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Bruno Conti
Il mio Mundial

A tutti i tifosi italiani

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CAP. 13 - A UN PASSO DALLA FINALE

 


Italia-Polonia, semifinale. Dal piede di Bruno Conti
parte un assist delizioso.Sul pallone c'è scritto
"basta spingere" e Rossi...non si fa pregare

Schiantato il Brasile, potevamo provarci. Ancora un passo, e saremmo stati sul tetto del mondo. Un giornale italiano titolò: "Il sogno è a portata di piedi". Tra noi e il sogno, c'erano ancora la Polonia, che s'era guadagnata la qualificazione inchiodando sullo zero a zero i sovietici, e poi, più in là, la Germania o la Francia. In quel momento, se il mundial stesso non mi avesse insegnato a tenere i piedi ben saldi per terra, non avrei avuto il minimo dubbio: sentivo che avremmo potuto mettere in fila tutte e tre quelle squadre, ma non avevo il coraggio di dirlo.
La battaglia col Brasile aveva lasciato il segno: Gentile era stato squalificato, avendo rimediato la seconda ammonizione, Collovati era acciaccato, Tardelli pure. E tutti quanti, correndo come disperati nel forno del Sarrià, avevamo pagato un duro scotto in termini di affaticamento: in media, avevamo perso tre chilogrammi a testa.
Il professor Vecchiet, che dopo questo mundial è sicuramente il dietologo più ammirato d'Italia, intensificò le dosi della sua ricetta magica: frutta, verdure, pastasciutta. Come al solito era Rossi il maggior indiziato a divorare ogni pietanza: questo ruolo di forzato della forchetta, lui così scarno, gli si addiceva poco.
Ma era un fatto che era sempre quello che soffriva i problemi di peso più vistosi. "Prima" scherzò un giorno Pablito "mi abbuffavo a tavola e mi mangiavo i goal in partita. Ora ho imparato ad abbuffarmi in tutte e due le occasioni".
La tripletta rifilata al Brazil l'aveva trasformato: più caricato, e finalmente sorridente. Il goal gli aveva sciolto, dentro, le paure accumulate nei due anni e mezzo di squalifica. So che l'ha confessato ad un amico: "Credimi" ha detto dopo il match con Brasile "cominciavo a convincermi che non sarei più tornato quello di prima".
Invece, ce l'eravamo trovato persino più forte, più furbo, più cattivo, e la sua presenza, in una squadra che aveva sempre accusato una certa difficoltà al momento di concludere, si era trasformata in un'arma micidiale. Pablito-castigo-di-Dio avrebbe colpito ancora, in questo mundial, svettando nell'Olimpo dei goleadores di tutti i tempi.
Ma allora, in quelle ultime giornate a Barcellona, sembrava pensare solo a mangiare, a riposare, a distribuire pacche sulla schiena. Era tornato lui sul serio, anche fuori dal campo: un leader, un protagonista.
lo, che avevo sofferto davvero nel vederlo in difficoltà nella prima fase, non riuscivo a scollarmi di dosso l'emozione di aver fatto fuori sua maestà il Brasile. Dovete capirmi: da quando sono ragazzine, ne ho fatto l'oggetto dei miei sogni; adoro il loro calcio.
Chiedetelo a Falcao. Quando è venuto in Italia, l'ho costretto a raccontarmi per ore fatti, episodi, aneddoti sui campioni, sulle partite, sui personaggi del calcio brasilero.
Vincere quella partita era come bruciare un feticcio venerato per anni. L'avevo fatto volentieri, visto che io gioco per vincere anche a biliardino no, ma ora sentivo una strana sensazione addosso.
Un po', lo ammetto, era causa di Falcao. Ci eravamo lasciati male, lui con quella smorfia disegnata sulla faccia, io che non riuscivo a trovare le parole per dirgli che mi dispiaceva ma che, al tempo stesso, non potevo essere infelice. Avrei voluto parlargli di nuovo, risentirlo a freddo. Chiesi aiuto a Pato, che si era trattenuto più di Paolo in Spagna, per lavorare con la sua tivù.
Pato mi diede un numero di Porto Alegre. L'ho provato decine di volte. Era sempre libero, ma non rispondeva nessuno.


Abbiamo appena battuto la Polonia e siamo in finale.
Da Sin. Rossi Cabrini e Conti

Ad un certo punto ho lasciato stare. Mi sono reso conto che, prima di agosto, prima del ritiro della Roma, di Paolo non avrei avuto più notizie. "Che vuoi" mi diceva Pato "Paolo ha ventotto anni. Questa era la sua grande occasione per diventare campione del mondo. Lo meritava, non ne esistono al mondo di centrocampisti come lui. Voi gli avete sbarrato la strada, ora una chance del genere non l'avrà più. Ha bisogno di stare solo, di lasciare scivolare via la malinconia. Stare un po' a casa gli farà bene. Tra un mese o poco più, te lo ritroverai davanti più sereno di prima".
Ne ero sicuro anch'io. Ma non potergli parlare subito mi dispiaceva. Tengo molto all'amiciza di Paolo, tanto che fui molto contento, qualche giorno dopo, quando mi dissero che mi aveva cercato a Nettuno. Voleva complimentarsi con me per la vittoria nella finalissima, ma io ero in giro, immerso nei soliti festeggiamenti.
Allora, invece, nelle miei giornate di Saint Boy, di feste non se ne parlava nemmeno. Qualche passeggiata con Laura, ancora qualche partitella coi videogames, qualche ora di sonno rubata al pomeriggio, l'unico momento in cui riuscivo se non altro a cedere alla stanchezza e per il resto solo partite (sempre quelle registrate) e tanti progetti. Madrid non si era ancora concretizzata nelle nostre possibilità, ma tutti ci pensavamo come se fosse già un discorso chiuso.
In effetti, visto quello che eravamo riusciti a produrre contro i sudamericani al Sarrià, visto come Maradona e Zico si erano inchinati al nostro gioco, sarebbe stato assurdo non crederci.
La vittoria finale era a portata di mano, e bastava allungarsi quel poco in più per acciuffarla. Ripeto: anche se non ce lo dicevamo, ce lo leggevamo in faccia ogni momento.
Intanto continuavo a ricevere telefonate graditissime. Dopo l'ingegner Viola, dopo De Sistì, mi chiamò il sindaco di Nettuno. "Questa città si è fermata per te" mi disse dall'altra parte dell'apparecchio "e io spero di riuscire a tenerla ferma ancora qualche giorno, col fiato sospeso, prima di farla esplodere di gioia". "Ce la faremo" risposi, azzardando per la prima volta un pronostico.
Stavo bene, sentivo di poter dare il massimo in quel rush finale verso la coppa. E il primo avversario da abbattere in quella rincorsa, la Polonia orfana di Boniek, non mi sembrava in grado di reggere l'impatto con noi.
Il giorno della semifinale arrivò stancamente, come sempre. Ma l'attesa venne ripagata. Dal piccolo Sarrià, scivolammo nel faraonico Nou Camp, uno degli stadi più grandi del mondo, il preferito dai tifosi catalani, il tempio del Barcellona. Lo stadio dove un anno fa si esibivano Simonsen e Schuster e dove ora il nuovo idolo si chiama Diego Maradona. Oltre centoventimila posti, un immenso catino che rigurgitava di bandiere tricolori. Per tutta la giornata precedente, Bearzot ci aveva tenuti incollati al video: era convinto, il mister, che i difensori polacchi massicci ma poco mobili, avrebbero sofferto da matti l'agilità del nostro attacco.
"Mi aspetto molto da voi due" aveva bisbigliato a me e a Rossi.
Io in particolare, poi, ero disposto a giurare su una grandissima prestazione di Pablito. Come dire, era nell'aria, la percepivo.
Appena sceso in campo, sbirciavo Zmuda e Janas, rocciosi e taciturni, con un briciolo di malizia. "Poveri voi" pensavo "che brutto pomeriggio vi farà passare quello lì".
Non mi ero sbagliato. Dopo nemmeno trenta secondi, Paolo inventava un guizzo dei suoi, servendo Graziani per il triangolo: Ciccio s'avventava sulla palla con la solita rabbia, sbagliando però il passaggio di ritorno. Ancora qualche minuto, da Antognoni a Rossi, di nuovo a Graziani: botta poderosa, ma alta di un soffio. Niente male. Erano solo manovre d'avvicinamento, azioni d'assaggio. I tamburi, dall'alto delle gigantesche gradinate, non cessavano un attimo di rullare, e dopo qualche minuto lo stadio esplodeva come minato da mille cariche di tritolo: Antognoni batteva una punizione sulla destra e ne veniva fuori un tiro radente, liftato, velenoso. Rossi ci piombava sopra come un falco, i suoi piedi lo intercettavano come un radar, un tocco di destro ed era l'1 a 0.
Ricordo che sono stato tra i primi a travolgerlo. "Fate piano", strillava Paolo nel mucchio che continuava ad aumentare sulle sue spalle. In quel momento, sarà stata l'euforia per quella rete arrivata così presto a sbloccare il risultato, mi sono sentito un po' campione del mondo, o quanto meno, ho capito che quel primo ostacolo, quella Polonia priva delle sgroppate irresistibili di Boniek, non ci avrebbe creato più grandissimi problemi. Non mi sbagliavo.
Però, nel pieno rispetto della tradizione che vuole che ogni nostra vittoria nasca all'insegna del brivido, dopo un'altra decina di minuti si faceva male Antognoni. Giancarlo, fino ad allora, aveva disputato un grande mundial, e vederlo uscire trasportato a braccia, intuendo che il suo non era un infortunio di poco conto (si era praticato uno squarcio al collo del piede destro, cercando la bordata dal limite dell'area), non fu proprio quello che ci serviva per tirarci su di morale.
Ma la paura durò poco. Il gioco era saldamente nelle nostre mani, né bastavano le provocazioni dei polacchi ad intimorirci. Avevano cominciato a picchiare dal primo minuto, forse consapevoli che, senza la loro stella riconosciuta e soprattutto contro una squadra come la nostra, quella era forse l'unica maniera per cercare di spuntarla. Nella rissa, non si sa mai, noi avremmo anche potuto perdere la testa. La calma olimpica dell'arbitro, che sembrava non avvedersi del sadismo dei Bunkol e dei Majewski, degli Dziuba e dei Ciolek, concedeva un discreto vantaggio a questi formidabili cacciatori di caviglie e di stinchi. Ma superammo anche quest'handicap. Rammento con rabbia, comunque, la scarsezza delle ammonizioni comminate dall'arbitro. Non credo di aver mai criticato, nel corso di questo racconto, l'operato di un direttore di gara, ma penso di poter dire che dopo quello che ho visto e subito in campo quel giorno, l'uruguayano Cardelino, non era quanto meno il tipo ideale per controllare una partita così dura.
In ogni caso, Pablito ed io, nel secondo tempo, ci consociammo alla grande per chiudere definitivamente il discorso. Voglio raccontare la nostra impresa nei dettagli ma anche perché si tratta di uno dei ricordi più vivi, dal punto di vista del gioco, di questo mundial di Spagna. Mancavano una decina di minuti alla fine della partita. Graziani, stroncato da Zmuda aveva lasciato il posto ad Altobelli, e proprio Spillo, imbeccato da Cabrini, scattava sul centro sinistra, allungandomi la palla, lo infilavo il corridoio, puntavo sul fondo e alzavo un pallonetto quasi ad occhi chiusi, tanto sapevo che, dall'altra parte, oltre la maglia bianca di Janas, sarebbe piombato l'implacabile Paolo. E infatti lui, il Pablito mundial in agguato alle spalle dello stopper, arrivava puntualissimo a insaccare di testa.
Era il 2 a 0, era il tripudio. Quell'assist, che continuo a rivedere schiacciando i tasti della moviola del mio videoregistratore, mi regalò la stessa felicità esplosiva di un goal. Ci rituffammo in un altro spaventoso abbraccio collettivo, in un delirio di canti e di tamburi. Eravamo in finale, e gli italiani, festosi invasori di Barcellona, potevano scatenarsi una volta di più.
Tardelli, Scirea ed Orlali, sempre perfetti, tessevano a centrocampo una stupenda melina ed i polacchi, con pochissimi spiccioli d'orgoglio nei garretti cercavano inutilmente di carpirci il pallone. Cardellino, bontà sua, fischiava se non altro con puntualità. Lo stadio, quello stadio lontano più di mille chilometri dal Comunale di Torino, dall'Olimpico, e da San Siro, si trasformò per qualche interminabile minuto nella bolgia di Fuorigrotta. Nel cielo, razzi tricolori tracciavano strisce scintillanti, mentre noi, stravolti dal caldo e dall'emozione, ci abbracciavamo al centro del campo.
Mentre bagnavamo di sudore e di lacrime la giacca azzurra di Enzo Bearzot, lo speaker dello stadio annunciava solenne:"El hombre del Nou Camp es Paulo Rossi", è Rossi l'uomo del Nou Camp. Una traduzione scontata, per una verità sacrosanta.




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