Alassio. Conti e Vierchowod parlano dei loro acciacchi |
C'era una volta Alassio, dunque. Per la verità la mia favola è cominciata molto prima e, come molte favole, senza allegria. Ero a Pomezia, a due passi da Roma. Un maledetto pomeriggio che rischiò di mandare in fumo il mio sogno, che per poco non mi costringeva a restare un giocatore qualunque, non un campione del mondo.
C'ero andato con la Roma, a Pomezia. Giocavamo un'amichevole prima dell'ultima partita di campionato, quella dì Udine. Dopo pochi minuti, uno scatto sulla destra (su un allungo di Scarnecchia) e il ginocchio mi si blocca. Sono rimasto qualche minuto fuori dal campo, poi ho chiesto di rientrare, ma mi riuscì appena di muovere qualche passo. Non riuscivo a piegarlo più, quel dannato ginocchio, e sentivo un gran dolore. Andai negli spogliatoi, convinto di essermi fatto male sul serio, ma Alicicco, il nostro medico, mi disse subito che si trattava di una distorsione. Mi misi a piangere: per una cosa del genere, Agostino Di Bartolomei aveva perso quattro o cinque partite di campionato, ed io, per uno stupido incidente in una partita d'allenamento, rischiavo di perdere un campionato del mondo.
Bisogna provarle certe cose, per capire. Partecipare ad un mondiale, per un calciatore, è il massimo traguardo di una carriera, e io temevo di vedermelo sfumare sotto gli occhi. Alicicco mi curò subito: impacchi e ghiaccio contenuto in una grossa borsa, che io m'incollai subito al ginocchio.
Ricordo che, appena arrivato a casa, mio suocero, mio padre e un mio amico fecero a gara per consolarmi. Dovevo proprio avere una faccia terribile, e non riuscivo a tirarmi su nemmeno con le loro battute. L'articolazione mi faceva male e non vedevo nessun miglioramento.
Passò un giorno. Da lì a poco più di quarantott'ore sarei dovuto partire per Alassio, per il ritiro azzurro. Ero disperato, ma mi stavo quasi rassegnando: si vede che era destino, mi dicevo sforzandomi di trattenere la rabbia; si vede che a te questa gioia deve essere negata.
Poi Alicicco mi convinse ad andare dal professor Perugia. Ho molta fiducia in questo specialista. È lui che mi ha operato due volte al menisco, permettendomi in entrambe le occasioni di ritrovare subito l'efficienza atletica.
Perugia mi disse di stare tranquillo: "Un po' di riposo e, vedrai, sarai una delle stelle del mundial". Uscii dal suo studio che mi sembrava di volare. Ero più tranquillo, più disteso. Mi andavo convincendo che avrei diviso con gli altri l'esperienza cui tenevo tanto.
Il giorno dopo Alicicco sentì telefonicamente Vecchiet, il responsabile dello staff medico azzurro: voleva assicurarlo che la mia efficienza fisica non era assolutamente in discussione. Il 19 maggio, infatti, ero regolarmente ad Alassio, e ricordo che Bearzot mi venne subito incontro per sapere come mi sentivo. Stavo già molto meglio, in effetti, ma fui costretto comunque a saltare i primi allenamenti: finché correvo, andava tutto bene, ma quando provavo a calciare erano dolori.
Bearzot mi è stato molto vicino, in quei primissimi giorni di preparazione. Ci allenavamo in disparte, io e Vierchowod, il mio nuovo compagno nella Roma, che soffriva per una distorsione alla caviglia: ma Bearzot era sempre vicino a noi. Ci incoraggiava, ci spingeva a stringere i denti ma anche a stare tranquilli, a lavorare senza problemi.
Nonostante le fitte al ginocchio non fu un brutto periodo, quello. Fisicamente ero sicuro di poter recuperare in tempo utile, ma mi preoccupava molto di più, adesso posso dirlo, il clima che si stava creando attorno alla squadra: qualche giornale cominciò a riproporre il famoso dualismo con Causio.
Causio, andato via senza troppi clamori dalla Juventus, aveva disputato un campionato strepitoso nell'Udinese, dimostrando almeno due cose: la prima che non era assolutamente finito come molti dicevano; la seconda, che non aveva bisogno di una grandissima squadra per potersi esprimere ancora a certi livelli.
Erano, in effetti, due ottime ragioni perché Bearzot lo richiamasse in azzurro e, soprattutto, pensasse di poterlo utilizzare.
lo non sono un tipo che si spaventa di fronte a prospettive come questa, ma devo dire che un po' mi preoccupavo, perché avere un concorrente come Causio non fa stare tranquillo nessuno.
Ricordo che ad un certo punto si arrivò a dire che nella nazionale si erano formati due o tre clan. Uno, composto per la maggior parte dai giocatori della Juventus, favorevole a Causio. Un altro, quello interista, in appoggio alla mia candidatura, e un terzo, costituito dai fiorentini capitanati da Antognoni, che propendeva apertamente per il lancio di Massaro.
Non era vero. Quelle chiacchiere però, in quel momento, mi davano fastidio. Intendiamoci, io ho sempre ritenuto che Bearzot avesse le idee chiare sulla mia posizione all'interno della squadra: lo vedevo da come mi seguiva, lo sapevo da quanto mi aveva detto in altre occasioni. Più di tanto, dunque, non mi agitavo: ero certo di aver sempre dato il massimo ogni volta che ero stato scelto per ricoprire quel ruolo, ed ero altrettanto certo che, se avessi recuperato in tempo la forma fisica, non ci sarebbero stati problemi.
Tant'è vero che, quando da lì a poco cominciai a ritrovare la condizione si parlò di un impiego di Causio del tutto diverso, e cioè ali ala sinistra per garantire a Paolo Rossi due appoggi costanti sulle fasce.
Uno schema del genere l'avremmo dovuto sperimentare più tardi, nel secondo tempo contro il Perù, con Graziani al centro però, dato che uscì Rossi. Ma le circostanze di quella partita (un nostro cedimento e la grande carica dei sudamericani) ci impedirono di provarne la validità fino in fondo.
Alassio. (Joriti e Vierchowod parlano dei loro acciacchi.
Ma non saltiamo troppo in là. Restiamo ad Alassio. Ho detto che si faceva un gran parlare, in quei giorni, dei clan che avrebbero costituito tanti corpi separati all'interno della nazionale: gli juventini, i fiorentini, gli interisti, gli "altri": niente di più falso. Certo, tra compagni di squadra ci si intende meglio, si sta più insieme, ci si confida di più, ma la parola clan va eliminata. Ad Alassio eravamo tutti molto uniti, parlavamo di tutto, facevamo progetti, lo, ad esempio, ero l'unico giocatore della Roma, ma mi sono perfettamente integrato, non ho mai avuto la sensazione che qualcuno parlasse alle spalle, o tantomeno che esistessero trame ordite per danneggiarmi.
La verità è che, di quello che succedeva in quei ritiri, la gente deve essersi fatta un'idea completamente sbagliata. È una delle ragioni per cui ho deciso di scrivere questo racconto "dal di dentro" del mondiale.
Certo, c'era un po' di tensione, anche prima che si decidesse di decretare il black-out con la stampa. La critica era molto dura, e personalmente non me la sono mai sentita di dare torto a chi aveva censurato le nostre ultime esibizioni: più di una volta avevamo giocato male, anche se avevamo l'attenuante di mirare ad altro; i risultati di quelle amichevoli non potevano interessarci più di tanto.
Eravamo come un fondista che si prepara in vista di un'Olimpiade: se affretta il passo, rischia di entrare in forma troppo presto, e comunque di non avere fiato e brillantezza sufficienti quando gli serviranno davvero. Dovevamo allenarci con cura, senza affrettare i tempi, e dovevamo anche disintossicarci: il nostro è il campionato più duro del mondo. Oggi lo dicono tutti, ma chi aveva il coraggio di sostenerlo, alla fine di maggio?
Certo, il pubblico ha i suoi diritti, viene allo stadio per divertirsi, non può stare troppo dietro ai calcoli di un atleta - preoccupato spesso di non farsi male, prima di tutto - costretto a lavorare con la pignoleria di un farmacista. A Braga, è vero, abbiamo deluso, come abbiamo deluso nell'amichevole con la Svizzera a Ginevra. Ma le attenuanti, ripeto, c'erano: non avevamo ancora novanta minuti nelle gambe e, soprattutto, stavamo accusando il cambio di preparazione. Ognuno di noi, poi, veniva dalla propria squadra, aveva ritmi e tempi di allenamento particolari: ad Alassio, prima di uniformarci, c'è voluto un po' di rodaggio. E poi, lo ripeto, eravamo un po' logori. Ci trovavamo nella stessa condizione di una squadra che affronta la preparazione pre-campionato ma che ha un campionato già giocato alle spalle.
Tutto questo per dire che, seppure concentrati al massimo, tanto tranquilli non eravamo, e leggere certe cose, percepire certe ironie non ci faceva troppo piacere. Da qui il rifiuto ad approfondire certi argomenti e, forse, la conseguenza di qualche racconto a dir poco fantasioso.
In realtà, al di là delle storie di clan e di intrighi, le nostre giornate ad Alassio trascorrevano normalmente. Il clima era lo stesso di tutte le migliaia di ritiri cui ho partecipato: ci svegliavamo alle nove e mezzo, poi dalle undici a mezzogiorno ricevevamo i giornalisti per le solite interviste. Poi il pranzo, un po' di riposo, allenamento, quindi di nuovo in albergo a chiacchierare, a giocare a biliardino, a vedere un po' di partite col videoregistratore.
È la vita di un calciatore che si prepara ad un appuntamento importante, e niente più. Ci tenevamo tutti, a quell'appuntamento, e quando ci siamo ritrovati ad Alassio, a campionato finito, è stato come se ci fossimo impegnati in un patto di sangue. Abbiamo dimenticato in fretta quanto era successo nei mesi passati (pensate solo a quanto potessero amarsi i giocatori della Fiorentina e quelli della Juventus...), abbiamo cominciato a parlare, a confrontarci.
Così, giorno per giorno, è nato quello spirito di corpo che poi ci ha fatto diventare campioni del mondo. Abbiamo preso coscienza un po' alla volta delle nostre possibilità, abbiamo cominciato a capire che da quella compattezza poteva nascere qualcosa di grande.
Abbiamo imparato ad isolarci, anche. Le polemiche in quei giorni s'infittivano, Bearzot era sempre più nell'occhio del ciclone, la critica continuava a rinfacciargli di aver lasciato a casa giocatori come Beccalossi e Pruzzo. Noi decidemmo tacitamente di non dare più ascolto a nessuno, se non al mister, ai responsabili dello staff azzurro e a noi stessi.
Arrivati a quel punto, guardarsi indietro non serviva a nulla; l'unica cosa importante era trovare forma e affiatamento e concentrarsi sul mundial.
Quello che ci aspettava, da lì a pochi giorni, era un impegno durissimo. Io lo sentivo in misura incredibile, anche perché sono uno che anche se gioca sulla spiaggia, scalzo e con un pallone di gomma, s'arrabbia se non riesce a vincere. La voglia di fare una gran figura, insomma, l'avevo io e l'avevano gli altri.
Certo, sapevamo che la concorrenza era molto più agguerrita di quanto si dicesse in giro. Avevamo rivisto le grosse partite che prima dei mondiali avevano giocato, ad esempio, la Polonia e il Perù.
Quest'ultimo, in particolare, ci aveva impressionato per la facilità con la quale si era sbarazzato a Parigi della Francia. Bearzot ci parlava a lungo anche del Camerun, e pur senza averli mai visti all'opera, eravamo perfettamente al corrente della bravura del portiere N'Kono e del centravano Milla.
Già ad Alassio, insomma, era il videoregistratore a riempire le nostre giornate. Nei momenti di riposo, non facevamo altro che seguire le immagini delle nostre future avversarie. In seguito, ci è servito moltissimo: affrontavamo avversari che per noi erano del tutto nuovi, ma sapevamo già tutto di loro.
lo passavo ore intere a studiare i movimenti dei difensori, specie di quelli laterali, e, in particolare, di tutti i giocatori che operavano sulle fasce. Avevo notato, ad esempio, certi ritardi nei disimpegni degli africani. Fossi stato un po' più lucido, ne avrei sfruttato uno alla perfezione: ricordate il goal che mi sono mangiato contro il Camerun?
Ma anche questo, lo racconterò a tempo debito. Ad Alassio, mentre infuriavano le polemiche e le paure, non potevo neanche immaginare quello che sarebbe successo da lì a pochi giorni. |