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NETTUNO
LA SUA STORIA

 

Giancarlo Baiocco - Laura Baiocco
Eugenio Bartolini - Chiara Conte
Maria Luisa Del Giudice - Francesco Di Mario
Agnese Livia Fischetti - Arnaldo Liboni
Vincenzo Monti - Rocco Paternostro
Alberto Sulpizi - Laura Zecchinelli

 

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DAL CINQUECENTO AL SETTECENTO

Rocco Paternostro

 

 


Nettuno nella metà del Cinquecento.

 

 

Il Cinquecento

Sei anni dopo la morte di Rinaldo Orsini, viceré degli Abruzzi, avvenuta, nel 1420, nel palazzo baronale di Nettuno (già nell’845 colonia saracena), il papa Martino V, Oddone Colonna, assegnò quel feudo, imponendo una permuta agli Orsini che lo detenevano ininterrottamente dal 1220, al nipote Cardinale Antonio Colonna. Da allora i Colonna, tranne due brevi periodi (il primo andò dal 1501 al 1503 quando il feudo passò ai Borgia, il secondo dal 1556 al 1559 allorché passò ai Carafa), furono signori di Nettuno sino al 1594, anno in cui Marcantonio Colonna III, figlio primogenito di Fabrizio e di Anna Borromeo, vendette, per far fronte a ingenti debiti, insieme alla nonna, sua tutrice, Felicia Orsini, vedova di Marcantonio II morto nel 1584, Nettuno, Astura e tutte le terre, per 400.000 scudi alla Camera Apostolica, così come attesta il Breve del 15 dicembre di quell’anno di Clemente VIII Aldobrandini, con cui il pontefice informava i «diletti figli della comunità e uomini della […] terra di Nettuno Provincia Marittima» di tale acquisto.


Oltre a comunicare l’avvenuto acquisto, papa Clemente VIII tenne ad informare gli abitanti del feudo di Nettuno delle sue intenzioni di disboscare e ridurre a coltura il territorio acquistato, nonché di voler ristabilire, anche se solo parzialmente, l’antico porto neroniano. In proposito così scriveva nel Breve del 15 dicembre 1594:

«[…] E siccome da poco acquistammo il territorio tutto del detto Castello [di Nettuno], ma quasi tutto boschivo e sterposo e […] incolto, Noi, riflettendo di poterlo in parte disboscare ed estirparlo e ridurlo a coltura, a Dio piacente speriamo di fare, in modo di beneficiare massimamente il pubblico e privato interesse di questa terra e luoghi circonvicini; e perché abbondino di molto frumento e di tutto quello che umanamente necessita, e in breve tempo ne usufruirebbero in gran copia gli abitanti dello stesso Castello e perché questo accada al più presto e sicuramente per il commercio, ristabiliremo almeno in parte il porto dell’antica Anzio, non del tutto rovinato […]».  

 


Giovanna D’Aragona,
moglie di Ascanio Colonna
e madre di Marcantonio.

Marcantonio Colonna.

 

Da tale Breve è possibile evincere, sia direttamente che indirettamente, alcune notizie circa la struttura economica del Castello di Nettuno.
Il territorio, ancora sul finire del 1500, era quasi tutto boschivo, sterposo e quindi incolto, di contro vi era un agglomerato urbano abitato da poche centinaia di residenti, circondato da mura e da torri, nel cui centro sorgeva la Chiesa Collegiata di San Giovanni, quasi sicuramente -secondo l’opinione di alcuni storici- edificata sull’altura dove una volta era stato innalzato il tempio del Dio Nettuno.


Nonostante la gran parte del territorio fosse incolto, il Castello aveva sviluppato negli anni una discreta economia tale da garantire ai suoi signori rendite vantaggiose: la coltivazione del grano e dell’orzo, la raccolta dell’uva, nonché il taglio della legna, la produzione del carbone, l’esistenza di una miniera di zolfo da cui si ricavava il vetriolo, la conciatura delle pelli, la lavorazione della lana e infine soprattutto la caccia di cinghiali e di capre selvatiche e la pesca che offriva pesci di ottima qualità, assicuravano buoni guadagni, offrendo, da un lato, lavoro anche a immigrati che venivano dall’Abruzzo e dal Napoletano, e, dall’altro, favorendo lo sviluppo di un buon commercio marittimo, proprio perché tali prodotti venivano imbarcati dal porto di Astura con destinazione Napoli o Pisa.


La posizione geografica del Castello edificato sul mare e la relativa vicinanza a Roma avevano reso necessaria la costruzione lungo la costa di postazioni difensive a guardia di possibili assalti per via di mare, sia ad opera dei turchi che avevano esteso la loro area d’influenza dalle regioni africane, alla penisola balcanica, alla Transilvania, alla Moldavia, alla Valacchia, all’Ungheria, sia ad opera della pirateria barbaresca dell’Algeria, vassalla del Sultano turco.


Affinché i turchi fossero costretti a rinunciare alle loro mire espansionistiche fu necessario che essi venissero sconfitti a Lepanto nel 1571 dalla flotta della Lega Santa, promossa da Pio V, papa Ghislieri, alla quale aderirono la Spagna e Venezia sotto il comando di Don Giovanni d’Austria, fratello di Filippo II e in cui -come vedremo in seguito- ebbe parte attiva Marcantonio II Colonna, ammiraglio della flotta papale.

Del resto, prima di questa data, la minaccia della pirateria turca e barbaresca era tanto avvertita e temuta dallo Stato Pontificio che Pio IV in un Breve del 10 agosto 1563 aveva insistito a «tener munite le torri di Anzio, Nettuno, Astura e Cuprolace» contro tale pericolo, e quindi «di ricostruire la Torre alle Caldane» affidandone la cura a Marcantonio II Colonna, e autorizzandolo a «riscuotere denaro dalle terre» interessate, «per mezzo del tesoriere pontificio». Se allora, per problemi economici, non si dette seguito a quanto aveva ordinato Pio IV per la difesa delle aree costiere esposte ai pericoli degli assalti dei pirati che interessavano in quegli anni soprattutto il Circeo e che annoveravano tra le loro fila figure quali il Luccicali e il Dragut, è pur vero però, che papa Ghislieri, Pio V, non appena eletto, nel gennaio 1566, ribadì quanto aveva ordinato nel suo Breve Pio IV, obbligando, questa volta, i signori interessati a contribuire personalmente per le fortificazioni da ristrutturare e/o da farsi al fine di «contrastare le incursioni degli infedeli» per la «salvaguardia della popolazione civile ».

In proposito furono ristrutturate vecchie torri e costruite delle nuove, quali Torre d’Astura, il Forte di Alessandro VI, Torre di Capo d’Anzio, Torre Materna, chiamata così in onore di Giovanna d’Aragona madre di Marcantonio II, Torre alle Caldane, realizzata nel 1570 dai Caffarellli, Torre Sant’Anastasio, Torre S. Lorenzo, costruita tra il 1567 e il 1580, anno quest’ultimo in cui fu restaurata da Giacomo Della Porta, Torre d’Ardea, Torre di Pratica, alta più di 40 metri, e Torre Vajanica o Torre di Mezza Via, in quanto si trovava a metà strada tra Ostia e Capo d’Anzio.


Il palazzo baronale degli Orsini, potenziato da Marcantonio Colonna.


Quindi, come è possibile notare, le vicende del Castello di Nettuno erano strettamente correlate a quelle dello Stato Pontificio che, proprio in quegli anni, si avviava a divenire la più grande entità politicoeconomico- culturale del panorama europeo e tale da superare per lo splendore e la magnificenza della sua corte, persino le più grandi monarchie d’Europa, se è vero che a Roma convennero, presso la corte papale, architetti, scultori, pittori, musicisti del calibro di Donato Bramante, Baldassarre Peruzzi, Michelangelo Buonarroti, Andrea Sansovino, Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma, Raffaello Sanzio, Giovanni Pierluigi da Palestrina, solo per citare alcuni dei più famosi.


Del resto, che le vicende del Castello di Nettuno risentissero direttamente di quelle dello Stato Pontificio è dimostrato inequivocabilmente da ciò che avvenne a livello storico-politico, nel decennio 1494-1503. Nel 1494, durante la guerra di Carlo VIII di Francia contro il viceré di Napoli Ferdinando d’Aragona, il Castello di Nettuno dovette affrontare una grande minaccia ad opera dell’esercito papale.


I Colonna, che governavano quella terra dal 1426, allorché papa Martino V assegnò la signoria di Nettuno e di Astura a suo nipote Antonio Colonna, si schierarono con la Francia, quando, al contrario, papa Alessandro VI Borgia, da due anni sul soglio pontificio, sostenne in tale guerra la Spagna e appoggiò Alfonso II, ovvero il successore di Ferdinando d’Aragona nel Regno di Napoli.


Stemma di
Marcantonio Colonna
nel palazzo Baronale
di Nettuno


Carlo VIII.

 


Re Ferdinando d’Aragona

 

 


Orbene, il papa, stretta un’alleanza con l’influente e ricchissima famiglia romana degli Orsini, da sempre avversaria dei Colonna, insieme ad Alfonso II strinse il Castello di Nettuno in una morsa: da un lato, le sue truppe occuparono le terre dei Colonna difese da un migliaio di uomini armati, da un altro, Alfonso II, marciando da sud, si diresse verso Nettuno nel tentativo di occupare il Castello, tentativo che si rivelò inutile in quanto la sua marcia venne fermata a Terracina.


Il fatto di essersi schierati contro la Chiesa costò carissimo ai Colonna, perché Alessandro VI Borgia non solo confiscò loro tutti i possedimenti, ma anche lanciò contro di loro la scomunica accusandoli persino di reato di lesa maestà. Se i vari esponenti della famiglia, quali Prospero, Fabrizio, Marcantonio I, Camillo, Muzio, etc, non sfuggirono alle ire del pontefice, neppure sfuggì ad esse il Cardinale Giovanni Colonna che, salvato dalla scomunica, venne privato di tutti i suoi averi. Le terre confiscate ai Colonna vennero assegnate da Alessandro VI ai suoi figli e ai suoi nipoti. A Rodrigo, suo nipote in quanto figlio di Lucrezia Borgia e Alfonso d’Aragona, furono assegnati Nettuno e Astura, Ardea, Albano, Sermoneta e Cisterna, sotto la tutela dello zio Cesare Borgia, detto il Valentino, alla cui figura si ispirò, per il suo Principe, Machiavelli, in quanto Rodrigo all’epoca aveva appena due anni, essendo nato nel 1499. Sempre in quell’anno, ovvero nel 1501, Alessandro VI commissionò la costruzione della fortezza di Nettuno ad Antonio Giamberti da Sangallo, che la realizzò su disegni del fratello Giuliano. I lavori di edificazione si protrassero sino al 1503, e certamente nel maggio di quell’anno dovevano essere in fase di conclusione se è vero che il giorno 11 dello stesso mese il pontefice e suo figlio il Valentino si recarono a Nettuno, trattenendovisi per più giorni al fine di controllare l’andamento dei lavori.


Agasìas di Efeso: Guerriero combattente
(o «Gladiatore Borghese»).
La statua fu rinvenuta a Nettuno,
ai tempi di papa Paolo V (1605-1621).


Alessandro VI Borgia.

 

 


Di lì a tre mesi le sorti dei Colonna cambiarono in meglio in modo radicale. Morto di malaria, il 18 agosto 1503, Alessandro VI, dopo il breve pontificato durato appena 26 giorni di Pio III, venne innalzato al soglio di Pietro, Giulio II della Rovere, alleato dei Colonna. Questi, dopo aver fatto catturare Cesare Borgia, restituì ai Colonna i castelli e le terre che due anni prima Alessandro VI aveva loro confiscato. D’accordo con i Colonna, Giulio II fece esplorare il territorio nettunese, operazione che -come scrive Giuseppe Brovelli Soffredini nel suo libro, Neptunia, di cui dipinse egli stesso la copertina, pubblicato a Roma nel 1923- portò al ritrovamento di pregevolissime opere d’arte che vennero portate via e collocate in vari musei, quale la statua di Apollo detta del Belvedere, il Gladiatore Combattente che portava scolpito il nome dello scultore Agasia, figlio di Dositheo di Efeso, il Gladiatore moribondo, Nettuno, Cibele e altre opere di notevole valore e bellezza.


Fra vicende alterne di vita quotidiana, segnata dall’esosa politica fiscale di Ascanio che amministrò il Castello di Nettuno e le terre di pertinenza dopo che suo fratello Pompeo, cui era stato assegnato il feudo, divenne Cardinale, giunse l’anno 1535, ovvero l’anno della nascta di Marcantonio II, l’uomo che segnò per circa un trentennio della sua impronta la storia del feudo in un contesto italiano ed europeo.

 


Marcantonio Colonna nella battaglia di Lepanto.


Da Ascanio, che per la sua politica fiscale aveva provocato le giuste lamentele dei nettunesi al papa, e da Giovanna d’Aragona, nacque il 26 febbraio del 1535 a Civita Lavinia, oggi Lanuvio, Marcantonio II, che, a soli 18 anni, diseredato dal padre, fu costretto a farsi soldato di ventura nell’esercito spagnolo (1553-1554), distinguendosi, alle dipendenze del Duca d’Alba, nell’assedio di Siena. Da allora sino al 1 agosto 1584 allorché morì improvvisamente, forse per avvelenamento, a Medinaceli, in Spagna, le cronache politiche e militari si riempirono delle sue azioni e la sua vita fu costellata da momenti di gloria e di straordinaria soddisfazione, ma anche di rovinose cadute in seguito a passi falsi compiuti politicamente soprattutto sul piano delle alleanze, spesso in opposizione al papato, ma da cui pure seppe, con avvedutezza e acume politico, rialzarsi.

Certamente l’apogeo della gloria lo raggiunse il 4 dicembre 1571 allorché, reduce dalla vittoriosa battaglia navale di Lepanto al comando della flotta papale, fu accolto trionfalmente in Roma dall’intera popolazione della città santa, con in testa il papa che gli tributò onori e festeggiamenti da eroe imperiale. Alla mattina di quel giorno, Marcantonio II Colonna entrò in città da Porta Capena «in sella ad un cavallo bianco con gualdrappe auree», ultimo di un grandissimo corteo, aperto dallo sfilare delle spoglie dei turchi sconfitti e dei prigionieri, cui seguiva il popolo, «ordinato in compagnie con abiti militari, con alla testa i conservatori e i caporioni» e quindi, «i patrizi a cavallo con ricchissimi e appariscenti abiti». Superata Porta Capena, il corteo passò sotto gli archi di Costantino, di Tito e di Settimio Severo e, attraverso il Campidoglio, giunse in Vaticano, dove Pio V, commosso e riconoscente, «abbracciò il suo illustre ammiraglio e lo benedisse». Trionfo certamente non immeritato se il 7 ottobre del 1571, a Lepanto, nel corso della battaglia decisiva della cristianità contro i turchi, Marcantonio II sostenne per dirla -con le sue stesse parole- «il maggior impeto dell’armata nemica», catturando la nave ammiraglia di Alì Pascià e determinando, infine, lamorte di quest’ultimo.

Nel corso di quella famosa battaglia navale, alla quale parteciparono quasi sicuramente alcuni nettunesi, Marcantonio II ebbe ai suoi ordini come marinaio spagnolo Miguel de Cervantes, il futuro autore del Don Chisciotte della Mancia, sublime e visionaria parodia dei romanzi cavallereschi, che, colpito da due archibugiate restò ferito al petto e alla mano sinistra sulla quale portò per sempre i segni delle offese ricevute.


Il 7 ottobre 1571 la flotta della Lega Santa e quella turca
sono l'una di fronte all'altra davanti all'imboccatura del golfo di Corinto.


Dopo il trionfo decretatogli a Roma, Marcantonio II Colonna fece pressioni affinché si continuasse la guerra in Oriente. Ma tutti i suoi sforzi e quelli del nuovo papa, Gregorio XIII, che nel frattempo lo aveva confermato al comando della flotta pontificia, non riuscirono a ottenere lo scopo. Difatti, dopo la pace con i turchi stipulata da Venezia che aveva interessi economico-commerciali in Oriente, la Lega Cristiana si sciolse e Marcantonio II, «stanco degli ozi romani e insofferente degli intrighi della corte papale», tornò al servizio della Spagna, tanto che nel gennaio 1577 fu nominato, da Filippo II, viceré di Sicilia, carica che onorò per il meglio salvaguardando l’isola dalle continue e pericolose incursioni dei corsari barbareschi, promovendo l’agricoltura, abbellendo Palermo e Messina di monumenti ed esercitando con rigore la giustizia, insomma amministrando con capacità e oculatezza l’isola, contrariamente a quanto aveva fatto per il Castello di Nettuno che, una volta riconquistato, dopo aver partecipato nel 1556 all’attacco contro Roma e contro il papa Paolo IV al fine di riprendersi i beni di cui il padre lo aveva privato, amministrò a livello fiscale in modo esoso così come aveva fatto Ascanio.


Cesare Borgia.


Papa Gregorio XIII.




Ritratto di Filippo II,
realizzato dal Tiziano (1477-1576)
Prado Madrid.

Allora l’essere sceso in campo contro il papato, al fianco dell’Impero e della Spagna gli procurò molti guai. Una sentenza di monsignor Atracino lo condannò nel 1566, all’esilio con l’accusa di aver congiurato contro la Santa Sede; Paolo IV fece seguire, il 4 maggio di quell’anno, una Bolla con la quale, dopo aver elencato tutti i delitti commessi sino ad allora dai Colonna contro il papato, lo scomunicò e lo privò di tutti i possedimenti appena riconquistati. Nel frattempo Paolo IV Carafa iniziò la guerra della Campagna di Roma e del Regno di Napoli (1556- 1557) per togliere a Filippo II di Spagna il trono partenopeo. Creò il ducato di Paliano che assegnò al nipote Giovanni Carafa. Simile sorte toccò al Castello di Nettuno che venne tolto ai Colonna e assegnato ai Carafa i cui membri del ramo napoletano s’erano alleati con la Francia, alleanza che fu utile sia ai Carafa che al papato, in quanto alla Santa
Sede interessava entrare in possesso del Regno di Napoli e massime della fortezza di Gaeta. Una volta iniziate le ostilità, vennero esaminate le fortificazioni dei diversi feudi, poiché quello di Nettuno, di cui responsabile delle poche forze messe a presidio contro gli attacchi della marina spagnola era il maresciallo Strozzi, ufficiale dell’esercito francese, poiché quello di Nettuno -dicevo- presentava scarsa sicurezza, Giovanni Carafa, Duca di Paliano, inviò un dispaccio al Duca di Somma in Velletri con cui gli chiedeva di far distruggere le fortificazioni di Nettuno.

Il Duca di Somma si oppose a tale ordine, adducendo come motivazione che così facendo si sarebbe danneggiata la miglior terra che si possedeva, difatti -a suo dire- si sarebbero persi 6000 scudi di entrate, finendo con il rovinare in modo irreparabile quella marina, poiché, non essendovi più la fortezza, Nettuno si sarebbe spopolata e spopolandosi i massari di quel Castello sarebbero stati facile preda dei corsari. Ma Giovanni Carafa, nonostante l’opposizione del Duca di Somma, restò irremovibile nel voler far abbattere le fortificazioni di Nettuno.

A tale pervicace ostinazione i nettunesi si ribellarono e scacciato il presidio francese, sbarrarono l’ingresso del Castello e inviarono le chiavi a Marcantonio II che si trovava nel campo del viceré di Napoli, il Duca d’Alba. Questi, su insistenza di Marcantonio II, cui il feudo di Nettuno stava a cuore poiché da esso traeva tutto il grano e le vettovaglie per le sue armate, ma soprattutto perché -come scrive in un suo bellissimo saggio Alberto Sulpizi- su quel Castello aveva fatto grandiosi progetti, ripromettendosi un giorno di armare una propria flotta superiore persino a quella che a Palo tenevano gli Orsini, questi -come dicevo-, su insistenza di Marcantonio II decise di attaccare di sorpresa Nettuno e Ostia, in quanto proprio a Ostia avrebbe potuto porre le basi marittime della sua spedizione con lo scopo di chiudere, da un lato, la navigazione del Tevere, e dall’altro, di pressare da vicino Roma.

Dopo una spedizione esplorativa affidata al famiglio dei Colonna, Muzio, che riuscì a raccogliere notizie sulla scarsa consistenza del contingente francese a guardia della fortezza, nonché sulla disponibilità delle persone più influenti del Castello ad accogliere come liberatori gli spagnoli e i colonnesi, Marcantonio II affidò a Filippo Moretto il Calabrese un contingente di 150 uomini armati al fine di andare in aiuto dei nettunesi. Giunti a Torre Astura, il Moretto fece spargere ad arte la voce che lo stesso Marcantonio II stava per arrivare con altre forze. A tale notizia i nettunesi, preso coraggio, assaltarono il Castello, facendo prigionieri i pochi difensori.

Da Velletri subito si mosse una compagnia di soldati francesi, ma questi vennero respinti dall’eroismo del Moretto. Nettuno immediatamente, una volta liberata, si rivelò un punto strategico di notevole importanza per il Duca d’Alba, in quanto qui poteva ricevere vettovaglie e munizioni provenienti da Napoli e Gaeta e quindi inviarle a Porcigliano e Ostia dove era acquartierato l’esercito spagnolo. Per difendere il mare di Nettuno si armarono quattro fregate. Ma il nemico per riconquistare Nettuno e chiudere la via d’acqua alle vettovaglie inviò da Civitavecchia ben dodici galee francesi. Ancora una volta l’eroica difesa del capitano Moretto e il valore dei nettunesi ebbero ragione delle navi francesi, favoriti anche da una forte marea nel frattempo sopraggiunta.


Paolo IV Carafa

Stemma della Famiglia Carafa


Marcantonio II riuscì a riabilitarsi definitivamente, nonché a ritornare il legittimo signore del Castello di Nettuno nel 1559, con la morte di papa Paolo IV Carafa, il pontefice che lo aveva accusato di infamia e tradimento. Difatti, quando fu eletto, il 25 dicembre del 1559, il nuovo papa, Pio IV, Giovanni Angelo Medici, a questi Marcantonio II prestò subito atto di obbedienza, offrendo i propri servigi alla Santa Sede. A suggello della riconciliazione che segnò, dopo quasi cinque secoli di lotte, il ritorno dei Colonna nella sfera Vaticana, suo figlio primogenito Fabrizio sposò nel 1562 la nipote del papa, Anna Borromeo, nonché sorella del Cardinale Carlo Borromeo.



Lastra tombale del Capitano Moretto,
difensore di Nettuno.

Una volta ritornato in possesso dei castelli e delle terre degli avi, Marcantonio II si dedicò con slancio al suo passatempo preferito: la guerra, soprattutto quella per mare. Grazie a una politica fiscale assai esosa cui sottoponeva il suo feudo, come testimoniano, del resto, i Capitula pubblicati il 17 giugno 1560, lo stesso giorno dello Statuto dato ai nettunesi, in cui, a onta del pubblico diritto dei suoi sudditi, egli mise divieti e balzelli di ogni genere: dalla tassa sulla semina dei cereali a quella su ogni famiglia, sino ad arrivare a un vero e proprio inasprimento della morsa fiscale nel 1568, allorché sottopose i nettunesi a soprusi di ogni genere e a tasse ancora più pesanti sotto la minaccia di gravi pene per chi non avesse pagato, e ancora come si evince dall’episodio del 1575 allorché ordinò ad Andrea de Vergili, Camerlengo di Nettuno, di esigere ogni anno dagli affittuari dei suoi terreni ben 494 rubbi di grano, ovvero circa 44,50 quintali di grano ad affittuario, -come dicevo- grazie a tale politica fiscale, poté acquistare tre galee, ponendosi al servizio di Don Garzia di Toledo viceré di Sicilia e, quindi, partecipando a una spedizione in Algeria e in seguito ad altre missioni contro i pirati barbareschi lungo le coste dell’Africa settentrionale, sino a raggiungere l’apogeo della fama e della gloria in qualità di ammiraglio della flotta pontificia (grado che gli era stato conferito nel 1570, una volta tornato a Roma,dopo la pace di Cateau-Cambrésis, e una volta reintegrato nel seno della Chiesa cattolica) con la vittoria sui turchi a Lepanto, come luogotenente di don Giovanni d’Austria, di cui, del resto, ho già dato notizia. Però l’azione politico-amministrativa di Marcantonio II non si distinse solo per la sua fiscalità esosa e per il disprezzo nei confronti dei suoi sudditi che alcune volte lo portarono a non rispettare i diritti di proprietà, tanto da usurpare alcune terre appartenenti alla comunità situata precisamente nel territorio di Sant’Anastasia come risulta da una Deliberazione del 22 novembre del 1579 ad opera di certo Domenico Guarellino, ma si distinse anche per alcune opere di carattere architettonico come il restauro che fece fare nel 1565 del palazzo di famiglia nel Borgo, o come quello delle antiche mura del Castello per non tacere poi della costruzione di altre mura eseguendo, in tal senso, il Breve di papa Pio IV dei Medici del 7 febbraio 1563 e rinnovato due anni dopo, il 10 agosto del 1565.


Mentre si svolgeva la parabola politico-militare di Marcantonio II Colonna, Nettuno visse tre avvenimenti che segnarono in profondità la sua storia: il primo di carattere religioso, il secondo di costume, il terzo, infine, culturale.

Nel 1550, tra l’inverno e la primavera, per sfuggire a una tempesta di mare durata tre giorni, approdò alla confluenza dell’antica insenatura del porticciolo Caenon colla foce del fiume Loricina, nei cui pressi sorgeva la piccola chiesa dell’Annunziata, la statua lignea della Madonna col Bambino, o Madonna delle Grazie, che alcuni marinai stavano trasportando su una nave dall’Inghilterra, specificamente da Ipswich, a Napoli per sottrarla alla persecuzione iconoclastica, di Enrico VIII prima, e di Edoardo VI poi, contro i cattolici in seguito allo scisma anglicano.

 

Il vecchio Santuario, che nel 1550 accolse
l’arrivo della statua della Madonna
proveniente dall’Inghilterra.

 


Rappresentazione dell’approdo
della Madonna a Nettuno
(Acquaforte di Georg Keil - 1971).

 


Venticinque anni più tardi, in occasione del Giubileo, papa Gregorio XII, notati gli sguardi irriverenti dei pellegrini, venuti a Roma, alle corte vesti saracene delle donne nettunesi, ordinò loro di indossare vesti più lunghe e in proposito, a spese della Camera Apostolica, fece apportare a tali vesti le dovute modifiche.

Infine nella primavera del 1581 venne rappresentata -come scrive E. Carrera- la favola pescatoria L’Alceo, dal forte impianto scenico, che l’allora poco più che ventenne Antonio Ongaro aveva composto per gareggiare -come vuole l’Ingegneri- con l’Aminta del Tasso che fu rappresentata, per la prima volta, il 31 luglio 1573 nell’isoletta fluviale di Belvedere sul Po presso Ferrara, dove sorgeva la villa ducale degli Estensi, alla presenza di Alfonso II e della sua corte, e messa in scena dalla compagnia di comici dell’arte, i Gelosi.

L’Aminta, già prima di essere stampata nel 1583, eccitò -come scrive il Carducci- «per tutto la velleità degli imitatori» se si pensa che già ad appena un anno dalla sua rappresentazione si ebbe, nel 1574, il Ligurino di Niccolò degli Angeli marchigiano, cui fecero seguito il Pentimento amoroso del Cieco d’Andria nel 1576, la Fillide di Cesare della Valle napoletano nel 1579 e il Pastor Fido cui Battista Guarini pose mano nel 1580, anche se poi venne pubblicato circa dieci anni più tardi. L’Alceo, definito dall’Eritreo «l’Aminta Madidus» non solo era un’ opera celebrativa di un non ben individuato matrimonio di qualche personaggio della corte dei signori del Castello di Nettuno, ma -come ho già dimostrato in altra sede- finì con l’essere anche un’ opera consolatoria del dolore dei Colonna per la perdita del primogenito di Marcantonio II, Fabrizio, morto, a soli 27 anni, nel 1580, a Gibilterra al seguito dell’esercito spagnolo nella guerra che Filippo II aveva intrapreso contro il Portogallo per la successione a quel trono, morte sopraggiunta a causa di un «fiero morbo».

La morte prematura di Fabrizio non aveva colpito l’opinione pubblica di allora per aver egli lasciato la giovane moglie Anna Borromeo e i due figli, Marcantonio III e Filippo in tenerissima età, quanto piuttosto perché la sua salma, imbarcata per essere tumulata a Roma, fu inghiottita dalle onde durante una furiosa tempesta che causò il naufragio della nave che la trasportava.

La tristissima sorte del ventisettenne Fabrizio colpì profondamente il giovane Ongaro che da Padova, dove aveva studiato legge e dove si era trasferito ancora infante dalla natia Venezia, era approdato dapprima a Napoli e poi nel 1578 a Roma e da qui, infine, sul finire di quello stesso anno, al seguito di Fabrizio Colonna a Nettuno, quasi sicuramente su sollecitazione presso Fabrizio dei fratelli veneziani di origine spagnola, Girolamo e Michele Ruis, trapiantati nella città santa, suoi primi protettori romani, per celebrare i quali compose il poemetto Hospitium Musarum di quattrocento esametri, in cui si immagina che le Muse convengano nel palazzo romano dei due fratelli; tema questo che riappare nell’ultima scena dell’Atto V a chiusura dell’Alceo, nonché nel sonetto messo a prefazione della sua favola pescatoria che, con dolcezza di verso e grande abilità scenica, narra l’amore infelice del giovane pescatore nettunese Alceo per la bellissima Eurilla anch’essa giovane pescatrice, prima riottosa all’amore e infine cedevole ad esso, e in cui fanno da sfondo personaggi quali Timeta (lo stesso Ongaro) e Alcippe, la saggia vecchia consigliera di Eurilla, nonché altri personaggi quali Tritone, Lesbina, Fillira, Siluro, Mormillo, Glicone, Venere che appare nel Prologo e l’Eco, artificio tecnico per la prima volta introdotto nella poesia rappresentativa. Sempre per ricordare la morte di Fabrizio Colonna, l’Ongaro scrisse un sonetto d’occasione, eppure non privo di una qualche commozione, l’unico –come è stato sottolineato- della sua varia e numerosa produzione (in proposito si ricordino le due egloghe Fillide e Glicone di cui numerosi luoghi ritornano nell’Alceo, e, ancora, sonetti, composizioni latine e in dialetto veneziano) rivolto a un personaggio della famiglia Colonna, dal titolo In morte di Fabritio Colonna.


Frontespizio edizione Princeps.

Alceo


Certo, se si riflette sul fatto che, allorché nel 1582, l’anno dopo della rappresentazione nettunese, pubblicò l’Alceo a Venezia per i tipi di Francesco Ziletti, la dedicatoria dell’opera non era rivolta ai Colonna, ma ai fratelli Ruis cui riconosceva una grande liberalità nei confronti degli artisti, si deve necessariamente evincere che tranne il legame di affetto e di gratitudine con e verso Fabrizio, l’Ongaro non si ritenne mai suddito della potente famiglia dei Colonna che pure lo aveva ospitato a Nettuno, Castello da cui trasse ispirazione per la sua opera. In compenso però, egli rese, seppur non nato a Nettuno, un grande servigio al Castello che lo aveva accolto, immortalandolo nella sua poesia e rendendo luoghi quali il Circeo, Torre Astura, lo Scoglio d’Orlando, il giardino del palazzo baronale descritti nella sua pescatoria la cui storia -come si legge nel frontespizio dell’edizione Ziletti- «si finge ne i lidi dove fu Anzio, dove è ora Nettuno, Castello dei signori colonnesi» patrimonio non solo di Nettuno ma della cultura nazionale e internazionale.

 


Ritratto di Antonio Ongaro che declama l’Alceo alla corte dei Colonna.
(cm 400x260) Comune di Nettuno.


Per terminare la descrizione degli eventi storici che interessarono Nettuno nel Cinquecento, nel secolo cioè che fu attraversato dalla Riforma Protestante di Martin Lutero con le tesi contro le degenerazioni del papato, affisse, nel 1517, sulla parete del palazzo ducale di Wittermberg; dal sacco di Roma del 1527 a opera dei Lanzichenecchi al comando del Duca Carlo di Borbone Connestabile di Francia al servizio dell’Imperatore Carlo V d’Asburgo, il quale l’anno precedente, il 1526, aveva sollevato contro lo Stato Pontificio i Colonna i cui soldati, su ordine del Cardinale Pompeo Colonna, devastarono la città santa; dal Concilio di Trento, convocato, quale reazione della Chiesa Cattolica alla Riforma Protestante, nel 1536 da Paolo III che, iniziato nel 1545, si chiuse solo nel 1563; dallo scisma anglicano con la persecuzione iconoclastica contro i cattolici prima di Enrico VIII e poi di Edoardo VI, nonché dal nepotismo dei papi; dalle lotte per il possesso dell’Italia tra Francia, Spagna e Impero d’Asburgo, dal declino della Spagna e dalla minaccia turca, e, infine, a livello culturale da quel grandioso fenomeno conosciuto come Rinascimento, inevitabilmente esauritosi sul finire del secolo, a Manierismo - dicevo - per terminare la storia di Nettuno nel Cinquecento, è da aggiungere che a poco più di un anno da quel 13 settembre 1594 in cui Marcantonio III e sua nonna Felicia Orsini vendettero il feudo di Nettuno, il giovane Marcantonio III che appena quattro giorni prima aveva avuto un figlio da Orsina Damasceni Peretti, al quale era stato imposto il nome di Marcantonio IV, morì alla giovanissima età di venti anni. Da lì a otto mesi, il 27 luglio 1596, morì a Roma Felicia Orsini, la vedova di Marcantonio II e madre sfortunata di Fabrizio che per i lutti che la colpirono, (nel 1580 la perdita del figlio e quattro anni dopo quella del marito), si autodefinì «l’infelice Felicia Orsini». Se con la morte della vedova di Marcantonio II si concludeva la lunga parabola spesso contraddittoria nella sua evoluzione politico-economica della famiglia dei Colonna sul Castello di Nettuno, miglior sorte certamente non toccò ai nettunesi una volta passati direttamente sotto il governo della Santa Sede. Ne è testimonianza una lite sorta nel 1598 tra l’affittuario di alcune terre, tale Savelli, e la comunità di Nettuno che -come scrive Vincenzo Monti in un suo documentatissimo saggio- ricorse a papa ClementeVIII, invocando l’intervento del Cardinale Cesare Baronio per risolvere la controversia.



Ritratto di Papa Clemente VIII.

 

Quest’ultimo, il 28 giugno di quell’anno, scrisse ai nettunesi da Ferrara, assicurandoli della volontà del pontefice di risolvere in loro favore la lite.
Il 21 maggio 1599, papa ClementeVIII emanò una disposizione, la Barberina, detta così perché la sua stesura fu affidata al chierico di camera Maffeo Barberini, il futuro Urbano VIII, con la quale furono imposti ai nettunesi nuovi e pesanti sacrifici. Il Consiglio Civico, con un atto del 22 novembre di quell’anno, proposto dal consigliere Paolo Segneri, deliberò di andare a Roma con una grande rappresentanza di popolo, per protestare contro la Barberina.

 

Il Seicento

 


Nettuno nel Seicento.



Palazzo Pamphilj, facciata.

L’inizio della costruzione di una villa in piazza Colonna che in seguito, ampliata e, quindi, affrescata da Pier Francesco Mola, prese il nome di Palazzo Doria-Pamphilj, ad opera del Cardinale Bartolomeo Cesi nel 1600, di fatto chiuse definitivamente il Cinquecento e aprì le porte al nuovo secolo.
Così, se il Cinquecento nettunese fu -come si è potuto constatareimprontato e segnato dalla straripante personalità politico-militare di Marcantonio II Colonna, il nuovo secolo, al contrario, fu segnato soprattutto dalle personalità artistiche del pittore Andrea Sacchi e del gesuita Paolo Segneri, e marginalmente dal passaggio di Pier Francesco Mola, personalità artistiche preannunciate, sul finire del Cinquecento, da quella di Antonio Ongaro, soprattutto per certi temi della poesia di quest’ultimo che anticiparono alcuni tòpoi caratteristici del Barocco.


È fuor di dubbio che quella maturata a Nettuno tra Manierismo e Barocco, fu una fortunata e certo irripetibile stagione culturale, concretizzatasi in un particolare momento della storia politica, economica, sociale e civile della nostra penisola, caratterizzata e profondamente segnata dall’emergere e affermarsi di una forma di economia e di organizzazione precapitalistiche, di cui un segno evidente fu la divisione sociale del lavoro e il contrasto tra città e campagna, riflesso persino nella letteratura e che nel Seicento mise in crisi e vide sfaldarsi le certezze del secolo precedente, gettando le basi della modernità.


Arisentire di ciò fu soprattutto l’intellettuale del Seicento che non fu, come nel secolo precedente, adulatore del signore di cui era al servizio e da cui riceveva pane e protezione, fosse egli principe o marchese, conte o cardinale, ma a causa della divisione sociale del lavoro, di cui detto, che ne specificò le caratteristiche e ne mutò la condizione, fu costretto a vivere del suo lavoro come qualsiasi altro professionista, e quindi non più all’ombra protettiva di qualche signore mecenate. Però, nel passaggio dal Cinquecento al Seicento, l’intellettuale, pur mutando i propri caratteri, conservò nella società un ruolo subalterno e secondario e mantenne inalterato il suo distacco dalla realtà.


Ritratto di Carlo II d’Inghilterra

Paolo Segneri


Tale fuga dal mondo -come vuole Walter Benjamin- fu propria del Barocco, in cui la crisi delle certezze rinascimentali sfociò, anche se solo in rarissimi casi, in un’arte della crisi, mentre nella maggior parte dei casi -come scrive Guido Morpurgo Tagliabue- sfociò in un’arte della conciliazione, della soluzione, del risultato facile e artificioso, ancorché iperbolico. Insomma, l’intellettuale che si formò sul finire del Cinquecento e massime nel Seicento, fu un intellettuale che, evitando di “sporcarsi le mani” con la realtà, finì per abdicare alla sua propria responsabilità personale-storica, scegliendo di essere puro letterato, o, che è lo stesso, puro ricercatore di una utopica e asettica isola dell’arte, nella quale potesse realizzare un ideale di vita serena e tranquilla. Proprio su tali basi, fiorirono numerose, in quegli anni, le Accademie, vere e proprie istituzioni letterarie, in cui gli intellettuali si riconoscevano parte di un gruppo, di un micro-universo culturalmente omogeneo. Accademie che, specialmente nel Seicento, sorsero numerose sia nelle grandi città, sia nei centri di periferia e che esprimevano o una volontà di impegno intellettuale e di resistenza ai condizionamenti esterni (Accurati, Coraggiosi, Illuminati, Infaticabili, Riformati, Risoluti), oppure denunciavano l’effettiva situazione di disagio (Addolorati, Inutili, Negletti, Sfaccendati), o, infine, avevano scopi scientifici ben marcati e finalizzati come l’Accademia dei Lincei, fondata a Roma nel 1602 dal Principe Federico Cesi e che annoverò fra i suoi membri anche Galileo Galilei, e come l’altra del Cimento, fondata nel 1657, da Leopoldo di Toscana, il cui prestigio e la cui notorietà le vennero da scienziati quali Vincenzo Viviani, Francesco Redi, Lorenzo Magalotti, Evangelista Torricelli. A queste due ultime Accademie seguirono più tardi, a livello europeo, la Royal Society di Londra, costituitasi negli anni quaranta, ma riconosciuta ufficialmente da Carlo II d’Inghilterra solo nel 1662, e l’Accademia Royale des Sciences, istituita nel 1666 dal ministro francese Jean Baptiste Colbert.


Andrea Sacchi.

Pala di altare di Andrea Sacchi.
Madonna di Loreto e Santi
nella Chiesa di San Francesco.


Del resto, tale cambiamento dell’intellettuale secentesco era speculare di un’Italia notevolmente mutata -come sottolinea Claudio Varese- rispetto a quella del Rinascimento: mutata nei centri culturali, mutata nel rinnovato zelo religioso, mutata nelle convezioni sentimentali dell’amore che non era più quello illustrato dai poeti della tradizione cortese, ma era quello dipinto e condannato dai predicatori della Controriforma quindi «non nobiltà, spiritualità, ma lascivia, voluttà, peccato»; mutata infine nella concezione che l’uomo aveva di sé stesso nell’universo e che aveva finito con l’accentuare la consapevolezza della sua piccolezza e del suo smarrimento di fronte al creato.
In questo clima di rinnovamento si inscrissero sia le vicende artistiche di Andrea Sacchi, Paolo Segneri e Pier Francesco Mola, sia la storia politico-economica di Nettuno.


I tre intellettuali in questione, ebbero a che fare con Nettuno, e quindi parteciparono e contribuirono alla sua storia: Pier Francesco Mola, più marginalmente, e direi, occasionalmente, che non Sacchi e Segneri. Il primo vi soggiornò il tempo necessario per portare a termine gli affreschi di Palazzo Pamphilj, il secondo vi ebbe la sua formazione artistica risiedendovi a lungo da fanciullo proveniente da Fermo dove era nato da Niccolò Pellegrini, e non quindi a Nettuno, (come al contrario vogliono G. P. Bellori, G.B. Passeri, H. Posse, A. D’Avossa, B. Tavassi La Greca e soprattutto Giuseppe Brovelli Soffredini secondo il quale il padre sarebbe stato il nettunese Giacomo Sacchi), in quanto adottato - come è stato dimostrato, nel 1977, da Ann Sutherland Harris- da Benedetto Sacchi di cui prese il cognome, pittore del luogo di mediocre levatura; il terzo infine vi ebbe i natali il 21 marzo del 1624.
Tutti e tre, come del resto pochi anni prima, nell’ultimo ventennio del Cinquecento, Antonio Ongaro, parteciparono e vissero quel contrasto in atto nella società che allora andava formandosi dando ad esso tutti la stessa risposta, ovvero evitando di prendere parte a quel contrasto e rifugiandosi nell’arte, l’Ongaro intendendola come una sorta di dilettevole inganno, gli altri come il luogo privilegiato di una ingegnosa meraviglia, sebbene il Barocco di Sacchi e di Segneri fosse un Barocco moderato, lontano dagli eccessi di Barocco proprio della gran parte delle poetiche del tempo: dal marinismo tutto giocato sulla metafora, al concettismo tutto tramato sul paralogismo e le agudezze, si pensi al Gracian e in area italiana al Tesauro e al Pellegrini.


In questo clima di rinnovamento politico-economico-culturale non solo si inscrisse la storia di Sacchi che dipinse a Nettuno la pala dell’altare della chiesa di S. Francesco situata di fronte alla fortezza fatta edificare da papa Borgia, chiesa che la tradizione vuole fondata direttamente dal poverello d’Assisi, durante un suo viaggio a Gaeta, e solo di passaggio quella del Mola, ma anche e soprattutto quella di Paolo Segneri. Questi, nato a Nettuno, educato nel Collegio Romano, entrò all’età di 13 anni, precisamente il 2 dicembre del 1637 nella Compagnia di Gesù, e ordinato sacerdote nel 1653, si distinse e per aver rinnovato l’oratoria sacra dell’epoca con la sua predicazione in cui confluivano le letture delle Sacre Scritture, dei Padri della Chiesa e delle orazioni di Cicerone, e per le sue missioni rurali in Italia condotte insieme con il Pinamonti, per le quali si serviva di un attenta e studiata coreografia atta a stupire il popolo: dalla processione di penitenza in cui risuonava la sua parola accesa, alla flagellazione corporale che si infliggeva sul pulpito, nonché dalla copiosissima produzione di testi quali i Panegirici Sacri, il Quaresimale, La Concordia, La Manna dell’Anima, Il Cristiano Istruito, etc... La fama e la stima di cui godette all’epoca lo fecero spesso richiedere come consigliere e/o mediatore di questioni difficili da risolvere persino da personalità politiche come quella del Granduca Cosimo III, presso la cui corte a Firenze egli spesso soggiornò.


Come dicevo, in questo clima di rinnovamento si inscrisse anche la storia di Nettuno, la cui situazione politica, ormai stabilizzatasi con il passaggio del Castello dai Colonna alla Santa Sede, favorì un ben visibile e concreto sviluppo economico. Difatti, almeno sino al 1656, Nettuno visse un periodo di relativa prosperità economica, grazie soprattutto alle ingenti somme di denaro ivi confluite e destinate all’edilizia pubblica e privata.

 


Pier Francesco Mola. Storia di Sant’Eustachio nel palazzo Pamphilj.


Il secolo -come già ho avuto modo di scrivere- si aprì con la costruzione di un edificio, il casino Cesi, nel centro del Borgo medievale su commissione del Cardinale Bartolomeo Cesi, la cui famiglia lo possedette sino al 1648, allorché il 30 settembre di quell’anno venne venduto da Federico Cesi, III Duca d’Acquasparta, a Camillo Pamphili appartenente alla famiglia romana dei Pamphili appunto, originaria di Gubbio che, con Antonio, il quale ottenne privilegi e favori da papa Sisto IV, si era trasferita sul finire del 1400 a Roma. Camillo Pamphilj, nipote di Giovan Battista Pamphilj, papa Innocenzo X, due anni più tardi fece ingrandire il Palazzo. Poiché nell’area circostante vi erano, intorno alla piazza, piccole case, l’edificio venne progettato e realizzato con disposizione parallela al mare, in modo che si affacciasse sullo stretto spazio pubblico esistente senza perdere l’aspetto di palazzo nobiliare, nonostante le ridotte dimensioni dello spazio occupato. Vi lavorò, con un pregevole ciclo di affreschi, si ricordi per tutti L’Allegoria della Pace, Pier Francesco Mola, detto il ticinese, pittore eclettico che fondeva la pittura di Raffaello e Michelangelo con i colori tenui di Tiziano e del Guercino e che fece parte dell’Accademia di San Luca nel 1655, di cui fu principe dal 1662 al 1663, ossia sino a tre anni prima della sua morte, Accademia quella di San Luca in Roma di cui fece parte anche Andrea Sacchi, così come, in passato, Antonio Ongaro aveva fatto parte dell’Accademia degli Illuminati, fondata dalla marchesa Isabella Pallavicini, suocera di Mario Farnese, con il nome di Affidato.


Pier Francesco Mola.

Nettuno, Palazzo Pamphilj,
Pier Francesco Mola, La Sapienza.


Nel tempo che intercorse dal 1600 al 1650, la Camera Apostolica restaurò, tra il 1625 e il 1626, le fortificazioni del Borgo Medievale e ricostruì il baluardo San Rocco, verso levante, armandolo con batterie di artiglieria.
Urbano VIII, papa Barberini, e monsignor Cesi, tesoriere della Camera Apostolica che papa Cemente VIII aveva inviato nel 1600 a Nettuno quale sopraintendente ai lavori per la razionalizzazione urbanistica di quel piccolo Borgo costiero, a ricordo dell’opera appena terminata, posero sulle mura fortificate i propri stemmi.


Nel frattempo da Clemente VIII a Urbano VIII si erano avvicendati sul soglio di Pietro altri tre papi: Leone XI, Paolo V e Gregorio XV, preceduti, a loro volta, non solo da Clemente VIII, ma, dal 1590 al 1592, da Urbano VII Castagna che tenne il soglio di Pietro solo per 13 giorni (dal 15 al 27 settembre del 1590), da Gregorio XIV (1590-1591) e, infine, da Innocenzo IX (159I-1592).


Il 20 gennaio di quattro anni prima del restauro delle fortificazioni del Borgo e della ricostruzione del baluardo San Rocco, precisamente nel 1622, Gregorio XV, papa Ludovisi, si era recato a Nettuno per visitare la chiesa e il convento di Santa Maria del Quarto, costruito dalla comunità nettunese tra il 1619 e il 1621, con a capo il Priore Francesco Segneri e abitato per un periodo dai Riformati di San Francesco, quindi dagli Osservanti, e in seguito, fino al 1660, dai padri Minimi di San Francesco di Paola. In seguito, dopo che nel 1627 fu sottoposta a opere di restauro, la chiesa fu ceduta in perpetua proprietà al Capitolo di San Giovanni di Nettuno dal Cardinale, Vescovo di Albano, mentre con decreto di Alessandro VII il convento, con l’annesso terreno, fu venduto a un tale Papi di Marino, i cui eredi lo rivendettero al principe Colonna e questi al Capitolo di Nettuno verso il 1700.


La chiesa di Santa Maria del Quarto.


Ritratto di Papa Urbano VIII.


 


Due anni prima dell’Anno Santo del 1650, durante il quale cinquecento nettunesi, tra uomini e donne, si recarono in pellegrinaggio a Roma per l’acquisto del Giubileo e precisamente il 24 aprile del 1648 morì, a Sezze Romano, Padre Giovanni Battista, cappuccino, al secolo Bernardino Rosselli, nato a Nettuno nel 1584, sacerdote, predicatore, uomo di grande umiltà che fu sin da vivo in concetto di santità. Da lì a pochi anni Nettuno pagò un duro prezzo alla stabilità economica raggiunta, ancora una volta grazie a ingenti somme di denaro riversate nel suo territorio per l’edilizia. Nel 1648, o come vuole Giancarlo Baiocco nel 1647, a pochi anni dalla sua nomina a Cardinale, avvenuta nel 1643, ad opera di Urbano VIII, Vincenzo Costaguti, appartenente ad una famiglia di banchieri genovesi trapiantati a Roma nel 1585, fece costruire Villa Bell’Aspetto nel mezzo di uno stupendo parco di circa quaranta ettari prospiciente il mar Tirreno, che restò di proprietà dei Costaguti sino al 1818, dopo che alla morte del Cardinale Vincenzo essa passò in eredità al fratello Cardinale Giovan Battista Costaguti che nel 1674 donò all’oratorio di Nettuno un’opera marmorea attribuita al Sansovino. Infatti nel 1818 il marchese Luigi Costaguti la vendette a Giovanni Torlonia e in seguito, il 3 maggio 1832 i fratelli Alessandro e Carlo Torlonia la vendettero, a loro volta, al principe Camillo Borghese la cui famiglia tuttora la possiede.

 


Villa Borghese.


Dicevo che, da lì a pochi anni Nettuno pagò un duro tributo alla sua stabilità politico-economica raggiunta in quegli anni. Nel 1656, a poco meno di dieci anni cioè dall’edificazione di Villa Bell’Aspetto, dal Regno di Napoli il flagello della peste si abbatté sul territorio nettunese. Le vittime del morbo furono numerosissime, tanto che la popolazione si ridusse a solo 800 persone dei 3000 abitanti che contava. Nel terrore che il morbo avesse potuto propagarsi mediante carte vecchie, si bruciarono libri, registri e documenti antichi, e a sollievo dei più poveri venne istituito il Monte Frumentario per la distribuzione del grano.

Pagato questo pesante tributo di uomini e di ricchezza al contagio e una volta debellatolo, Nettuno sembrò attraversare un periodo di nuovo relativo benessere, segnato da una lenta e costante ripresa economica e quindi demografica, grazie ancora una volta alla massa di denaro messo in circolazione per dar avvio alla realizzazione della costruzione del porto, promesso a suo tempo, da Clemente VIII.


Prima di parlare della realizzazione di questa importante opera pubblica, mi corre l’obbligo di soffermare la mia attenzione su un aspetto di carattere religioso tuttora tanto caro al popolo di Nettuno che proprio in questi anni trovò il suo compimento e quindi la sua definitiva consacrazione.


Nel 1661, a cinque anni dalla peste, il Cardinale Tornali, Vescovo di Albano, promosse la tradizione della solenne processione della Madonna delle Grazie: ordinò che la statua di Nostra Signora delle Grazie fosse portata in processione la prima domenica di maggio nella chiesa Collegiata. In seguito a tale solenne celebrazione si fornì la statua di un trono di cui era sprovvista e sul quale da allora venne adagiata la Madonna col Bambino.


Tra il 1697 e il 1700 finalmente venne realizzato il porto tanto atteso dai nettunesi. Innocenzo XII, papa Pignatelli, il 21 aprile 1697, su pressione dei nettunesi e dei napoletani suoi concittadini, ai quali, per motivi economico-commerciali stava a cuore che si realizzasse il porto nel Castello di Nettuno, si preparò a realizzare le promesse fatte alla cittadinanza da Clemente VIII. Si recò, quel 21 aprile, a Nettuno, ospite di Giovan Battista Pamphilj-Aldobrandini, -la cui fortuna familiare fu favorita dalla madre di Camillo, Olimpia Maidalchini e da sua moglie Olimpia Aldobrandini, già vedova di Paolo Borghese-, ospite nell’omonimo palazzo ove dimorò per quattro giorni, sino al 25 aprile, portando con sé una commissione di dodici Cardinali e due tecnici, l’architetto Carlo Fontana e l’ingegnere idraulico Alessandro Zinaghi, promotori di due progetti alternativi l’uno all’altro.


Innocenzo XII, seguito da una grandissima folla, si recò a Capo d’Anzio per individuare il luogo più adatto alla costruzione del porto. Dopo attento esame, il progetto di Carlo Fontana che prevedeva la costruzione del porto a occidente, utilizzando i moli neroniani ancora esistenti, venne scartato, e venne, invece, approvato quello di Alessandro Zinaghi che, prevedendo una spesa assai minore, riteneva più opportuno addossare il nuovo porto al molo orientale antico; con tale progetto in definitiva si finì con l’abbandonare del tutto, e quindi di superare, quella che era stata l’intenzione di Clemente VIII.
I lavori, iniziati il 16 maggio 1698, terminarono, non senza aver superato più di una difficoltà, nello stesso mese di due anni dopo.

 


P. Reschi,
veduta di Nettuno dal porto neroniano, 1686-1692.


I nettunesi entusiasti della realizzazione del loro sogno e inconsapevoli di ciò che di lì a poco sarebbe avvenuto, grati al papa per quella costruzione, vollero che il nuovo porto si chiamasse Innocenziano. Il 31 marzo del 1700, un mese e mezzo prima della fine dei lavori, Innocenzo XII acquistò dal principe Giovanni Pamphilj Aldobrandini tutta la valle intorno al nuovo porto, al fine di permettere ai nettunesi di costruirvi le loro abitazioni in modo da agevolarli nei commerci marittimi, anche perché all’infuori del villino Cesi, la Torre di Capo d’Anzio, una vecchia e malandata osteria ed alcune misere capanne, il luogo era ancora disabitato.

 


V. Cornelli, Porto Antico d’Anzio. Porto Nuovo d’Anzio, 1698-1699.



Papa Benedetto XIV.

Furono costruiti alloggi per i funzionari del porto e per i sorveglianti delle ciurme, costituite per lo più da prigionieri turchi fatti schiavi e da condannati alle galere, nonché per i soldati addetti alle torri d’avvistamento lungo il litorale. Per l’assistenza religiosa ai circa trecento abitanti della zona venne costruita una piccola chiesa dedicata a S. Antonio. Inaugurato a maggio del 1700 il nuovo porto e commemorato l’evento con una moneta coniata appositamente con la scritta «Venti et mare oboediunt ei», venne nominata una commissione amministrativa, composta da un rappresentante della famiglia Pamphlilj-Aldobrandini, il Cardinale Benedetto, figlio di Camillo, con la carica di Plenipotenziario del porto che in tarda età si ritirò nel palazzo di famiglia a Nettuno circondato, egli stesso poeta, da poeti, musici e letterati, nonché da due attori romani e da alcuni prelati. Il porto rimase di proprietà della Camera Apostolica e si decretò che esso dovesse essere mantenuto col fondo spese delle tasse dei nettunesi che però vennero esclusi dagli utili. Intanto durante il suo plenipotenziariato Camillo Pamphilj-Aldobrandini fece portare nella villa Bel Respiro di Roma moltissimi reperti archeologici di epoca romana trovati negli scavi del porto o in altri scavi eseguiti nell’entroterra nettunese. Insomma, il porto che i nettunesi avevano tanto desiderato non portò loro quei vantaggi sperati, perché essi di fatto ne furono esclusi, tanto che più tardi, nel 1746, Benedetto XIV, papa Lambertini, pressato e sollecitato dalle continue lamentele dei contribuenti si recò a Nettuno, con il suo segretario di stato, Cardinale Valenti, per rendersi conto personalmente della natura delle ingenti spese di manutenzione del porto e si convinse amaramente che sarebbe stato più economico ripristinare il vecchio porto neroniano così come avrebbe voluto fare Clemente VIII e, per evitarne la perdita, incaricò il Brigadiere Mareschal, ispettore generale dei porti della Francia nel mediterraneo, di trovare egli una soluzione.

 

Il Settecento

 


Nettuno agli inizi del Settecento.


Tra un fatto e l’altro, in questo breve excursus storico, siamo arrivati senza quasi accorgersene al 1700, nel secolo cioè che si aprì con l’Anno Santo e che vide, da un lato, un gran numero di nettunesi, guidati dalle Confraternite del Carmine e del S.S. Sacramento, recarsi in pellegrinaggio a Roma con la statua di Nostra Signora delle Grazie e, dall’altro, Giorgio I d’Inghilterra ospite di villa Costaguti, villa Bell’Aspetto, e del palazzo Pamphili-Aldobrandini, in occasione della sua visita alle galee pontificie ancorate nel porto Innocenziano.


Anche in questo secolo, come del resto nel precedente, Nettuno fu un grande cantiere in cui si riversarono ancora una volta notevoli somme di denaro per la costruzione di sontuose ville. Il 7 ottobre 1726 il Cardinale Alessandro Albani, nipote di Clemente XI e appassionato di archeologia, dopo aver acquistato dal Capitolo di S. Giovanni di Nettuno, un vastissimo terreno nelle vicinanze del porto Innocenziano, commissionò la costruzione di uno splendido casino di campagna che lo avrebbe dovuto ospitare durante i periodi estivi e soprattutto durante le operazioni di scavo per i suoi numerosissimi ritrovamenti archeologici.


Il Porto Innocenziano e le ville cardinalizie
nella metà del Settecento.


Il casino venne costruito utilizzando materiali tratti dai ruderi di monumenti antichi. Quindi, dando seguito alla sua grande passione, fece eseguire scavi rinvenendo numerosi reperti archeologici con cui allestì un museo nel quale vennero collocate alcune opere d’arte trovate a Nettuno, quali le statue di Ercole, Esculapio, Giove, Pallade, i busti di Adriano, Settimio Severo, Faustina Augusta etc... In seguito a tali ritrovamenti chiese e ottenne il permesso di eseguire scavi nel vasto territorio nettunese per la ricerca di opere d’arte. Gran parte di questo patrimonio archeologico rischiò di disperdersi per l’Europa, in quanto egli nel 1730 aveva già venduto al Re di Polonia una quantità di statue per 25.000 scudi, oppure le aveva donate come omaggio ai numerosi ospiti che riceveva nella sua villa tra i quali va ricordato il famoso archeologo tedesco Winchelmann, spesse volte suo ospite e compagno. Fortunatamente la gran parte dei pezzi rinvenuti li vendette, il 15 dicembre 1733, al prezzo di 6000 scudi romani, al papa Clemente XII Corsini, il quale li fece collocare nel museo capitolino.


Ritratto di Giorgio I,
opera di Godfrey Kneller.

Il Cardinale Alessandro Albani.

 


Una seconda villa venne costruita dal Cardinale Neri Maria Corsini di fronte al porto tra il 1735 e il 1740, per questo «suo casino al mare […] magnifico palagio che torreggia dirimpetto al porto neroniano» il Cardinale Corsini si avvalse della manodopera di un cospicuo numero di galeotti, di ciurme e maestranze deputate ai lavori del porto e - come è stato scritto- di «una fornace fatta costruire da Innocenzo XIII per gli edifici camerali», nonché di una «grande quantità di materiali da costruzione prelevati da quel vasto cantiere di rovine romane che aveva all’intorno».

 


G. Van Wittel, Veduta di Nettuno, 1710.

 

Certo i 20.000 scudi che servirono per la costruzione della villa anche se non furono attinti direttamente dal patrimonio del Cardinal Corsini, dovettero in un certo senso contribuire a incrementare l’economia locale che già dal 1730 aveva avuto una notevole spinta in avanti, allorché gli abitanti di Nettuno, che vivevano per lo più di agricoltura, dettero inizio al disboscamento di una vasta zona dell’entroterra, mettendovi a coltura un vitigno detto «cacchione» da cui si otteneva una uva dalla cui lavorazione si produceva un vino che trovò consenso a Roma, dove veniva consumato nella bottega di «Falcone» a Sant’Eustachio e di «Padron Clemente» dietro San Gallicano, e dove giungeva trasportato in carri dai nettunesi, dopo una sosta notturna a Fontana di Papa.
Sempre nel 1730, precisamente il 22 marzo, morì il Cardinale Benedetto Pamphilj-Aldobrandini, il Plenipotenziario del porto che tanta parte aveva avuto in vita per le sorti di Nettuno e dei suoi abitanti, cui successe il nipote Camillo Junior.

Con la costruzione di sontuose ville, con la produzione del «cacchione » ottenuto da uva da terre recentemente messe a coltura, si ebbe un innalzamento del tenore di vita dei nettunesi che, come più importante e tangibile conseguenza, portò a un aumento demografico tale che, nel 1738, si dovette demolire l’antica chiesa Collegiata divenuta ormai troppo piccola per la cittadinanza e in più in cattivo stato, per costruirne un'altra più grande e accogliente che rispecchiasse però lo stesso modello della precedente. Di diverso parere è Giancarlo Baiocco, secondo il quale la Chiesa Collegiata prese il posto della medievale chiesa di Santa Maria Assunta che, a sua volta, aveva sostituito una più antica chiesa paleocristiana eretta – come egli scrive - «per tradizione, nell’area di un tempio pagano, dedicato al dio Nettuno» La nuova costruzione, realizzata su progetto dell’architetto Carlo Marchionni, fu ultimata dieci anni più tardi, nel 1748, e dedicata ai Santi Giovanni Battista ed Evangelista e alla Vergine Santissima assunta in cielo, come si evince anche dalla pala dell’Altare Maggiore dipinta dal viterbese Vincenzo Strigelli, formatosi alla scuola romana di Pietro Conca, il quale l’anno precedente aveva lavorato per la Parrocchiale di Sant’Angelo Romano, territorio dei principi Borghese, dove aveva affrescato la volta della chiesa diSanta Maria e Biagio. Certamente fu tale lavoro che gli valse la commissione dell’altare maggiore della chiesa Collegiata di Nettuno, molto probabilmente su segnalazione di qualche personaggio gravitante nella cerchia dei Borghese, in quanto Camillo Borghese e Agnese Colonna furono in stretti rapporti con Benedetto XIV, il quale fu tra i finanziatori dei lavori di rifacimento della Collegiata di Nettuno che costò ben 14.000 scudi, somma alla quale contribuirono, insieme a Benedetto XIV, il Municipio, le Pie Associazioni e Clemente XII. Nel frattempo papa Lambertini con la Bolla Assidua omnium ecclesiarum sollicitudo del 2 settembre 1745 nell’istituire la nuova parrocchia di Anzio, rendendola autonoma dalla Chiesa dei Santi Giovanni Battista ed Evangelista di Nettuno, ribadiva la natura di Chiesa Madre di Anzio e di Conca della Collegiata di Nettuno. Difatti, «in segno e memoria della […] matricità » di detta Collegiata, stabiliva che il nuovo Parrocco di Anzio avrebbe potuto amministrare tutti i Sacramenti della Chiesa con l’eccezione di quello del Battesimo riservato alla Chiesa Madre di Nettuno e che inoltre avrebbe dovuto prendere, ogni anno, l’Olio Santo degli infermi sempre ed esclusivamente da detta Chiesa. Del resto, che la Collegiata di Nettuno fosse Chiesa Madre e, quindi, una volta anche Cattedrale con sede vescovile per di più coeva della Cattedrale di Albano, è dimostrato dal fatto che in occasione dei Sinodi diocesani il clero nettunese formava -come è stato scritto da don Vincezo Cerri- un solo corpo con quello
di Albano, incedendo sotto la medesima Croce.


La nuova Chiesa Collegiata di Nettuno venne consacrata il 25 novembre 1749 dal Vescovo Suffraganeo di Velletri, Mons. Cremona, delegato per questo atto dal Cardinale Carafa, Vescovo di Albano.

 


Nettuno,
Collegiata dei Santi
Battista ed Evangelista.


Interno della Collegiata

 


Circa dieci anni più tardi, nel 1758, su invito dell’arciprete-parroco di San Giovanni, Ambrogio de Massimi, vennero a Nettuno le maestre Pie Filippini per la gratuita istruzione religiosa e civile delle bambine. Le Maestre Pie, alla morte della loro fondatrice, Lucia Filippini, avvenuta il 25 marzo del 1732 (dopo ben 39 anni di indefesso insegnamento, cui il Cardinale, di origine veneziana, Marco Antonio Francesco Barbarigo l’aveva indirizzata, affidandole, appena ventenne, l’istruzione scolastica di educazione delle fanciulle nelle diocesi di Corneto e Montefiascone, promossa inizialmente da Rosa Venerini da Viterbo) avevano aperto scuole, dopo quelle già esistenti di Montefiascone, Tarquinia, Capodimonte, Marta, Latera, Grotte di Castro, a Roma e in altri centri del Lazio, in Italia, soprattutto in Toscana, e, quindi, nelle Americhe, specialmente quella del nord, affiancandosi, in tal senso, nell’educazione cristiana delle fanciulle, a quelle sorte ad opera dei Gesuiti e degli Scolopi per l’educazione dei ragazzi. Proprio a tale seconda ondata di fondazioni di scuole risalì quella di Nettuno. Le Maestre Pie vi giunsero -come ho già scritto- nel 1758, 26 anni dopo la morte della loro fondatrice, invitate dall’arciprete-parroco della Collegiata di Nettuno, per volere esplicito del Cardinale Corsini, il quale fornì, a sue spese, l’edificio scolastico ubicato in via Sacchi insieme a una donna che faceva loro da inserviente.


In questo modo, con l’arrivo delle Maestre Pie Filippini, anche le ragazze che venivano istruite gratuitamente nella religione, nel leggere, nello scrivere e nei lavori domestici, poterono affiancarsi nell’educazione ai ragazzi di Nettuno, per la cui istruzione la Reverenda Camera Apostolica stipendiava, all’epoca, un appartenente all’ordine dei Padri Conventuali, il quale aveva la cura dell’insegnamento, guidandoli nel leggere, nello scrivere e altresì, fornendo loro anche alcuni insegnamenti di matematica e di lingua latina.


Papa Clemente VIII.


Stemma della famiglia Doria Pamphilj.


Nel 1760 monsignor Bartolomeo Soffredini, nato a Nettuno nel 1707, giovane sacerdote all’epoca della costruzione di Villa Albani, fu inviato come Internunzio a Bruxelles da Clemente XIII, papa Rezzonico, dopo che era stato Superiore delle missioni in Olanda sotto i papi Benedetto XIV e quindi Clemente XIII, e a cui si deve la stesura di una Storia di Nettuno pubblicata nel 1750, intorno alla quale lavorò, ampliandola notevolmente, sino a quando la morte non lo colse, molto probabilmente non oltre il 1772 se è vero che in quell’anno un suo discendente pubblicò un suo manoscritto sul territorio di Anzio e Nettuno, dal titolo Brevi memorie dell’antica città di Anzo del presente Nettuno e del moderno porto d’Anzo, la cui stampa originale è di difficile reperimento, per non dire introvabile, che, a mio parere, è il punto di approdo della sua fatica di studioso della storia del territorio che gli ha dato i natali, studio portato avanti per tappe così come dimostrano due manoscritti conservati nella biblioteca del Senato, uno del 1815 dal titolo Storia di Nettuno e di Anzo, pubblicata nel 1825 a Roma dal Rasi all’interno della sua opera, Dimostrazione della necessità e facilità del ristabilimento dell’antico porto neroniano d’Anzio, degli inconvenienti ed inutilità del moderno Innocenziano, e un secondo del 1839, intitolato Brevi memorie dell’antica città d’Anzo, del presente Nettuno e del moderno porto d’Anzo, la redazione appunto definitiva del suo lavoro, pubblicato nel 1998, a cura di Ida Paladino, con il titolo Breve Storia di Anzio e Nettuno, per i tipi dell’editore Ugo Magnanti.

Nello stesso anno, ovvero nel 1760, con l’estinzione dei Pamphilj, in seguito alla morte di Girolamo, ultimo erede, i beni della famiglia, finirono col passare, compreso il palazzo di Nettuno, al ramo Doria- Pamphilj. Difatti nel 1763 papa Clemente XIII concesse al principe Giovanni Andrea IV Doria Landi il cognome, le insegne e i beni della famiglia Pamphili, in virtù della parentela acquisita dal matrimonio che l’ultima rampolla femminile di tale famiglia, Anna, morta nel 1740, aveva contratto,nel 1671, con Giovanni Andrea Doria III, discendente di un’importante e ricca famiglia genovese.


Queste furono le vicende più significative che interessarono Nettuno nel Settecento, ovvero nel secolo che, a livello culturale e artistico, seppe e volle reagire a quanto era stato prodotto nel Seicento, allorché l’arte e la letteratura avevano sviluppato un immaginario in cui finirono per occupare un posto centrale i temi della caducità del tempo, della morte, della finitezza umana, come dimostrò quel diffuso sentimento spirituale ed esistenziale tipicamente secentesco, sintetizzabile nell’ammonimento del memento mori, così bene rappresentato ed espresso nella tela del 1641 di Sebastian Stoskopff, Allegoria della Vanità e nell’Autoritratto con i simboli della vanità del 1651 di David Bailly, nei quali è raffigurato in primo piano, ad ammonimento della morte, un teschio umano; nonché le atmosfere melanconiche e notturne proprie di certa poesia medio e tardo Barocca di tono concettistico, eppure nello stesso tempo sentita e partecipata, del Cardinale Giovanni Delfino (Venezia 22 aprile 1617- Roma 1699),


Stoskopff, Vanitas, 1630,
Basilea, Kunstmuseum.

 

la cui vita, per l’avvicendarsi di momenti laici ed ecclesiastici, tanto rassomigliò all’altra del più giovane concittadino, Cardinale Marco Antonio Francesco Barbarigo (Venezia 16 marzo 1640 (Montefiascone 26 maggio 1706), il quale ebbe una importanza fondamentale nella vita di Lucia Filippini, e che, trasferitosi a Roma al seguito dell’altro suo concittadino Cardinale Gregorio Giovanni Gaspero Barbarigo (a questi Paolo Segneri dedicò la seconda edizione, nel 1684, dei suoi Panegirici Sacri) in occasione del Conclave del 1676 in cui fu eletto Innocenzo XI, soggiornò su esplicita richiesta del papa appena eletto, prima che gli venissero affidate le Diocesi di Corneto e Montefiascone, nella città santa nella quale, a opera di alcune figure prestigiose nel campo della cultura, quali Sforza-Pallavicino, Maffeo Barberini, Virginio Cesarini, Francesco Caetano, Giovanni Cristoforo, Giovan Battista Ciampoli, Daniello Bartoli, Paolo Segneri e Andrea Sacchi, si era sviluppata quella corrente poetica e artistica di moderato Barocco che aveva preso le mosse da Campanella del commento ai Poemata di Maffeo Barberini e della Poetica, corrente che da Roma, passando per la Toscana e la Liguria, arrivò sino a Venezia.


A tale secolo si oppose, appunto, il 1700, il secolo della ragione che in Italia, colle personalità di Muratori, Giannone, Vico, anticipò la nascita di un nuovo modello di cultura critica, orientata all’azione pratica, alla pubblica utilità, che da lì a breve fu la caratteristica della Bildung europea e che trovò piena fortuna ed espressione nell’opera degli Illuministi francesi. Insomma il 1700 fu il secolo che segnò la nascita di un nuovo modello culturale il quale, dagli anni ’30 in poi, conquistò vaste adesioni sulla scena mondiale e segnò in modo decisivo l’evolversi delle vicende storico-politiche, etico-morali, di pensiero e di costume del mondo occidentale tutto, e quindi di Nettuno, certamente non estranee le idee della Rivoluzione Francese, che nel frattempo andavano favorendo e diffondendo una nuova laica Weltanschauung, quale emblema di una definitiva e più matura modernità che produsse una consequenziale pratica politica la cui forza modificatrice non risparmiò certamente neppure lo Stato pontificio governato da Pio VI, papa Braschi, l’iniziatore, nel 1777, della bonifica della palude pontina, vicinissima confinante con il territorio nettunese.

Pio VI dapprima perdette tutti i possedimenti in Francia che gli furono confiscati dai rivoluzionari i quali non contenti bruciarono il suo ritratto nel Palazzo Reale di Parigi e, poi, nel 1796, fu costretto, da Napoleone che aveva invaso l’Italia, all’umiliante armistizio di Bologna, con cui dovette cedere Bologna, Ferrara e Ancona, nonché versare 21.000.000 di scudi e consegnare numerose opere d’arte. Quando Pio VI si alleò con l’Austria al fine di dar vita a una coalizione contro la Francia, Napoleone, a sua volta, si unì in un patto politico-militare con Ferdinando I di Napoli, il quale ordinò al suo esercito di invadere i feudi papali gravitanti nel suo territorio. Nello scontro armato che seguì l’esercito pontificio fu sconfitto il 10 febbraio del 1797 e otto giorni dopo i francesi saccheggiarono il Santuario di Loreto. Il papa fu costretto allora a firmare il trattato di Tolentino (febbraio 1797) che gli costò altri 25.000.000 di scudi e numerose opere d’arte. La situazione peggiorò il 18 dicembre di quell’anno quando nel corso di un tumulto il generale napoleonico Duphot venne ucciso e questo diede il pretesto ai francesi di occupare Roma. Gli avvenimenti che seguirono da lì a due mesi segnarono la definitiva sconfitta di
Pio VI che il 15 febbraio del 1798 fu deposto dai suoi avversari politici i quali, schierati apertamente con i francesi e abbracciati gli ideali rivoluzionari, proclamarono la repubblica. PioVI, fatto prigioniero, cinque giorni dopo, ossia il 20 febbraio di quell’anno, venne trasferito da Roma a Siena dove restò tre mesi e da qui alla Certosa di Firenze dove venne segregato. Nel marzo successivo venne prima trasferito a Bologna e in seguito in Francia, a Grenoble, e dopo il 19 luglio venne rinchiuso nella fortezza di Valence, capoluogo della Drome dove morì il 29 agosto dello stesso anno.


Con l’elezione di Pio VII, papa Chiaramonti, avvenuta nel Conclave di Venezia presso il Monastero di San Giorgio sotto la protezione dell’Austria, essendo Roma occupata dai francesi, il 14 marzo del 1800, si concluse la storia del Settecento nettunese che negli ultimi anni del secolo visse, e non poteva essere diversamente,lo stesso momento di crisi dello Stato pontificio, divenendo una sorta di specola del tracollo della politica e, quindi, del papato di Pio VI, testimoniato sino alla metà del secolo scorso dalla presenza, nell’attuale piazzale Berlinguer, di una caserma delle truppe napoleoniche, del resto assai ben conservata, tale da essere abitata ancora allora dalla popolazione civile.


Acquartieramento napoleonico che, creduto a torto parte integrante della Caserma Donati, ovvero del Distaccamento militare del Poligono di tiro, così chiamata per ricordare la memoria del capitano d’artiglieria nettunese morto eroicamente nel primo conflitto mondiale, e non, come realmente era, preesistente ad essa, fu sciaguratamente abbattuto insieme agli alloggiamenti del Distaccamento sul finire degli anni ottanta del secolo scorso.


Papa Pio VI.

Napoleone Bonaparte
(Ajaccio, 15 agosto 1769,
Isola di Sant'Elena, 5 maggio 1821).

 


OPERA APPARTENENTE AL FONDO BIBLIOGRAFICO
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