Nettuno nella metà del Cinquecento. |
Il Cinquecento
Sei anni dopo la morte di Rinaldo Orsini, viceré degli Abruzzi,
avvenuta, nel 1420, nel palazzo baronale di Nettuno (già nell’845 colonia
saracena), il papa Martino V, Oddone Colonna, assegnò quel
feudo, imponendo una permuta agli Orsini che lo detenevano ininterrottamente
dal 1220, al nipote Cardinale Antonio Colonna. Da allora i
Colonna, tranne due brevi periodi (il primo andò dal 1501 al 1503
quando il feudo passò ai Borgia, il secondo dal 1556 al 1559 allorché
passò ai Carafa), furono signori di Nettuno sino al 1594, anno in cui
Marcantonio Colonna III, figlio primogenito di Fabrizio e di Anna
Borromeo, vendette, per far fronte a ingenti debiti, insieme alla nonna,
sua tutrice, Felicia Orsini, vedova di Marcantonio II morto nel 1584,
Nettuno, Astura e tutte le terre, per 400.000 scudi alla Camera
Apostolica, così come attesta il Breve del 15 dicembre di quell’anno di
Clemente VIII Aldobrandini, con cui il pontefice informava i «diletti
figli della comunità e uomini della […] terra di Nettuno Provincia
Marittima» di tale acquisto.
Oltre a comunicare l’avvenuto acquisto, papa Clemente VIII tenne
ad informare gli abitanti del feudo di Nettuno delle sue intenzioni di
disboscare e ridurre a coltura il territorio acquistato, nonché di voler
ristabilire, anche se solo parzialmente, l’antico porto neroniano. In
proposito così scriveva nel Breve del 15 dicembre 1594:
«[…] E siccome da poco acquistammo il territorio tutto del detto Castello [di
Nettuno], ma quasi tutto boschivo e sterposo e […] incolto, Noi, riflettendo di poterlo
in parte disboscare ed estirparlo e ridurlo a coltura, a Dio piacente speriamo di
fare, in modo di beneficiare massimamente il pubblico e privato interesse di questa
terra e luoghi circonvicini; e perché abbondino di molto frumento e di tutto quello
che umanamente necessita, e in breve tempo ne usufruirebbero in gran copia gli abitanti
dello stesso Castello e perché questo accada al più presto e sicuramente per il
commercio, ristabiliremo almeno in parte il porto dell’antica Anzio, non del tutto
rovinato […]».
Giovanna D’Aragona,
moglie di Ascanio Colonna
e madre di Marcantonio. |
Marcantonio Colonna. |
Da tale Breve è possibile evincere, sia direttamente che indirettamente,
alcune notizie circa la struttura economica del Castello di
Nettuno.
Il territorio, ancora sul finire del 1500, era quasi tutto boschivo, sterposo
e quindi incolto, di contro vi era un agglomerato urbano abitato
da poche centinaia di residenti, circondato da mura e da torri, nel cui
centro sorgeva la Chiesa Collegiata di San Giovanni, quasi sicuramente
-secondo l’opinione di alcuni storici- edificata sull’altura dove una
volta era stato innalzato il tempio del Dio Nettuno.
Nonostante la gran parte del territorio fosse incolto, il Castello
aveva sviluppato negli anni una discreta economia tale da garantire ai
suoi signori rendite vantaggiose: la coltivazione del grano e dell’orzo,
la raccolta dell’uva, nonché il taglio della legna, la produzione del carbone,
l’esistenza di una miniera di zolfo da cui si ricavava il vetriolo,
la conciatura delle pelli, la lavorazione della lana e infine soprattutto
la caccia di cinghiali e di capre selvatiche e la pesca che offriva pesci
di ottima qualità, assicuravano buoni guadagni, offrendo, da un lato,
lavoro anche a immigrati che venivano dall’Abruzzo e dal
Napoletano, e, dall’altro, favorendo lo sviluppo di un buon commercio
marittimo, proprio perché tali prodotti venivano imbarcati dal
porto di Astura con destinazione Napoli o Pisa.
La posizione geografica del Castello edificato sul mare e la relativa
vicinanza a Roma avevano reso necessaria la costruzione lungo la
costa di postazioni difensive a guardia di possibili assalti per via di
mare, sia ad opera dei turchi che avevano esteso la loro area d’influenza
dalle regioni africane, alla penisola balcanica, alla Transilvania, alla
Moldavia, alla Valacchia, all’Ungheria, sia ad opera della pirateria
barbaresca dell’Algeria, vassalla del Sultano turco.
Affinché i turchi fossero costretti a rinunciare alle loro mire espansionistiche
fu necessario che essi venissero sconfitti a Lepanto nel 1571
dalla flotta della Lega Santa, promossa da Pio V, papa Ghislieri, alla
quale aderirono la Spagna e Venezia sotto il comando di Don
Giovanni d’Austria, fratello di Filippo II e in cui -come vedremo in
seguito- ebbe parte attiva Marcantonio II Colonna, ammiraglio della
flotta papale.
Del resto, prima di questa data, la minaccia della pirateria turca e
barbaresca era tanto avvertita e temuta dallo Stato Pontificio che Pio
IV in un Breve del 10 agosto 1563 aveva insistito a «tener munite le
torri di Anzio, Nettuno, Astura e Cuprolace» contro tale pericolo, e
quindi «di ricostruire la Torre alle Caldane» affidandone la cura a
Marcantonio II Colonna, e autorizzandolo a «riscuotere denaro dalle
terre» interessate, «per mezzo del tesoriere pontificio». Se allora, per
problemi economici, non si dette seguito a quanto aveva ordinato Pio
IV per la difesa delle aree costiere esposte ai pericoli degli assalti dei
pirati che interessavano in quegli anni soprattutto il Circeo e che
annoveravano tra le loro fila figure quali il Luccicali e il Dragut, è pur
vero però, che papa Ghislieri, Pio V, non appena eletto, nel gennaio
1566, ribadì quanto aveva ordinato nel suo Breve Pio IV, obbligando,
questa volta, i signori interessati a contribuire personalmente per le fortificazioni da ristrutturare e/o da farsi al fine di «contrastare le
incursioni degli infedeli» per la «salvaguardia della popolazione civile ».
In proposito furono ristrutturate vecchie torri e costruite delle
nuove, quali Torre d’Astura, il Forte di Alessandro VI, Torre di Capo
d’Anzio, Torre Materna, chiamata così in onore di Giovanna
d’Aragona madre di Marcantonio II, Torre alle Caldane, realizzata nel
1570 dai Caffarellli, Torre Sant’Anastasio, Torre S. Lorenzo, costruita
tra il 1567 e il 1580, anno quest’ultimo in cui fu restaurata da Giacomo
Della Porta, Torre d’Ardea, Torre di Pratica, alta più di 40 metri, e
Torre Vajanica o Torre di Mezza Via, in quanto si trovava a metà strada
tra Ostia e Capo d’Anzio.
Il palazzo baronale degli Orsini, potenziato da Marcantonio Colonna. |
Quindi, come è possibile notare, le vicende del Castello di Nettuno
erano strettamente correlate a quelle dello Stato Pontificio che, proprio
in quegli anni, si avviava a divenire la più grande entità politicoeconomico-
culturale del panorama europeo e tale da superare per lo
splendore e la magnificenza della sua corte, persino le più grandi
monarchie d’Europa, se è vero che a Roma convennero, presso la corte
papale, architetti, scultori, pittori, musicisti del calibro di Donato
Bramante, Baldassarre Peruzzi, Michelangelo Buonarroti, Andrea
Sansovino, Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma, Raffaello Sanzio,
Giovanni Pierluigi da Palestrina, solo per citare alcuni dei più famosi.
Del resto, che le vicende del Castello di Nettuno risentissero direttamente
di quelle dello Stato Pontificio è dimostrato inequivocabilmente
da ciò che avvenne a livello storico-politico, nel decennio 1494-1503.
Nel 1494, durante la guerra di Carlo VIII di Francia contro il viceré
di Napoli Ferdinando d’Aragona, il Castello di Nettuno dovette
affrontare una grande minaccia ad opera dell’esercito papale.
I Colonna, che governavano quella terra dal 1426, allorché papa
Martino V assegnò la signoria di Nettuno e di Astura a suo nipote
Antonio Colonna, si schierarono con la Francia, quando, al contrario,
papa Alessandro VI Borgia, da due anni sul soglio pontificio, sostenne
in tale guerra la Spagna e appoggiò Alfonso II, ovvero il successore
di Ferdinando d’Aragona nel Regno di Napoli.
Stemma di
Marcantonio Colonna
nel palazzo Baronale
di Nettuno |
Carlo VIII.
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Re Ferdinando d’Aragona
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Orbene, il papa, stretta un’alleanza con l’influente e ricchissima
famiglia romana degli Orsini, da sempre avversaria dei Colonna,
insieme ad Alfonso II strinse il Castello di Nettuno in una morsa:
da un lato, le sue truppe occuparono le terre dei Colonna difese da
un migliaio di uomini armati, da un altro, Alfonso II, marciando da
sud, si diresse verso Nettuno nel tentativo di occupare il Castello,
tentativo che si rivelò inutile in quanto la sua marcia venne fermata
a Terracina.
Il fatto di essersi schierati contro la Chiesa costò carissimo ai
Colonna, perché Alessandro VI Borgia non solo confiscò loro tutti i
possedimenti, ma anche lanciò contro di loro la scomunica accusandoli
persino di reato di lesa maestà. Se i vari esponenti della famiglia,
quali Prospero, Fabrizio, Marcantonio I, Camillo, Muzio, etc,
non sfuggirono alle ire del pontefice, neppure sfuggì ad esse il
Cardinale Giovanni Colonna che, salvato dalla scomunica, venne
privato di tutti i suoi averi. Le terre confiscate ai Colonna vennero
assegnate da Alessandro VI ai suoi figli e ai suoi nipoti. A Rodrigo,
suo nipote in quanto figlio di Lucrezia Borgia e Alfonso d’Aragona,
furono assegnati Nettuno e Astura, Ardea, Albano, Sermoneta e
Cisterna, sotto la tutela dello zio Cesare Borgia, detto il Valentino,
alla cui figura si ispirò, per il suo Principe, Machiavelli, in quanto
Rodrigo all’epoca aveva appena due anni, essendo nato nel 1499.
Sempre in quell’anno, ovvero nel 1501, Alessandro VI commissionò
la costruzione della fortezza di Nettuno ad Antonio Giamberti da
Sangallo, che la realizzò su disegni del fratello Giuliano. I lavori di
edificazione si protrassero sino al 1503, e certamente nel maggio di
quell’anno dovevano essere in fase di conclusione se è vero che il
giorno 11 dello stesso mese il pontefice e suo figlio il Valentino si
recarono a Nettuno, trattenendovisi per più giorni al fine di controllare
l’andamento dei lavori.
Agasìas di Efeso: Guerriero combattente
(o «Gladiatore Borghese»).
La statua fu rinvenuta a Nettuno,
ai tempi di papa Paolo V (1605-1621). |
Alessandro VI Borgia.
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Di lì a tre mesi le sorti dei Colonna cambiarono in meglio in modo
radicale. Morto di malaria, il 18 agosto 1503, Alessandro VI, dopo il
breve pontificato durato appena 26 giorni di Pio III, venne innalzato
al soglio di Pietro, Giulio II della Rovere, alleato dei Colonna. Questi,
dopo aver fatto catturare Cesare Borgia, restituì ai Colonna i castelli e
le terre che due anni prima Alessandro VI aveva loro confiscato.
D’accordo con i Colonna, Giulio II fece esplorare il territorio nettunese,
operazione che -come scrive Giuseppe Brovelli Soffredini nel
suo libro, Neptunia, di cui dipinse egli stesso la copertina, pubblicato
a Roma nel 1923- portò al ritrovamento di pregevolissime opere d’arte
che vennero portate via e collocate in vari musei, quale la statua di
Apollo detta del Belvedere, il Gladiatore Combattente che portava
scolpito il nome dello scultore Agasia, figlio di Dositheo di Efeso, il
Gladiatore moribondo, Nettuno, Cibele e altre opere di notevole valore
e bellezza.
Fra vicende alterne di vita quotidiana, segnata dall’esosa politica
fiscale di Ascanio che amministrò il Castello di Nettuno e le terre di
pertinenza dopo che suo fratello Pompeo, cui era stato assegnato il
feudo, divenne Cardinale, giunse l’anno 1535, ovvero l’anno della nascta di Marcantonio II, l’uomo che segnò per circa un trentennio della sua
impronta la storia del feudo in un contesto italiano ed europeo.
Marcantonio Colonna nella battaglia di Lepanto.
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Da Ascanio, che per la sua politica fiscale aveva provocato le giuste
lamentele dei nettunesi al papa, e da Giovanna d’Aragona, nacque il
26 febbraio del 1535 a Civita Lavinia, oggi Lanuvio, Marcantonio II,
che, a soli 18 anni, diseredato dal padre, fu costretto a farsi soldato di
ventura nell’esercito spagnolo (1553-1554), distinguendosi, alle dipendenze
del Duca d’Alba, nell’assedio di Siena. Da allora sino al 1 agosto
1584 allorché morì improvvisamente, forse per avvelenamento, a
Medinaceli, in Spagna, le cronache politiche e militari si riempirono
delle sue azioni e la sua vita fu costellata da momenti di gloria e di
straordinaria soddisfazione, ma anche di rovinose cadute in seguito a
passi falsi compiuti politicamente soprattutto sul piano delle alleanze,
spesso in opposizione al papato, ma da cui pure seppe, con avvedutezza
e acume politico, rialzarsi.
Certamente l’apogeo della gloria lo
raggiunse il 4 dicembre 1571 allorché, reduce dalla vittoriosa battaglia
navale di Lepanto al comando della flotta papale, fu accolto trionfalmente
in Roma dall’intera popolazione della città santa, con in testa il
papa che gli tributò onori e festeggiamenti da eroe imperiale. Alla
mattina di quel giorno, Marcantonio II Colonna entrò in città da Porta
Capena «in sella ad un cavallo bianco con gualdrappe auree», ultimo
di un grandissimo corteo, aperto dallo sfilare delle spoglie dei turchi
sconfitti e dei prigionieri, cui seguiva il popolo, «ordinato in compagnie
con abiti militari, con alla testa i conservatori e i caporioni» e
quindi, «i patrizi a cavallo con ricchissimi e appariscenti abiti».
Superata Porta Capena, il corteo passò sotto gli archi di Costantino, di
Tito e di Settimio Severo e, attraverso il Campidoglio, giunse in
Vaticano, dove Pio V, commosso e riconoscente, «abbracciò il suo illustre
ammiraglio e lo benedisse». Trionfo certamente non immeritato
se il 7 ottobre del 1571, a Lepanto, nel corso della battaglia decisiva
della cristianità contro i turchi, Marcantonio II sostenne per dirla -con
le sue stesse parole- «il maggior impeto dell’armata nemica», catturando
la nave ammiraglia di Alì Pascià e determinando, infine, lamorte di quest’ultimo.
Nel corso di quella famosa battaglia navale,
alla quale parteciparono quasi sicuramente alcuni nettunesi,
Marcantonio II ebbe ai suoi ordini come marinaio spagnolo Miguel de
Cervantes, il futuro autore del Don Chisciotte della Mancia, sublime e
visionaria parodia dei romanzi cavallereschi, che, colpito da due
archibugiate restò ferito al petto e alla mano sinistra sulla quale portò per sempre i segni delle offese ricevute.
Il 7 ottobre 1571 la flotta della Lega Santa
e quella turca
sono l'una di fronte all'altra
davanti all'imboccatura del golfo di Corinto. |
Dopo il trionfo decretatogli a Roma, Marcantonio II Colonna fece
pressioni affinché si continuasse la guerra in Oriente. Ma tutti i suoi
sforzi e quelli del nuovo papa, Gregorio XIII, che nel frattempo lo
aveva confermato al comando della flotta pontificia, non riuscirono a
ottenere lo scopo. Difatti, dopo la pace con i turchi stipulata da
Venezia che aveva interessi economico-commerciali in Oriente, la
Lega Cristiana si sciolse e Marcantonio II, «stanco degli ozi romani e
insofferente degli intrighi della corte papale», tornò al servizio della
Spagna, tanto che nel gennaio 1577 fu nominato, da Filippo II, viceré
di Sicilia, carica che onorò per il meglio salvaguardando l’isola dalle
continue e pericolose incursioni dei corsari barbareschi, promovendo
l’agricoltura, abbellendo Palermo e Messina di monumenti ed esercitando
con rigore la giustizia, insomma amministrando con capacità e
oculatezza l’isola, contrariamente a quanto aveva fatto per il Castello
di Nettuno che, una volta riconquistato, dopo aver partecipato nel
1556 all’attacco contro Roma e contro il papa Paolo IV al fine di riprendersi
i beni di cui il padre lo aveva privato, amministrò a livello fiscale
in modo esoso così come aveva fatto Ascanio.
Cesare Borgia. |
Papa Gregorio XIII.
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Ritratto di Filippo II,
realizzato dal Tiziano (1477-1576)
Prado Madrid. |
Allora l’essere sceso in campo contro il papato, al fianco dell’Impero
e della Spagna gli procurò molti guai. Una sentenza di monsignor
Atracino lo condannò nel 1566, all’esilio con l’accusa di aver congiurato
contro la Santa Sede; Paolo IV fece seguire, il 4 maggio di quell’anno,
una Bolla con la quale, dopo aver elencato tutti i delitti commessi sino
ad allora dai Colonna contro il papato, lo scomunicò e lo privò di tutti
i possedimenti appena riconquistati. Nel frattempo Paolo IV Carafa iniziò
la guerra della Campagna di Roma e del Regno di Napoli (1556-
1557) per togliere a Filippo II di Spagna il trono partenopeo. Creò il
ducato di Paliano che assegnò al nipote Giovanni Carafa. Simile sorte
toccò al Castello di Nettuno che venne tolto ai Colonna e assegnato ai
Carafa i cui membri del ramo napoletano s’erano alleati con la Francia,
alleanza che fu utile sia ai Carafa che al papato, in quanto alla Santa
Sede interessava entrare in possesso del Regno di Napoli e massime
della fortezza di Gaeta. Una volta iniziate le ostilità, vennero esaminate
le fortificazioni dei diversi feudi, poiché quello di Nettuno, di cui
responsabile delle poche forze messe a presidio contro gli attacchi della
marina spagnola era il maresciallo Strozzi, ufficiale dell’esercito francese,
poiché quello di Nettuno -dicevo- presentava scarsa sicurezza,
Giovanni Carafa, Duca di Paliano, inviò un dispaccio al Duca di Somma
in Velletri con cui gli chiedeva di far distruggere le fortificazioni di
Nettuno.
Il Duca di Somma si oppose a tale ordine, adducendo come
motivazione che così facendo si sarebbe danneggiata la miglior terra
che si possedeva, difatti -a suo dire- si sarebbero persi 6000 scudi di entrate, finendo con il rovinare in modo irreparabile quella marina, poiché,
non essendovi più la fortezza, Nettuno si sarebbe spopolata e spopolandosi
i massari di quel Castello sarebbero stati facile preda dei corsari.
Ma Giovanni Carafa, nonostante l’opposizione del Duca di
Somma, restò irremovibile nel voler far abbattere le fortificazioni di
Nettuno.
A tale pervicace ostinazione i nettunesi si ribellarono e scacciato
il presidio francese, sbarrarono l’ingresso del Castello e inviarono
le chiavi a Marcantonio II che si trovava nel campo del viceré di Napoli,
il Duca d’Alba. Questi, su insistenza di Marcantonio II, cui il feudo di
Nettuno stava a cuore poiché da esso traeva tutto il grano e le vettovaglie
per le sue armate, ma soprattutto perché -come scrive in un suo bellissimo
saggio Alberto Sulpizi- su quel Castello aveva fatto grandiosi
progetti, ripromettendosi un giorno di armare una propria flotta superiore
persino a quella che a Palo tenevano gli Orsini, questi -come dicevo-,
su insistenza di Marcantonio II decise di attaccare di sorpresa
Nettuno e Ostia, in quanto proprio a Ostia avrebbe potuto porre le basi
marittime della sua spedizione con lo scopo di chiudere, da un lato, la
navigazione del Tevere, e dall’altro, di pressare da vicino Roma.
Dopo
una spedizione esplorativa affidata al famiglio dei Colonna, Muzio, che
riuscì a raccogliere notizie sulla scarsa consistenza del contingente francese
a guardia della fortezza, nonché sulla disponibilità delle persone
più influenti del Castello ad accogliere come liberatori gli spagnoli e i
colonnesi, Marcantonio II affidò a Filippo Moretto il Calabrese un contingente
di 150 uomini armati al fine di andare in aiuto dei nettunesi.
Giunti a Torre Astura, il Moretto fece spargere ad arte la voce che lo
stesso Marcantonio II stava per arrivare con altre forze. A tale notizia i
nettunesi, preso coraggio, assaltarono il Castello, facendo prigionieri i
pochi difensori.
Da Velletri subito si mosse una compagnia di soldati
francesi, ma questi vennero respinti dall’eroismo del Moretto. Nettuno
immediatamente, una volta liberata, si rivelò un punto strategico di
notevole importanza per il Duca d’Alba, in quanto qui poteva ricevere
vettovaglie e munizioni provenienti da Napoli e Gaeta e quindi inviarle
a Porcigliano e Ostia dove era acquartierato l’esercito spagnolo. Per
difendere il mare di Nettuno si armarono quattro fregate. Ma il nemico
per riconquistare Nettuno e chiudere la via d’acqua alle vettovaglie
inviò da Civitavecchia ben dodici galee francesi. Ancora una volta
l’eroica difesa del capitano Moretto e il valore dei nettunesi ebbero
ragione delle navi francesi, favoriti anche da una forte marea nel frattempo
sopraggiunta.
Paolo IV Carafa |
Stemma della Famiglia Carafa |
Marcantonio II riuscì a riabilitarsi definitivamente, nonché a ritornare
il legittimo signore del Castello di Nettuno nel 1559, con la morte
di papa Paolo IV Carafa, il pontefice che lo aveva accusato di infamia
e tradimento. Difatti, quando fu eletto, il 25 dicembre del 1559, il
nuovo papa, Pio IV, Giovanni Angelo Medici, a questi Marcantonio II
prestò subito atto di obbedienza, offrendo i propri servigi alla Santa
Sede. A suggello della riconciliazione che segnò, dopo quasi cinque
secoli di lotte, il ritorno dei Colonna nella sfera Vaticana, suo figlio
primogenito Fabrizio sposò nel 1562 la nipote del papa, Anna
Borromeo, nonché sorella del Cardinale Carlo Borromeo.
Lastra tombale del Capitano Moretto,
difensore di Nettuno. |
Una volta ritornato in possesso dei castelli e delle terre degli avi,
Marcantonio II si dedicò con slancio al suo passatempo preferito: la
guerra, soprattutto quella per mare. Grazie a una politica fiscale assai
esosa cui sottoponeva il suo feudo, come testimoniano, del resto, i
Capitula pubblicati il 17 giugno 1560, lo stesso giorno dello Statuto
dato ai nettunesi, in cui, a onta del pubblico diritto dei suoi sudditi,
egli mise divieti e balzelli di ogni genere: dalla tassa sulla semina dei
cereali a quella su ogni famiglia, sino ad arrivare a un vero e proprio
inasprimento della morsa fiscale nel 1568, allorché sottopose i nettunesi
a soprusi di ogni genere e a tasse ancora più pesanti sotto la
minaccia di gravi pene per chi non avesse pagato, e ancora come si
evince dall’episodio del 1575 allorché ordinò ad Andrea de Vergili,
Camerlengo di Nettuno, di esigere ogni anno dagli affittuari dei suoi
terreni ben 494 rubbi di grano, ovvero circa 44,50 quintali di grano ad
affittuario, -come dicevo- grazie a tale politica fiscale, poté acquistare
tre galee, ponendosi al servizio di Don Garzia di Toledo viceré di
Sicilia e, quindi, partecipando a una spedizione in Algeria e in seguito
ad altre missioni contro i pirati barbareschi lungo le coste
dell’Africa settentrionale, sino a raggiungere l’apogeo della fama e
della gloria in qualità di ammiraglio della flotta pontificia (grado che
gli era stato conferito nel 1570, una volta tornato a Roma,dopo la pace
di Cateau-Cambrésis, e una volta reintegrato nel seno della Chiesa
cattolica) con la vittoria sui turchi a Lepanto, come luogotenente di
don Giovanni d’Austria, di cui, del resto, ho già dato notizia.
Però l’azione politico-amministrativa di Marcantonio II non si
distinse solo per la sua fiscalità esosa e per il disprezzo nei confronti
dei suoi sudditi che alcune volte lo portarono a non rispettare i diritti
di proprietà, tanto da usurpare alcune terre appartenenti alla comunità
situata precisamente nel territorio di Sant’Anastasia come risulta da
una Deliberazione del 22 novembre del 1579 ad opera di certo
Domenico Guarellino, ma si distinse anche per alcune opere di carattere
architettonico come il restauro che fece fare nel 1565 del palazzo
di famiglia nel Borgo, o come quello delle antiche mura del Castello
per non tacere poi della costruzione di altre mura eseguendo, in tal
senso, il Breve di papa Pio IV dei Medici del 7 febbraio 1563 e rinnovato
due anni dopo, il 10 agosto del 1565.
Mentre si svolgeva la parabola politico-militare di Marcantonio II
Colonna, Nettuno visse tre avvenimenti che segnarono in profondità la sua storia: il primo di carattere religioso, il secondo di costume, il
terzo, infine, culturale.
Nel 1550, tra l’inverno e la primavera, per sfuggire a una tempesta
di mare durata tre giorni, approdò alla confluenza dell’antica insenatura
del porticciolo Caenon colla foce del fiume Loricina, nei cui pressi
sorgeva la piccola chiesa dell’Annunziata, la statua lignea della
Madonna col Bambino, o Madonna delle Grazie, che alcuni marinai
stavano trasportando su una nave dall’Inghilterra, specificamente da
Ipswich, a Napoli per sottrarla alla persecuzione iconoclastica, di
Enrico VIII prima, e di Edoardo VI poi, contro i cattolici in seguito allo
scisma anglicano.
Il vecchio Santuario, che nel 1550 accolse
l’arrivo della statua della Madonna
proveniente dall’Inghilterra.
Rappresentazione dell’approdo
della Madonna a Nettuno
(Acquaforte di Georg Keil - 1971).
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Venticinque anni più tardi, in occasione del Giubileo, papa
Gregorio XII, notati gli sguardi irriverenti dei pellegrini, venuti a
Roma, alle corte vesti saracene delle donne nettunesi, ordinò loro di
indossare vesti più lunghe e in proposito, a spese della Camera
Apostolica, fece apportare a tali vesti le dovute modifiche.
Infine nella primavera del 1581 venne rappresentata -come scrive
E. Carrera- la favola pescatoria L’Alceo, dal forte impianto scenico, che
l’allora poco più che ventenne Antonio Ongaro aveva composto per
gareggiare -come vuole l’Ingegneri- con l’Aminta del Tasso che fu rappresentata,
per la prima volta, il 31 luglio 1573 nell’isoletta fluviale di
Belvedere sul Po presso Ferrara, dove sorgeva la villa ducale degli
Estensi, alla presenza di Alfonso II e della sua corte, e messa in scena
dalla compagnia di comici dell’arte, i Gelosi.
L’Aminta, già prima di
essere stampata nel 1583, eccitò -come scrive il Carducci- «per tutto la
velleità degli imitatori» se si pensa che già ad appena un anno dalla
sua rappresentazione si ebbe, nel 1574, il Ligurino di Niccolò degli
Angeli marchigiano, cui fecero seguito il Pentimento amoroso del Cieco
d’Andria nel 1576, la Fillide di Cesare della Valle napoletano nel 1579
e il Pastor Fido cui Battista Guarini pose mano nel 1580, anche se poi
venne pubblicato circa dieci anni più tardi. L’Alceo, definito
dall’Eritreo «l’Aminta Madidus» non solo era un’ opera celebrativa di
un non ben individuato matrimonio di qualche personaggio della
corte dei signori del Castello di Nettuno, ma -come ho già dimostrato
in altra sede- finì con l’essere anche un’ opera consolatoria del dolore
dei Colonna per la perdita del primogenito di Marcantonio II,
Fabrizio, morto, a soli 27 anni, nel 1580, a Gibilterra al seguito dell’esercito
spagnolo nella guerra che Filippo II aveva intrapreso contro
il Portogallo per la successione a quel trono, morte sopraggiunta a
causa di un «fiero morbo».
La morte prematura di Fabrizio non aveva
colpito l’opinione pubblica di allora per aver egli lasciato la giovane
moglie Anna Borromeo e i due figli, Marcantonio III e Filippo in tenerissima
età, quanto piuttosto perché la sua salma, imbarcata per essere
tumulata a Roma, fu inghiottita dalle onde durante una furiosa
tempesta che causò il naufragio della nave che la trasportava.
La tristissima sorte del ventisettenne Fabrizio colpì profondamente
il giovane Ongaro che da Padova, dove aveva studiato legge e dove si
era trasferito ancora infante dalla natia Venezia, era approdato dapprima
a Napoli e poi nel 1578 a Roma e da qui, infine, sul finire di
quello stesso anno, al seguito di Fabrizio Colonna a Nettuno, quasi
sicuramente su sollecitazione presso Fabrizio dei fratelli veneziani di
origine spagnola, Girolamo e Michele Ruis, trapiantati nella città santa, suoi primi protettori romani, per celebrare i quali compose il
poemetto Hospitium Musarum di quattrocento esametri, in cui si
immagina che le Muse convengano nel palazzo romano dei due fratelli;
tema questo che riappare nell’ultima scena dell’Atto V a chiusura
dell’Alceo, nonché nel sonetto messo a prefazione della sua favola
pescatoria che, con dolcezza di verso e grande abilità scenica, narra
l’amore infelice del giovane pescatore nettunese Alceo per la bellissima
Eurilla anch’essa giovane pescatrice, prima riottosa all’amore e infine cedevole ad esso, e in cui fanno da sfondo personaggi quali
Timeta (lo stesso Ongaro) e Alcippe, la saggia vecchia consigliera di
Eurilla, nonché altri personaggi quali Tritone, Lesbina, Fillira, Siluro,
Mormillo, Glicone, Venere che appare nel Prologo e l’Eco, artificio tecnico
per la prima volta introdotto nella poesia rappresentativa.
Sempre per ricordare la morte di Fabrizio Colonna, l’Ongaro scrisse
un sonetto d’occasione, eppure non privo di una qualche commozione,
l’unico –come è stato sottolineato- della sua varia e numerosa produzione
(in proposito si ricordino le due egloghe Fillide e Glicone di cui
numerosi luoghi ritornano nell’Alceo, e, ancora, sonetti, composizioni
latine e in dialetto veneziano) rivolto a un personaggio della famiglia
Colonna, dal titolo In morte di Fabritio Colonna.
Frontespizio edizione Princeps. |
Alceo |
Certo, se si riflette sul fatto che, allorché nel 1582, l’anno dopo della
rappresentazione nettunese, pubblicò l’Alceo a Venezia per i tipi di
Francesco Ziletti, la dedicatoria dell’opera non era rivolta ai Colonna,
ma ai fratelli Ruis cui riconosceva una grande liberalità nei confronti
degli artisti, si deve necessariamente evincere che tranne il legame di
affetto e di gratitudine con e verso Fabrizio, l’Ongaro non si ritenne
mai suddito della potente famiglia dei Colonna che pure lo aveva
ospitato a Nettuno, Castello da cui trasse ispirazione per la sua opera.
In compenso però, egli rese, seppur non nato a Nettuno, un grande
servigio al Castello che lo aveva accolto, immortalandolo nella sua
poesia e rendendo luoghi quali il Circeo, Torre Astura, lo Scoglio
d’Orlando, il giardino del palazzo baronale descritti nella sua pescatoria
la cui storia -come si legge nel frontespizio dell’edizione Ziletti- «si finge ne i lidi dove fu Anzio, dove è ora Nettuno, Castello dei
signori colonnesi» patrimonio non solo di Nettuno ma della cultura
nazionale e internazionale.
Ritratto di Antonio Ongaro che declama l’Alceo alla corte dei Colonna.
(cm 400x260) Comune di Nettuno. |
Per terminare la descrizione degli eventi storici che interessarono
Nettuno nel Cinquecento, nel secolo cioè che fu attraversato dalla
Riforma Protestante di Martin Lutero con le tesi contro le degenerazioni
del papato, affisse, nel 1517, sulla parete del palazzo ducale di
Wittermberg; dal sacco di Roma del 1527 a opera dei Lanzichenecchi
al comando del Duca Carlo di Borbone Connestabile di Francia al servizio
dell’Imperatore Carlo V d’Asburgo, il quale l’anno precedente, il
1526, aveva sollevato contro lo Stato Pontificio i Colonna i cui soldati,
su ordine del Cardinale Pompeo Colonna, devastarono la città santa;
dal Concilio di Trento, convocato, quale reazione della Chiesa
Cattolica alla Riforma Protestante, nel 1536 da Paolo III che, iniziato
nel 1545, si chiuse solo nel 1563; dallo scisma anglicano con la persecuzione
iconoclastica contro i cattolici prima di Enrico VIII e poi di
Edoardo VI, nonché dal nepotismo dei papi; dalle lotte per il possesso
dell’Italia tra Francia, Spagna e Impero d’Asburgo, dal declino
della Spagna e dalla minaccia turca, e, infine, a livello culturale da
quel grandioso fenomeno conosciuto come Rinascimento, inevitabilmente
esauritosi sul finire del secolo, a Manierismo - dicevo - per terminare
la storia di Nettuno nel Cinquecento, è da aggiungere che a
poco più di un anno da quel 13 settembre 1594 in cui Marcantonio III
e sua nonna Felicia Orsini vendettero il feudo di Nettuno, il giovane Marcantonio III che appena quattro giorni prima aveva avuto un
figlio da Orsina Damasceni Peretti, al quale era stato imposto il nome
di Marcantonio IV, morì alla giovanissima età di venti anni. Da lì a
otto mesi, il 27 luglio 1596, morì a Roma Felicia Orsini, la vedova di
Marcantonio II e madre sfortunata di Fabrizio che per i lutti che la colpirono,
(nel 1580 la perdita del figlio e quattro anni dopo quella del
marito), si autodefinì «l’infelice Felicia Orsini». Se con la morte della
vedova di Marcantonio II si concludeva la lunga parabola spesso contraddittoria
nella sua evoluzione politico-economica della famiglia
dei Colonna sul Castello di Nettuno, miglior sorte certamente non
toccò ai nettunesi una volta passati direttamente sotto il governo della
Santa Sede. Ne è testimonianza una lite sorta nel 1598 tra l’affittuario
di alcune terre, tale Savelli, e la comunità di Nettuno che -come scrive
Vincenzo Monti in un suo documentatissimo saggio- ricorse a papa
ClementeVIII, invocando l’intervento del Cardinale Cesare Baronio
per risolvere la controversia.
Ritratto di Papa Clemente VIII. |
Quest’ultimo, il 28 giugno di quell’anno, scrisse ai nettunesi da
Ferrara, assicurandoli della volontà del pontefice di risolvere in loro
favore la lite.
Il 21 maggio 1599, papa ClementeVIII emanò una disposizione, la Barberina, detta così perché la sua stesura fu affidata al chierico di
camera Maffeo Barberini, il futuro Urbano VIII, con la quale furono
imposti ai nettunesi nuovi e pesanti sacrifici. Il Consiglio Civico, con
un atto del 22 novembre di quell’anno, proposto dal consigliere Paolo
Segneri, deliberò di andare a Roma con una grande rappresentanza di
popolo, per protestare contro la Barberina.
Il Seicento
Nettuno nel Seicento. |
Palazzo Pamphilj, facciata. |
L’inizio della costruzione di una villa in piazza Colonna che in
seguito, ampliata e, quindi, affrescata da Pier Francesco Mola, prese il
nome di Palazzo Doria-Pamphilj, ad opera del Cardinale Bartolomeo
Cesi nel 1600, di fatto chiuse definitivamente il Cinquecento e aprì le
porte al nuovo secolo.
Così, se il Cinquecento nettunese fu -come si è potuto constatareimprontato
e segnato dalla straripante personalità politico-militare di
Marcantonio II Colonna, il nuovo secolo, al contrario, fu segnato soprattutto
dalle personalità artistiche del pittore Andrea Sacchi e del gesuita
Paolo Segneri, e marginalmente dal passaggio di Pier Francesco Mola,
personalità artistiche preannunciate, sul finire del Cinquecento, da
quella di Antonio Ongaro, soprattutto per certi temi della poesia di quest’ultimo
che anticiparono alcuni tòpoi caratteristici del Barocco.
È fuor di dubbio che quella maturata a Nettuno tra Manierismo e
Barocco, fu una fortunata e certo irripetibile stagione culturale, concretizzatasi
in un particolare momento della storia politica, economica,
sociale e civile della nostra penisola, caratterizzata e profondamente
segnata dall’emergere e affermarsi di una forma di economia e di
organizzazione precapitalistiche, di cui un segno evidente fu la divisione
sociale del lavoro e il contrasto tra città e campagna, riflesso persino
nella letteratura e che nel Seicento mise in crisi e vide sfaldarsi le
certezze del secolo precedente, gettando le basi della modernità.
Arisentire di ciò fu soprattutto l’intellettuale del Seicento che non fu,
come nel secolo precedente, adulatore del signore di cui era al servizio
e da cui riceveva pane e protezione, fosse egli principe o marchese,
conte o cardinale, ma a causa della divisione sociale del lavoro, di cui
detto, che ne specificò le caratteristiche e ne mutò la condizione, fu
costretto a vivere del suo lavoro come qualsiasi altro professionista, e
quindi non più all’ombra protettiva di qualche signore mecenate. Però,
nel passaggio dal Cinquecento al Seicento, l’intellettuale, pur mutando
i propri caratteri, conservò nella società un ruolo subalterno e secondario
e mantenne inalterato il suo distacco dalla realtà.
Ritratto di Carlo II d’Inghilterra |
Paolo Segneri |
Tale fuga dal mondo -come vuole Walter Benjamin- fu propria del
Barocco, in cui la crisi delle certezze rinascimentali sfociò, anche se
solo in rarissimi casi, in un’arte della crisi, mentre nella maggior parte
dei casi -come scrive Guido Morpurgo Tagliabue- sfociò in un’arte
della conciliazione, della soluzione, del risultato facile e artificioso,
ancorché iperbolico. Insomma, l’intellettuale che si formò sul finire
del Cinquecento e massime nel Seicento, fu un intellettuale che, evitando
di “sporcarsi le mani” con la realtà, finì per abdicare alla sua
propria responsabilità personale-storica, scegliendo di essere puro letterato,
o, che è lo stesso, puro ricercatore di una utopica e asettica isola
dell’arte, nella quale potesse realizzare un ideale di vita serena e tranquilla.
Proprio su tali basi, fiorirono numerose, in quegli anni, le
Accademie, vere e proprie istituzioni letterarie, in cui gli intellettuali
si riconoscevano parte di un gruppo, di un micro-universo culturalmente
omogeneo. Accademie che, specialmente nel Seicento, sorsero
numerose sia nelle grandi città, sia nei centri di periferia e che esprimevano
o una volontà di impegno intellettuale e di resistenza ai condizionamenti
esterni (Accurati, Coraggiosi, Illuminati, Infaticabili,
Riformati, Risoluti), oppure denunciavano l’effettiva situazione di disagio
(Addolorati, Inutili, Negletti, Sfaccendati), o, infine, avevano scopi
scientifici ben marcati e finalizzati come l’Accademia dei Lincei, fondata
a Roma nel 1602 dal Principe Federico Cesi e che annoverò fra i
suoi membri anche Galileo Galilei, e come l’altra del Cimento, fondata
nel 1657, da Leopoldo di Toscana, il cui prestigio e la cui notorietà le
vennero da scienziati quali Vincenzo Viviani, Francesco Redi,
Lorenzo Magalotti, Evangelista Torricelli. A queste due ultime
Accademie seguirono più tardi, a livello europeo, la Royal Society di
Londra, costituitasi negli anni quaranta, ma riconosciuta ufficialmente
da Carlo II d’Inghilterra solo nel 1662, e l’Accademia Royale des
Sciences, istituita nel 1666 dal ministro francese Jean Baptiste Colbert.
Andrea Sacchi. |
Pala di altare di Andrea Sacchi.
Madonna di Loreto e Santi
nella Chiesa di San Francesco. |
Del resto, tale cambiamento dell’intellettuale secentesco era speculare
di un’Italia notevolmente mutata -come sottolinea Claudio
Varese- rispetto a quella del Rinascimento: mutata nei centri culturali,
mutata nel rinnovato zelo religioso, mutata nelle convezioni sentimentali
dell’amore che non era più quello illustrato dai poeti della tradizione
cortese, ma era quello dipinto e condannato dai predicatori
della Controriforma quindi «non nobiltà, spiritualità, ma lascivia,
voluttà, peccato»; mutata infine nella concezione che l’uomo aveva di
sé stesso nell’universo e che aveva finito con l’accentuare la consapevolezza
della sua piccolezza e del suo smarrimento di fronte al creato.
In questo clima di rinnovamento si inscrissero sia le vicende artistiche
di Andrea Sacchi, Paolo Segneri e Pier Francesco Mola, sia la storia
politico-economica di Nettuno.
I tre intellettuali in questione, ebbero a che fare con Nettuno, e
quindi parteciparono e contribuirono alla sua storia: Pier Francesco
Mola, più marginalmente, e direi, occasionalmente, che non Sacchi e Segneri.
Il primo vi soggiornò il tempo necessario per portare a termine gli
affreschi di Palazzo Pamphilj, il secondo vi ebbe la sua formazione artistica risiedendovi a lungo da fanciullo proveniente da Fermo dove era
nato da Niccolò Pellegrini, e non quindi a Nettuno, (come al contrario
vogliono G. P. Bellori, G.B. Passeri, H. Posse, A. D’Avossa, B. Tavassi La
Greca e soprattutto Giuseppe Brovelli Soffredini secondo il quale il
padre sarebbe stato il nettunese Giacomo Sacchi), in quanto adottato -
come è stato dimostrato, nel 1977, da Ann Sutherland Harris- da
Benedetto Sacchi di cui prese il cognome, pittore del luogo di mediocre
levatura; il terzo infine vi ebbe i natali il 21 marzo del 1624.
Tutti e tre, come del resto pochi anni prima, nell’ultimo ventennio
del Cinquecento, Antonio Ongaro, parteciparono e vissero quel contrasto
in atto nella società che allora andava formandosi dando ad
esso tutti la stessa risposta, ovvero evitando di prendere parte a quel
contrasto e rifugiandosi nell’arte, l’Ongaro intendendola come una
sorta di dilettevole inganno, gli altri come il luogo privilegiato di
una ingegnosa meraviglia, sebbene il Barocco di Sacchi e di Segneri
fosse un Barocco moderato, lontano dagli eccessi di Barocco proprio
della gran parte delle poetiche del tempo: dal marinismo tutto giocato
sulla metafora, al concettismo tutto tramato sul paralogismo e
le agudezze, si pensi al Gracian e in area italiana al Tesauro e al
Pellegrini.
In questo clima di rinnovamento politico-economico-culturale non
solo si inscrisse la storia di Sacchi che dipinse a Nettuno la pala dell’altare
della chiesa di S. Francesco situata di fronte alla fortezza fatta
edificare da papa Borgia, chiesa che la tradizione vuole fondata direttamente
dal poverello d’Assisi, durante un suo viaggio a Gaeta, e solo
di passaggio quella del Mola, ma anche e soprattutto quella di Paolo
Segneri. Questi, nato a Nettuno, educato nel Collegio Romano, entrò
all’età di 13 anni, precisamente il 2 dicembre del 1637 nella
Compagnia di Gesù, e ordinato sacerdote nel 1653, si distinse e per
aver rinnovato l’oratoria sacra dell’epoca con la sua predicazione in
cui confluivano le letture delle Sacre Scritture, dei Padri della Chiesa
e delle orazioni di Cicerone, e per le sue missioni rurali in Italia condotte
insieme con il Pinamonti, per le quali si serviva di un attenta e
studiata coreografia atta a stupire il popolo: dalla processione di penitenza
in cui risuonava la sua parola accesa, alla flagellazione corporale
che si infliggeva sul pulpito, nonché dalla copiosissima produzione
di testi quali i Panegirici Sacri, il Quaresimale, La Concordia, La Manna
dell’Anima, Il Cristiano Istruito, etc... La fama e la stima di cui godette
all’epoca lo fecero spesso richiedere come consigliere e/o mediatore di
questioni difficili da risolvere persino da personalità politiche come
quella del Granduca Cosimo III, presso la cui corte a Firenze egli spesso
soggiornò.
Come dicevo, in questo clima di rinnovamento si inscrisse anche la
storia di Nettuno, la cui situazione politica, ormai stabilizzatasi con il
passaggio del Castello dai Colonna alla Santa Sede, favorì un ben visibile
e concreto sviluppo economico. Difatti, almeno sino al 1656,
Nettuno visse un periodo di relativa prosperità economica, grazie
soprattutto alle ingenti somme di denaro ivi confluite e destinate
all’edilizia pubblica e privata.
Pier Francesco Mola. Storia di Sant’Eustachio nel palazzo Pamphilj. |
Il secolo -come già ho avuto modo di scrivere- si aprì con la costruzione
di un edificio, il casino Cesi, nel centro del Borgo medievale su
commissione del Cardinale Bartolomeo Cesi, la cui famiglia lo possedette
sino al 1648, allorché il 30 settembre di quell’anno venne venduto
da Federico Cesi, III Duca d’Acquasparta, a Camillo Pamphili
appartenente alla famiglia romana dei Pamphili appunto, originaria
di Gubbio che, con Antonio, il quale ottenne privilegi e favori da papa
Sisto IV, si era trasferita sul finire del 1400 a Roma. Camillo Pamphilj,
nipote di Giovan Battista Pamphilj, papa Innocenzo X, due anni più
tardi fece ingrandire il Palazzo. Poiché nell’area circostante vi erano,
intorno alla piazza, piccole case, l’edificio venne progettato e realizzato
con disposizione parallela al mare, in modo che si affacciasse sullo
stretto spazio pubblico esistente senza perdere l’aspetto di palazzo
nobiliare, nonostante le ridotte dimensioni dello spazio occupato. Vi
lavorò, con un pregevole ciclo di affreschi, si ricordi per tutti L’Allegoria della Pace, Pier Francesco Mola, detto il ticinese, pittore
eclettico che fondeva la pittura di Raffaello e Michelangelo con i colori
tenui di Tiziano e del Guercino e che fece parte dell’Accademia di
San Luca nel 1655, di cui fu principe dal 1662 al 1663, ossia sino a tre
anni prima della sua morte, Accademia quella di San Luca in Roma di
cui fece parte anche Andrea Sacchi, così come, in passato, Antonio
Ongaro aveva fatto parte dell’Accademia degli Illuminati, fondata
dalla marchesa Isabella Pallavicini, suocera di Mario Farnese, con il
nome di Affidato.
Pier Francesco Mola.
|
Nettuno, Palazzo Pamphilj,
Pier Francesco Mola, La Sapienza. |
Nel tempo che intercorse dal 1600 al 1650, la Camera Apostolica
restaurò, tra il 1625 e il 1626, le fortificazioni del Borgo Medievale e
ricostruì il baluardo San Rocco, verso levante, armandolo con batterie
di artiglieria.
Urbano VIII, papa Barberini, e monsignor Cesi, tesoriere della
Camera Apostolica che papa Cemente VIII aveva inviato nel 1600 a
Nettuno quale sopraintendente ai lavori per la razionalizzazione
urbanistica di quel piccolo Borgo costiero, a ricordo dell’opera appena
terminata, posero sulle mura fortificate i propri stemmi.
Nel frattempo da Clemente VIII a Urbano VIII si erano avvicendati
sul soglio di Pietro altri tre papi: Leone XI, Paolo V e Gregorio XV,
preceduti, a loro volta, non solo da Clemente VIII, ma, dal 1590 al
1592, da Urbano VII Castagna che tenne il soglio di Pietro solo per 13 giorni (dal 15 al 27 settembre del 1590), da Gregorio XIV (1590-1591)
e, infine, da Innocenzo IX (159I-1592).
Il 20 gennaio di quattro anni prima del restauro delle fortificazioni
del Borgo e della ricostruzione del baluardo San Rocco, precisamente
nel 1622, Gregorio XV, papa Ludovisi, si era recato a Nettuno per visitare
la chiesa e il convento di Santa Maria del Quarto, costruito dalla
comunità nettunese tra il 1619 e il 1621, con a capo il Priore Francesco
Segneri e abitato per un periodo dai Riformati di San Francesco, quindi
dagli Osservanti, e in seguito, fino al 1660, dai padri Minimi di San
Francesco di Paola. In seguito, dopo che nel 1627 fu sottoposta a opere
di restauro, la chiesa fu ceduta in perpetua proprietà al Capitolo di
San Giovanni di Nettuno dal Cardinale, Vescovo di Albano, mentre
con decreto di Alessandro VII il convento, con l’annesso terreno, fu
venduto a un tale Papi di Marino, i cui eredi lo rivendettero al principe
Colonna e questi al Capitolo di Nettuno verso il 1700.
La chiesa di Santa Maria del Quarto. |
Ritratto di Papa Urbano VIII.
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Due anni prima dell’Anno Santo del 1650, durante il quale cinquecento
nettunesi, tra uomini e donne, si recarono in pellegrinaggio a
Roma per l’acquisto del Giubileo e precisamente il 24 aprile del 1648
morì, a Sezze Romano, Padre Giovanni Battista, cappuccino, al secolo
Bernardino Rosselli, nato a Nettuno nel 1584, sacerdote, predicatore,
uomo di grande umiltà che fu sin da vivo in concetto di santità. Da lì
a pochi anni Nettuno pagò un duro prezzo alla stabilità economica
raggiunta, ancora una volta grazie a ingenti somme di denaro riversate
nel suo territorio per l’edilizia. Nel 1648, o come vuole Giancarlo
Baiocco nel 1647, a pochi anni dalla sua nomina a Cardinale, avvenuta
nel 1643, ad opera di Urbano VIII, Vincenzo Costaguti, appartenente
ad una famiglia di banchieri genovesi trapiantati a Roma nel 1585,
fece costruire Villa Bell’Aspetto nel mezzo di uno stupendo parco di
circa quaranta ettari prospiciente il mar Tirreno, che restò di proprietà
dei Costaguti sino al 1818, dopo che alla morte del Cardinale
Vincenzo essa passò in eredità al fratello Cardinale Giovan Battista
Costaguti che nel 1674 donò all’oratorio di Nettuno un’opera marmorea
attribuita al Sansovino. Infatti nel 1818 il marchese Luigi Costaguti
la vendette a Giovanni Torlonia e in seguito, il 3 maggio 1832 i fratelli
Alessandro e Carlo Torlonia la vendettero, a loro volta, al principe
Camillo Borghese la cui famiglia tuttora la possiede.
Villa Borghese. |
Dicevo che, da lì a pochi anni Nettuno pagò un duro tributo alla
sua stabilità politico-economica raggiunta in quegli anni. Nel 1656,
a poco meno di dieci anni cioè dall’edificazione di Villa Bell’Aspetto, dal Regno di Napoli il flagello della peste si abbatté
sul territorio nettunese. Le vittime del morbo furono numerosissime,
tanto che la popolazione si ridusse a solo 800 persone dei 3000
abitanti che contava. Nel terrore che il morbo avesse potuto propagarsi
mediante carte vecchie, si bruciarono libri, registri e documenti antichi,
e a sollievo dei più poveri venne istituito il Monte Frumentario per la
distribuzione del grano.
Pagato questo pesante tributo di uomini e di ricchezza al contagio
e una volta debellatolo, Nettuno sembrò attraversare un periodo di
nuovo relativo benessere, segnato da una lenta e costante ripresa economica
e quindi demografica, grazie ancora una volta alla massa di
denaro messo in circolazione per dar avvio alla realizzazione della
costruzione del porto, promesso a suo tempo, da Clemente VIII.
Prima di parlare della realizzazione di questa importante opera
pubblica, mi corre l’obbligo di soffermare la mia attenzione su un
aspetto di carattere religioso tuttora tanto caro al popolo di Nettuno
che proprio in questi anni trovò il suo compimento e quindi la sua
definitiva consacrazione.
Nel 1661, a cinque anni dalla peste, il Cardinale Tornali, Vescovo di
Albano, promosse la tradizione della solenne processione della
Madonna delle Grazie: ordinò che la statua di Nostra Signora delle
Grazie fosse portata in processione la prima domenica di maggio
nella chiesa Collegiata. In seguito a tale solenne celebrazione si fornì la statua di un trono di cui era sprovvista e sul quale da allora venne
adagiata la Madonna col Bambino.
Tra il 1697 e il 1700 finalmente venne realizzato il porto tanto atteso
dai nettunesi. Innocenzo XII, papa Pignatelli, il 21 aprile 1697, su
pressione dei nettunesi e dei napoletani suoi concittadini, ai quali, per
motivi economico-commerciali stava a cuore che si realizzasse il porto
nel Castello di Nettuno, si preparò a realizzare le promesse fatte alla
cittadinanza da Clemente VIII. Si recò, quel 21 aprile, a Nettuno, ospite
di Giovan Battista Pamphilj-Aldobrandini, -la cui fortuna familiare
fu favorita dalla madre di Camillo, Olimpia Maidalchini e da sua
moglie Olimpia Aldobrandini, già vedova di Paolo Borghese-, ospite
nell’omonimo palazzo ove dimorò per quattro giorni, sino al 25 aprile,
portando con sé una commissione di dodici Cardinali e due tecnici,
l’architetto Carlo Fontana e l’ingegnere idraulico Alessandro
Zinaghi, promotori di due progetti alternativi l’uno all’altro.
Innocenzo XII, seguito da una grandissima folla, si recò a Capo
d’Anzio per individuare il luogo più adatto alla costruzione del porto.
Dopo attento esame, il progetto di Carlo Fontana che prevedeva la
costruzione del porto a occidente, utilizzando i moli neroniani ancora
esistenti, venne scartato, e venne, invece, approvato quello di
Alessandro Zinaghi che, prevedendo una spesa assai minore, riteneva
più opportuno addossare il nuovo porto al molo orientale antico; con
tale progetto in definitiva si finì con l’abbandonare del tutto, e quindi
di superare, quella che era stata l’intenzione di Clemente VIII.
I lavori, iniziati il 16 maggio 1698, terminarono, non senza aver
superato più di una difficoltà, nello stesso mese di due anni dopo.
P. Reschi,
veduta di Nettuno dal porto neroniano,
1686-1692. |
I nettunesi entusiasti della realizzazione del loro sogno e inconsapevoli
di ciò che di lì a poco sarebbe avvenuto, grati al papa per quella
costruzione, vollero che il nuovo porto si chiamasse Innocenziano.
Il 31 marzo del 1700, un mese e mezzo prima della fine dei lavori,
Innocenzo XII acquistò dal principe Giovanni Pamphilj Aldobrandini
tutta la valle intorno al nuovo porto, al fine di permettere ai nettunesi di costruirvi
le loro abitazioni in modo da agevolarli nei commerci marittimi, anche
perché all’infuori del villino Cesi, la Torre di Capo d’Anzio, una vecchia
e malandata osteria ed alcune misere capanne, il luogo era ancora
disabitato.
V. Cornelli, Porto Antico d’Anzio.
Porto Nuovo d’Anzio, 1698-1699. |
Papa Benedetto XIV. |
Furono costruiti alloggi per i funzionari del porto e per i sorveglianti
delle ciurme, costituite per lo più da prigionieri turchi fatti
schiavi e da condannati alle galere, nonché per i soldati addetti alle
torri d’avvistamento lungo il litorale. Per l’assistenza religiosa ai circa
trecento abitanti della zona venne costruita una piccola chiesa dedicata
a S. Antonio. Inaugurato a maggio del 1700 il nuovo porto e commemorato
l’evento con una moneta coniata appositamente con la
scritta «Venti et mare oboediunt ei», venne nominata una commissione
amministrativa, composta da un rappresentante della famiglia
Pamphlilj-Aldobrandini, il Cardinale Benedetto, figlio di Camillo, con
la carica di Plenipotenziario del porto che in tarda età si ritirò nel
palazzo di famiglia a Nettuno circondato, egli stesso poeta, da poeti,
musici e letterati, nonché da due attori romani e da alcuni prelati. Il
porto rimase di proprietà della Camera Apostolica e si decretò che
esso dovesse essere mantenuto col fondo spese delle tasse dei nettunesi
che però vennero esclusi dagli utili. Intanto durante il suo plenipotenziariato
Camillo Pamphilj-Aldobrandini fece portare nella villa
Bel Respiro di Roma moltissimi reperti archeologici di epoca romana
trovati negli scavi del porto o in altri scavi eseguiti nell’entroterra nettunese.
Insomma, il porto che i nettunesi avevano tanto desiderato
non portò loro quei vantaggi sperati, perché essi di fatto ne furono
esclusi, tanto che più tardi, nel 1746, Benedetto XIV, papa Lambertini,
pressato e sollecitato dalle continue lamentele dei contribuenti si recò
a Nettuno, con il suo segretario di stato, Cardinale Valenti, per rendersi
conto personalmente della natura delle ingenti spese di manutenzione
del porto e si convinse amaramente che sarebbe stato più economico
ripristinare il vecchio porto neroniano così come avrebbe
voluto fare Clemente VIII e, per evitarne la perdita, incaricò il
Brigadiere Mareschal, ispettore generale dei porti della Francia nel
mediterraneo, di trovare egli una soluzione.
Il Settecento
Nettuno agli inizi del Settecento. |
Tra un fatto e l’altro, in questo breve excursus storico, siamo arrivati
senza quasi accorgersene al 1700, nel secolo cioè che si aprì con
l’Anno Santo e che vide, da un lato, un gran numero di nettunesi, guidati
dalle Confraternite del Carmine e del S.S. Sacramento, recarsi in
pellegrinaggio a Roma con la statua di Nostra Signora delle Grazie e,
dall’altro, Giorgio I d’Inghilterra ospite di villa Costaguti, villa
Bell’Aspetto, e del palazzo Pamphili-Aldobrandini, in occasione della
sua visita alle galee pontificie ancorate nel porto Innocenziano.
Anche in questo secolo, come del resto nel precedente, Nettuno fu
un grande cantiere in cui si riversarono ancora una volta notevoli
somme di denaro per la costruzione di sontuose ville. Il 7 ottobre 1726
il Cardinale Alessandro Albani, nipote di Clemente XI e appassionato
di archeologia, dopo aver acquistato dal Capitolo di S. Giovanni di
Nettuno, un vastissimo terreno nelle vicinanze del porto
Innocenziano, commissionò la costruzione di uno splendido casino di
campagna che lo avrebbe dovuto ospitare durante i periodi estivi e
soprattutto durante le operazioni di scavo per i suoi numerosissimi
ritrovamenti archeologici.
Il Porto Innocenziano e le ville cardinalizie
nella metà del Settecento. |
Il casino venne costruito utilizzando materiali tratti dai ruderi di
monumenti antichi. Quindi, dando seguito alla sua grande passione,
fece eseguire scavi rinvenendo numerosi reperti archeologici con cui
allestì un museo nel quale vennero collocate alcune opere d’arte trovate
a Nettuno, quali le statue di Ercole, Esculapio, Giove, Pallade, i
busti di Adriano, Settimio Severo, Faustina Augusta etc... In seguito a
tali ritrovamenti chiese e ottenne il permesso di eseguire scavi nel
vasto territorio nettunese per la ricerca di opere d’arte. Gran parte di
questo patrimonio archeologico rischiò di disperdersi per l’Europa, in
quanto egli nel 1730 aveva già venduto al Re di Polonia una quantità
di statue per 25.000 scudi, oppure le aveva donate come omaggio ai numerosi ospiti che riceveva nella sua villa tra i quali va ricordato il
famoso archeologo tedesco Winchelmann, spesse volte suo ospite e
compagno. Fortunatamente la gran parte dei pezzi rinvenuti li vendette,
il 15 dicembre 1733, al prezzo di 6000 scudi romani, al papa
Clemente XII Corsini, il quale li fece collocare nel museo capitolino.
Ritratto di Giorgio I,
opera di Godfrey Kneller. |
Il Cardinale Alessandro Albani.
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Una seconda villa venne costruita dal Cardinale Neri Maria Corsini
di fronte al porto tra il 1735 e il 1740, per questo «suo casino al mare
[…] magnifico palagio che torreggia dirimpetto al porto neroniano» il
Cardinale Corsini si avvalse della manodopera di un cospicuo numero
di galeotti, di ciurme e maestranze deputate ai lavori del porto e -
come è stato scritto- di «una fornace fatta costruire da Innocenzo XIII
per gli edifici camerali», nonché di una «grande quantità di materiali
da costruzione prelevati da quel vasto cantiere di rovine romane che
aveva all’intorno».
G. Van Wittel, Veduta di Nettuno, 1710. |
Certo i 20.000 scudi che servirono per la costruzione della villa anche
se non furono attinti direttamente dal patrimonio del Cardinal Corsini,
dovettero in un certo senso contribuire a incrementare l’economia locale
che già dal 1730 aveva avuto una notevole spinta in avanti, allorché gli
abitanti di Nettuno, che vivevano per lo più di agricoltura, dettero inizio
al disboscamento di una vasta zona dell’entroterra, mettendovi a coltura
un vitigno detto «cacchione» da cui si otteneva una uva dalla cui lavorazione
si produceva un vino che trovò consenso a Roma, dove veniva
consumato nella bottega di «Falcone» a Sant’Eustachio e di «Padron
Clemente» dietro San Gallicano, e dove giungeva trasportato in carri dai
nettunesi, dopo una sosta notturna a Fontana di Papa.
Sempre nel 1730, precisamente il 22 marzo, morì il Cardinale
Benedetto Pamphilj-Aldobrandini, il Plenipotenziario del porto che
tanta parte aveva avuto in vita per le sorti di Nettuno e dei suoi abitanti,
cui successe il nipote Camillo Junior.
Con la costruzione di sontuose ville, con la produzione del «cacchione » ottenuto da uva da terre recentemente messe a coltura, si
ebbe un innalzamento del tenore di vita dei nettunesi che, come più
importante e tangibile conseguenza, portò a un aumento demografico
tale che, nel 1738, si dovette demolire l’antica chiesa Collegiata
divenuta ormai troppo piccola per la cittadinanza e in più in cattivo
stato, per costruirne un'altra più grande e accogliente che rispecchiasse
però lo stesso modello della precedente. Di diverso parere è
Giancarlo Baiocco, secondo il quale la Chiesa Collegiata prese il
posto della medievale chiesa di Santa Maria Assunta che, a sua volta,
aveva sostituito una più antica chiesa paleocristiana eretta – come
egli scrive - «per tradizione, nell’area di un tempio pagano, dedicato
al dio Nettuno» La nuova costruzione, realizzata su progetto dell’architetto
Carlo Marchionni, fu ultimata dieci anni più tardi, nel 1748,
e dedicata ai Santi Giovanni Battista ed Evangelista e alla Vergine
Santissima assunta in cielo, come si evince anche dalla pala
dell’Altare Maggiore dipinta dal viterbese Vincenzo Strigelli, formatosi
alla scuola romana di Pietro Conca, il quale l’anno precedente
aveva lavorato per la Parrocchiale di Sant’Angelo Romano, territorio
dei principi Borghese, dove aveva affrescato la volta della chiesa diSanta Maria e Biagio. Certamente fu tale lavoro che gli valse la commissione
dell’altare maggiore della chiesa Collegiata di Nettuno,
molto probabilmente su segnalazione di qualche personaggio gravitante
nella cerchia dei Borghese, in quanto Camillo Borghese e
Agnese Colonna furono in stretti rapporti con Benedetto XIV, il quale
fu tra i finanziatori dei lavori di rifacimento della Collegiata di
Nettuno che costò ben 14.000 scudi, somma alla quale contribuirono,
insieme a Benedetto XIV, il Municipio, le Pie Associazioni e Clemente
XII. Nel frattempo papa Lambertini con la Bolla Assidua omnium ecclesiarum
sollicitudo del 2 settembre 1745 nell’istituire la nuova parrocchia
di Anzio, rendendola autonoma dalla Chiesa dei Santi Giovanni
Battista ed Evangelista di Nettuno, ribadiva la natura di Chiesa
Madre di Anzio e di Conca della Collegiata di Nettuno. Difatti, «in
segno e memoria della […] matricità » di detta Collegiata, stabiliva
che il nuovo Parrocco di Anzio avrebbe potuto amministrare tutti i
Sacramenti della Chiesa con l’eccezione di quello del Battesimo riservato
alla Chiesa Madre di Nettuno e che inoltre avrebbe dovuto prendere,
ogni anno, l’Olio Santo degli infermi sempre ed esclusivamente
da detta Chiesa. Del resto, che la Collegiata di Nettuno fosse
Chiesa Madre e, quindi, una volta anche Cattedrale con sede vescovile
per di più coeva della Cattedrale di Albano, è dimostrato dal
fatto che in occasione dei Sinodi diocesani il clero nettunese formava
-come è stato scritto da don Vincezo Cerri- un solo corpo con quello
di Albano, incedendo sotto la medesima Croce.
La nuova Chiesa Collegiata di Nettuno venne consacrata il 25
novembre 1749 dal Vescovo Suffraganeo di Velletri, Mons. Cremona,
delegato per questo atto dal Cardinale Carafa, Vescovo di Albano.
Nettuno,
Collegiata dei Santi
Battista ed Evangelista.
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Interno della Collegiata
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Circa dieci anni più tardi, nel 1758, su invito dell’arciprete-parroco
di San Giovanni, Ambrogio de Massimi, vennero a Nettuno le
maestre Pie Filippini per la gratuita istruzione religiosa e civile delle
bambine. Le Maestre Pie, alla morte della loro fondatrice, Lucia
Filippini, avvenuta il 25 marzo del 1732 (dopo ben 39 anni di indefesso
insegnamento, cui il Cardinale, di origine veneziana, Marco
Antonio Francesco Barbarigo l’aveva indirizzata, affidandole, appena
ventenne, l’istruzione scolastica di educazione delle fanciulle
nelle diocesi di Corneto e Montefiascone, promossa inizialmente da
Rosa Venerini da Viterbo) avevano aperto scuole, dopo quelle già
esistenti di Montefiascone, Tarquinia, Capodimonte, Marta, Latera,
Grotte di Castro, a Roma e in altri centri del Lazio, in Italia, soprattutto
in Toscana, e, quindi, nelle Americhe, specialmente quella del
nord, affiancandosi, in tal senso, nell’educazione cristiana delle fanciulle,
a quelle sorte ad opera dei Gesuiti e degli Scolopi per l’educazione
dei ragazzi. Proprio a tale seconda ondata di fondazioni di
scuole risalì quella di Nettuno. Le Maestre Pie vi giunsero -come ho
già scritto- nel 1758, 26 anni dopo la morte della loro fondatrice,
invitate dall’arciprete-parroco della Collegiata di Nettuno, per volere
esplicito del Cardinale Corsini, il quale fornì, a sue spese, l’edificio
scolastico ubicato in via Sacchi insieme a una donna che faceva
loro da inserviente.
In questo modo, con l’arrivo delle Maestre Pie Filippini, anche le
ragazze che venivano istruite gratuitamente nella religione, nel leggere,
nello scrivere e nei lavori domestici, poterono affiancarsi nell’educazione
ai ragazzi di Nettuno, per la cui istruzione la Reverenda
Camera Apostolica stipendiava, all’epoca, un appartenente all’ordine
dei Padri Conventuali, il quale aveva la cura dell’insegnamento, guidandoli
nel leggere, nello scrivere e altresì, fornendo loro anche alcuni
insegnamenti di matematica e di lingua latina.
Papa Clemente VIII.
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Stemma della famiglia Doria Pamphilj. |
Nel 1760 monsignor Bartolomeo Soffredini, nato a Nettuno nel
1707, giovane sacerdote all’epoca della costruzione di Villa Albani, fu
inviato come Internunzio a Bruxelles da Clemente XIII, papa
Rezzonico, dopo che era stato Superiore delle missioni in Olanda
sotto i papi Benedetto XIV e quindi Clemente XIII, e a cui si deve la
stesura di una Storia di Nettuno pubblicata nel 1750, intorno alla quale
lavorò, ampliandola notevolmente, sino a quando la morte non lo
colse, molto probabilmente non oltre il 1772 se è vero che in quell’anno
un suo discendente pubblicò un suo manoscritto sul territorio di
Anzio e Nettuno, dal titolo Brevi memorie dell’antica città di Anzo del presente
Nettuno e del moderno porto d’Anzo, la cui stampa originale è di
difficile reperimento, per non dire introvabile, che, a mio parere, è il
punto di approdo della sua fatica di studioso della storia del territorio
che gli ha dato i natali, studio portato avanti per tappe così come
dimostrano due manoscritti conservati nella biblioteca del Senato,
uno del 1815 dal titolo Storia di Nettuno e di Anzo, pubblicata nel 1825
a Roma dal Rasi all’interno della sua opera, Dimostrazione della necessità
e facilità del ristabilimento dell’antico porto neroniano d’Anzio, degli
inconvenienti ed inutilità del moderno Innocenziano, e un secondo del
1839, intitolato Brevi memorie dell’antica città d’Anzo, del presente
Nettuno e del moderno porto d’Anzo, la redazione appunto definitiva del
suo lavoro, pubblicato nel 1998, a cura di Ida Paladino, con il titolo
Breve Storia di Anzio e Nettuno, per i tipi dell’editore Ugo Magnanti.
Nello stesso anno, ovvero nel 1760, con l’estinzione dei Pamphilj, in
seguito alla morte di Girolamo, ultimo erede, i beni della famiglia,
finirono col passare, compreso il palazzo di Nettuno, al ramo Doria-
Pamphilj. Difatti nel 1763 papa Clemente XIII concesse al principe
Giovanni Andrea IV Doria Landi il cognome, le insegne e i beni della
famiglia Pamphili, in virtù della parentela acquisita dal matrimonio
che l’ultima rampolla femminile di tale famiglia, Anna, morta nel
1740, aveva contratto,nel 1671, con Giovanni Andrea Doria III, discendente
di un’importante e ricca famiglia genovese.
Queste furono le vicende più significative che interessarono
Nettuno nel Settecento, ovvero nel secolo che, a livello culturale e artistico,
seppe e volle reagire a quanto era stato prodotto nel Seicento,
allorché l’arte e la letteratura avevano sviluppato un immaginario in
cui finirono per occupare un posto centrale i temi della caducità del
tempo, della morte, della finitezza umana, come dimostrò quel diffuso
sentimento spirituale ed esistenziale tipicamente secentesco, sintetizzabile
nell’ammonimento del memento mori, così bene rappresentato
ed espresso nella tela del 1641 di Sebastian Stoskopff, Allegoria della Vanità e nell’Autoritratto con i simboli della vanità del 1651 di David Bailly, nei quali è raffigurato in primo piano, ad ammonimento della morte, un teschio
umano; nonché le atmosfere melanconiche e notturne proprie di certa
poesia medio e tardo Barocca di tono concettistico, eppure nello stesso
tempo sentita e partecipata, del Cardinale Giovanni Delfino
(Venezia 22 aprile 1617- Roma 1699),
Stoskopff, Vanitas, 1630,
Basilea, Kunstmuseum. |
la cui vita, per l’avvicendarsi di
momenti laici ed ecclesiastici, tanto rassomigliò all’altra del più giovane
concittadino, Cardinale Marco Antonio Francesco Barbarigo
(Venezia 16 marzo 1640 (Montefiascone 26 maggio 1706), il quale ebbe
una importanza fondamentale nella vita di Lucia Filippini, e che, trasferitosi
a Roma al seguito dell’altro suo concittadino Cardinale
Gregorio Giovanni Gaspero Barbarigo (a questi Paolo Segneri dedicò la seconda edizione, nel 1684, dei suoi Panegirici Sacri) in occasione del
Conclave del 1676 in cui fu eletto Innocenzo XI, soggiornò su esplicita
richiesta del papa appena eletto, prima che gli venissero affidate le
Diocesi di Corneto e Montefiascone, nella città santa nella quale, a
opera di alcune figure prestigiose nel campo della cultura, quali
Sforza-Pallavicino, Maffeo Barberini, Virginio Cesarini, Francesco
Caetano, Giovanni Cristoforo, Giovan Battista Ciampoli, Daniello
Bartoli, Paolo Segneri e Andrea Sacchi, si era sviluppata quella corrente
poetica e artistica di moderato Barocco che aveva preso le mosse da
Campanella del commento ai Poemata di Maffeo Barberini e della
Poetica, corrente che da Roma, passando per la Toscana e la Liguria,
arrivò sino a Venezia.
A tale secolo si oppose, appunto, il 1700, il secolo della ragione che
in Italia, colle personalità di Muratori, Giannone, Vico, anticipò la
nascita di un nuovo modello di cultura critica, orientata all’azione pratica,
alla pubblica utilità, che da lì a breve fu la caratteristica della
Bildung europea e che trovò piena fortuna ed espressione nell’opera
degli Illuministi francesi. Insomma il 1700 fu il secolo che segnò la
nascita di un nuovo modello culturale il quale, dagli anni ’30 in poi,
conquistò vaste adesioni sulla scena mondiale e segnò in modo decisivo
l’evolversi delle vicende storico-politiche, etico-morali, di pensiero
e di costume del mondo occidentale tutto, e quindi di Nettuno, certamente
non estranee le idee della Rivoluzione Francese, che nel frattempo
andavano favorendo e diffondendo una nuova laica
Weltanschauung, quale emblema di una definitiva e più matura modernità
che produsse una consequenziale pratica politica la cui forza
modificatrice non risparmiò certamente neppure lo Stato pontificio
governato da Pio VI, papa Braschi, l’iniziatore, nel 1777, della bonifica
della palude pontina, vicinissima confinante con il territorio nettunese.
Pio VI dapprima perdette tutti i possedimenti in Francia che gli
furono confiscati dai rivoluzionari i quali non contenti bruciarono il
suo ritratto nel Palazzo Reale di Parigi e, poi, nel 1796, fu costretto, da
Napoleone che aveva invaso l’Italia, all’umiliante armistizio di
Bologna, con cui dovette cedere Bologna, Ferrara e Ancona, nonché
versare 21.000.000 di scudi e consegnare numerose opere d’arte.
Quando Pio VI si alleò con l’Austria al fine di dar vita a una coalizione
contro la Francia, Napoleone, a sua volta, si unì in un patto politico-militare con Ferdinando I di Napoli, il quale ordinò al suo esercito
di invadere i feudi papali gravitanti nel suo territorio. Nello scontro
armato che seguì l’esercito pontificio fu sconfitto il 10 febbraio del
1797 e otto giorni dopo i francesi saccheggiarono il Santuario di
Loreto. Il papa fu costretto allora a firmare il trattato di Tolentino (febbraio
1797) che gli costò altri 25.000.000 di scudi e numerose opere
d’arte. La situazione peggiorò il 18 dicembre di quell’anno quando nel
corso di un tumulto il generale napoleonico Duphot venne ucciso e
questo diede il pretesto ai francesi di occupare Roma. Gli avvenimenti
che seguirono da lì a due mesi segnarono la definitiva sconfitta di
Pio VI che il 15 febbraio del 1798 fu deposto dai suoi avversari politici
i quali, schierati apertamente con i francesi e abbracciati gli ideali
rivoluzionari, proclamarono la repubblica. PioVI, fatto prigioniero,
cinque giorni dopo, ossia il 20 febbraio di quell’anno, venne trasferito
da Roma a Siena dove restò tre mesi e da qui alla Certosa di Firenze
dove venne segregato. Nel marzo successivo venne prima trasferito a
Bologna e in seguito in Francia, a Grenoble, e dopo il 19 luglio venne
rinchiuso nella fortezza di Valence, capoluogo della Drome dove morì
il 29 agosto dello stesso anno.
Con l’elezione di Pio VII, papa Chiaramonti, avvenuta nel Conclave
di Venezia presso il Monastero di San Giorgio sotto la protezione
dell’Austria, essendo Roma occupata dai francesi, il 14 marzo del
1800, si concluse la storia del Settecento nettunese che negli ultimi
anni del secolo visse, e non poteva essere diversamente,lo stesso
momento di crisi dello Stato pontificio, divenendo una sorta di specola
del tracollo della politica e, quindi, del papato di Pio VI, testimoniato
sino alla metà del secolo scorso dalla presenza, nell’attuale piazzale
Berlinguer, di una caserma delle truppe napoleoniche, del resto
assai ben conservata, tale da essere abitata ancora allora dalla popolazione
civile.
Acquartieramento napoleonico che, creduto a torto parte integrante
della Caserma Donati, ovvero del Distaccamento militare del
Poligono di tiro, così chiamata per ricordare la memoria del capitano
d’artiglieria nettunese morto eroicamente nel primo conflitto mondiale,
e non, come realmente era, preesistente ad essa, fu sciaguratamente
abbattuto insieme agli alloggiamenti del Distaccamento sul finire
degli anni ottanta del secolo scorso.
Papa Pio VI. |
Napoleone Bonaparte
(Ajaccio, 15 agosto 1769,
Isola di Sant'Elena, 5 maggio 1821). |
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