Dunque eravamo a Barcellona. Mi impressionò per prima cosa il clima, terribilmente più caldo di quello lasciato a Vigo, poi, però, rimasi affascinato dalla città. C'ero stato, ma mai abbastanza a lungo. La chiesa della Sacra Famiglia, la Cattedrale, il quartiere gotico, il museo Picasso, il museo Taurino, il museo Marés: ci sarebbe stato da girare per giornate intere. E poi le strade, i ristoranti, i negozi.
Barcellona è una città di quasi due milioni di abitanti, ma è soprattutto una vera e propria metropoli europea, con qualche punta di efficientismo e di organizzazione nordica, ma sempre con l'allegria della Spagna. Un posto fantastico. Peccato che noi non potessimo davvero viverlo da turisti: il nostro chiodo fisso erano ormai Argentina e Brasile.
Soprattutto il Brasile ci toglieva il sonno. Avevamo visto ovviamente tutte le partite dei gialli di Santana e ci eravamo resi conto che si trattava di autentici mostri. Ricordavamo come avevano capovolto il risultato con l'Unione Sovietica, come avevano reagito al goal del vantaggio segnato dalla Scozia, come si fossero divertiti con la povera Nuova Zelanda. Erravamo tutti d'accordo, una volta tanto: se c'era una squadra che fino a quel momento aveva mostrato le credenziali giuste per diventare Campione del mondo, questa squadra era il Brasile. C'era poco da discutere.
Nessuno sembrava possederne il gioco, né tantomeno le individualità. Avevi voglia a studiarli al videoregistratore, da tutti, forse anche dai più grezzi, i Serginho in testa, dovevi sempre aspettarti qualche scherzo. Che so, il colpo di tacco, la finta, il tiro improvviso.
Zico, sennbrava finalmente il fuoriclasse che era mancato quattro anni fa al Brasile in Argentina, la stella che sa esprimersi alla grande anche lontano dal suo stadio, anche fuori dalla santabarbara del Maracanà. Ma IQ avete visto? Nessun altro giocatore mi è piacuto quanto lui, al mundial. È veloce, pieno di fantasia, irresistibile nel tiro a rete. Anche di testa mette paura, sebbene sia tutt'altro che un gigante. Ricordate la sua deviazione a due minuti dalla fine di Italia-Brasile: se non c'era santo Dino a bloccare quel pallone sulla linea, era fatta.
Si, sono Entusiasta di Zico. Prima dei mondiali, leggevo con una certa ironia i commenti di qualche tecnico su Maradona. Un giornale arrivò persino a stilare una graduatoria dei migliori calciatori a livello internazionale, mettendo Zico alle spalle dell'argentino.
Per carità, io non ho niente contro "el pive de oro" di Menotti, dico solo che Maradona gioca per sé stesso, Zico per la squadra, e dico anche che sul piano dell'inventiva e della capacità di concludere in maniera vincente, il fuoriclasse del Flamengo non ha rivali.
Parlatene con Gentile. Claudio, da tutti considerato il miglior marcatore dei mondiali, mi ha detto che nessuno in Spagna lo ha fatto soffrire quanto Zico.
Maradona tiene la palla, sa giocarla a meraviglia, ma è quasi sempre prevedibile: un dribbling e punta a rete. Zico invece è diabolico. Ma vi ricordate il goal che ha fatto segnare a Socrates contro di noi, quello dell'uno a uno? Ha pescato il suo compagno con un tocco millimetrico, dopo aver fintato di tentare lui la conclusione, spiazzando tutta la nostra difesa.
Sì, è davvero un mostro. Mi piacerebbe vederlo accanto a Maradona: se riuscissero a superare il complesso del leader (Zico sa adattarsi a giocare per il collettivo, l'ho detto, anche se è circondato da altri dieci fuoriclasse; Maradona proprio non so, con quel caratterino...) sarebbero una coppia forse senza precedenti nella storia del calcio.
Ma nella Roma, accanto a me e a Falcao, vorrei sempre e comunque Zico. Sarà perché sogno anche la notte di poter scambiare il pallone con un tipo così, oppure perché penso cosa potrebbe fare il mio amico Pruzzo con un prestigiatore come Zico alle spalle, oppure semplicemente perché mi sento sudamericano come lui. Non mi chiamano, forse, il brasiliano di Nettuno? lo a Copacabana, dove sono andato qualche estate fa in vacanza, mi sentirei come a casa mia.
Ma torniamo al Brasile. Nel ritiro di Barcellona, dicevo, cercavamo di sezionarlo al videotape, ma più affondavamo il bisturi in quelle immagini (Brasile-Urss, Brasile-Scozia, Brasile-Nuova Zelanda), più ci convincevamo di avere davanti degli autentici extraterrestri.
Zico a parte, ci terrorizzava Eder, che pochi di noi conoscevano.
Dal mundialito in Uruguay, tutti avevamo riportato uno splendido ricordo di Zé Sergio, un'ala che affondava sulla fascia sinistra come se fosse stato in sella ad una Kawasaki. Eder è un attaccante meno veloce (anche se non troppo), ma possiede un tiro che pochi altri al mondo possono vantare: con quel sinistro, sembrava capace di tagliare di netto una quercia, di sgretolare una parete di mattoni.
E poi il centrocampo: Junior, Cerezo, Socrates e Falcao, sapevano dettare il gioco da campioni, e col piglio dei match-winners, tutti e quattro perfettamente in grado di risolvere la partita da soli, con un assist o una conclusione vincente, in qualsiasi momento. Un poker d'assi da far venire i brividi.
So per certo che l'ingegner Viola, il mio presidente, ha cercato di portarli a Roma tutti e quattro, trattandoli in epoche diverse: c'è riuscito solo con Paolo. Credo che Socrates sia stato il primo straniero mai contattato dalla Roma, ma non ha voglia di lasciare il Brasile; è chirurgo pediatrico, lavora in ospedale a Salvadòr de Bahìa, gioca per hobby. L'esperienza di due, tre campionati in Europa potrebbe anche affascinarlo, ma non abbastanza da convincerlo a lasciare il Brasile. E poi, a quanto ne so, Socrates per primo consigliò i dirigenti della Roma di ingaggiare Falcao: "È il più europeo, nel nostro campionato" disse "ed è anche l'unico, per intelligenza di gioco, che possa essere considerato l'erede di Pelé".
Un giudizio che allora mi parve incredibile, ma che oggi non dovrebbe più suscitare perplessità. So che molti sono rimasti allibiti, in Italia, nel vedere Paolo Roberto diventare, una partita dopo l'altra, il leader indiscusso della squadra più quotata del mondo.
Accanto a lui c'erano Junior (miglior giocatore dell'ultimo campionato brasilero), Zico (supercannoniere di tutti i tempi nel suo paese), Socrates, Luisinho, ma il primattore era lui, lui a governare il gioco, a dirigerlo ad addormentarlo, a vivacizzarlo con gli scatti, gli smarcamenti continui, i lanci, i recuperi, le conclusioni.
Per me seguirlo nel suo show non è stato affatto una sorpresa, anzi, alla vigilia ero stato il primo ad indicare proprio Falcao come il protagonista sicuro di quest'edizione dei mondiali.
In due campionati, noi della Roma abbiamo imparato a conoscerlo bene. Paolo non è un giocatore qualunque: è la dinamo che da energia a tutta la squadra, energia fisica ed energia psicologica, è il trascinatore che si scatena quando bisogna dare una svolta alla partita, è il Cervello che illumina il gioco nei momenti di buio o lo congela quando serve soprattutto far scorrere i minuti.
È uno di quei rarissimi campioni, insomma, che se trova la squadra a seguirlo può anche vincere un incontro da solo.
I miei colleghi, lo guardavano a bocca aperta, alla tivù. E poi guardavano me. "Non vi stupite" dicevo "Falcao ha sempre giocato così. Solo che oggi si ritrova in mezzo ad altri sette, otto fuoriclasse. Con tutto il rispetto per la Roma, il Brasile ha giocatori di un altro pianeta".
Già, di un altro pianeta. Più o meno sullo stesso piano, un piano cosmico per noi irragiungibile, sembrava fosse anche l'Argentina.
Non c'era giornale che non ci desse per spacciati, nella sfida con i campeones 78. Eppure, se si eccettua il match contro l'Ungheria (altra squadra con la difesa allegrotta), la formazione di Menotti non era sembrata davvero quella di Buenos Aires.
Pochi erano disposti a darci fiducia, e i pochi che lo facevano, ho già avuto modo di dirlo, azzardavano un ottimismo fondato solo sulla tradizione: chissà, si diceva, che ritrovandosi faccia a faccia, gli azzurri non riescano ad imbrigliare gli argentini come quattro anni fa.
Chissà che Rossi non torni per un giorno il Pablito mundial. Chissà, chissà. Quella sfiducia, invece che stizzirci, finì per darci una carica incredibile: dovevamo dimostrare a tutti che il nostro discorso al mundial, superato il girone di qualificazione, era appena cominciato, non già chiuso.
Il fatto di affrontare l'Argentina nel primo incontro della seconda fase, poi, ci dava una gran carica. L'Italia era stata l'unica squadra al mondo capace di battere gli uomini di Menotti nell'anno del loro trionfo. Li avevamo umiliati sul loro campo, davanti al loro pubblico: non potevamo non tenerne conto, e non potevano averlo dimenticato nemmeno Passerella e compagni. Ricordo perfettamente le dichiarazioni degli ex campioni del mondo, in quei giorni; si dicevano sicuri di spuntarla, ma parlavano di noi con grande rispetto.
Insomma, ci temevano. Era una carta da sfruttare, come era da sfruttare la grande tradizione del mister contro Menotti. Credo che Menotti si sogni Bearzot anche la notte, perché non è mai riuscito a batterlo, nemmeno quando, per consacrare il suo trionfo, fu organizzata la sfida tra Argentina e Resto del Mondo. A Bearzot affidarono una squadra con diversi fuoriclasse, ma assolutamente senza affiatamento. Zico, che giocò un secondo tempo memorabile, era arrivato addirittura poche ore prima della partita, dopo un viaggio di oltre dieci ore. Ebbene, il mister in pochissimo tempo riuscì ad allestire una formazione compatta, decisa a castigare la boria degli argentini. lardelli, che fu forse il migliore in campo, mi ha raccontato quella giornata fantastica: a centrocampo c'erano anche Boniek e Platini, come oggi nella Juventus. L'Argentina passò in vantaggio, ma il Resto del Mondo agguantò il pareggio, umiliando i campioni proprio nella gara studiata per celebrarne la vittoria al mundial. Per Bearzot, che aveva già battuto Menotti in quell'edizione dei campionati, deve essere stata una soddisfazione incredibile. È da allora, probabilmente, che il tecnico argentino non può digerire il nostro né tantomeno l'Italia.
Ma vi ricordate quello che è stato capace di dire quando lo abbiamo buttato fuori dal mundial? Non fosse stato giustificato per la rabbia dell'eliminazione, si sarebbe conquistato definitivamente l'etichetta di incompetente; disse che non avevamo gioco, che il nostro è il peggiore calcio del mondo, che contro il Brasile avremmo avuto bisogno del pallottoliere per contare i goal subiti. Una sequela di insulti che, poi, è stato puntualmente costretto a rimangiarsi.
D'altra parte, lo ripeto, il suo è un atteggiamento comprensibile, se non addirittura giustificabile. A questi mondiali di Spagna Menotti era arrivato con un biglietto da visita eccezionale: allenatore della squadra campione del mondo, scopritore di talenti (sue creature sono tra l'altro Diaz, che nel River Piate giocava mezzala e non centravanti, e Bertoni, che riesce a far giocare come raramente Daniel fa nella Fiorentina), tecnico corteggiato dalle società di mezz'Europa.
Poi, il capitombolo che sapete. E, ironia della sorte, ancora una volta contro Bearzot, l'uomo che lo ha sempre sconfitto, anche al di là del punteggio conseguito in campo.
A rileggere oggi le pagine del nostro mundial, mi riesce impossibile non attribuire al complesso-Bearzot una buona fetta del nostro successo sull'Argentina. Non lo dico per piaggeria, perché il nostro commissario tecnico non ha bisogno di essere incensato e quello che vale lo ha dimostrato ampiamente. Dico solo che, anche grazie al suo ruolino di marcia di tecnico, gli argentini ci temevano come forse pochi riuscivano ad immaginare, e noi, che pure li rispettavamo, sapevamo di poter fare loro un altro brutto scherzo.
Per questo, contro i campeones, non mollammo un palmo di terreno.
Ci avevano già dato per morti, e noi provammo a smentire tutti per la prima volta.
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