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ANDREA SACCHI

di Antonio d'Avossa

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1 - Per una lettura iconologica

Una domanda prima di tutto: che cosa ci autorizza ad usare chiavi di lettura come quelle qui utilizzate? La risposta non è delle più semplici.
"L'iconologia è quel ramo della storia dell'arte che si occupa del soggetto o del significato delle opere d'arte contrapposto a quelli che sono i loro valori formali"(1) , scrive Panofsky.
Così consideriamo le letture che seguono un esercizio interpretativo attinente alle opere specifiche di Andrea Sacchi. Le letture non pretendono affatto di essere esaurienti, anzi, possono essere viste come un cominciamento dì analisi e niente dì più. In linea con i principi dei padri fondatori dell'iconologia, Aby Warburg ed Erwin Panofsky, e riconoscendo ad essi la straordinaria capacità di stabilizzazione di una metodologia pratica e teorica che sinora ha dato nell'ambito delle discipline artistiche risultati notevolissimi, dobbiamo mettere in guardia il lettore da facili suggestioni. Infatti prima dì ogni altra cosa c'è da dire che l'iconologia non è un dizionario infallibile e che, come già aveva suggerito Panofsky, "non si può negare che ci sia il pericolo che l'iconologia si comporti non come l'etnologia rispetto all'etnografia, ma come l'astrologia rispetto all'astrografia".(2)
Si tratta di principi e formule ormai notissime nell'ambito delle teorie dell'arte. Tuttavia la sempre più frequente e selvaggia pratica di questo metodo ci impone una riflessione peraltro già avanzata da Herwarth Rottgen nel suo volume su Caravaggio, dove in una nota conclusiva rileva la facile tentazione in cui Maurizio Calvesi cade a proposito del Bacchino Malato. Ne riportiamo l'intera nota che ci sembra emblematica di una pratica selvaggia dell'iconologia:
"Ultimo contributo nel campo della interpretazione iconografica è il saggio di M. Calvesi (Caravaggio o la ricerca della salvazione, in: Storia dell'Arte, 9/10, 1971, p. 93 ss), uscito soltanto durante la preparazione del saggio presente. Devo perciò rinunciare ad una trattazione delle tesi del Calvesi, non nascondendo però un fatto che si scorge a prima vista, che cioè le nostre interpretazioni sono diametralmente opposte. Mi limito qui ad alcune poche rettifiche in quanto esse concernono un quadro di cui ho trattato nel saggio presente. Uno dei quadri essenziali dell'analisi del Calvesi è il Bacchino malato. Nell'interpretazione iconografica sulla base dei diversi significati di simboli è assai facile perdersi nelle più svariate interpretazioni. Essenziale rimane però la necessità di osservare la giusta proporzione dell'interpretazione. Questa mi pare sia stata trascurata dal Calvesi che ha interpretato un'immagine chiaramente bacchica e dai lineamenti fauneschi e da autoritratto come immagine di Cristo risorto. Il Bacchino tiene un grappolo di uva - Cristo tiene un grappolo di uva, quindi il Bacchino è Cristo: è questo un sillogismo. L'interpretazione della pietra come pietra della tomba di Cristo si avvale dello stesso metodo. Non si vede altro che un tavolo di pietra, o una pietra con un semplice profilo che potrebbe coprire un muretto dietro il quale il ragazzo si è seduto. Che la gamba tirata su debba essere la gamba di Cristo che esce dalla tomba, non è accettabile, e che le due pesche non siano pomi è facilmente riscontrabile davanti all'originale. In tutta la spiegazione del quadro da parte del Calvesi, l'interpretazione dei simboli, uva, edera e anche i cosidettì pomi, è fatta senza rispettare la concreta espressione artistica. Che un Cristo risorto, trionfo della promessa, non può mostrare una "triste espressione generale" e non può recare "le tracce della morte" dovrebbe essere ovvio dopo la lunga tradizione iconografica del soggetto. E che in un Redentore non si tratta di un Cristo trionfante ma -come interpreta il Calvesi - di un Cristo paziente, può essere sostenuto soltanto con un metodo che radicalmente tira le conseguenze da presupposti non provati, creando così una iconografia mai esistita.
Finalmente è da respingere l'idea che si tratti qui di un'Imitatio Christi, soprattutto se si rimanda, come fa il Calvesi, agli autoritratti di Durer e del Parmigianino. Mi pare che l'interpretazione iconografica diventi in tal modo una specie di concardia discors, di metodo alchimistico in cui si crea una coniunctio ed unità con una sola formula fondamentale, spiegando tutta l'opera dell'artista con una sola idea basilare di misura universale, cioè con l'idea del Calvesi, della fervida ricerca della salvazione".(3)
La lunga citazione di Rottgen ha qui il solo scopo di dimostrare quanto nelle campionature di una iconologia misteriosofica si sia abusato di superficiali analogie e di interpretazioni che in nessun punto sono verificabili. E qui torna vincente l'avviso di Panofsky: "Temo che non ci sia altra soluzione a questo problema che nell'uso dei metodi storici, temperato, se possibile, dal buon senso". (4)
È da pensare che nei campioni dell'insensatezza gli avvisi di Panofsky non abbiano mai avuto posto, e così il buon senso.(5)
Non dimentichiamolo cioè che i compiti dell'iconologo si svolgono tra due rive, l'immagine e il soggetto, dove la storia non viene affatto abolita, perché è dalla conoscenza dei testi e dalla conoscenza dell'immagine che si colma questo vuoto. L'interpretazione deve diventare prima di tutto la ricostruzione di una prova perduta.(6)