II cardinale Sforza Pallavicino, maestro di Paolo Segneri, " definiva l'operazione letteraria "la più nobile, come la più simile alla vita de' beati, anzi pur a Dio", per il potere ch'essa ha, di rasserenare; e intendeva i grandi scrittori quali "eroi" ".(1) Evidentemente, il Pallavicino riproponeva la teoria aristotelica della catharsis e paragonava l'azione dell'artista, che quella catharsis era in grado di procurare, all'azione di Dio che rasserena gli animi purificandoli da quanto di torbido può ristagnare in essi. Com'è noto, Aristotele formulava questo concetto mettendolo in relazione soprattutto con la tragedia, in cui ad agire sono travolgenti passioni e violenti sentimenti, la cui rappresentazione, senza il filtro dell'arte per sua stessa natura rasserenatace, nonché procurare loro quel piacere (hedonè) che dell'arte è fine irrinunciabile, li sconvolgerebbe e li devasterebbe. Per questo, appunto, lo scrittore è un " eroe ", perché esso (come dice Luciano nel terzo dialogo dei morti) " è per metà uomo e per metà dio, e l'uno e l'altro insieme ". L'arte, infatti, non altro è se non identificazione e recupero dell'ordine divino che soggiace al fondo del de-ordinamento causato dalla peccaminosità degli uomini; né questo risultato può raggiungere se non perché essa, strutturando retoricamente la propria materia, è come se ripetesse l'operazione compiuta da Dio quando dal caos primigenio evocò l'ordine del cosmo.
Ebbene: se il Segneri, come tutto lascia ritenere, fece tesoro di questo e di pensieri simili a questo, lo studioso dovrebbe proporsi come terreno privilegiato della ricerca l'indagine intorno alle strutture retoriche che regolano e governano la sua pagina. D'altra parte, proprio il Segneri fu autore di un cospicuo volume Dell'arte di predicar bene, con i cui cinque trattati, mettendo a frutto in special modo gl'insegnamenti di Quintiliano, ma guardando anche, e con attenta sensibilità, all'esempio del Tasso, attestò la cura con cui egli andava costruendo le sue prediche. E in effetti, anche ad apertura di uno qualunque fra i suoi libri, sì vede bene come proprio la sapienza retorica connoti il discorso del Segneri; con questo, tuttavia, che la ricchezza della lavorazione non tende ad accrescerne la frondosità barocca, bensì ad inquadrare e ad ordinare appunto, pur conservandone la grandiosa maestà, il tumulto della materia. È vero: nessuno può non accorgersi, accostandosi al Quaresimale o ai Panegirici, del costante ricorso alle figure di quella amplificazione (soprattutto dell'amplificazione orizzontale), alla quale, nel terzo tra i cinque trattati or ora ricordati, il Segneri dedicò i cinque capitoli che vanno dal XIII al XVII; ma ben presto si accorge anche che esse sono usate in obbedienza ad una precisa legge che non tanto magniloquenza quanto ritmo e concinnitas - anzi, a ben guardare, questi e quella insieme - tende a conferire alla sua oratoria sacra.
Prova e, ad un tempo, chiarimento dell'assunto, potrebbe assicurarci la ricerca intorno ad una di queste figure, e precisamente, come fondamentale nella prosa del Segneri, all' expolitio (o, come la chiama il Segneri, " amplificazione rappresentativa ").(2) Questa figura, come tutti sanno, può realizzarsi nella sostanza in due modi: o attraverso la ripetizione della medesima idea (ripetendo o no la medesima parola o parte della medesima parola), o attraverso la dieresi dell'idea nei suoi dettagli. Concentrerò la mia attenzione sul secondo di questi due modi. Nella predica XII del Quaresimale, il Segneri parla del delitto di Caino e delle precauzioni da lui prese perché la cosa andasse segreta. Ma egli proprio di queste misure si meraviglia; e, una volta chiesto ai suoi ascoltatori: " E qual delitto potea commettersi al mondo più impunemen-te di quel che commise Caino? ", li invita a riflettere: " Non erasi aperto ancora alcun tribunale affine di riconoscere l'altrui cause ". Poi quest'idea generale - relativa all'assenza di tribunali - viene distinta negli elementi particolari che la costituiscono (o, a titolo di esemplificazione, in alcuni di essi); e, variando tutte le altre parole, ma conservando costante (in anafora, una figura che demarca parallelamente - e, quindi, ordinando - simmetrici gruppi di parole) l'avverbio non, aggiunge e specifica: " Non si sospettava di accusatori, non si trattava di giudici, non si favellava di manigoldi " (I, 126b).
Di norma, il Segneri organizza la dieresi su tre elementi. Attingo ancora alla XII predica. Vi si parla del peccatore: " Non essendo ancor la coscienza indurata nel male, non è credibile quali furie racchiuda che la tormentano "; e subito il predicatore ha cura di enumerare tre dei modi - inquietudine, vergogna, sospetto - in cui queste furie tormentano la coscienza, anche questa volta mantenendo inalterato un elemento in anafora (" quanto ") e variando il resto: " quanto sia agitata dalla inquietudine, quanto accesa dalla vergogna, quanto lacera dal sospetto " (I, 127a). Ancora: parla il Segneri del caso di Mosè (I, 127b-131b); il quale, pur avendo commessi analoghi e più gravi falli d'incredulità, fu punito soltanto per quello in cui incorse, quando dubitò che Dio potesse far scaturire l'acqua dalla pietra, e questo perché esso, a differenza dagli altri, fu commesso in pubblico; e degli altri peccati dice: " erano rimasti segreti [idea generale]: niuno li aveva veduti, niuno uditi, niuno saputi [triplice suddivisione in dettaglio] " (I, 131a). Si prenda, infine, un brano più lungo, e si constati come, pur non pronunciando la parola, il Segneri rilevi la stessa struttura retorica di fondo, anche se la dieresi si prolunga ben al di là dei tre membri, in un'epistola paolina (la prima ad Corinthios) e collabori a svilupparla; quando cioè egli vede come l'Apostolo, dopo aver enunciato l'idea generale, scenda ai particolari, ognuno dei quali egli determina ulteriormente, quasi collaborando all'ordinato arricchimento dell'ornatus:
Fa Cristo dinunziare pubblicamente per bocca dell'Apostolo Paolo, che ,. iniqui regnum Dei non possidebunt [I Cor,, 6, 9]; eppure quanto pochi son però quei che rimangonsi dalle colpe! Discende egli più minutamente ai particolari, ed esclama: neque fornicarii - eppure, quanta libertà nelle pratiche? neque adulteri: eppure quanta infedeltà ne' matrimoni? neque molles: eppure quanta dissoluzione nel senso? neque masculorum concubitorum: eppure quanti abusi nella libidine? neque fures: eppure quante fraudi ne' pagamenti? neque avari: eppure quante sozzure negl'interessi? neque ebriosi: eppure quante voracità nelle crapole? neque maledici: eppur quanta intemperanza nelle calunnie? neque rapaces: eppure quanta sfacciatezza ne' ladronecci? (I, 134a-b)
Poi, sviluppando lo spunto, egli continua: non il regno di Dio; basterebbe che un principe, assumendo questo medesimo testo paolino, sancisse di non ammettere nella sua amicizia se non i giusti, ed otterrebbe risultati eccezionalmente positivi, riducendo ad incredibile onestà di costumi il suo regno. Così argomenta il Segneri; e ricorrendo allo stesso schema (1 + 3) distingue, alla conclusione del passo, quali elementi costituiscano quella regale amicizia:
Se un principe non facesse altro, se non che pigliare di peso questo testo medesimo dell'Apostolo, e riscrivendolo tutto di proprio pugno, il facesse affiggere sopra i principali cantoni delle vie pubbliche, con questa unica varietà, che dove l'Apostolo dice: regnum Dei non possidebunt, egli cancellasse quel regnum Dei, e vi scrivesse invece: amicitiam meam non possidebunt: non dicesse, non possederanno il regno di Dio, ma dicesse non possederanno la mia grazia, non possederanno i miei carichi, non possederanno i miei guiderdoni: quanto maggiore emendazione del pubblico si vedrebbe in ciascuno di quei! (I, 134b)
Come dire: amicitia principis [somma o idea generale], idest: illius favor, illius officia, illius proemia [dettaglio o enumerazione rappresentativa]. Lo schema fa precedere la somma e seguire il dettaglio. Altra volta, invece, lo schema dell' expolitio è quello inverso, precedendo il dettaglio e seguendo la somma. In uno dei Panegirici sacri, quello intitolato La virtù del chiostro emulata nel cuor del secolo e pronunciato in Roma in onore di San Filippo Neri, Paolo Segneri, narrando dei mistici rapimenti del santo e del miracolo per cui gli si svelò ripetutamente la gloria del Paradiso, evoca, dapprima, le manifestazioni esternamente visibili che quelle estasi avevano su di lui con queste parole: " Quindi continue le lagrime, quindi infocati i sospiri, quindi profondi i singhiozzi "; poi, compendiando ad un tempo e spiegando la causa, ed allargando il periodo in un'ampia similitudine, conclude:
Quindi nel suo spirito un impeto sì impaziente di andare al Ciclo, che, non potendo bastare il corpo a reprimerlo col suo peso, faceva finalmente egli ancora come fan l'acque, che più non possono su '1 mattin ritenere nel grembo il sole, già deliberatissimo di partirsi; ch'è quanto dire, accordavasi a seguitarlo: e così, quasi trasformato ancor esso in una materia tutt'agile, tutta lieve, lasciavasi stranamente portar per l'alto. (I, 104a)
Quello che mi chiedo è se questa similitudine - per cui l'estasi viene assimilata all'evaporazione delle acque - sia stata suggerita all'oratore dall'osservazione del fenomeno naturale, o non piuttosto la trovasse egli in qualche testo della grande esegesi medievale, tra Agostino e Bernardo, tra Giovanni Crisostomo e Gregorio Magno. Il gusto, in effetti, è quello, tipico dei padri e dei commenti alla Scrittura, dell’'interpretazione mistica di tutti gli aspetti del cosmo e della loro riduzione ad uno, alla cosa cioè che non rinvia ad altra cosa e che non può essere che Dio.
Leggiamo, da questo stesso panegirico, un brano un po' più lungo di quelli finora prodotti, e si consideri - spostando ora la nostra attenzione dall' expolitio alla similitudine - il procedimento per cui albero ed uomo divengono, in qualche modo, simboli di una stessa sostanza. Il Segneri, sopra ogni altra virtù di San Filippo Neri, celebra - come dice il titolo del panegirico - ed ammira la capacità che egli ebbe di raggiungere e di conservare la santità, non ritirandosi in una aspra solitudine che ne facilitasse l'acquisizione e il possesso, ma rimanendo nel secolo e continuando a praticare quegli uomini che costituiscono una continua occasione di peccato. In Filippo il Segneri vede verificarsi la parola dell'Ecclesiastico (50, 5) " Adeptus est gloriam in conversatione gentis ", che viene quindi assunta come una sorta di Leitmotiv dell'intera predica; ed aggiunge le ragioni della sua ammirazione:
E primieramente son certo niuno essere tra voi, che ben non intenda quanto alla santità conferisca la solitudine. Vedete un albero piantato lungo la strada? Abbia pur fecondo il terreno, benigna l'aria, sollecita la cultura, correnti l'acque; troppo nondimeno è difficile che mai conduca i suoi frutti a maturità; ma, quanto più gli partorirà belli all'occhio o grati al palato, tanto ancora più presto gli perderà mercé l'ingiurie or de gli avidi passeggeri, or delle bestie indiscrete cui sta soggetto. Come poss'io non ammirare oggi pertanto un Filippo, mentre il considero ottant'anni intieri piantato, per così dire, su la via pubblica, in mezzo a' secolari, in mezzo a' mondani, in conversatione gentis; e nondimeno aver serbata sì intera ogni sua virtù, che non solamente niun frutto perde già mai, ma né pure li fiori, né pur le frondi, ch'è quanto dire né pur quei pregi di esterna composizione, che sono i primi a perir nell'età più adulta? (I, l0la-b)
A volte i due tratti - quello dell'accumulazione organizzata su tre membri e quello della similitudine che riduce ad uno aspetti diversi dell'esistente - si sommano a produrre un effetto di alta concinnitas in cui si riflette l'ordine armonioso che struttura, emanando da Dio, il cosmo. Nel panegirico pronunciato in Siena in onore di San Giovanni Battista, preso a suo tema il passo dell’evangelo giovanneo (10, 41): " lohannes quidem signum fecit nullum ", Paolo Segneri recisamente affermava che miracoli e santità non s'identificano; e citava, onde testimoniasse in favore dell'assunto, Cristo stesso, il quale, constatando che i suoi discepoli si rallegravano come di eccelsa prova del fatto che in loro fosse potestà di " incontrarsi in un zoppo, e dirgli "sii ritto"; in un febbricitante, e dirgli "sii sano"; in un indiavolato, e dirgli "sii sgombro" " (e si osserverà come nei tre elementi si ripetano, costanti, nella stessa posizione i soli due sintagmi " in un " ed " e dirgli "), nonostante che essi in effetti godessero " d'un bene ch'era dono divino, profitto pubblico, utilità universale " (e si osservi come ciascuno dei tre sintagmi faccia allitterare i due elementi che lo compongono: d-, " dono divino"; p-, "profitto pubblico"; u-, " utilità universale "), nonostante questo, dicevo, egli tuttavia " gli compresse, gli sgridò, gli riprese ", diffidandoli (Lue., 10, 20): "In hoc nolite gaudere ", confortandoli a rallegrarsi piuttosto d'essere stati annoverati nel numero degli eletti (ibidem: " gaudete autem, quod nomina vestra scripta sunt in caelis "). Poi l'oratore (ed è appunto qui, dopo le altre già osservate, la triplice similitudine che c'interessa) così continua:
Quinci io deduco una conseguenza, che sembrami assai spedita; ed è che l'operare prodigi non sia segno certo di essere scritto in ciclo, perocché se ciò fosse, chi non vedrebbe che a gran ragione n'avrebbono potuto goder gli apostoli, come gode il convalescente di ricuperar l'appetito, perché è segno di sanità; come gode il contadino di alloggiar la rondinella, perch'è segno di primavera; o come gode il sollecito marinaio di rimirar nel mar turbato i delfìni versar grand'acqua dalle ondose lor nari, perché ciò è segno di lieta tranquillità. (I, 145a)
Ora, io credo che proprio da questa sostanza tipica della cultura medievale in genere e, in special modo, della grande esegesi patristica e dottorale discenda un aspetto caratterizzante la prosa del Segneri, vale a dire la tendenza a trasformare la similitudine in metafora. Lo abbiamo visto sopra: egli non diceva di Filippo Neri " come un albero è piantato ai margini della pubblica via, così San Filippo conversò con gli uomini ", ma, fondendo in uno solo i due oggetti e solo inserendo un " per così dire ", procedeva per traslato, e vedeva direttamente un San Filippo " ottant'anni intieri piantato su la via pubblica ". E poco dopo, avendo indugiato sulla sua castità e sulla sua resistenza alle tentazioni della carne, assimilava, non per via di similitudine, ma - se così posso dire - di giustapposizione, la moderata difficoltà di quella virtù alla facilità con cui, non piantato, il giglio cresce nei campi:
Ma che? l'astenersi sol da' piaceri di senso parrà a taluno una gloria di leggier pregio: quasi che molto alla castità talor operi la natura per se medesima, e ancor ne' campi e ancor ne' prati si veggano, senza alcuna industria di provvido giardiniere, fiorire i gigli. (I, 102b)
Più difficile, continuava, che non a quelle della lussuria, resistere " alle ree suggestioni dell'interesse o agli splendidi assalti dell'ambizione ". Piaceri, dunque, ricchezze e onori. Né il Segneri enumerava a caso, obbedendo alla fantasia che andasse disordinatamente suggerendogli. Varrebbe, di per se stesso, a farcelo concludere con notevole sicurezza, il fatto che egli torni spesso su questa tripartizione. Nella Manna dell'anima, ad esempio (Maggio, XXXI), dopo aver raccomandato ai suoi lettori di adorare non gl'idoli, ma il solo Dio, chiarisce:
Qual è la somma difficultà che si sperimenti, massimamente da chi è , costretto per carità, per ufficio, per ubbidienza, a trattar con la moltitudine? È tener forti le massime della fede, a vista di tanti che parlano o che procedono contro d'esse, aderendo alle vanità. Chi idolatra il diletto, chi idolatra il danaro, chi idolatra la gloria. E come, dunque, hai tu da fare ogni volta per istar saldo a spettacolo sì nocivo? (III, 259a)
Non diversamente nel capitoletto della medesima opera dettato per il 1° d'agosto (un testo fra l'altro di altissimo interesse per la trattazione della vera libertà intesa come volontaria servitù alla legge), egli dice: " E qual obbrobrio maggiore che cedere, come un bruto, a quella violenza che ti fan la libidine, l'avarizia, l'ambizione? " (III, 406a); e torna a parlare delle tre sfrenate furie (com'egli le chiama) - " l'avarizia, l'animosità, la libidine " - nella parte II, ragionamento XIV, cap. I de Il cristiano istruito nella sua legge. Perché, dunque, tanta costanza in una simile tripartizione? Il fatto è che il Segneri si rifaceva ad una sorta di topos, sul quale mi sembra opportuno indugiare un momento. Lorenzo de' Medici - cominciamo da lui, capovolgendo in qualche modo l'ordine cronologico - scriveva di un suo sonetto (il XXI del Comento), nel quale egli proclamava di rifiutare e di lasciare ad altri pompe ed onori, delizie e tesori, e di aspirare soltanto alla visione della sua donna, contemplata nell'idea e quindi in quella che doveva essere considerata immagine, per quanto imperfettissima, della bellezza divina:
Dice adunque [il sonetto] lasciare a chi le vuole le pompe e gli alti onori e le publiche magnificenzie, come piazze, templi e gli altri edifizi publici, e per questo denota gli ambiziosi e quelli che con sommo studio cercano l'onore; dice dipoi che cerchi ancora chi vuole le civili dilicatezze, e per questo denota tutti i piaceri e lascivie umane; agiugne il tesoro, mostrando l'amore e lo studio della pecunia. Perché l'appetito nostro solamente circa queste tre cose si estende, cioè l'ambizione, voluttà corporale e avarizia, perché l'onore, il piacere e l'utile impedisce ogni altra nostra operazione.(3)
Cristoforo Landino, nelle Disputationes Camaldulensens, si chiedeva dal canto suo: " Quomodo enim aut corporeis voluptatibus deliniti aut avaritia oppressi aut ambitione turgidi quicquam altum aut egregiun cogitare poterimus? ",(4) come cioè, se infiacchiti dalle voluttà dei sensi, o oppressi dall'avarizia, o gonfiati dall'ambizione, potremo mai darci a pensieri nobili ed alti? E Feo Belcari, il famoso autore quattrocentesco di sacre rappresentazioni, diceva alla fine della più nota di esse, quella di Abraam e Isac:
E similmente chi cerca ricchezze,
Onor', piacer' sensuali e terreni,
Non può gustar di queste gran dolcezze,
Che '1 mondo non può dar questi gran beni.
E veri lumi e le somme allegrezze
El Signor dona a' cuor di fede pieni.(5)
Il topos risale indietro nel tempo fino ad Aristotele e compare già nei primi esegeti cristiani. Origene sa bene che l'amore è dato all'uomo da Dio perché, spintovi da esso, egli a lui si rivolga, ma osserva anche che molti dirigono malamente questo amore: che alcuni l'orientano verso il desiderio di danaro e le occupazioni dell'avarizia (" ad amorem pecuniae trahunt et avaritiae studium "), altri al raggiungimento della gloria, e divengono cupidi della vana gloria (" erga gloriam captandam et fìunt inanis gloriae cupidi "), altri ancora all'inseguimento delle meretrici, e finiscono per ritrovarsi prigionieri dell'impudicizia e della libidine (" erga scorta sectanda et inveniuntur impudicitiae libidinisque captivi ").(6)
In effetti, queste tre " occasioni di peccato " corrispondono ai tre affetti che San Giovanni, nella prima epistola (2, 15-16), dice appartenere al mondo e non provenire dal Padre: " Si quis diligit mundum, non est caritas Patris in eo: quoniam omne quod est in mundo concupi scenti a carnis est et concupiscenti a oculorum et superbia vitae: quae non est ex Patre >>. Ed a questa tripartizione - concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi, superbia della vita -, che trasferiva in area cristiana la tripartizione aristotelica, si rifecero quanti parlarono delle tre (come le chiamò il Belcari) " volpi ", che fanno dilungare la pecora dal gregge e dal pastore: il mondo (con cui s'identifica più specificamente l'amore delle ricchezze), il demonio (che adombra l'ambizione) e la carne (che indica i piaceri dei sensi):
Tre nimici ha l'alma nostra,
Mondo, carne e demon rio:
Chi con lor vince la giostra
Diventa figliuol di Dio;(7)
dice Feo Belcari in una lauda, un tempo attribuita al Savonarola, ed restituita a lui; e in un'altra:
Dal buon pastor la pecora smarrita
Si dilungava per sue prave colpe,
Credendo alle tre volpe:
Falso demon, traditor mondo e carne.
Ma già San Bernardo da Chiaravalle aveva scritto nel sermone XI In Cantica Canticorum " de carnis illecebris, de mundi spectaculis et de pompis Satanae ", (" delle lusinghe della carne, degli spettacoli del mondo, delle pompe del demonio "). Così nel primo di questi stessi sermoni possiamo analogamente leggere dei cristiani che quotidianamente vengono esercitati dalle guerre mosse loro " a carne, a mundo, a diabolo ", e nel LXI, con bellissimo adeguamento dei verbi ai soggetti: " Fremit mundus, premit corpus, diabolus insidiatur ".(8)
Potremmo continuare, su questo tema particolare, a nostra volontà. Ma quanto ho scritto varrà a chiarire come e da che cosa nasca la tripartizione cui il Segneri procede parlando delle tentazioni alle quali San Filippo Neri dovette soggiacere: esse sono, anche per lui, quelle della lussuria, dell'avarizia, dell'ambizione (o, se si preferisce, della " carne ", del " mondo " e del " demon rio ": e cioè, la concupiscentia carnis, la concupiscentia oculorum e la superbia vitae). Ebbene, quanto dell'imponente tradizione, che or ora abbiamo intravisto dietro i pochi rinvii che ho suggerito, fu presente nella sua memoria quando parlò delle tre insidie - " piaceri di senso ", " ree suggestioni dell'interesse ", " splendidi assalti dell'ambizione " -, che la conversatio gentis tese per interi ottant'anni alla santità di Filippo Neri? Certo non poco, dovremo concludere, ripensando allo sterminato patrimonio di letture, sacre e profane, che costituisce il fondamento della sua oratoria.
D'altra parte, un chiaro rinvio alla più diffusa e vulgata strumentazione della cultura medievale non viene soltanto di qui. Si pensi, ad esempio, al gusto tutto medievale dell' interpretatio nominisi " O padre suo veramente Felice! / O madre sua veramente Giovanna, / Se, interpretata, vai come si dice! ", aveva scritto Dante (per limitarmi ad un caso fra mille) dei genitori di San Domenico (Par., XII, 79-81); e il Segneri, a sua volta, di Sant'Ignazio di Loyola:
E certamente parv'egli avere del ruoco, siccome il nome, così questa proprietà, ch'a null’altro forse conviene se non al fuoco, di convertire ogni cosa in propria sostanza. Perciocché quanti intimamente trattavano ,con Ignazio non solamente lasciavano d'esser empi, non solamente aspiravano a farsi santi, ma divenivano anch'essi zelanti al pari della comune salvezza. Ed ecco qual fu l'occasione, dond'egli venne ad arricchire la Chiesa d'uno stuolo novello di religiosi, i quali per quanto fossero o disuniti di patria, o vari di lingua, o diversi di occupazioni, tutti fosser però d'uno stesso cuore, tutti d'uno spirito, tutti d'un desiderio, tutti d'un zelo di far tutto ardere il mondo di amor celeste. (I, 163b)
Dove i lettori apprezzeranno anche l'implicita similitudine istituita tra lo zelo religioso e l'azione del fuoco, tra l'oggetto di quello zelo e quel che è divorato dalle fiamme. Ma, a parte questo, si è visto come io citassi Dante. E si direbbe che il Segneri in questo preciso sacro suo panegirico avesse appunto in mente il poeta della Commedia, se almeno non sono casuali gli echi che, provenienti di lì, mi sembra ben di cogliere in due passi: l'uno quando, parlando delle pene fisiche a cui si era sottoposto nell'eremo di Manresa e chiedendo ai suoi ascoltatori: " Come pensate voi dunque, che del suo corpo facess'egli governo punto pietoso? " (I, 160b), va forse ricordandosi del V del Purgatorio e di Buonconte da Montefeltro, là dove (v. 108), salvatasi la sua anima per la lagrimetta di pentimento versata in punto di morte, il demonio si duole di dovere rinunciare alla parte eterna del defunto e grida: " Ma io farò dell'altro altro governo! "; l'altro, quando, meravigliandosi che riuscisse a sconvolgere tante città principali un uomo come Sant'Ignazio, " secolare ancora, ancor laico e così male in arnese, che mendicava frusto a frusto anche il viver cotidiano " (I, 163a), pare che alla sua memoria sia presente il penultimo verso del VI del Paradiso, dove Romeo di Villanuova va anche lui " mendicando sua vita a frusto a frusto ". E, in verità, la cultura profana - piegata all'abbellimento della verità - è continuamente messa a frutto dal Segneri; che ora cita espressamente i suoi autori, ora ne suggerisce tacitamente al lettore la presenza: come quando apre la Manna dell'anima, anzi la stessa " Dichiarazione dell'opera " premessa al libro, con la stessa parola e con lo stesso movimento con cui il Petrarca aveva aperto il più celebre libro di liriche che abbia la nostra letteratura: " Voi che pigliate in mano questo piccolo libro [...] " (III, 8); e non ci sarà bisogno di ricordare l' incipit petrarchesco: " Voi che ascoltate in rime sparse il suono ".
È la cultura della grande tradizione cattolica che, come si vede, sta alla base delle scelte retoriche e stilistiche che connotano l'opera del Segneri. Il che, tuttavia, più ancora che in quanto di pur vistosissimo ho fin qui sottolineato, è avvertibile nel continuo abbinamento di cultura cristiana e, reinterpretata alla luce della rivelazione, cultura pagana. In uno dei brani che ho citato poco fa, quello su San Giovanni Battista e sulla mancanza di miracoli a lui attribuiti, i miei lettori si saranno accorti che, nel quadro dei sìgna che rinviano ad altro da sé (tema di chiara ascendenza agostiniana, affrontato con forza particolarmente suggestiva nel secondo libro de Doctrina Christiana), trova posto anche quello dei delfìni che, versando in mezzo al " mare turbato " " grand'acqua dalle ondose lor nari ", annunciano il ritorno della " tranquillità ". La notizia è in Plinio, Nat. Hist., 18, 361: " Praesagiunt et ammalia: delphini tranquillo mari lascivientes flatum, ex qua venient parte, item spargentes aquam, iidem turbato tranquillitatem ". E di una tale prerogativa dei delfini parlano molti altri, da Lucano, quando (Bellum civile, V, 552) induce Amiclate preoccupato dell'imminente tempesta anche perché vede incerto il delfino nell'affrontare il mare, a Cicerone, il quale, assicurando come i delfini si rifugiassero nei porti quando ci fosse minaccia di tempesta (de Divinatione, II, 70, 145: " cum viderint delphinos se in portua coniicientes tempestatem significari putant ") e si sottraessero quindi alla vista dei marinai, sembrava autorizzare in qualche modo, se non esplicitamente certo implicitamente, la deduzione dell'opposto, che cioè, quando essi tornavano a farsi vedere, era imminente il ritorno della calma.(9) Ma non è il recupero della fonte donde il Segneri attingeva la notizia, quello che, almeno in questo punto, interessa. D'altronde, la mia conoscenza della letteratura latina (e tanto meno della greca) è ben lontana dall'essere quella d'uno specialista; sicché in altri casi mi troverei senz'altro costretto a confessare la mia incapacità di reperire l'autore e il luogo donde al Segneri provenisse questa o quella informazione. Nell'esordio, ad esempio, della predica VIII del Quaresimale si legge:
Milone Crotoniate, uomo dei più robusti, che vanti l'antichità, solca tra le altre, ad ostentare la sua mirabilissima forza, far questa prova. Pigliava un pomo, e tenendolo in mano stretto, sfidava chi che fosse a levarglielo, se poteva. Ma chi potè? Niuno mai, se non una certa debole femminella da lui diletta. Perché laddove a tutti gli altri egli resisteva fortemente, a questa sola finalmente egli arrendevasi, e gliel cedea. (I, 80)
Nessuna tra le fonti classiche registrate dai repertori, che io ho consultato, parla di questa debole femminella: non Ovidio, non Cicerone, non Aulo Gellio, non Valerio Massimo; e, quanto al pomo (o, per essere esatti, alla melagrana) stretto nel pugno, la notizia è trasmessa da Pausania (VI, 14, 6)(10) e, fra i latini, dal solo Plinio, (Nat. Hist., VII, 83) con cinque rapide parolette. Egli, infatti, dopo aver detto che nessuno, quando l'atleta Milone s'era piazzato in un certo luogo, riusciva a smuoverlo di lì, aggiunge: " malum tenenti modo digitum educebat " (" se stringeva un pomo, nessuno riusciva ad aprirgli sia pure un solo dito "). Con tutto questo, non mi sentirei di affermare che il Segneri andasse ampliando di sua iniziativa quanto trovava nei classici, magari ispirandosi a quello che, se non a un Milone, era accaduto ad un Èrcole con Iole, alla quale, nonché un pomo, ma tutto se stesso e la stessa sua dignità il figlio di Giove e di Alcmena aveva concesso.
A Plinio, invece, VII, 174 (ma ne parlano anche Apollonio, Luciano, Origene e, tra i latini, Tertulliano) risale l'aneddoto su Ermotimo, al quale - dice il Segneri - era stata concessa una prerogativa, pur paganamente favolosa, che tuttavia nella verità del fatto un grande santo cristiano possedette. Il passo deduco dal panegirico in onore di San Tommaso d'Aquino, un panegirico importantissimo anche per la presa di posizione contro l'identificazione della rusticitas con la sanctitas:
Fu scritto già da Plinio che l'anima di un tal uomo, chiamato Ermotimo, possedea questa gran virtù, che abbandonando velocemente il suo corpo qualor voleva, se ne trascorreva a pellegrinare in paesi anche remotissimi, a veder varj popoli, a notar varj costumi, ad apprender varie usanze; sicché, quando poi volle una volta tra l'altre tornare al corpo, se Io ritrovò già bruciato. Ma ciò che, letto in Plinio, per lungo tempo giustamente avea mossi gli animi a riso qual mera favola o qual solenne follia, convenne poscia in un Tommaso ammirare qual verità. Tornava spesso la sua anima al corpo, e lo ritrovava ora piagato, ora lacero, ora scottato, senza ch'ella né pure se ne fosse avvista, siccome quella che, scorsa in tanto pellegrinar su le stelle, non altro fatto aveva fin allor che trattar con gli angeli e che conversar co' beati. (I, 62a-b)
A questa favola, com'è noto, si sarebbe riferito anche il Leopardi in un passo dell'operetta morale intitolata Dialogo a"Èrcole e di Atlante, quando il primo dei due interlocutori diceva del mondo, che l'altro credeva essersi trasformato in muta ed immobile pianta, ritenerlo piuttosto dormente e di un sonno simile o a quello d'Epimenide o, appunto, d'Ermotimo: " che l'anima gli usciva dal corpo ogni volta che voleva, e stava fuori molti anni, andando a diporto per diversi paesi, e poi tornava, finché gli amici, per finire questa canzona, abbruciarono il corpo; e così lo spirito ritornato per entrare, trovò che la casa gli era disfatta, e che se voleva alloggiare al coperto, gliene conveniva pigliare un'altra a pigione, o andare all'osteria ".
Ma, lasciando da parte il Leopardi e tornando al nostro discorso, è evidente come il Segneri, attenendosi ad una gloriosa tradizione che il Petrarca legittimava rinviando alla cura stilistica con cui un Girolamo o un Agostino avevano redatto le loro opere, da una parte abbellisca esteriormente con le risorse dei classici gentili la verità cristiana, ma, dall'altra, scopra la verità che pur Dio si era compiaciuto di nascondere al fondo delle favole dei Gentili:
Uno degli uomini più invidiati che avesse l'antichità, fu, s'io non m'inganno, quel Gige, il quale per la virtù, più magica certamente che naturale, dì un certo anello tenuto in dito, si rendea talmente invisibile a' circostanti, ch'egli potè francamente commettere ogni delitto senza rossore di volto, o timor dì cuore. Invidiatissimo dovette egli esser, dico, perciocché, se è proprio di ogni malvagio l'amare di star ascosto, quanto avrebbe ciascun di loro pagato di avere in mano quasi una notte portatile a suo comando? Certo, io m'immagino che, se Gige, allettato da quella opportunità, violò una regina consenziente, trucidò un re spensierato, e di vil pastore ch'era, giunse anche a farsi, come Fiatone narrò [Rep. II, III, 359c-360b], signor della Lidia, altri più di lui scellerati non avrebbono lasciata castità intatta, non tesoro sicuro, non emolo invendicato, ma soddisfacendo ogni voglia, ma sfogandosi ogni capriccio, tutto il mondo avrebbono sfrenatamente ammorbato d'impudicizie, di ladronecci, di sangue. (I, 124b-125a)
Così Paolo Segneri va favoleggiando sul limitare della predica XII del Quaresimale. E, certo, la favola - che, tra gli altri, anche Cicerone (de Officiis, III, 9, 38) riferisce per esteso citando la fonte platonica (e alla quale anche l'Ariosto, d'altronde sulla scia del Boiardo s'ispirò per l'anello di Brunello) - doveva guadagnare subito al predicatore la divertita attenzione del pubblico; ma al di là di un tale pratico scopo, quello che dobbiamo leggere in questo, come in mille altri punti, dell'oratoria segneriana è appunto il gusto per cui la verità cristiana viene abbellita con i " fabularum integumenta Gentilium ". Dai quali a quell'oratoria vengono a volte spunti di intensa poesia. Ognuno di noi ricorda il divampare nel cuore di Didone della passione amorosa, quale ce la descrive Virgilio nel IV dell' Eneide (vv. 68-73):
Uritur infelix Dido totaque vagatur
Urbe furens, qualia coniecta cerva sagitta,
Quam procul incautam nemora inter Cresia fixjt
Pastor agens telis liquitque volatile ferrum
Nescius: illa fuga silvas saltusque peragrat
Dictaeos, haeret lateri letalis harundo.
Arde, dunque, l'infelice Didone e va delirando per tutta la città; e Virgilio la paragona ad una cerva trafitta dalla saetta, con cui il pastore che la inseguiva nei boschi di Creta la colpì, sorprendendola: corre la bestia attraverso i boschi e le macchie del Diete, e intanto il dardo mortale le resta fitto nel fianco. Si torni ora al Segneri. Il quale, nella VII predica del Quaresimale va rimproverando i cristiani che lo ascoltano di non preoccuparsi abbastanza della salute della loro anima: alcuni di essi, è ben vero, si recano non di rado in qualche chiostro di solitari, ma solo per diportarsi " o per discorrere con qualcuno di essi " (e si faccia caso, di passaggio, al riemergere della solita struttura tripartita) " delle vittorie del Tartaro, delle rotte del Transilvano, delle novelle che vengono a noi d'Irlanda; ma ", aggiunge " per rintracciar seriamente qual sia la strada, che per voi trovisi più opportuna a salvarvi, non so se mai scomodato abbiate di camera un religioso. Ma qual maraviglia, che ne trattiate sì poco, o sì poco ne discorriate, mentre neppure tra voi stessi avete in costume di talor fissarvi la mente? Chi ha gran sollecitudine di un negozio, non può da esso, benché voglia, distogliersi col pensiero ". E, ricordatesi d'un tratto della regina che non riusciva a distogliersi col pensiero dall'amore di Enea, ricorre allo stesso paragone con cui Virgilio lo metteva davanti agli occhi del lettore in tutta la sua terribile violenza, e conclude: " Pare appunto un cervo ferito, che dovunque va, porta seco affannosamente la sua saetta: vi pensa il giorno, vi ripensa la notte, e l'ha fin presente nell'animo allor ch'ei giace sepolto in alto sonno " (I, 71a-b).
Altrove - precisamente nella parte III, ragionamento XVI, cap. XV de Il cristiano istruito nella sua legge - parla di coloro che sono incalliti nel male:
Eppure questa sì lunga permanenza nell'iniquità, non solo ha per costume d'indebolire a gran segno le forze della volontà, poco franca di sua natura in resistere al male; ma anche ha di proprio l'impedire le forze della mente a conoscerlo. È avvenuto talora che un prigione, lungamente chiuso in un'oscura segreta, vi perdesse la vista di tal maniera, che anche cavato fuori alla luce non vedea nulla. Né più né meno interviene a quei miserabili che hanno lungamente giaciuto nelle tenebre del peccato. Anche dappoiché la confessione apre loro gli occhi, si può dire che non veggan punto. (II, 749a)
Può darsi che il Segneri pensasse davvero al caso dei prigionieri tratti dopo lunghissimo tempo dalla loro oscura segreta; quanto a me, ritengo molto più probabile che alla mente gli tornasse il celebre mito con cui Fiatone apre il settimo libro della Repubblica, quando un altro prigione viene anche lì tirato fuori dalla caverna e costretto a fissare gli occhi nella luce accecante (515e-516a):
E se lo si costringesse a guardare la luce stessa, non sentirebbe male agli occhi e non fuggirebbe volgendosi verso gli oggetti di cui può sostenere la vista? e non li giudicherebbe realmente più chiari di quelli che li fossero mostrati? Se poi lo si trascinasse via di lì a forza, per l'ascesa scabra ed erta, e non lo si lasciasse prima di averlo tratto alla luce del sole, non ne soffrirebbe e non s'irriterebbe di essere trascinato? E giunto alla luce, essendo i suoi occhi abbagliati, non potrebbe vedere nemmeno una delle cose che sono dette vere.
Giulio Marzot definì Paolo Segneri, nello stesso titolo della sua monografia, " un classico della Controriforma ". Approvo e condivido la definizione. Mi piacerebbe soltanto sostituire a Controriforma qualcosa che non chiudesse entro limiti cronologici non veritieri l'opera di chi, in sostanza, sembra aver guardato ed essersi rifatto, continuandone l'opera, all'insegnamento della grande esegesi patristica. Una formula più congruente potrebbe essere: " Un classico della tradizione cristiana: Paolo Segneri ".
MARIO MARTELLI
Università di Firenze
NOTE
1 - Cfr. Giulio Marzot, Un classico della Controriforma: Paolo Segneri, Palermo, G.B. Palumbo, 1948, p. 169. Le parole del Pallavicino sono tratte dall'arte della perfezione cristiana, Milano, 1839, p. 50.
2 - Cfr. Opere sacro-morali del Padre Paolo Segneri della Compagnia di Gesù, voi. I, Torino, Giacinto Marietti, 1881, pp. 37-38 [da questa edizione, con la semplice indicazione a testo del volume, della pagina e della colonna, ma tenendo presente che ogni opera ha una numerazione a parte, le successive citazioni]: « L'amplificazione rappresentativa si suoi fare nelle seguenti maniere: 1. Per la enumerazione delle partì; che si avvera quando ciò che si potrebbe dire in una sola parola, si dice con l'andar discorrendo diverse parti di quella cosa, e con andarla descrivendo con molte parole, come fa Davide nel salmo 113, che potendo dire con una sola parola generale degl'idoli de' gentili che avevano i membri ed i sensi, ma non l'ufficio loro, enumerò, amplificando, tutti i sensi uno per uno ». Quanto a Ps. 113, se ne vedano i versetti 4-7: « Simulacra gentiura argentimi et aurum, Opera manuum hominum. Os habent et non loquentur, oculos habent et non videbunt, Aures habent et non audient, Nares habent et non odorabunt, Manus habent et non palpabunt, Pedes habent et non ambulabunt, Non clamabunt in gutture suo »: in cui gli otto membri elencati da os a guttur fungono da dettaglio rispetto alla somma opera manuum hominum.
3 - Cfr. Lorenzo De' Medici, Cemento de ' miei sonetti, a cura di T. Zanaio, Firenze, Olschki, 1991 [Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, " Studi e Testi ", XXV], pp. 248-49, §§ 15-17.
4 - Cfr. Cristoforo Landino, Disputationes Camaldulensem, a cura di Peter Lohe, Firenze, Sansoni, 1980 [Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, " Studi e testi ", VI], pp. 17-18.
5 - Cito secondo la lezione del codice Magi. VII 690 (c. 116r) della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.
6 -Cfr. Migne, PG, XIII, 30, 71.
7 - Per questa e per la successiva citazione dalle laudi belcariane, cfr. la mia edizione delle Poesie di Girolamo Savonarola (Roma, Belardetti, 1968, pp. 105-06 e 108-09).
8 - I tre passi bernardiani in Migne, PL, CLXXXIII, rispettivamente alle pp.827, 788 e 1072.
9 - Anche la tradizione volgare, d'altra parte, fa un gran parlare delle premonizioni dei delfini; e basterà citare Dante (Inf, XXII, 19-21: " Come i dalfini, quando fanno segno / A' marinar con l'arco de la schiena / Che s'argomentin di campar lor legno "). Un secolo dopo il Segneri, Lorenzo Mascheroni riprendeva il topos ne L'invito a Lesbia Cidonia, 167-68: " Te, delfin vispo, cui del vicin nembo / Fama non dubbio accorgimento diede ".
10 - Tutto quello che si ricorda di Milone ci è, in effetti, trasmesso da questo luogo dì Pausania (VI, 14, 5-8), che, oltre a questo della melagrana (" Punicum malum ita manu compressa tenebat, ut ncque qui conatus esset extorqueret, neque ipse tamen illud eliderei "), cita altri aneddoti, che qui non è il caso di ricordare. |