Nettunesi, Anziati ed abitanti delle terre limitrofe trascorsero la seconda parte di quella giornata come può trascorrerla chi da un momento all'altro si aspetta la forca o la liberazione. I più temevano molto più la prima che la seconda, stando ai fatti di cronaca di quei tempi. Un anno prima il Castellano di Torre d'Anzio scriveva a Roma:
" Nettuno, 13 agosto 1801. " Li, guai sono piuttosto da mare a danno del Commercio. Siamo pieni di Turchi. Vidili ieri sulla torre d'Anzio quattro sciabecchi ed una mezza galera turca dar caccia a più bastimenti. Ne predarono uno verso (torre) San Lorenzo carico di carbone; due grossi Pinchi Siciliani appena poterono scapolare e prendere porto, ma uno combattendo pendè mezza poppa; -finalmente tutti li cinque legni riuniti andettero a perseguitare col loro cannone e con le lance due Martigave grosse ed una Feluga che s'erano rifugiate sotto la Torre della Caldane... Rimangono anche oggi li detti legni turchi bordeggiando per quest'acque e si ha relazione che ce ne sono dell'altri ".
Così lo storico nettunese G. Brovelli Soffredini a pag. 187 del suo libro Neptunia.
Erano quattro i velieri turchi all'ancora, ma non un rumore o una voce proveniva dalle loro ciurme; anche a Nettuno il silenzio era assoluto: la paura aveva tarpato la bocca a tutti.
Non un colpo di remi o voce di pescatore, non incitamenti o canti di contadini nelle campagne abbandonate. Di tanto in tanto si udiva lo starnazzare di galline, un raglio o un latrato, ma niente più; quel 12 giugno fu per gli animali un giorno come gli altri, perché a dar fastidio alle povere bestie son quasi sempre e soltanto gli uomini! Questi, invece, erano afflitti quel giorno da pensieri più gravi, da preoccupazioni tremende.
Per timore del peggio, uomini e donne avevano provveduto - non si sa mai! - a cucire nei risvolti e nelle pieghe dei vestiti i quattro bajocchi, alcune spille d'oro e qualche catenina acquistata dopo diversi anni di risparmio; avevano sotterrato in cantina o in un angolo della stalla fagotti e sacchetti ripieni di coperte, di lenzuola, di farina, di fagioli e di granturco. Nel far questo non avevano dimenticato di difendere quanto nascosto mettendo in bella mostra pezzi di lardo e pancetta di maiale, ben sapendo che per i seguaci di Maometto dire maiale è come, dire diavolo. Il seguace del Profeta che avesse osato toccare la carne di maiale non sarebbe mai entrato nel fiabesco paradiso di Allah, ricco di deliziose ghiottonerie e rallegrato dalle sempre giovani Uri.
Le operazioni di occultamento venivano eseguite alla svelta e nel più assoluto silenzio; persino i fanciulletti se ne stavano zitti zitti negli angoli ad osservare, le boccucce e gli occhi spalancati, lo strano armeggiare dei loro parenti. Nei loro visetti impauriti si rifletteva la paura dei loro genitori: un bimbo ha timore dei malvagi, ma ha terrore della paura dei propri genitori!
A vespero le campane suonarono come sempre per richiamare i fedeli alla preghiera. Quella sera in chiesa ci andarono tutti: le donne per lodevole abitudine, gli uomini, oltre che per raccomandarsi a Dio, anche per sentire eventuali novità da don Alessandro.
A quei tempi nei paesi si viveva in modo corale: gioie e dolori erano un po' di tutti: non c'era donna che non accorresse e che non si preoccupasse di una partoriente; non c'era famiglia che non si rallegrasse con i parenti di un neonato o che non piangesse per la morte di un paesano. Non c'erano nozze cui non partecipassero in modo diretto ed indiretto gli abitanti del borgo; le disgrazie addoloravano tutti e le feste rallegravano tutti.
Per i più giovani, gli anziani che incontravano erano zio o zia, seguiti dal nome proprio. Il lei era sconosciuto ed il voi lo usavano per riferirsi a più persone: il tu dominava incontrastato: serviva bene, sia che ci si rivolgesse al Padre Eterno, sia che si parlasse a qualunque altra persona.
A distanza di migliaia di anni, i rapporti fra gli abitanti dei paesi e dei borghi erano ancora quelli esistenti ai tempi delle tribù, quando la stima, l'affetto ed il rispetto rendevano lieve il rigido, ma provvidenziale dovere di sottomissione alla gerarchia.
Entrando in chiesa, la gente vide che don Alessandro, in cotta e stola, stava già presso l'altare maggiore e fissava, in atteggiamento interrogativo, il Crocefisso.
Era giovane don Alessandro, ma già aveva ricevuto in abbondanza la parte di dolore, di sofferenze e di preoccupazioni che la vita riserva ai miseri mortali.
Alto e ben piantato, aveva ricevuto dal Creatore la forza fisica e quella di carattere: era un gladiatore buono che non avrebbero sconfitto né i prepotenti, né gli ignoranti; sapeva usare a tempo e luogo l'aspersorio ed il frustino, la penna e la vanga, le carezze e le pedate. Si curvava solo davanti al Crocefisso per adorarlo, alle vecchiette per confortarle, ai bambini per accarezzarli.
Di fronte a chiunque altro teneva il capo eretto ed il petto di fuori. Alcuni anni dopo lo dimostrò preferendo l'esilio al giuramento di fedeltà all'imperatore dei francesi.
- Monsignore, - lo riscosse Alfredo Cibati - ci siamo tutti.
Quella sera più di qualcuno si aspettava una lunga predica da don Alessandro, ma il parroco invocò Dio con le parole di sempre, anche se con un tono così accorato e con sospiri così significativi che anche dalle gote più coriacee uscirono lucciconi.
Dopo la benedizione, disse loro soltanto:
- Le preoccupazioni ed i timori di oggi hanno stremato le vostre forze ed hanno spento il sorriso sulle labbra dei vostri figli. Preghiamo il Signore che ci conceda un domani ben diverso! La Madonna non ci abbandonerà! Ce lo ha dimostrato in mille occasioni. Pregatela col cuore e vigilate.
- Amen. - risposero all'unisono i fedeli che si avviavano pian piano all'uscita, dopo essersi segnati con l'acqua benedetta. Una giovane madre uscì dalla chiesa versando una lagrima sui riccioli d'oro del figlioletto che stringeva fra le braccia! |