Il Lazio in età medievale
Sito rurale nel Lazio
in età medievale.
Il Mausoleo di Teodorico
a Ravenna |
La storia europea è suddivisa in quattro grandi periodi: età classica,
età medievale, età moderna, età contemporanea.
L’età medievale ha inizio, per convenzione storica, dalla fine
dell’Impero Romano d’Occidente, nel 476 d.C., con la deposizione
dell’ultimo imperatore romano Romolo Augustolo. Sul confine superiore
non c’è un’ipotesi univoca: c’è chi fa coincidere tale termine con
la scoperta delle Americhe da parte di Cristoforo Colombo. Diciamo
che, in Italia si predilige far concludere l’età del Medioevo con la fine
del ‘300, dando dignità autonoma ai due secoli successivi: età umanistica
nel ‘400 ed età rinascimentale nel ‘500. La principale suddivisione
interna relativamente all’età medievale è quella che distingue questo
periodo storico in Alto Medioevo e Basso Medioevo.
Vediamo ora a grandi linee quali trasformazioni caratterizzano la
nostra regione in età medievale. A partire dal V secolo si assiste alle
invasioni barbariche dei Goti e dei Longobardi; il Lazio è segnato nel
410 dalla discesa dei Visigoti di Alarico che distrussero alcune città come Veio, Lucus Feroniae, Falerii Novi e Capena. Il seguente regno
di Teodorico coincide con un periodo di relativa calma nella nostra
regione; lo spostamento della capitale a Ravenna tende a creare indirettamente
le condizioni per un rafforzamento del potere del Papa per
un maggior controllo delle aree circostanti a Roma.
Nel 535 la guerra greco-gotica, che vide i principali scontri tra le
armate gotiche e quelle bizantine svilupparsi lungo la Via Flaminia,
determinò l’innestarsi di un progressivo quanto inevitabile declino.
Alla vittoria dei bizantini segue un periodo di pace che dura fino alla
discesa dei Longobardi e all’assedio di Roma di Agilulfo nel 593.
Nel V secolo la conversione del re dei Franchi Clodoveo al cristianesimo
aveva rafforzato in modo decisivo il potere temporale del
Papa nell’Italia centrale, tuttavia una recrudescenza del fenomeno
malarico e l’azione distruttiva dei Longobardi determinarono l’abbandono
di vaste aree agricole; la precarietà dei raccolti soggetti alle frequenti
scorrerie ne fu la causa principale; si preferiva semmai la
pastorizia, visto che gli armenti sono più facilmente amovibili. Si finì
per arroccarsi all’interno di città fortificate (castra).
L’area controllata dai Longobardi comprendeva gran parte della
Tuscia, mentre l’avamposto romano era collocato nell’area di Nepi.
Strategica fu la riconquista di un canale di collegamento tra
l’Impero bizantino e Roma attraverso il controllo di Sutri, Orte,
Narni, Todi e Perugia. La zona tuttavia continuava a rimanere instabile
e questo favorì il processo di incastellamento. Una serie di insediamenti
fortificati, quelli di Sutri, Nepi e Civita Castellana erano volti al controllo delle vie di comunicazione della Via Cassia,
Amerina e Flaminia.
Il contrasto del papato all’offensiva longobarda produsse anche il
risultato di rafforzare la sua autonomia da Bisanzio; così dopo la sconfitta
definitiva dei Longobardi per mano di Carlo Magno e la sua incoronazione
a imperatore del Sacro Romano Impero il potere del Papa ne uscì ulteriormente rafforzato. Con la nascita del Feudalesimo, attraverso il
crescente potere dei vescovi, vi fu un ulteriore incremento di tale potere.
Rimaneva in atto nel Lazio una suddivisione del territorio tra un
ducato longobardo, nonostante la conversione dei Longobardi al cristianesimo,
e un ducato romano, sotto il controllo di Bisanzio e del
Papato. Tale situazione sopravvisse tra il VI e l’VIII secolo; da una
parte le diocesi longobarde di Tuscania, Bagnoregio e Ferento, comprendente
quindi buona parte del viterbese, dall’altra le diocesi di
Civitavecchia, Blera e Bomarzo, in continuità territoriale con le città fortificate di Narni, Todi, Amelia e Perugia.
Proprio questa suddivisione territoriale determinò una diversa
tipologia di sviluppo di queste aree nei secoli a venire: il territorio
vicino a Roma vide la nascita di piccoli centri sotto il controllo prima
dei grandi monasteri romani, proprietari di grandi latifondi, e dopo
veri e propri feudi delle principali famiglie aristocratiche romane; le
aree sotto il controllo longobardo videro in molti casi invece l’abbandono
dei centri abitati.
Ritratto di Carlo Magno,
imperatore del Sacro Romano Impero. |
Papa Zaccaria. |
È in questo periodo che la Chiesa di Roma diventa una potenza territoriale,
ciò nella fattispecie avviene con la donazione di Sutri nel 727. Il Patrimonium Sancti Petri era nel Lazio diviso in sei parti: Patrimonium Urbanum, Appiae, Tusciae, Sabinense, Labicanum,
Tiburtinum. Notizie in tal senso risalgono a Papa Zaccaria. Fu proprio
tale Papa ad introdurre le prime cinque domuscultae, ciò al fine di procedere
ad una riorganizzazione territoriale e ad una diversa struttura
di produzione dei beni. Se, infatti, nel VI sec. la nascita del monachesimo
occidentale, con la fondazione di numerosi monasteri, il principale
nel Lazio quello di Montecassino, aveva rivestito una grande
importanza nella vita sociale ed economica, determinando uno sviluppo
agricolo del territorio, l’insorgere del regime feudale ne aveva
determinato la degenerazione, ciò a causa dell’economia curtense che
finiva per asservire il contadino al Signore.
Abbazia di Montecassino.
Vita quotidiana nella città medievale.
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Si è detto della differente tipologia di sviluppo tra le aree di
impronta longobarda, caratterizzate dal progressivo abbandono delle
aree agricole e delle città lungo le vie di comunicazione, con la creazione
da un lato di quel fenomeno noto come “selva selvaggia” e dall’altro
di quello dell’incastellamento, e quelle che poi andranno progressivamente
a costituire il Patrimonium Sancte Romanae Ecclesiae.
Proprio la formazione delle domuscultae diede forte impulso al rafforzamento
del patrimonio della Chiesa. L’esenzione fiscale permise
agli abitanti dei fondi di condurre una vita relativamente agevole.
Le domuscultae erano caratterizzate da un ampio territorio coltivato
a cereali, legumi, ortaggi, con vigneti e uliveti, suddiviso in fondi ad
ognuno dei quali corrispondeva un casale, abitato da più famiglie; vi era poi una chiesa e dei magazzini. Interessanti sarebbero state le prospettive
di sviluppo economico prodotte dalle domuscultae se non
fossero intervenute poi le lotte feudali e le incursioni saracene. Tra le
domuscultae fondate da Papa Zaccaria vi sarebbe proprio quella di
Anzio e ciò, come vedremo nel prossimo paragrafo, ha probabilmente
ingenerato equivoci sulla data e sulle modalità di origine di
Nettuno.
Le origini di Nettuno
Le origini della città di Nettuno risalgono all’età medievale, nel
senso che l’odierna città di Nettuno ha una continuità a partire dal
Medioevo fino ai giorni nostri. Se invece ci poniamo la domanda da
quando l’uomo abiti la zona attualmente compresa nel Comune di
Nettuno dobbiamo rispondere che vi sono resti della presenza umana
già in età preistorica.
Prendiamo come punto di riferimento iniziale il 750 d. C., data presunta
di un insediamento stabile nella città del tridente. Vedremo fra
poco che, al di là di quanto da più parti sostenuto, questa data di inizio
va spostata molto più in avanti.
Secondo quanto riferisce Giuseppe Brovelli Soffredini, riportato dal
Tomassetti, sotto Papa Zaccaria (741-752) con l’abbandono del porto
Neroniano, vi fu uno spostamento degli Anziati a Nettuno; sempre in
questo periodo, secondo Alessandro Andrea si sarebbe invece pacificamente
insediata una colonia di Arabi, composta da donne e bambini,
rimasti a vivere sul territorio dopo che gli uomini vennero uccisi
dai Romani; da loro discenderebbero i Nettunesi e ciò spiegherebbe la
presenza di un costume popolare del tutto particolare, dalla chiara
matrice saracena.
Rappresentazione del guerriero saraceno.
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Costume ed armatura saraceni. |
Sostanzialmente simile la versione offerta da Don Vincenzo Cerri il
quale afferma che, dopo la caduta dell’Impero Romano, la città di
Antium venne saccheggiata dai Goti e i profughi fuggirono sul promontorio
dove sorgeva l’ormai distrutto tempio del dio Nettuno.
Calcedonio Soffredini in “Storia di Anzio Satrico Astura e Nettuno”
riferisce che nell’845 la città di Anzio, a causa delle incursioni dei
Saraceni, giunti per assaltare l’isola di Ponza con una grande armata,
subì una misera fine e che, fra l’876 e l’882 i pochi anziati scampati si raccolsero
nel tempio di Nettuno. Risulta improbabile, a mio modo di vedere,
che Nettuno offrisse maggior riparo rispetto ad Anzio, tra l’altro i
Saraceni facevano scempio di tutti gli edifici simbolo di sacralità. Va precisato
poi che di questo tempio non vi è traccia concreta se non nei testi
storici. Lo stesso nome Nettuno non deriverebbe dal dio del mare ma,
come riportano Letizia Ceccarelli e Francesco Di Mario, avrebbe derivazione
classica e starebbe a significare “specchio d’acqua marina”.
Sempre il Cerri riferisce che nell’845 i Saraceni avrebbero saccheggiato
e devastato il territorio, abbandonando le loro donne ed i loro
bambini, che avrebbero trovato poi ospitalità nel castello tramandando
i loro costumi al popolo nettunese. Se qui la data appare maggiormente
verosimile, dubbi permangono sul fatto che vi possano essere
state donne saracene al seguito dei pirati.
Battaglia di Clavijo
combattuta contro i Saraceni nel 930
dalle truppe di re Ramirez di Castiglia.
Incisione raffigurante una veduta della Basilica di
S. Paolo fuori le mura
eretta da
Costantino Magno.
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A tal proposito facciamo un po’ di chiarezza sul fenomeno delle
incursioni saracene, coadiuvati dal testo pubblicato da Rinaldo
Panetta dal titolo I Saraceni in Italia: le azioni di pirateria da parte di
diverse popolazioni arabe, che in alcune fasi diventarono una vera e
propria occupazione territoriale, vanno dalla metà del VII sec. al XVIII
sec. ed hanno tutte un comune denominatore, al di là del loro manifestarsi
in un preciso periodo come una vera e propria “guerra santa”:
sono volte cioè a far razzia di beni e di ricchezze, con un’azione
distruttiva di inaudita ferocia, a rapire le donne, a farne prigioniere le
più belle per poi venderle ai notabili arabi, a far prigionieri uomini e
farne schiavi. Resta difficile immaginare dunque che, al seguito dei
pirati vi fossero nuclei familiari saraceni, più ovvio credere casomai
che se donne vi fossero state sarebbero quelle fatte prigioniere.
Ricordiamo a tal proposito le parole del Gregorovius in “Pellegrinaggi in Italia” quando definisce la città di Nettuno “bruna
e pittoresca, costruita sul mare, celebre in tutto il mondo per la bellezza
delle sue donne”… Una cosa è certa: fino all’812 le coste laziali
sono le uniche ad essere ancora al riparo dalle incursioni saracene,
come testimonia la lettera scritta da Papa Leone III
all’Imperatore Carlo Magno: “nei nostri confini – egli scrive – tutto è rimasto illeso e salvo per la grazia di Dio e l’intercessione della
Santa Vergine e per le disposizioni della Vostra prudenza”.
Guarnigioni del Papa si trovavano in quel momento a Gaeta, a
Nettuno, ad Anzio, a Ostia mentre la flotta era di stanza a
Centocelle (oggi Civitavecchia). Proprio da Centocelle inizia l’insediamento
stabile dei saraceni nel Lazio; a seguito delle continue
scorribande operate dai Saraceni papa Gregorio IV allestì una spedizione
che doveva colpire i musulmani sul loro territorio, l’Africa
settentrionale.
A comandare la flotta era Bonifacio conte della
Gherardesca, capitano generale del Tirreno sia per conto
dell’Imperatore che del Pontefice. La spedizione ebbe successo ma
scatenò la reazione furibonda dei Saraceni che puntarono con la
loro poderosa flotta verso il porto di Centocelle, da dove era partito
Bonifacio. Dopo due mesi di assedio la città capitolò, i Saraceni
penetrarono nella città e la misero a ferro e a fuoco, massacrando la
maggior parte degli uomini, violando le donne, saccheggiando le
case e le chiese. Correva l’anno 829.
L’anno seguente gli invasori presero a marciare verso Roma, saccheggiarono
la basilica di San Paolo sulla via Ostiense e quella di San
Pietro trasformando gli altari in mangiatoie di cavalli; depredarono
devastarono come “un nugolo di cavallette predatrici”; non riuscirono
però a penetrare nella città di Roma, all’interno delle mura. Ma la
capitale della cristianità, oltre ad essere un simbolo da distruggere,
nell’immaginario dei Saraceni era considerata una fonte inesauribile
di tesori e ricchezze. Un nuovo attacco venne sferrato nell’agosto
dell’846. Ci riferisce il Gregorovius che “S. Pietro cadde in preda alla
furia saccheggiatrice dei Saraceni. L’arca del culto di Cristo, che Goti,
Vandali, Longobardi non avevano osato toccare cadeva ora in preda
ad un branco di corsari africani”.
Dopo aver messo la campagna a ferro e fuoco e aver raso al suolo
le domus cultae, i predoni si ritirarono. Partiti nell’inverno dell’847
con la flotta da Gaeta ed incontrata una violenta burrasca furono tutti
inghiottiti dalle onde. Nonostante il disastro Roma continuava ad
essere in cima ai pensieri dei comandanti saraceni e a sollecitare la
loro fantasia per i tesori che serbava nonché per le belle donne che vi
abitavano; chi fosse poi caduto combattendo avrebbe avuto accesso
istantaneo in Paradiso. Così subito venne allestita una nuova flotta e
preparati uomini alle armi. Intanto saliva al soglio pontificio Leone IV
che alacremente diede il via al progetto già ideato da Leone III: la fortificazione
della basilica vaticana con una cinta di mura. Nel contempo
organizzò una flotta congiunta con Napoli, Gaeta e Amalfi che
doveva attendere ad Ostia l’arrivo della flotta saracena.
Papa Leone III. |
Papa Leone IV. |
Papa Giovanni VIII. |
Quando giunse il fatidico momento si scatenò una violenta battaglia
navale che vide soccombere i legni musulmani. Ancora una volta
Roma era salva.
Nell’872 veniva eletto Papa Giovanni VIII; anch’egli era assai preoccupato
della minaccia saracena sempre incombente. Scrisse a
Carlo il Calvo per indurlo a scendere con un esercito in Italia “Quante e quali siano le angosce che noi soffriamo per gli oltraggi
dell’empia genia dei Saraceni, come potrò io dirle? […] Chi sfugge
alla spada cade in mezzo alle fiamme e chi scampa dal fuoco è fatto
prigioniero”; sempre il Papa scrive accorato all’Imperatore “hanno
distrutto le chiese dei Santi, profanato gli altari di Dio, oppressi i
sacerdoti, […] le donne, straziati i fedeli, molti uccidendone con
ogni specie di tormento e molti con ogni sorta di violenza condotti
in schiavitù”. In quel momento i Saraceni si erano impadroniti stabilmente,
oltre che di Centocelle, di Fondi, Terracina e Gaeta.
Nell’anno 879 un più forte covo di predoni si insediò alle foci del
Garigliano.
Affresco raffigurante battaglia Cristiani - Saraceni. |
Papa Stefano VI.
Donna turca.
Acquerello di S. Valeri. |
Morto Papa Giovanni VIII nell’882 la situazione si aggravò: i predoni
del Garigliano imperversarono in tutta l’Italia centromeridionale.
È difficile ipotizzare che prima di questa data e negli anni immediatamente successivi avrebbe avuto un senso insediarsi in riva al
mare, troppo alti ovviamente i rischi.
Ma la situazione stava per cambiare. Vennero cacciati i Saraceni
da Centocelle e gli antichi abitanti che avevano trovato riparo nelle
selve, spronati dal nuovo Papa Stefano VI, fecero ritorno nella “Civita Vecchia”. Il papa fece subito edificare una cinta di mura. Era
l’anno 889.
Altro evento assai importante accadde nel 916 quando venne
distrutto il covo saraceno del Garigliano. Da quel momento per almeno
un secolo le popolazioni del Lazio non subirono più incursioni.
In base a questo contesto è possibile ricostruire un quadro di riferimento
per individuare la fase storica in cui ha inizio il popolamento
del borgo di Nettuno. Innanzitutto diciamo che il riferimento di
Tolomeo conte di Tuscolo ad una lettera spedita da Nettuno da
Gregorio de Tuscolana, prefectus navalis nel 999, non è indicativo di
un popolamento del borgo, se mai attesta la presenza di guarnigioni
pontificie a controllo dei mari. Lo è ad esempio invece il ricorso del
1140 dei monaci di Grottaferrata contro Tolomeo conte di Tuscolo che
aveva occupato le proprietà di Nettuno e di Astura. Qui compare la
definizione di Neptunum Castrum ad indicare una fortificazione. Altro
fattore di rilievo è che nelle pur circostanziate fonti che riguardano le
incursioni saracene non vi sono riferimenti specifici a Nettuno ed un
evento così particolare, come la fondazione di una comunità “mista”
uomini indigeni/donne saracene, non sarebbe passato inosservato.
L’uccisione poi in massa di un gruppo di Saraceni, peraltro varie volte
avvenuta, non poteva costituire un evento definitivo perché distrutto
un gruppo ne arrivava subito un altro. Dunque i nostri punti di riferimento
sembrano essere fondamentalmente due: la fondazione di
Civitavecchia nell’889 e la cacciata dal Garigliano dell’avamposto
saraceno nel 916. A partire da queste due date è probabile un ritorno
al mare a Nettuno degli abitanti imboscati nella selva. Come dimostra
il caso di Civitavecchia, la prima significativa fortificazione di
Nettuno è assai probabile non essere successiva ma contemporanea al
ripopolamento del borgo.
Il feudo di Nettuno
Nettuno nell’anno mille;
disegno di Yildirim Orer.
Stemma di Nicola Orsini
Stemma della famiglia Orsini
(Pitigliano).
Stemma dei Colonna.
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Abbiamo cercato dunque di individuare il momento storico nel
quale collocare presumibilmente l’origine di una continuità di popolamento
di quell’area che oggi coincide con il borgo di Nettuno e cheè storicamente nota come castello di Nettuno.
Come inquadrato nell’introduzione di carattere generale sull’età
medievale, parleremo d’ora in avanti di feudo di Nettuno, sia perché
questa fu la connotazione che assunse inevitabilmente, sia per la vocazione
agricola che il territorio assunse nella sua più ampia estensione
geografica. Tratteremo separatamente le vicende di Astura e quelle di
Nettuno poiché fino al 1426, quando al dominio degli Orsini si sostituì quello dei Colonna, i due territori seguirono sorti diverse se pur parallele.
Proprio il 1426 rappresenta il nostro confine ideale per la storia
medievale nel nostro territorio. Da questo momento in poi le notizie
sulle vicende nettunesi saranno molto più circostanziate ed ampie.
Come abbiamo visto nel paragrafo precedente il popolamento e la
fortificazione di Nettuno è assai probabile siano stati contestuali,
come assai probabile che ciò sia avvenuto soltanto dopo la cacciata
dei Saraceni dall’avamposto nel Garigliano nel 916 d.C. Da questo
momento e per un periodo relativamente lungo le incursioni cessarono;
ciò non significa però che il controllo del mare prospiciente
Roma non fosse visto come una priorità. Proprio approfittando del
loro ruolo di assoluto rilievo al comando della flotta, che presidiava
il mare di Roma, i conti di Tuscolo vennero a trasformare Nettuno in
un loro feudo.
Questa trasformazione in senso feudale non impedì il progredire
dell’attività agricola: in un atto del 1163 si fa riferimento ad una misura
del grano diversa da quella utilizzata a Roma, il modius o modium
Neptuni.
Nel 1190 Riccardo “Cuor di Leone” passa da Nettuno sulla via che
lo conduce all’imbarco verso la Terra Santa. Secondo quanto riferisce
il cronista Hoveden Rogeus Riccardo Cuor di Leone, dopo essere
sbarcato a Ostia, attraversava una via che gli storici hanno fatto coincidere
con la via Severiana, che costeggiava il mare fino a Terracina.
Egli riporta: “[…] in quo est via marmorea ad modus pavimenti facta,
et durat per medium nemus quater viginti miliaria. Nemus vero illud
habundat cervia, caprioli et damulis. Eodem die transsivit per castellum
quod dicitur Lettun”. Tale “Lettun” è assai probabile stia per
Nettuno, tenendo conto sia della distanza alla quale si allude, sia alla
presenza della via Severiana.
Nel 1191, come si evince da un atto di Giangaetano Orsini, gli
Orsini appunto acquisiscono il feudo di Nettuno. Più tardi, nel
1267, il feudo passò al ramo degli Orsini signori di Nola e
Pitigliano. Un’iscrizione di Nicolò Orsini risalente al finire del
Trecento è tuttora visibile all’esterno del borgo medievale di fronte
alla chiesa di San Giovanni.
Cartoline della serie:
I Papi,
cromolitografie del 1900;
Papa Benedetto VIII |
Papa Giovanni X.
|
Papa Innocenzo II.
|
L’impianto attuale del borgo fortificato risale per la sua gran parte
agli Orsini prima delle trasformazioni introdotte da Marcantonio
Colonna che fece apporre la nota iscrizione tuttora visibile all’ingresso
superiore del borgo.
Nell’anno 1368, il 24 maggio per l’esattezza, ad alcuni nettunesi
vennero sequestrate 96 vacche da Giovanni Caetani signore di
Ninfa per aver pescato clandestinamente nel lago di Fogliano. Le
riebbero pagando 35 fiorini d’oro. Al di là della particolarità dell’episodio
ciò dimostra una fiorente attività in questo momento
così come ancora più propriamente testimonia l’elenco del sale nel
quale vengono assegnate 20 rubbia di consumo per semestre: ciò significa che Nettuno aveva al tempo una popolazione doppia di
quella di Albano.
Dopo il già citato Nicolò tra gli Orsini che si succedettero a Nettuno annoveriamo Pirro, nipote di Nicolò, che spogliato dei possedimenti
di Nola dal re Ladislao, venne a Nettuno dove morì probabilmente nel
1420. Suo figlio Raimondo intanto era rientrato in possesso di Nola
nel 1418. Il dominio degli Orsini dura fino a che Raimondo Orsini permuta,
con Antonio, Prospero e Odoardo Colonna, il territorio di
Nettuno e di Astura con quello della città di Sarno e con il castello di
Palma in Abruzzo. Ciò avviene il 15 dicembre del 1426. Con questo
atto si inaugura il dominio colonnese a Nettuno.
E. Lear, veduta di Nettuno.
Nettuno vista da G. Piancastelli.
|
Astura
Torre Astura. |
Torre Astura primi ‘900.
Papa Innocenzo II.
Astura e donna di Nettuno
visti da Yildirim Orer.
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Il sito di Astura, posto alla foce dell’omonimo fiume, ha rilevanza
sin dai tempi preistorici, come dimostrano gli scavi nell’area compiuti
dall’equipe dell’Università olandese di Groningen, nel corso di
numerosi anni, e come dimostra il recente ritrovamento dei resti
umani del “Guerriero di Astura”. Tra l’altro un tempo la portata del
fiume era notevolmente più ampia, tanto da renderlo navigabile fino
al centro strategico di Satricum. In età medievale abbiamo notizie relative
al fatto che nel 987 Astura faceva parte dei possedimenti degli
Enti Ecclesiastici dei monasteri dei Santi Bonifacio e Alessio e di
Grottaferrata. Da questo momento in poi si fanno largo i Conti di
Tuscolo che, approfittando inizialmente della riconoscenza dei monaci
di Grottaferrata, a cui avevano dato la sede Tuscolana, ma soprattutto
del predominio sui mari, nel 999 Gregorio de Tuscolana era prefectus
navalis e a lui spettava il compito di difendere il mare di Roma,
trasformarono progressivamente Nettuno in un centro feudale.
Nel 1140, venendo a mancare i rischi per Roma a causa di una ritrovata
sicurezza, la posizione dei Conti di Tuscolo si indebolì e i monaci
di Grottaferrata e quelli di Sant’Alessio rivendicarono le restituzione
dell’isola di Astura e si rivolsero al Papa Innocenzo II contro colui
che ritenevano l’usurpatore, Tolomeo II di Tuscolo. Ai monaci interessava
il posto perché ricco di pesce. A quel tempo Astura doveva essere
un centro abitato come testimonia un atto del 1037 relativo ad un
certo Ioannes de Astura venditore di bibite e liquori (potionarius).
L’importanza del sito di Astura è testimoniata anche in un atto di
navigazione del 1166 tra Genova e Roma. Nel 1191, lo stesso anno in
cui gli Orsini acquisiscono il feudo di Nettuno, Astura passa nelle
mani dei Frangipane. La cosa non può dirsi casuale ma è la diretta
conseguenza della grave crisi che colpì la famiglia dei Conti di
Tuscolo a causa della distruzione della stessa Tuscolo.
L’appartenenza di Astura a Leone Frangipane è testimoniata in un
atto del 1193. Ai Frangipane si deve la costruzione della Torre eseguita
su progetto di Mariano di Giacomo detto il Taccola. Il Guglielmotti,
autore del volume “Fortificazioni della spiaggia romana” afferma che
quella di Astura è la torre più bella e meglio conservata.
Statua di Corradino
nella chiesa
della Madonna del Carmine a Napoli. |
Un dipinto settecentesco raffigurante
Corradino di Svevia e il cugino Federico.
entrambi giustiziati a Napoli il 29 ottobre 1268.
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Napoli - Carlo I d'Angiò.
Dipinto raffigurante
la decapitazione di
Corradino di Svevia
a Napoli nel 1268.
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La storia dei Frangipane e quella stessa di Torre Astura sono strettamente
legate alla triste storia di Corradino di Svevia, che ha commosso
tante generazioni e ispirato tanti artisti.
Corradino di Svevia era nato a Landshut in Germania nel 1252; il
padre era Corrado IV, figlio di Federico II, la madre Elisabetta di
Baviera. Corradino, noto anche come Corrado V di Hohenstaufen,
duca di Svevia, fu l’ultimo sovrano della illustre dinastia. Dopo la
morte dello zio Manfredi, ucciso nella battaglia di Benevento il 26 febbraio
1266, che aveva retto il regno vista la giovane età di Corradino,
molte furono le pressioni di molti nobili ghibellini italiani affinché il
giovane prendesse in mano le sorti del regno e muovesse con l’esercito
in Italia contro l’usurpatore Carlo I d’Angiò. Così egli fece. Dopo
essere stato accolto con tripudio in molte città italiane egli giunse allo
scontro fatale con le truppe angioine. Il dramma si consumò nella
celebre battaglia di Tagliacozzo. Dopo un’apparente vittoria iniziale le
truppe di Corrado V vennero sbaragliate e lui costretto alla fuga.
Giunto sotto mentite spoglie insieme ai suoi fedelissimi ad Astura si
imbarcò per partire alla volta di Pisa dove la flotta ghibellina l’avrebbe
salvato. Fu invece raggiunto dai Frangipane e rinchiuso nella rocca
di Astura. Venne poi consegnato nelle mani di Carlo I d’Angiò e dopo
un processo-farsa fu decapitato insieme ai suoi compagni a Napoli.
Pare che sul patibolo egli abbia pronunciato tali parole: “Dio mi ha
fatto mortale e io devo morire, ma io sono condannato ingiustamente. Con
piena conoscenza di causa ho posato i miei occhi sui diritti dei miei antenati
e sulla dignità che essi mi hanno trasmesso come patrimonio… se non mi si
stima degno di perdono, che si abbia almeno pietà dei miei nobili compagni di sventura…
ma se non posso ottenere nulla per essi… che il ferro colpisca me per primo”.
La chiesa di Santa Croce in piazza del Mercato (Napoli).
Scultura di Arnolfo di Cambio, Bonifacio VIII.
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Infatti Corradino per primo cadde sotto il colpo della scure e “giacque
come fiore purpureo reciso da falce spietata”. Sul luogo dove venne
effettuata l’esecuzione fu costruita una chiesa, oggi Santa Croce al
Mercato dove si trova una colonna commemorativa in porfido con
incisa questa frase: Asturis ungue pullum rapiens aquilinum hic deplumavit
acephalumque dedit (il leone artigliò l’aquilotto ad Astura, gli strappò
le piume e lo decapitò). Di Corradino fa menzione Dante Alighieri
nel XX canto del Purgatorio, a lui dedicò una poesia il celebre poeta
Aleardo Aleardi, di lui ci ha parlato Ferdinand Gregorovius. La
potenza dei Frangipane decadde e persero progressivamente i domini
di Terracina, Astura, quindi Ninfa e poi Cisterna. A tale declino
contribuì certamente Papa Bonifacio VIII che voleva accrescere la
potenza della sua famiglia, i Caetani.
Nel 1303 Pietro Caetani, nipote del Papa, acquista il dominio di
Astura. L’acquisto riguardava la metà dei possedimenti poiché l’altra
era in possesso di Angelo Malabranca, cancelliere di Roma, che se ne
era appropriato ai danni dell’erede di Casa Conti, Margherita
Colonna. Quest’ultima cedette i suoi diritti all’arcispedale di Santo
Spirito che venne così coinvolto nella disputa riguardante il possesso
di questa metà di Astura. Nel 1329, Stefano Colonna, padre di
Margherita, scrive a Re Roberto per rivendicare i diritti di sua figlia.
La disputa dura fino al 1367 quando prima Paolo, poi Matteo, entrambi
figli di Angelo Malabranca, vendono agli Orsini, che ottengono
anche la cessione dei diritti dall’arcispedale di Santo Spirito.
Tuttavia la supremazia degli Orsini su Astura non durò a lungo in
quanto Giordano Orsini cedette nel 1383 la proprietà a suo nipote
Onorato Caetani; la cosa avvenne anche in virtù del fatto che il sedicente
figlio di Giordano, Giacomo, lo aveva scacciato dal castello di
Marino e da Astura dopo averlo ferito ad una gamba. Prova documentata
della cessione ad Onorato Caetani il testamento del 1384 di
Giordano Orsini.
Così come visto nel caso del feudo di Nettuno, grande importanza
storica riveste la quota spettante nell’elenco del sale, a testimonianza
dello sviluppo che in questo caso possiamo notare abbia Astura nel
XIV secolo. La nota assegna ad Astura 15 rubbia per semestre che
equivale ad un terzo in più rispetto ad Albano, già nel caso di Nettuno
nostro termine di paragone.
Onorato Caetani dovette scontrarsi con le rivendicazioni sul possesso
di Astura di Nicolò Orsini; tuttavia i Caetani rimasero in possesso
di Astura fino alla rivendicazione di Raimondo Orsini che lo diede
in permuta nel 1426, insieme al feudo di Nettuno ed altri possedimenti,
ai Colonna, come già visto in precedenza.
Aleardo Aleardi: "Corradino di Svevia"
Mutiam dolore. Sull’estremo lembo
De la cerulea baia, ove i fastosi
Avi oziar nei placidi manieri,
Ermo, bruno, sinistro èvvi un castello.
Quando il corsaro fe’ quest’acque infami,
La paura lo eresse. Ivi da lunghi
Anni una fila d’augurosi corvi
È condannata a cingere volando
Ogni mattin le torri: ivi sui merli,
Fingendo il suono di cadente scure,
La più flebile fischia ala di vento:
Ivi pare di sangue incolorata
L’onda che sempre ne corrode il fondo:
Poi che una sera sul perfido ponte,
A consumar un’opera di sangue,
In sembianza di blando ospite stette
Il Tradimento.
Vuoi saperne il nome?
O fida come il sol, tu che non sai
Che sia tradire, deh! sègnati in prima
Col segno de la croce, Itala mia.
È il Castello d’Astura.
Un giovinetto
Pallido, e bello, con la chioma d’oro,
Con la pupilla del color del mare,
Con un viso gentil da sventurato,
Toccò la sponda dopo il lungo e mesto
Remigar de la fuga. Aveva la sveva
Stella d’argento sul cimiero azzuro,
Aveva l’aquila sveva in sul mantello;
E quantunque affidar non lo dovesse,
Corradino di Svevia era il suo nome.
Il nipote a’ superbi imperatori
Perseguito venìa limosinando
Una sola di sonno ora quieta.
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Ferdinand Gregorovius in” Pellegrinaggi in Italia” a proposito di
Corradino di Svevia
Astura non era più che ad un'ora di distanza, mentre passeggiavamo
sulla spiaggia deserta, seguendo le onde malinconicamente fruscianti, fui
invaso dalla tristezza che penetra l'anima davanti alle vestigia di un
grande passato.
Non è soltanto il ricordo della fine del giovane Corradino e della
stirpe degli Svevi che da a queste rive la sua impronta malinconica e
penetra l'anima tedesca più di ogni altra, ma è anche il carattere del
paesaggio.
Quel castello è il solitario torrione di Astura, dove l'ultimo degli
Svevi: Corradino, sconfitto a Tagliacozzo, si rifugiò, e dove il traditore
Frangipani lo prese prigioniero e lo abbandonò in mano al crudele
Carlo di Angiò. Vicino a quel torrione il sole degli Svevi calò in mare.
Il castello di Astura, che sta di fronte alla mia finestra, mi ricorda,
come una eco nostalgica, la patria lontana ed acuisce in me il sentimento
patrio già rianimato dalla vista della costa del Lazio...
Dante Alighieri, Divina Commedia,
Purgatorio, Canto XX, vv. 67-69
Carlo venne in Italia e, per ammenda,
vittima fé di Curradino; e poi
ripinse al ciel Tommaso |