telefonata dei miei, da Nettuno. Mio padre, commosso più di me, mi passò al telefono Daniele: "Bravo papà" mi strillò nelle orecchie il più piccolo dei miei bambini "Non hai segnato tu, ma hai fatto segnare Altobelli. Sei stato fantastico".
Mi assopii un istante, nella dolcezza di quella voce che rimase dentro per po', dopo che avevo depositato la cornetta al suo posto. Ero felice. Rivedevo le maglie bianche della Germania, risentivo l'erba del Santiago Bernabeu sotto i piedi, la fuga sulla destra, la testa alta per seguire i movimenti dei miei compagni al centro, il tocco per Altobelli, il 3 a 0. Campioni del mondo. Campioni del mondo.
Me lo ripetevo senza tregua, la testa mi ronzava, mi sembrava di essere ubriaco, e un po' forse lo ero: rivedevo il sorriso di Laura, gli occhi rossi, i capelli spettinati. In tribuna, aveva sofferto come sempre, sussultando ogni volta che qualche giocatore mi colpiva più o meno duro. Con il Brasile, mi aveva raccontato, aveva vissuto un pomeriggio d inferno: sul due a due, quello firmato da Falcao, aveva abbassato la testa, dicendo allo zio Giancarlo, che le stava vicino: "Io non guardo più". Non se l'era più sentita di sollevare la testa, e così non aveva visto né il corner che avevo battuto, né il tocco del terzo goal di Pablito. Solo allora, sentendo tutta la gente intorno che saltava in aria come se lo stadio stesse esplodendo, si era alzata anche lei, e mi aveva visto mentre inseguivo Rossi per abbracciarlo. Erano anche questi i ricordi che non avrei mai cancellato, e che faranno parte della mia vita, della mia vita di calciatore e di marito.
Ricevimento al Quirinale. La tensione è scomparsa
e finalmente si può anche ridere.
Da sin. Gentile, Conti, Antognoni e Tardelli |
Le immagini si susseguivano. Vedevo il sorriso di Bearzot, vedevo quello dell'ingegner Viola ("in fondo" mi aveva detto prima della finalissima "avevo detto che un brasiliano sarebbe diventato campione del mondo..."), vedevo quello di Liedholm. A lui, come giocatore, devo praticamente tutto. Mi ha fatto diventare uno che gioca per la squadra, che segna e fa segnare. Prima giocavo per me stesso, ora so farlo per gli altri: l'avevo dimostrato nella Roma con Pruzzo, e c'ero riuscito anche con Paolo Rossi. Nel suo incredibile carnet di goleador mundial, avevo messo lo zampino anch'io, ed era una ragione di soddisfazione incredibile.
Pensavo alla Roma, anche, lo nella Roma ci sono cresciuto e per me la Roma è tutto. Cosa mi avrebbero detto i tifosi, in Italia? Sarei rimasto ancora a lungo il loro Marazico? Dopo questo trionfo, mi dicevo, ho un obbligo con tutti loro. Hanno gioito per la nazionale, debbono farlo anche per la Roma, con lo stesso tipo di gioia. Ma riusciremo a portarlo all'ombra del Colosseo, 'sto benedetto scudetto? lo, svanita l'ebbrezza del mundial, ce l'avrei davvero messa tutta.
I ricordi galoppavano. Risentivo le parole di Bearzot ad Alassio, quando mi guardavo il ginocchio e mi veniva da piangere. "Non ti preoccupare, pensa solo a guarire bene. Quella maglia è tua".
Risentivo soprattutto le parole del presidente Pertini: "Siete il mio orgoglio, l'orgoglio del paese. Oggi, grazie a voi, ci sentiamo tutti più fieri di essere italiani. Grazie alla vostra impresa, grazie allo spettacolo di gioco che avete irradiato in tutto il mondo, per una volta si parla di una grande Italia, di un'Italia che ha qualcosa da insegnare al mondo, qualcosa di cui vantarsi con tutti...".
Fui distolto dai miei pensieri da una manata sulla porta della mia stanza. "Cosa fai?" disse una voce inconfondibile nel corridoio "Vuoi restare in Spagna a vita?". Era Tardelli. "Sono tutti giù, scendiamo". Presi le valigie, lo segui sorridendo. Ero stordito, sentivo la testa e le orecchie ovattate, mi muovevo come se stessi sognando.
Sull'ascensore, due camerieri mi richiamarono alla realtà. Una realtà stupenda: "Buenas dias, campeones do mundo!" dissero a me e a Marco. Ci guardammo tutt'è due, non fosse stato per le borse che stringevamo nelle mani ci saremmo abbracciati di nuovo.
Giù nella hall c'erano tutti, gli occhi un po' rossi ma sempre felici. Salutammo le mogli, spuntate all'improvviso da un taxi: dovevano prendere un charter che partiva un'ora e mezza prima del nostro aereo. Pertini, mi informò un accompagnatore, aveva telefonato: era già in partenza per l'aeroporto, ci aspettava là. Non c'era tempo da perdere: un saluto ai camerieri, uno al portiere dell'albergo che era commosso come un ragazzino e via sul pullman.
Si torna in Italia. Bruno Conti è ospite in cabina di puilotaggio sempre implacabilmente marcato
da Franco Causio |
L'aero presidenziale scintillava sulla pista. Pertini ci aspettava in cima alla scaletta. Ancora abbracci, ancora pacche sulla schiena. "Avete fatto miracoli, ragazzi miei", ci ripeteva.
Poi, per un'ora e mezza abbondante, ricordo solo brindisi e flashes che scattavano in continuazione. La coppa della Fifa, cinque chili d'oro massiccio, passava di mano in mano. Alle mie spalle, mi giungeva di tanto in tanto la voce di Pertini, che giocava a scopone in coppia con Zoff, contro Bearzot e Causio.
"Ma Zoff, cosa fa? Non può giocarmi questa carta, adesso!". "E lei,
Bearzot, non metta su quella faccia. Lei vuole sempre vincere. Ma io
non sono mica tedesco, sa?".
Le risate si sprecavano, e il tempo volava, come quel DC 9 che mi riportava a casa dopo la più bella avventura della mia vita.
Sopra Ciampino, cominciammo ad avere la sensazione di quello che avremmo trovato atterrando. Il piccolo aeroporto sembrava un formicaio. Dall'alto, appena il pilota cominciò a planare, vedemmo chiaramente le bandiere, i cartelli, gli striscioni. Atterrammo mentre, su una pista accanto, scendevano dall'aereo le nostre mogli: mi chiesi come mai avessero preso terra solo allora, e seppi più tardi che c'era stato un disguido, e un ritardo di oltre un'ora. Affacciato all'oblò, mentre gli inservienti sistemavano la scaletta, vidi mia moglie che guardava verso il nostro aereo: ci saremmo visti solo più tardi, nel pomeriggio, a Villa Pamphili, l'albergo dal quale era partita la nostra avventura.
Attorno alla pista, anzi sulla pista, intanto, stava accadendo l'inimmaginabile. La polizia aveva sistemato transenne e cordoni di agenti, ma l'entusiasmo della folla era incontenibile. Il presidente scese per primo, seguito da Bearzot, che sollevò la coppa verso il cielo. Ce la passammo uno ad uno, scendendo i gradini della scaletta diretti verso i due pullman che ci aspettavano.
La gente aveva rotto gli argini e cercava di abbracciarci, di toccarci, urlarci addosso la sua felicità. Qualcuno ci aveva suggerito, appena partiti da Madrid, di raggiungere il centro di Roma a bordo dell'elicottero presidenziale, per dribblare la stretta della folla, ma non ce l'eravamo sentita: quella gente ci stava aspettando da ore sotto il sole, non era giusto che noi la evitassimo, che scappassimo via senza farci vedere.
Neanche Pertini aveva voluto saperne dell'elicottero. C'era una macchina ad attenderlo: quella che precedeva i due pullman.
Non so comunque come riuscimmo a salirci sopra. La folla li aveva circondati, c'era gente che gridava, che sventolava le bandiere davanti ai cristalli, che cercava di arrampicarsi sui finestrini, che saliva sulle ruote. Ci facemmo largo a stento. Anche la via Appia, fuori delle recinzioni dell'aeroporto, era stracolma di gente. C'erano chilometri e chilometri di automobili bloccate, migliaia di tifosi fermi ad aspettarci. Due, tre, dieci volte ho temuto che qualcuno finisse schiacciato sotto i pneumatici del pullman, che pure procedeva lentissimamente: la gente si piazzava davanti, scattava foto, ci lanciava fiori e coriandoli, gridava chissà cosa.
Impiegammo un'eternità per raggiungere San Giovanni e, da lì, la piazza del Quirinale. Una volta lì, ci sentimmo tutti quanti nuovamente al Bernabeu. Non era una piazza, era uno stadio impazzito, pieno anche di bandiere giallorosse. Erano i miei tifosi corsi ad accoglierci con la loro passione. Riconobbi gli ultra della curva sud, i foulard giallorossi stretti al collo, i campanacci e i tamburi, i loro inni. Anche là il cordone della polizia non riuscì ad impedire che la gente ci si riversasse addosso. Ma ne fummo felici, era giusto così.
All'interno del palazzo del Quirinale, telecamere, fotografi, fili e lampade accese dappertutto. Eravamo stretti d'assedio dai giornalisti, dai tecnici, dagli inservienti. I dipendenti del Quirinale furono i primi a darci il benvenuto. Due corazzieri in alta uniforme mi hanno chiesto di farmi fotografare tra loro: Davide in mezzo a due Golia. Loro erano tutti impettiti, io, che arrivavo loro praticamente alla cintola, ridevo come un matto. Spero di averla presto quella foto, vorrei farne un quadro: io in mezzo a due giganti, ma ci pensate?
La tavola, con un pranzo raffinatissimo, era pronta nella sala degli Specchi. Non so se mi capiterà mai più di entrarci. Certo è che ero più emozionato di quando ero salito sul palco del re, al Bernabeu, per ricevere la medaglia di campione del mondo.
Eravamo seduti in ordine alfabetico, sulle due ali della tavola. A capotavola c'era Pertini, alla sua destra Bearzot, a sinistra Sordillo. Pertini volle ringraziarci ancora, parlò a lungo delle emozioni che gli avevamo regalato. Azzardò un'uscita indimenticabile: "E' stata la soddisfazione più grande tra quelle che ho vissuto in questi quattro anni di presidenza". Scherzò ancora con Causio per lo scopone "Grande giocatore e grande baro, caro il mio barone", con Bearzot per le pipe e per quella sua mania di muovere le labbra mentre è seduto in panchina "Ma cosa fa? L'ho visto in televisione: pronuncia parole magiche per vincere la partita, o parla da solo?", ci ricordò il gesto, il dito indice mosso per dire no, che aveva dedicato al cancelliere federale della Germania, Schmidt, dopo il goal di Altobelli: "No, caro mio" gli ho fatto "ormai non ci riprendete più".
Il tempo scivolò via veloce. Ci fu un altro brindisi, l'ennesimo saluto, al presidente. Il pullman, ancora circondato da tifosi, ci portò a palazzo Chigi, dove ci aspettava il presidente del Consiglio Spadolini. "Avete visto?" ci disse "La mia visita vi ha portato fortuna. Quando vi ho lasciati, a Barcellona, ero convinto di ritrovarvi qui campioni del mondo. Non lo dissi perché, così va il mondo, non volevo, in caso contrario, passare per il più grande menagramo della storia italiana".
Fu un incontro breve, intensissimo, gli uscieri ci chiedevano autografi continuamente. Era bello sentirsi a casa, e circondati da quella irresistibile atmosfera d'affetto.
Arrivammo a Villa Pamphili, congedatici da Spadolini, verso le diciassette. Nella hall, trovai mia moglie. Mi disse che in mattinata, a Ciampino, c'erano anche i bambini, venuti apposta da Nettuno, ma, visto il parapiglia generale, erano rimasti fuori.
Non avevamo ancora finito di abbracciarci tutti, che ecco la visita più inattesa: il sindaco di Nettuno era venuto personalmente a ricevermi in albergo. "Nettuno si è fermato per te, in questi giorni. E ora vuole abbracciarti".
Il sindaco spiegò che mi aspettavano, che tutto era pronto per dedicarmi la festa che meritavo. Ero commosso. Non sentivo la stanchezza, ero semplicemente felice di essere di nuovo a casa, di trovarmi coinvolto in quel clima di gioia, di serenità. Feci una doccia, raccolsi i bagagli, e salimmo tutti in macchina, col sindaco, dirigendoci verso Nettuno. |