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MILLECINQUECENTO

Marcantonio Colonna
e l'antico Statuto di Nettuno

a cura di
BENEDETTO LA PADULA
e
VINCENZO MONTI

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2 - GLI ANTICHI "STATUTI O CAPITOLI DI NETTUNO"
E LE PARTICOLARITA' LEGISLATIVE
DELL'ITALIA DEI COMUNI

FABRIZIO SALBERINI


diritto statutario

Dalle foschie del nostro primo Rinascimento, definito per antonomasia l'"età delle autonomie", per la incredibile fioritura del diritto statutario, come si andava affermando in ogni parte d'Italia, e in particolare nei territori comunali dell'Italia centro-settentrionale, già a cominciare dal sec. XII, riappaiono, ora, gli, "Statuti o Capitoli di Nettuno" a cura del solerte Vice-bibliotecario nella R. Biblioteca Universitaria di Napoli, Giovanni Bresciano, in una pubblicazione dell'inizio del secolo scorso.

Un documento che certamente sa di antico, ma anche di familiare, e che comunque testimonia una volta di più, se pur ce ne fosse bisogno, quanto il progresso delle tecniche giuridiche, è proseguito attraverso le epoche successive, soprattutto nel travaglio di individuare il rapporto cittadino-stato, come si andava faticosamente recuperando, soprattutto ad opera dei Glossatori, con la teoria della Sovranità, attraverso un riesame critico della codificazione Giustinianea.

Le annotazioni che seguono, hanno il solo scopo di tentare di tracciare una immagine complessiva delle particolarità legislative dell'Italia dei Comuni, senza la pretesa di ardue ricostruzioni storiche, ma cercando di rintracciare, se ed in quanto possibile, lo spirito animatore del progredire giuridico della amministrazioni locali, in una breve rassegna di dati storici noti, esaminati nella loro teleologia e senza vincoli cronologici.

Quindi, questo intervento vuole soltanto esprimere qualche considerazione sulle procedure di elaborazione legislativa, tra l'antico diritto Giustinianeo e il nuovo delle aggregazioni locali, fuori dell'angusto ambito della legislazione barbàrica e delle regole non scritte.

Infatti, si deve proprio alla legislazione statutaria se si pose un freno a un esagerato ricorso al dictum delle Istituzioni e del Digesto, con il rischio, o meglio con la tentazione delle scuole giuridiche sclerotizzate nel pandettismo, di farli assurgere a dignità di lex communis, con scarso senso delle realtà emergenti.

Certamente gli statuti, e non solo per la loro struttura normativa, ma per l'oggetto prevalente, e i soggetti cui erano destinati, possono rientrare, latu sensu, nel genere delle leggi, con buona pace di alcuni giuristi, che pur prendendo atto che gli Statuti stessi, non si esaurivano al momento della loro applicazione, come le provisiones e i consilia, li contrapposero, perché senza previsione di perpetuità, alla legge, omne aevum valitura.

Gli Statuti comunali erano ben distinti da quelli corporativi, ancorché molto spesso coevi, e talvolta riferiti ad una stessa popolazione; nascevano nel tempo e nel luogo dove i popoli, pervenuti a un grado più o meno pieno di autonomia o sovranità di fronte all'impero, alla chiesa e ai prìncipi, palesavano la necessità degli jura istituendi, rispecchiando però la diversa struttura e la diversa competenza dei comuni.

Quindi, a giudizio della storiografia ufficiale, si distinguevano solitamente gli Statuti cittadini da quelli rurali, e questi, a loro volta, in vicinali e castrensi.

Gli Statuti rurali erano caratteristici dei centri minori, ancora dipendenti da giurisdizioni feudali o locali, con più ristretta autonomia, di contenuto puramente amministrativo.

Non a caso in quello di Nettuno, che sembra qualificarsi come Statuto di un Comune, da sempre a vocazione prevalentemente rurale, il commentatore del 1902 annota la totale assenza di norme penali; il che, come in seguito si avrà modo di osservare, potrebbe imputarsi sia alla esistenza di una norma di rinvio (che il Commentatore non ha citato, forse perché non ha individuato), alla legislazione penale generalizzata, valida per quel territorio, ovvero per il mancato ritrovamento di un ulteriore tomo statutario, nel quale probabilmente, erano appunto riprodotte le regole punitive.

Infatti nella pluralità di casi, tra gli elementi costitutivi dello statuto, non sono presenti regole del Governo centralizzato, come appunto una codificazione criminale, ma si annotano principalmente quelli riproduttivi delle consuetudini, e i brevi, per cui lo zoccolo duro degli Statuti comunali era costituito dalle regole formatesi con la ripetizione di comportamenti analoghi nel tempo, dai brevi (ordini dell'Autorità Centrale, anche tramite i Vicari, e/o delle sentenze dei magistrati), oltre alle norme dettate per l'ordinamento processual-privatistico e amministrativo del Comune specifico.

Perché, a ben vedere, lo Statuto comunale reagiva all'invadenza sempre crescente del diritto comune, come si è detto, rappresentato dalle seducenti sublimazioni del diritto Giustinianeo; il che spiega l'accoglienza, tra le regole statutarie, delle disposizioni delle consuetudini, secondo la loro redazione scritta, e che, munite di formula statutaria, mutavano con siffatto imprimatur il fondamento delta loro validità.

Anche perché recepire le consuetudini nelle disposizioni statutarie, era in linea di principio (e non solo), coerente con la inutilità per lo Statuto, di utilizzare le leggi di diritto giustinianèo, che già avevano efficacia di diritto comune, salvo che non si trattasse di sovrapposizioni normative che comportavano la necessità di abrogare contrarie normative locali.

Superflua sarebbe stata anche l'adozione, più o meno parziale, del diritto della Chiesa, in quanto le sue norme erano considerate come generali e prevalenti sulle stesse leggi civili, ed essendo abbastanza frequente che la Chiesa imponesse, essa stessa l'inserzione delle sue norme negli statuti.

E' quindi merito degli Statuti affermarsi come manifestazione più antica e genuina della autonomia locale, nel senso letterale di produzione normativa propria (o domestica), in antitesi al principio della personalità del diritto dominante nell'Alto Medioevo barbarico, delle consuetudines locorum, la cui redazione ed elaborazione scritta ha inizio già nel sec. XI, e si fa intensa a partire dal XII sec., non solo nelle città libere dell'Italia settentrionale e media, ma, con caratteristiche più attenuate, anche in quelle del Mezzogiorno, soggette al diretto potere dei sovrani del regnum Siciliae.

Per la genesi dello statuto, ebbero in ogni caso un'importanza maggiore i brevi, costituiti, come in parte è già stato anticipato, dagli ordini dell'Autorità Centrale, anche tramite i Vicari, e/o delle sentenze dei magistrati; cioè, una formulazione scritta delle promissiones o dei giuramenti che, secondo una tradizione, che, con tutta probabilità si connette alle pratiche dell'impero greco-romano, contenevano gli impegni che i magistrati si assumevano di fronte al popolo e il popolo di fronte ai magistrati.

Soprattutto, e di rilevante importanza, sono i brevi di provenienza delle Magistrature del Comune, che con tali atti impartivano le direttive ai sudditi.

 

Lo Statuto Nettunese

Ma tornando allo Statuto Nettunese, già da un primo esame dell'articolato in questione, si constata che anch'esso si è formato, o che è stato espressamente redatto, attraverso tre componenti comuni a tutti i complessi statutari dell'epoca: la consuetudine (per esempio l'art. 18 che prevede la soluzione delle liti tra parenti), il breve (sulle tasse ed altri prelievi fiscali), la norma comunale vera e propria (quelle riguardanti gli organi di Governo del Comune).

Certamente il grado di autonomia raggiunto dalla normativa dello Statuto è direttamente proporzionale ai contenuti e alla latitudine dei brevi (o sacramenta , o promissiones) dei consoli, dei dogi, di altre magistrature comunali, quali il Vicario, e anche di organi collegiali, ai quali, come è noto, si aggiungevano le manifestazioni tipiche della volizione legislativa, leges, constitutiones, ordinamento,, decreta, statuta, ossia le norme deliberate dagli organi collegiali, e non, investiti di potere normativo, come il parlamento, ovvero il consiglio maggiore o minore, secondo il grado di istituzionalità del Comune, ovvero che si trattasse di disposizioni d'ordine politico-giuridico generale, oppure amministrativo e regolamentare.

Dall'unione di questi diversi elementi formativi, che in qualche città continuarono anche a lungo a rimanere distinti, si è formato quasi dovunque il corpo degli Statuti cittadini, come testo organico di diritto statutario, in cui vengono rifuse le norme variamente derivate dalle consuetudini, dai brevi giurati dai magistrati, e dalle disposizioni comunali.

E, come testimonia nelle sue note finali il documento che si commenta, i testi statutari erano poi oggetto di frequenti revisioni e innovazioni, per opera di commissioni composte di giuristi, giudici, notai, detti statutarii , emendatores , reformatores.

Per cui, salvo quanto prima annotato a proposito della diversità degli Statuti connessa alla realtà sociale alla quale erano destinati, possono tracciarsi i confini di almeno due tipi fondamentali di Statuto quanto alla loro provenienza originaria: quello di derivazione tosco-lombardo, che originariamente si divideva in quattro libri, contenenti, rispettivamente, l'ordinamento comunale, le norme di diritto criminale, le regole del diritto privato e quelle che regolavano il processo civile, i procedimenti delle giurisdizioni speciali e varie materie di polizia; ad essi si aggiungevano spesso due altri libri, su quella che oggi chiameremmo la responsabilità civile e le procedure per le cause di appello civile.

Allo Statuto tosco-lombardo, si contrapponeva quello romano, più frequente nei comuni del sud-Italia, principalmente agricoli, che si diversificavano dai primi perché la materia criminale è posta nel IV e V libro, dopo quelle attinenti al diritto pubblico, processuale e privato.

Da qui appunto il sospetto che le annotazioni del commentatore del 1902 non abbiano preso in considerazione la possibilità che lo Statuto di Nettuno, così fortunosamente ritrovato, sia solo una parte dei libri normativi, salvo quelli probabilmente andati dispersi, riguardanti il diritto penale o criminale.

Per quanto si è venuti dicendo, sembra perciò abbastanza chiaro che gli Statuti presentavano un contenuto assai vario, a seconda delle esigenze locali, e data la complessità ed ampiezza raggiunta, dopo i sec. XIV-XV, dalle raccolte statutarie, questi vengono a contenere non solo il diritto "particolare" della città, ma anche molte disposizioni ispirate da tendenze normative più ampie del territorio comunale.

Peraltro, come si vede dallo stesso documento in esame, per quanto l'area normativa sia sufficientemente ampia, proporzionalmente, è ovvio, al numero e alla complessità degli atti di commercio giuridico inter cives, anch'esso adeguato alla ampiezza o meno della popolazione, per la quale era stato dettato il singolo Statuto, lo strumento statutario non può certo paragonarsi ai codici moderni, in quanto non offre una completa disciplina dei diversi istituti giuridici, inquadrandosi, piuttosto, nel cosiddetto sistema del diritto comune (di cui viene a rappresentare per lo più il ius proprium o locale), al quale è sempre necessario fare riferimento per la completezza dell'ordinamento giuridico.

 

L'autonomia comunale oggi e all'epoca dei Comuni

Ma, più che porre la normativa statutaria sul tavolo anatomico del giurista, per esegesi, certamente interessanti sotto il profilo della anamnesi della legge, ma non di raffronto con realtà più attuali, sembra invece felice l'occasione per riconsiderare l'autonomia comunale, soprattutto nell'attuale momento storico, in cui il decentramento dei poteri statuali è invocato da istanze, prive di serie giustificazioni giuridico-istituzionali, dirette solo all'isolamento degli interessi del luogo, da contrapporsi a quelli più generali; quando invece la lezione statutaria indica la necessità, semmai, del concerto sociale degli enti locali, da armonizzarsi a livello nazionale.

Percorso reso ancor più necessario, dal superamento in itinere delle identità nazionali, quali si vanno realizzando nella Unione Europea, al momento sul piano economico. Per cui sembrerebbe più che giustificato profetizzare che la salvaguardia delle tradizioni etniche e delle culture popolari sarà affidata a quelle aggregazioni non coinvolte dal processo di massificazione, cioè alle organizzazioni degli enti locali, non certo un impensabile ritorno all'età comunale, ma per il nuovo ruolo delle autonomie comunali, con implicazioni e ricadute, extra-territoriali, di ampiezza imprecisata.

Allora mi sembra buona l'occasione per sapere qualcosa di più della Italia dei Comuni, quella appunto in cui è stato dettato lo Statuto che si esamina.

Anche perché gli Statuti sono restati a lungo in vigore, per lo più secondo le formulazioni precedenti, variamente commentati, perdendo però la originaria incisività regolamentare, a misura del perfezionamento della teoria della Sovranità dello Stato, e con essa la legislazione centralizzata, inevitabilmente destinata a sovrapporsi a quella comunale.

Praticamente gli Statuti sono stati applicati sino all'avvento dei codici, cioè sino alla prima metà del sec. XIX, talvolta sotto forma degli usi e consuetudini (vedi per tutti l'art. 1 del vigente Codice Civile, che li colloca tra le fonti del diritto).

Ad essi, comunque, si può sempre fare riferimento per conoscere il particolarismo giuridico comunale del periodo intermedio.

Purtroppo una analisi unitaria del fenomeno normativo comunale, complesso e risultato di molteplici fattori, è sommamente difficile, se non procedendo per astrazioni e generalizzazioni, come tali difficilmente giustificabili.

Certo è che le realtà comunali erano assai diversificate tra di loro, anche a seconda della collocazione territoriale di ciascuna di esse, e le manifestazioni più "tipiche" di siffatte istituzioni, sotto il profilo organizzativo, si sono realizzate nell'Italia centro-settentrionale, diversamente da quanto accaduto nella Italia meridionale.

Sopratutto divergono per le loro origini, laddove nell'Italia del nord crebbero entro le strutture vassallatico-beneficiarie, ma anche al di fuori o contro di esse, con una molteplicità di situazioni intermedie che delineano una tipologia complessa ed estremamente articolata.

Invero, nei territori dell'Italia centro-settentrionale facenti capo al regnum Italiae di tradizione longobarda e poi carolingia, la istituzione comunale prese vita dal contestuale dissolvimento del potere centrale, dopo il crollo dello stato carolingio, che lasciò libero il campo all'affermazione dei poteri locali e la ripresa dell'economia mercantile e artigianale.

Queste due circostanze, interagendo e integrandosi reciprocamente, posero le basi di un forte impulso alla urbanizzazione degli interessi economici e sociali della popolazione, che, sul piano politico e della politica di governo, trovarono riconoscimento e sviluppo nella conquista delle autonomie comunali.

Nello stesso senso procedettero le signorie rurali, formatesi anch'esse dalla disseminazione locale dei pubblici poteri; ma sulla identità di tale realtà di fondo, si innestarono diversità, spesso notevoli, delle singole organizzazioni comunali, non di rado sorte all'ombra del potere ecclesiastico della curia vescovile e quasi in simbiosi con esso, mediante vincoli di vassallaggio che trasmettevano quel potere ai ceti dirigenti cittadini.

Quindi, non sembra attendibile l'opinione corrente che attribuisce la nascita della organizzazione comunale come semplice associazione giurata (coniuratio) di privati, e che solo in un secondo momento diverrebbe depositaria di interessi pubblici.

Non va infatti dimenticato che, in ragione della tradizione romanistica, ancora molto viva nelle conoscenze dei giuristi, come già è stato rilevato, il rapporto tra pubblico e privato era certamente molto equivoco e comunque non contrapposto.

Ne è la dimostrazione lo Statuto in esame, nel quale vengono disciplinati promiscuamente interessi pubblici essenziali (tutta la normativa processuale), con esigenze nettamente privatistiche (vedi la soluzione delle liti parentali), mentre il Vicario agisce a nome e come rappresentante della città, attribuendosi appunto competenze territoriali.

Certamente non si può escludere, data la varietà della composizione sociale dei gruppi che danno origine al Comune, che vi sia stata anche l'iniziativa di privati, fermo restando il fatto che, se accordo vi fu, questo aveva riguardato comunque la gestione pubblica degli interessi dei consociati; ed altrettanto certamente l'iniziativa di ricorrere ad una forma istituzionalizzata di Governo cittadino, ebbe le più disparate provenienze.

Da quelle della nobiltà militare stretta attorno al Vescovo (secondo alcuni elementi per implicito dello Statuto in questione), ovvero a quelle della borghesia cittadina, impegnata a prendere l'iniziativa legislativa, ovvero risultanti da un accordo fra gruppi diversi: capitanei (l'alta nobiltà), valvasores (la nobiltà minore), cives (la borghesia produttiva).

E da notare che tutti costoro -i nobili in quanto possessori di terre, i ricchi mercanti e gli artigiani per i loro traffici commerciali, oltre che per i possessi fondiari- avevano legami organici col territorio extraurbano: premessa importante, per comprendere i successivi esiti delle vicende comunali.

Certo si è che il fenomeno delle autonomie locali si risolveva anche in una indipendenza politica, più di fatto, che de iure, dal più generale contesto del regnum e dell'impero, all'interno del quale esse erano per così dire "ritagliate"; talché le città si erano andate sempre più sottraendo al controllo centrale e si erano appropriate di sempre più ampie prerogative pubbliche, col relativo gettito fiscale che esse assicuravano.

Basti leggere, nello Statuto in commento, la dettagliata elencazione delle tasse e dei gabelli.

Peraltro i Comuni non si mostrarono affatto estranei alla logica feudale, alla quale, anzi, essi stessi, in molte circostanze, si attenevano: per esempio, quando i rapporti fra una città e un'altra venivano configurati come rapporti vassallatici, o quando il Comune riceveva o concedeva beni a titolo di feudo.

Ma è anche vero che la realtà cittadina era troppo eterogenea, rispetto agli equilibri feudali, per non reagire nei loro confronti come fattore scollegante.

Ciò avveniva, soprattutto, per motivi di logica delle gerarchie, in quanto la organizzazione statutaria, nel bene e nel male, era una "signoria collettiva", che ovviamente mal si conciliava nei rapporti vassallatici, che avevano invece carattere essenzialmente personale.

Ma a quel processo non erano certo estranee anche ragioni più sostanziali, in quanto l'organizzazione comunale tendeva ad oltrepassare, con la sua azione, l'ambito strettamente cittadino, fino ad investire il territorio circostante che, come già è stato rilevato, era spesso già legato da accordi con la potestà comunale, con cui, abbiamo visto, i suoi gruppi dirigenti avevano stretti legami.

Va soggiunto che fin dal sec. XII, la politica comunale - quella che trovò la sua espressione normativa negli statuti cittadini - mostrò chiara la tendenza a organizzare il territorio sul modello della diocesi e del comitato; in alcuni casi, soprattutto nel Nord-Italia, con la copertura ideologica del concetto di "comitatinanza" (l'afferenza, cioè, dei "comitatini" alla città, che era il centro del comitato), talora con la semplice sopraffazione. Del resto, nel caso delle città più potenti, tale azione andava ben oltre i confini del presunto "comitato".

E' quindi innegabile la tendenza dei Comuni al coordinamento territoriale, ma anche obbligata dalle impellenti necessità dei consumi urbani, che imponevano una oculata politica di supporto annonario, che non si conciliava certamente con i vincoli e gli schemi feudali.

Da qui la conflittualità tra la organizzazione comunale, nelle sue istituzioni statutarie, e le strutture del feudo.

Ma la inarrestabilità dei percorsi evolutivi comunali era, anche e soprattutto, legata alla evoluzione stessa degli assetti sociali del Comune, come si erano andati nel frattempo arricchendo e diversificando, con l'emergere, in qualche modo profetico, (viste le successive vicende dell'Illuminismo, sfociate nella rivoluzione borghese del 1798), di un forte ceto borghese strutturalmente - anche se non sempre coscientemente - antifeudale (se già non era presente in modo massiccio fin dagli inizi).

All'affermarsi, e con l'avanzare degli istituti comunali, proseguì la crescita progressiva ed irreversibile dei centri urbani, a misura che, lo sviluppo della economia di mercato e delle attività manifatturiere faceva, del contesto cittadino, una attrattiva seducente, a paragone delle dure realtà contadine, concentrando, nel territorio comunale, una popolazione sempre più numerosa, ma di estrazione promiscua, costituita variegatamente dalle nobiltà del contado, (quando costretti ad un'immigrazione forzata), medi e piccoli proprietari terrieri, mercanti, artigiani, e, complessivamente, molto simile al quadro urbano attuale.

Soprattutto, il rafforzamento dei ceti medi, rappresentato principalmente dalla consistenza della classe borghese emergente, cui faceva capo, in via pressoché esclusiva, il processo produttivo, andava a mutare il quadro complessivo degli antichi equilibri sociali, che perdevano molta della loro attualità.

Per cui, dispersa ormai l'originaria unicità e omogeneità del ceto dirigente cittadino, che aveva espresso nelle magistrature locali la propria incontrastata egemonia, si determinavano nuove e diverse istanze sociali, portatrici degli interessi dei vari gruppi residenti, cui si sommava l'incapacità dei ceti nobiliari - che finora, nella maggior parte dei casi, avevano avuto un ruolo decisivo nella gestione del potere comunale - a rappresentare per intero le esigenze di una popolazione dinamica, in continua evoluzione.

Di tale evoluzione, poi, faceva le spese, la stabilità stessa delle primitive istituzioni comunali, che apparivano inadeguate alla nuova socialità, e quindi diveniva affannosa la ricerca di una risposta istituzionale alle mutate esigenze comunali.

 

Gli statuti nelle diverse realtà comunali dell'Italia

Certamente non tutte le realtà comunali subirono lo stesso percorso.

La tendenza era sicuramente a livello nazionale, che nei comuni del nord aveva trovato una soluzione mediante l'elezione di un podestà, magistrato unico in sostituzione dei consoli, cui veniva delegato il potere esecutivo.

Un "tecnico" quindi della politica e del diritto, attorniato da tutta una cancelleria di giudici e notai, cui si affidava il compito di tradurre in atto la volontà politica delle forze sociali dominanti.

Nei comuni dell'Italia centro-meridionale, restava invece abbastanza fermo il potere nobiliare, che costituiva propri rappresentanti, talvolta denominati Vicari, in memoria, forse, del rector civitatis, come nuncius imperiale, già sperimentato da Federico Barbarossa, che lo aveva imposto quale suo rappresentante nei singoli Comuni.

Purtroppo si andavano creando sempre nuove e più aspre tensioni tra gli insediati nel territorio comunale, che talvolta sfociavano, in conflitti di aperta lotta sociale: da una parte le consorterie nobiliari, i grandi "clans" aristocratici - spesso in lotta fra loro - stretti attorno alla domus e ai possessi di famiglia e organizzati militarmente; dall'altra parte il popolo, come veniva allora chiamata la borghesia dei mercanti, dei banchieri, degli imprenditori.

Popolo organizzato in "società delle arti" (corporazioni di mestiere) e in "società delle armi" (gruppi militari divisi per quartiere); popolo che in questa composizione si contrapponeva ai gruppi consortili aristocratici e lottava per una presenza egemone a livello dirigente.

Ma, il popolo, oltre a combattere per la conquista del potere comunale, era esso stesso titolare di un potere autonomo ed originario, che si andava istituzionalizzando, al pari dei singoli gruppi nobiliari, in un potere autonomo e istituzionalizzato.

Quindi al commune civitatis, le cui realtà si definivano, anche se non sempre, come commune militum, si affiancavano, diversificandosene, e talvolta contrapponendosi, non solo i Comuni delle singole consorterie nobiliari, ma il commune populi.

Molti di questi Comuni si organizzavano con i propri capitani, con proprie truppe, con i propri consigli, i propri magistrati e quant'altro, agendo come istituzione "alternativa" alle istituzioni "ufficiali", con una sua politica, un suo raccordo territoriale con forze interne ed esterne alla città.

Ovviamente, si torna a ripetere, la storia non è la stessa per tutti i comuni, e va proiettata all'interno di un complesso groviglio di istituzioni conflittuali, non sempre facilmente comprensibili, soprattutto perché nell'attuale cultura giuridico-istituzionale, è incomprensibile l'immediatezza con cui, nell'Italia dei Comuni, il "sociale" si traduceva - direttamente e senza alcuna mediazione- in "politico", e il "privato" in "pubblico".

Il groviglio istituzionale era poi ancora più complesso, a causa della divisione della nobiltà, in Parti, anch'esse organizzate come forze autonome direttamente operanti a livello politico.

Valga per tutti la pretesa di voler definire ed individuare le Parti, più o meno contrapposte, con il riferimento alle divisioni sulla allora, annosa, e mai totalmente sopita conflittualità, papa-imperatore, per cui, per esempio, si registrarono a Firenze, già a partire dalla metà del sec. XIII, una "Parte guelfa" e una "Parte ghibellina".

Non è questa l'occasione per prendere posizione sulla discussione, ancora aperta, circa i limiti e la portata di tale contrapposizione, ritenuta, forse semplicisticamente, un semplice confronto di fazioni e famiglie; perché siffatta opinione non spiega il dato costante che i Comuni di prevalenza "ghibellina", ebbero sostanziali raccordi con l'impero, e videro generalmente affermarsi una linea politica più profondamente legata ai tradizionali caratteri "militari" della nobiltà; mentre nei Comuni "guelfi" la nobiltà fu, almeno in parte, pronta a raccogliere le esigenze del "popolo" e ad allearsi con i suoi strati superiori.

Certamente se non proprio appariscente, ma variamente sottesa, vi fu una sostanziale contrapposizione di classe nello scontro tra nobiltà-popolo, per i diversi atteggiamenti mentali, il diverso comportamento politico ed economico che, comunque, contraddistinsero i due gruppi, anche quando, insieme al governo, finirono per mutuarsi reciprocamente caratteri e tendenze.

Là dove si affermò il Comune di popolo, si determinò una politica ostracista contro i membri della più antica nobiltà, ritenuti i colpevoli detentori di un potere, pressoché illimitato, e alla quale si rimproverava di non essere aperta alle istanze dei tempi nuovi.

Cresceva quindi nelle città - soprattutto in quelle maggiori - il disagio sociale, l'insofferenza dei ceti inferiori alla progressiva concentrazione del potere politico ed economico nelle mani di pochi: un potere dal quale gli appartenenti alle "arti minori", cioè buona parte del popolo, e quello che può essere definito il nuovo proletariato urbano (cioè i salariati delle manifatture artigiane) rimanevano sistematicamente esclusi.

Finalmente, in epoche coeve allo Statuto in esame, venne impressa una direzione sufficientemente univoca alle esperienze legislative dei comuni, per tanti versi dissimili e singolari, cioè una direttiva al tendenziale consolidamento istituzionale, al rafforzamento degli apparati di potere, alla costruzione di organismi politici più stabili. In altre parole al superamento di quel groviglio di istituzioni, di quella compresenza di forze diverse, ciascuna immediatamente operante sul piano politico, che avevano caratterizzato la storia comunale a partire dalla fine del sec. XII.

La tendenza istituzionale quindi, cessa di essere centrifuga, per diventare centripeta, cioè il rallentamento del movimento autonomo delle forze sociali, viene sostituito con quello che ormai, sempre a contorni più definiti, potrà definirsi un apparato centralizzato statale.

Ma tale diverso percorso, impresso alle normative statutarie, trasformando radicalmente la natura del Comune, ne ha anche determinato un cambiamento sostanziale anche nel significato storico-istituzionale. Rimane emblematico a questo riguardo, che già nel 1378, il Tumulto dei Ciompi fu represso dal governo fiorentino, servendosi appunto della istituzione comunale, ormai divenuta forza centralizzata egemone, per opporsi alle pretese degli operai salariati e del popolo, con una severità e durezza, non certo dissimili da quelle con cui le "tirannie" e le dittature in genere, hanno riaffermato il proprio potere.

Ragion per cui anche al di là delle inevitabili distinzioni (spesso di natura ideologica), il nuovo modello di Comune, a partire dal sec. XIV si costituì, vuoi con i modelli della "libertà repubblicana" e vuoi della "tirannide signorile", con la caratteristica comune, nonostante l'abisso costituzionale che le divideva, della costruzione di un apparato di potere stabile, fornito di capacità organizzative e repressive, prima impensabili.

Le stesse signorie nacquero, del resto, sul terreno delle istituzioni comunali spesso occupandone una carica - prolungata nel tempo e rafforzata nelle funzioni - che il "signore" divenne tale, talvolta quasi insensibilmente e destinato a durare almeno fino a quando l'imperatore (o il sovrano di turno), o lo stesso Papa, non ne avessero decretato la fine.

Ma come, ho già avvertito più volte, al di là dei confini dell'Italia centro-settentrionale (dell'area, cioè, grosso modo corrispondente al regnum Italiae) il fenomeno comunale si attuò con minore sistematicità, con procedure e con caratteri diversi, secondo una sterminata varietà di tipi, nei quali di volta in volta si realizzava la convergenza di più fattori, costituiti da una varietà e pluralità di elementi.

Quali: la maggiore o minore tendenza all'urbanesimo, e alla antichità delle tradizioni urbane connesse (che, fortissime in Italia, non aveva altrove la stessa consistenza); la natura dei ceti sociali, che nelle città si esprimevano ovvero la maggiore o minore forza del potere centrale, regio o imperiale.

Nell'Italia meridionale, le politiche adottate dal regno normanno prima, da quello svevo e da quello angioino poi, vennero, come è ben noto, apparecchiando un quadro politico e normativo, sostanzialmente divergente da quello del regnum Italiae.

Un quadro politico che vedeva uno stato saldo, una monarchia accentratrice (nei limiti in cui ciò era allora possibile), e che lasciava scarso spazio al libero esplicarsi dei poteri locali, avendo i mezzi e le capacità per controllarli.

In tal modo, le tendenze autonomistiche dei centri urbani - che non mancarono del tutto, emergendo anzi, in alcuni casi, con grande precocità (basti pensare a città marinare come Amalfi, Bari, Napoli, Messina)- vennero inquadrate in un rapporto diretto con la corona, dalla quale provenivano privilegi, franchigie, e la misura della "libertà".

Solo entro questi limiti poterono esistere nell'Italia meridionale autonomie cittadine e forme di autogestione.

 

Conclusione

Fin qui le mie considerazioni sugli antichi "Statuti o capitoli di Nettuno" e, tornando al presente, concludo queste mie brevi osservazioni, annotando che, dal travaglio normativo comunale sono nate le colonne portanti dell'attuale legislazione degli enti locali, così come volute dalla costituzione, e cioè l'autarchia, l'autonomia e l'ausiliarietà, sui quali principi le amministrazioni comunali sono interlocutrici sempre più essenziali del governo nazionale e compartecipi imprescindibili delle politiche dell'Unione Europea.

FABRIZIO SALBERINI





OPERA APPARTENENTE AL FONDO BIBLIOGRAFICO
"100 LIBRI PER NETTUNO" Edizione del Gonfalone 2005
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