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Bruno Conti
Il mio Mundial

A tutti i tifosi italiani

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CAP. 09 - E ADESSO COSA NE PENSA,
MISTER MENOTTI?

 


Vigo. Bruno Conti marinaio ad honorem

L'albergo di Barcellona, per fortuna, era isolato, tranquillo. La polizia garantiva un cordone insuperabile, i controlli erano severissimi. Sentivamo tutti il bisogno di isolarci, e al tempo stesso di restare uniti, ma per molti di noi, per me in particolare, le ore della vigilia non passavano mai.
Furono due le persone a starmi più vicino, allora. Innanzitutto Laura, mia moglie. Le avevo promesso, prima di partire, che avrebbe potuto raggiungermi una volta superato il primo turno. Arrivò a Barcellona portandosi dietro un po' di casa nostra. Serve poco, in queste circostanze: un sorriso, una parola, una passeggiata di pochi minuti. Sì, ho sentito molto la necessità della sua presenza in Spagna. Laura mi segue sempre, allo stadio. Viene con mio padre, mia madre, mio suocero e mia suocera. Mio padre impazzisce ogni domenica, vedendomi giocare, come fosse la prima volta; è romanista da una vita, quando mi vede sbucare dal tunnel con la maglia giallorossa sulle spalle gli vengono le lacrime agli occhi. Mia madre, invece, si agita solo se mi vede stramazzare al suolo, solo se mi picchiano. Ha sempre paura che mi faccia male, non pensa ad altro, non capisce assolutamente niente di gioco: potrei segnare un goal di tacco da centrocampo, oppure un'autorete e per lei sarebbe la stessa cosa.
A Barcellona, prima di quella partita che non arrivava mai, Laura mi è stata molto vicina. Mi bastava vederla un istante per ritrovare serenità. Anche Causio mi ha aiutato molto, in quei giorni. Ormai non era più un mio rivale (ma non lo è mai stato, in realtà), ma il mio consigliere privato. Cominciò un paio di giorni prima della sfida con i campioni del mondo a parlarmi di Tarantini, perché sapeva che sarebbe stato il mio avversario diretto, e sapeva, lui che lo aveva fatto impazzire a Buenos Aires, come beffarlo: "Mettigli la mordacchia, fagli sentire che nei tackles non tiri la gamba indietro neanche fu" mi ripeteva "e, d'accordo col terzino che ti sta alle spalle, ogni tanto fagli vedere che, se pure lui si lancia in attacco, tu non hai nessuna voglia di inseguirlo come un cane con la lepre. Resta nella trequarti, lo freghi in velocità, lo stordisci di dribbling: rischierai anche qualche calcione, ma vedrai che priverai Zoff e la difesa di un bel rischio. Dopo un po' si incollerà a te, gli passerà la voglia di andare a cercare fortuna in attacco".
Causio è stato fantastico. Mi ha mostrato decine di volte, al videotape, gli interventi a scivolone di Passarella (se ti tocca una caviglia alla sua maniera, sei fritto) e lo stile delle uscite di Fillol: due motivi tecnici fondamentali per uno come me, che opera soprattutto in velocità e con i cross. Mi è stato utilissimo starlo a sentire non solo perché parlava disinteressatamente, per aiutarmi, ma anche perché c'è sempre da imparare da un campione, lo non ho mai nascosto la mia ammirazione per lui, anzi ho sempre tenuto a sottolineare quanto fossi orgoglioso di vestire la maglia numero sette della nazionale.
Una maglia che è appartenuta a Domenghini in Messico (quanto gli ho invidiato la grinta, da ragazzino) e appunto a Causio in Argentina. Franco è stato sempre il mio idolo, assieme a Rivera: è a lui che mi sono ispirato quando Liedholm nella Roma prima e Simoni nel Genoa poi cominciarono a schierarmi non più da mezz'ala sinistra, come mi capitava da giovanissimo, ma all'ala, col numero sette sulla schiena. Ed è a lui che devo molto di quello che ho imparato a fare sul campo un po' alla volta: il dribbling stretto, lo stop, il cambio di passo, il cross in corsa.
Ritrovarmelo a fianco, dopo averlo seguito tante volte ad occhi spalancati, è stata un'esperienza bellissima. Sedetti accanto a Franco anche il pomeriggio di martedì, quando ci avviammo in pullman allo stadio. Ricordo che mi agitavo sul sedile, che fumavo nervosamente. Lui mi strappò la sigaretta dalle dita, mi costrinse a calmarmi. "Sai con chi giochi", mi disse "chi ti affronterà, cosa c'è in palio. Scalmanarti adesso non serve, fallo sul campo. Per drogarti di fumo e per far esplodere i nervi c'è sempre tempo, dopo, ma vedrai che non ne sentirai il bisogno".
In effetti, non so come, riuscì a placarmi. Ero sempre molto teso dentro, ma almeno avevo smesso di muovermi come un tarantolato. Arrivammo allo stadio Sarrià tagliando lunghe carovane di folla. Barcellona era già invasa da tifosi italiani: alcuni, riconoscendoci, agitavano le bandiere, ci gridavano incitamenti che si perdevano tra i rumori del traffico. Mi guardavo attorno, sforzandomi di restare fermo come Causio mi imponeva. Zoff e Scirea, seduti un paio di poltrone avanti a me, erano tranquillissimi. Ho sempre invidiato loro la calma, in Spagna ho imparato ad invidiare anche la capacità di dormire senza problemi. Avessi passato anche solo una notte come loro, sprofondato in un sonno senza angosce, mi sarei sentito un altro.
Il pullman sembrava non arrivare mai. lo avevo ripreso a pensare all'Argentina, a questi campioni del mondo che, da lì a poche ore, avrebbero dato l'anima per sbatterci fuori dal mundial, un mundial che sognavano grandissimo, con Maradona tutto compreso nel suo ruolo di vedette da quindici miliardi, e che fino ad allora li aveva delusi forse quanto noi. Temevo la loro rabbia, temevo soprattutto il loro gioco violento. Non per vigliaccheria: in fondo gli argentini non picchiano per cattiveria, ma semplicemente perché quello è il loro modo di concepire il calcio. Il gioco duro mi preoccupava perché, se l'avessero attuato scientificamente, c'era il rischio di perdere la testa, di non riuscire più a costruire la manovra, di gettarsi in una rissa dalla quale si poteva anche uscire con le ossa rotte.
"Ecco il Sarrià", sentii all'improvviso alle mie spalle: era lardelli, come al solito più teso di me. Bene, c'eravamo, finalmente. Da lì a poco avremmo saputo se meritavamo ancora di proseguire il cammino in quei campionati.
Dentro ero in ebollizione. Ormai non vedevo l'ora di scendere in campo. Ricordo poco dei momenti che precedettero il nostro ingresso sul terreno del Sarrià, a parte le parole di Bearzot: "Tutto sommato, non abbiamo niente da perdere. I campioni del mondo sono loro, e a noi hanno già affibbiato l'etichetta di poveracci del girone. Solo che noi, questi campioni, li abbiamo già battuti. E l'abbiamo fatto quando erano più forti di oggi..." e la cura con la quale mi sistemai i parastinchi e le fasce alle caviglie. "Tarantini, non mi freghi", ripetevo allacciandomi le scarpe.


Italia-Argentina. Bruno Conti aiuta Bertoni a rialzarzi

Non so come, dopo aver ripetuto il rito del grido di guerra della Roma, ci dissero che era ora di andare. In mezzo al campo, quando ci schierammo per gli inni, mi piazzai come al solito tra Zoff e Graziani. L'ho sempre fatto, sin dall'esordio contro la Polonia. Più in là, vedevo Cabrini e Tardelli tenersi per mano. Tardelli, il pugno sinistro chiuso sul cuore, accennava le parole di "Fratelli d'Italia", lo, tanto per cambiare, non riuscivo a stare fermo. L'ho già detto, per me quegli istanti preliminari non passano mai. Ma passarono. Eravamo concentrati, forse un po' tesi: l'Argentina comincò a pressarci alla sua maniera, lunghe manovre elaborate fino alla nostra area, in attesa di smarcare una punta, lo seguivo con gli occhi Maradona. Gentile gli stava addosso, come una mignatta. "Comincio a picchiarlo negli spogliatoi" mi aveva detto ridendo "e smetto quando siamo sotto la doccia". Non gli fece vedere palla per tutto il primo tempo. E, attorno a Dieguito, non beccò palla tutta l'Argentina. Per la verità molti degli uomini di Menotti, da Gallego a Kempes, da Bertoni a Olguin, mi sembrarono meno tonici di quanto erano apparsi in precedenza: quattro anni prima, erano un'altra cosa.
Ma anche noi, rispetto alle prove precedenti, eravamo cambiati: più decisi, più concentrati, più attenti in difesa. Eravamo solo troppo contratti e Bearzot, che è stato tante volte accusato ingiustamente di spingerci a restare dietro, ce lo disse, negli spogliatoi.
"Allargatevi, giocate più in profondità. Siamo più rapidi di loro, possiamo farcela". Qualcosa scattò in tutti noi, nel secondo tempo. Fu un caso che, a ferire a morte i campeones, siano stati due che li avevano già umiliati nel 78 a Baires? Fu un caso che ad andare in goal furono lardelli, il centrocampista più brillante del mundial argentino, e Cabrini, rivelazione italiana a quei campionati?
Non lo so. Di quel match incredibile, che ci proiettò finalmente verso traguardi ben diversi da quelli che ormai ci venivano indicati, conservo soprattutto due ricordi indelebili. Il colpo di tacco con il quale riuscii a smarcare Cabrini per la botta vincente e il goal che mi mangiai sul 2 a 1. Non ci ho dormito per due notti di seguito. Come mi era capitato con il Camerun, avevo voluto ancora una volta strafare. Ero solo, smarcatissimo, lanciato a tutta velocità: sono le condizioni ideali, per un giocatore con le mie caratteristiche, per spedire la palla in goal. Invece niente: cercai la finezza, il pallonetto beffardo. Un tocco impossibile perché Fillol era già uscito e mi copriva ormai tutto lo specchio della porta. Un errore madornale. Perché l'ho commesso? Per eccesso e confidenza, e anche per colpa della torcida, della tifoseria brasiliana. Sì: la curva alle spalle della porta argentina era piena di magliette gialle e di bandiere del Brasile, ed io, che come sapete sogno da una vita di indossare almeno una volta la maglia della nazionale carioca, ho pensato bene di fare un goal alla Zico, di dedicarlo a quella gente, di andare poi ad aggrapparmi alla rete di recinzione, proprio come avevo visto fare a Socrates e a Edér.


L'Italia ha appena battuto l'Argentina. A Largo Chigi il Presidente del Consiglio G. Spadolini festeggia la vittoria con i tifosi

Invece niente. Sapevo che quell'errore poteva essere determinante per la differenza reti, temevo di dover sopportare (e far sopportare ai miei compagni) la beffa di un'eliminazione maturata a tavolino. Più tardi, dopo aver visto Brasile-Argentina, mi misi il cuore in pace: contro Falcao e soci avremmo dovuto vincere in ogni caso, anche se io avessi segnato quel goal. Però, intanto, martedì notte la passai in bianco, e, quel che è peggio, non c'era nemmeno Tardelli a consolarmi: la soddisfazione del goal, l'appagamento dopo tanta tensione e magari anche la stanchezza, gli avevano regalato finalmente qualche ora di sonno. E così avevamo superato i campioni del mondo, ed al Brasile toccava ora il compito di rispedirli a casa. Un compito nemmeno troppo difficile, visto quello che i carioca avevano messo in mostra fino a quel punto. Noi, intanto, potevamo goderci quell'incredibile soddisfazione. Eravamo rinati. Anche Pablito, dopo le paure delle prime gare, mi era parso diverso: aveva mancato un goal, ma aveva anche ricominciato a muoversi e a scattare come ai vecchi tempi. Tutta la squadra poi, di questo mi resi conto da lì a pochissimo, aveva preso coscienza delle sue possibilità.
Tre giorni dopo, venerdì 2 luglio, il Brasile fece registrare il suo trionfo sull'Argentina, e tutti erano convinti che quello celebrato a Barcellona fosse stato un vero e proprio passaggio di consegne.




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