Lido di Camaiore 1965, Villino Mezzaluna,
Marta Abba fra Silvio Calendoli e Giovanna Scarsi
(g.c.Giovanna Scarsi e Ed.Studium-Roma) |
Una pubblicazione di alto valore civile, prima che letterario. Non c'è civiltà senza Memoria: è il richiamo etico e politico della programmazione di queste pregevoli pubblicazioni del comune di Nettuno e dell'impegno del sindaco Marzoli con la sua équipe culturale, di cui il segretario generale Benedetto La Padula è l'espressione di fede e di tenacia appassionata più nobile.
Questo volume, che segue ad altri di pari pregio, si presenta come un'ulteriore lezione di autentico umanesimo integrale, sia per l'accuratezza filologica dei testi, sia per il privilegio di una veste editoriale di rara pregnanza etica ed estetica e sia - non ultima motivazione - per il rigore della metodologia storico-letteraria, la precisione del curatore, fino alla puntigliosità delle fonti e delle citazioni, l'eleganza espositiva, in ogni tratto in cui egli interviene in prima persona, di cui l'attenzione e la pazienza amorosa nella ricostruzione del passato sono espressione. Anche la dimensione paesaggistica, dominante in un libro su Nettuno, un comune baciato dalla Natura e privilegiato dall'operosità produttiva di cittadini illustri e di tanta gente comune, è sempre attenzione alla storia delle tradizioni, innanzitutto; il paesaggio, cioè, viene recuperato da fatto estetico ornamentale a fatto storico e sociale, su supporto costante di meditazione e concentrazione assorta sulle radici di civiltà e di Memoria.
Si coglie qui il senso più alto delle benemerenze di questa fatica di La Padula, che segue a quella, indimenticabile, su D'Annunzio e la Duse: nella capacità di coniugare otium e negotium, memoria e presente, storia e letteratura, al fine di scoprire e valorizzare Nettuno non solo come località turistica, ma soprattutto come civiltà, imponendola in Europa. Un'operazione, questa, etica e politica, che merita consensi di critica e di pubblico.
La corrispondenza Pirandello-Marta Abba da Nettuno ed a Nettuno illumina un percorso artistico ed umano di due protagonisti, le cui psicologie e i cui caratteri si pongono e si leggono come chiavi di interpretazione di una laboriosa e dimidiata fin de siecle; una vicenda d'Arte e d'Amore (?), intrigante e suggestiva, che tuttora suscita curiosità ed interrogativi ancora irrisolti. Nel contempo discopre, nelle emozioni vibratili del Maestro, itinerari lirici ed archeologici di incanto, tali che il volume potrebbe costituire il viatico culturale e artistico di un viaggio per la città, più valido delle obsolete guide turistiche, viaggio al quale sarebbero sensibili gli stranieri in particolare. Di qui l'importanza di produttività concreta di questa operazione artistica.
Le lettere sono riportate nell'originalità della scrittura autografa del Maestro: una scrittura nitida ed incisiva, capace di comunicare con immediatezza sentimenti ed emozioni come non potrebbe fare il testo a stampa; il che contribuisce a immettere il lettore nel milieu di un Pirandello privato: l'uomo, nell'altalenare di trepidazioni e certezze, fragilità ed entusiasmi, comunque esaltato nella forza del vero Assoluto che nei due si leva a Religione del Bello nel vero credo: il Teatro, al di là ed al di sopra della vicenda personale. È la stessa "Visione", la fede nell'Arte, che trascolora anche nelle lettere Boito-Duse-D'Annunzio.
Sono grata all'autore di questa pubblicazione, perché la rivisitazione di questo gruppo di lettere chiarisce ulteriormente le conclusioni critiche cui sono pervenuta nei miei saggi circa l'apporto di questo epistolario alla conoscenza di Pirandello e dell'epoca e cioè:
1) Valenza intimistica: le lettere pongono a nudo il volto dolorante di un Pirandello "uomo di pena", costretto nel carcere di una Solitudine irreversibile: "ho una gran paura di restar solo con me stesso". Solitudine privata, causa il deserto di affetti della sua vita, segnata dall'incomprensione dei familiari e dalla follia della moglie. Di contro, si colloca una Marta Abba che, superato il primo momento di entusiasmo, calcola con freddezza nordica le distanze del rapporto personale insidiato dalla mentalità dell'epoca, dal contrasto dei familiari ed anche dalla forte differenza di età e lo contiene nei limiti della collaborazione che la rese celebre. Una solitudine privata che è anche artistica per il disadattamento del Maestro ad un sistema che, sostanzialmente, lo isolò proprio per la sua grandezza, la quale finì per dar fastidio anche agli esponenti del regime, che in un primo momento sembravano averlo sostenuto.
2) Valenza sociale e culturale: queste lettere ci immettono nella pienezza del clima artistico dell'epoca, contrassegnato da beghe, intrighi, invidie e pettegolezzi di ogni genere. Ne viene fuori uno spaccato di società intrigante ed arrivista, in cui la libertà dell'intellettuale e dell'artista si paga con grossi scotti.
3) Valenza politica: i richiami costanti a fatti e personaggi del momento (Mussolini, Bottai, etc.) evidenziano il rapporto difficile e precario di Pirandello con il regime. Si sottolinea, spesso, lo scarso interesse alla cultura e all'arte ed il disagio dell'intellettuale, che alla mercificazione del fatto d'arte oppone la rivendicazione della libertà e della dignità dell'artista.
Come la Duse, Marta Abba trionfò in America; i riconoscimenti veri al teatro di Pirandello arrivarono postumi ed anche lui non vide coronato il suo sogno di un teatro stabile. Per questo motivo sarebbe stata occasione di grande compiacimento per il Maestro leggere la riduzione teatrale della novella Va bene, inscenata a Nettuno ad opera di La Padula e Faraoni, che sono stati capaci di mettere in atto tutta la carica di drammaticità del testo narrativo in una lezione snella, agile, cattivante ed affabulante, più ancora della scrittura stessa, e di risvegliare tutte le emozioni vive nei personaggi e nell'intrigo, tutti e solo pirandelliani.
Lo stralcio di queste letture prende vigore nel contesto in toto di tutto l'epistolario. Questo è un documento unico di una vicenda unica di arte e di vita, allorché la stessa equazione arte e vita del Decadentismo si avviava al divorzio, invece, dell'arte dalla vita. Nettuno ci riporta alla fase del teatro dei "miti", dal Lazzaro ai Giganti della montagna, in cui il Decadentismo si rifrange in una sorta di surrealismo. Né la scienza, né l'arte, ormai, danno risposta agli interrogativi dell'esistente: dalla crisi alla coscienza della crisi.
Marta Abba era amica del compianto Silvio Calendoli, che creò la cattedra di storia del teatro a Padova e che, insieme all'attrice, organizzò il centro di studi pirandelliano. Lo incontrai in un corso dì teatro a Lido di Camaiore, io allieva giovanissima ed appassionata, e lui studioso e docente illustre. Durante quel prestigioso corso di aggiornamento egli intuì e valorizzò subito le mie attitudini vocazionali e le mie passioni letterarie, tanto da farmi incontrare la celebre attrice. La "Signora" era e restava una donna splendida in una splendida casa, nella quale, in età avanzata, fino alla morte continuò a vivere il quotidiano, come sulla scena. Non si era rassegnata ai mutamenti del costume e del gusto, per cui, per tutto l'arco di vita restante, si impegnò a continuare e diffondere la lezione del maestro nella sua Verità o, almeno, quella che ella riteneva fosse tale.
Una libellistica pseudoletteraria o velleitarmente critica si è divertita a risolvere curiosità ed interrogativi sulla vicenda privata dei due e sul tipo di rapporto che li aveva uniti. Vero è che tutto questo non interessa alla vita della letteratura. A nostro avviso, al di là ed al di sopra delle cronache mondane, ci sono rapporti magici, che nascono da sintonie intellettuali, ideali ed estetiche, tali che gli stessi sfuggono alle definizioni o alle classificazioni di ordine borghese. Esistono e basta, fortunatamente per chi li vive e per i prodotti che esprimono a favore degli altri. A noi appare importante solo evidenziare quale e quanta sia stata l'influenza della presenza di Marta Abba nell'arte di Pirandello, in particolare nello svolgimento del suo teatro fino alla fase di "surrealismo magico".
"Mai e poi mai avrei scritto Come tu mi vuoi senza di Te, come non avrei scritto più nulla se Tu non mi avessi ridato la vita". Questa è la verità: senza Marta non ci sarebbe stato il teatro di Pirandello, soprattutto, il meglio del teatro, che a Nettuno gioca un ruolo magico. Di qui, l'importanza anche letteraria ed artistica di questo volume, che ci sollecita a riproporre, rivisitato e aggiornato, l'intero saggio di chi scrive ai margini della pubblicazione definitiva dell'epistolario nell'edizione integrale dei Meridiani Mondadori, Milano 1995, per gentile concessione dell'editrice Studium e per autorizzazione del direttore dott. Giuseppe Lazzaro. Il saggio è apparso per la prima volta nel 1993 in Studium. Rivista, indi, arricchito e riveduto, in un denso volume, parimenti di chi scrive, nella collana Nuova universale di Studium, editrice nel 2001 de La letteratura come testimonianza ed arte - Percorsi di letteratura artistica.
Ringraziamo il dott. Lazzaro ed il Presidente delle edizioni e rivista Studium prof. Vincenzo Cappelletti.
Riteniamo che questa riproposta sia utile a chiarire meglio il contesto socio-politico-culturale in cui si inserisce e matura, fino al suo epilogo, la vicenda di arte e di vita cui questo flash da Nettuno conferisce e riceve più vivida luce, sia per l'addetto ai lavori, sia per il lettore comune.
Lido di Camaiore, 1965. Villino Mezzaluna
Una splendida signora in uno splendido abito da teatro, color verde smeraldo, che accentua la vividezza dello sguardo in contrasto con il rosso ramato della capigliatura, anch'essa teatrale, ancora fin de siècle, e accarezza i contorni di un corpo flessuoso, entra nel salottino crepuscolare, con portamento altero e morbido insieme; abbraccia con slancio Silvio Calendoli e con una carezza rompe la timidezza dell'allieva del corso di teatro che le era in piedi, innanzi, con devozione. Adagiati con sapiente cura su leggii, sui mobili raffinati d'epoca, o adornanti con sobrietà austera le pareti azzurre, ritratti di lui, il "Maestro", vergati a dediche autografe, ancora umide di tracce di vita, di amore. Ero come rapita, immersa nell'atmosfera dei miei studi prediletti che, d'incanto, prendevano corpo in lei, la musa per la quale il teatro di Pirandello divenne ed è: Marta Abba.
La signora sembrò toccata dalla passione della mia gioventù studiosa e mi chiese donde venisse il mio amore per Pirandello. Io le risposi che amavo Pirandello perché più di Leopardi, come nessun altro, aveva capito che la vita è tragedia del dolore. Ed ella, con occhi d'improvviso assorti in una melanconia senza orizzonti: "Quanto ha sofferto il Maestro!" Ragione più probante per far conoscere la pena di vivere di lui, il cantore della tragedia dell'umana sofferenza, che fu il vero protagonista dell'incontro; era lì con noi e fra noi. "Era per me come un dio!" ella ripeteva. E l'eco del dio vibrò nella lettura appassionata di alcune delle lettere del maestro, che nel pomeriggio, in casa sua, ella dedicò a noi corsisti.
Quella sua voce evocativa ed intensa scavava nella concentrazione dei nostri silenzi interiori, palpati di emozioni e colori di un passato senza tempo, come il suo bel volto su cui le rughe, pur emergenti sotto il maquillage sapiente, incidevano ulteriormente la vitalità, rincarata dagli anni.
Quando ci congedò, delle lettere alcun cenno. La lacerava il dubbio che il volgo profanasse la storia di quel rapporto nobilissimo, per incapacità di comprenderne la natura.
Restai in corrispondenza con lei, che accettò anche il mio invito a Salerno; sulle lettere, silenzio, sempre. Solo nel 1985, un anno prima di morire, attraverso l'amico Peter Putnam, fece donazione delle lettere all'università di Princeton, che di recente le ha date alle stampe, in collaborazione con Mondadori.
Sarebbe stata -credo- questa la volontà di Pirandello che affidò all'America la pienezza di quel trionfo che l'Italia, per i condizionamenti politici ed economici, non gli tributò nella misura in cui egli l'attendeva. A monte, l'imperativo di far conoscere al mondo la sofferenza degli ultimi dieci anni del Maestro e quale e quanta fosse stata la sua infelicità esistenziale.
In realtà, la singolarità dell'epistolario è nel fatto che, per la prima volta, lai, lo scrittore che meglio di tutti ha capito il nostro tempo, esprime il suo tormento, non più trasfigurato attraverso i suoi personaggi dal filtro della creatività, quanto nell'immediatezza di una pagina di una quotidiana quanto dura verità umana.
Scorrono gli anni dal 1925 al 1936: Pirandello è "orrendamente solo", in una prostrazione di sofferenza tale "da impazzire" e da fargli invocare più volte la morte; un Pirandello - ricorda Marta - consumato da un desiderio struggente di amore e di bontà, "tradito a tutti i livelli", tanto da suffragare l'ipotesi di una interpretazione del suo teatro quale "tragedia del tradimento".
Sullo sfondo di questo deserto di affetti, l'amore per Marta si fa per lui l'unica ragione di vita e di arte, in una sorta di coinvolgimento totale che negli ultimi anni, raggiunge livelli ossessivi fino ai limiti della sanità mentale, tanto da giustificare la superficialità di estremi di interpretazioni della storia d'amore: rapporto platonico o avventura erotica? Tesi, quest'ultima, che la lettura dell'epistolario esclude drasticamente.
Fin sul letto di morte, Pirandello chiede e richiede sue notizie; la segue con gli occhi della fantasia, nei suoi momenti anche più intimi: bella, chi sa quanto, nel suo costumino da bagno, conta le ore della consegna della posta ed attende, invano, un segno di corrispondenza al suo amore.
Le risposte di Marta non vanno al di là di un affetto rispettoso e grato al "Maestro", cui si rivolgeva sempre dando il "lei", con la devozione di chi sa di dovergli guida e successo.
Ma Pirandello non accetta queste distanze; in lui l'amore si traduce in "furia della passione", vibra di accenti di protesta: "dimmi che mi vuoi bene", "il suo sentimento non può divenire soltanto affetto e basta!!" "Tutta la mia vita sei tu!": vita ed arte si chiamano Marta. "Se perdo la speranza di rivedere la mia Marta muoio!"; "Sono tutto per te, non penso che a te, non vivo che per te", "non vivo che di te e per te!" Nessuno mai potrà comprenderla ed amarla meglio di lui.
Come Boito, nella visione di "tre teste ad una finestra", nella lettera alla Duse, anche lui si leva al sogno di una vita coniugale con Marta: "Potrei aver casa solamente con Te". Confessa che solo una cosa potrà fargli bene: saperla felice: "Quando ti saprò vittoriosa e felice potrò chiudere gli occhi per sempre!!!" Le prepara il trionfo e la porta al trionfo.
I silenzi di Marta scandiscono la sua condanna, rendono rabbiosa la sua angoscia: "di questa angoscia sto morendo", "finanche la compagnia di me stesso è insopportabile". Non riesce a risollevarsi dall'abisso della depressione, che rivela "l'ultimo fondo di una solitudine disperata". "Soffro troppo", "Non riesco a concludere più nulla", "la mia vita è spenta senza di te!"
Soccorre, invece e fortunosamente, la funzione salvifica dell'arte, che gli consentì di raggiungere il massimo della produttività. Quando si è qualcuno, Come tu mi vuoi, Trovarsi, I giganti della montagna, ecc. gli dettero il trionfo nel mondo.
Marta era la religione dell'arte che trionfa sull'aridità del problema economico e sulla violenza del male. Non domanda altro tempo che quello che gli serve per terminare i suoi lavori ancora da scrivere, perché avverte "imperioso" l'obbligo di coscienza che deve scriverli.
PRIMA LETTERA DEL 7 FEBBRAIO 1925: (1)
Gentilissima Signorina
Studii con amore la parte della protagonista di Nostra Dea, e pensi che la rappresentazione di questo lavoro avrà tutto l'ausilio d'una prestigiosa messa in iscena, che faciliterà a Lei tutti i passaggi da un abito all'altro.
Conto molto sull'impegno che Ella metterà nell'interpretazione di questo. E intanto la saluto cordialmente.
Luigi Pirandello
E' una semplice nota di accompagnamento ad una lettera di M. Bontempelli, che invia all'attrice il copione di Nostra Dea e l'invita a presentare la commedia che, grazie al fascino dell'intelligenza della sua interpretazione, ebbe un gran successo.
Il primo incontro con Pirandello avvenne qualche settimana dopo, il 25 febbraio, al teatro Odescalchi di Roma, dove Marta firmò il contratto, quale prima attrice nella compagnia del teatro di arte.
Amava ricordarlo spesso e sull'episodio si diffuse, illuminandosi tutta, anche con noi nella sua villa.
Io arrivai -scrive in La mia vita di attrice, in Il dramma, 1° febbraio 1936, p. 5- a Roma, accompagnata da mia Madre. Era il primo viaggio verso una compagnia con la quale avrei dovuto fare una tournée. Sul palcoscenico vidi alcune persone nel semibuio e una con i capelli d'argento, il pizzetto bianco, piuttosto curva. Io entrai in palcoscenico e qualcuno disse: "Marta Abba".
Pirandello, allora scattò dalla sua poltrona e mi venne incontro con quella sua stupenda vitalità: non pareva certo vecchio! Mi strinse ripetutamente la mano e mi disse: "Benvenuta signorina! Siamo contenti che sia arrivata".
Marta aveva 25 anni, Pirandello 58. I figli di lui erano più grandi di Marta. Ella lo incontrò allorché era all'acme del successo, ma terribilmente minato dal dramma dell'internamento della moglie e dai dissapori familiari, nei quali Marta fece sempre da mediatrice. Fra gli altri, è tristemente noto il dispiacere per il comportamento del genero Manuel, che egli incolpò di avere, in sua assenza* dilapidato il patrimonio, del quale gli aveva affidato l'amministrazione.
E pur vero che Lietta ha rivisitato la cosa, rivelando che il padre fu logoro amministratore delle sue sostanze e che aveva affrontato spese superiori alle sue possibilità, senza rendersene conto.
Marta aveva convinzioni profondamente religiose, Pirandello era un laico cristiano; in quel tempo non esisteva il divorzio. Non maturarono, dunque, le condizioni che, se ci fossero state, avrebbero, forse, fatto sì che non restasse infranto il sogno di amore.
Che debbo più farmene, della mia vita, se non ho a chi darla?(2)
A me, non serve più! Non domando più altro tempo, oltre a quello che mi bisogna per finire i lavori che ancora mi restano da scrivere: perché sento come obbligo imperioso della mia coscienza, che debbo scriverli. Senza questo, chi sa dove sarei a quest'ora; fin da un'atroce notte passata a Como!
All'inizio, il rapporto ebbe un momento di esaltazione, che fu presto interrotto da "quell' atroce notte" passata a Como, cui si fa cenno nella lettera del 20 agosto del '26, che fu la causa irreversibile del precipitare di quel sogno nell'indifferenza di un limbo penoso.
Il brano conclusivo del secondo atto di Quando si è qualcuno, in cui Veroccia rimprovera al poeta la viltà di non aver saputo accettare il suo slancio di donazione completa a lui, in un'occasione trascorsa che non può ritornare più e non potrà mai più ritrovarsi, è esemplificativo di quest'incidenza, restata avvolta nel mistero. Una cosa è certa: il fatto fu così traumatico che ruppe il rapporto irrimediabilmente. Marta fa chiarezza e definitivamente: i rapporti sono solo di collaborazione artistica e null'altro. I due sono insieme nel tour della compagnia; si fanno vedere a pranzo, in pubblico insieme, ma in albergo sono sempre in camere separate.
Nel 1929, a Berlino, Marta, forse anche tediata dalle insistenze del Maestro, che non si rassegna alla mutata realtà, ma sostanzialmente delusa per non aver colto ancora i risultati concreti della sua collaborazione artistica con un contratto definitivo, influenzata anche dai familiari che non condividevano quel tipo di relazione che dall'esterno poteva essere interpretata più intima di quanto fosse, abbandona il Maestro per ritornare nel suo ambiente.
Pirandello piomba nella disperazione più cupa; è convinto che "quel sentimento che non c'è più" possa rinascere in Marta, in virtù della sua forza di amore e della sua indispensabilità per la vita e per l'arte di lei. Ma dopo la rottura, il distacco di Marta è chiaro: non cessa mai di chiamarlo "Maestro". Le sue proteste di amore sono "chiacchiere inutili". La sua funzione resta sempre quella di "misura del reale", rispetto agli slanci idealistici del Maestro ed alla passionalità delle sue reazioni nei confronti della "masnada dei nemici", di conforto negli scoramenti affettivi, dettati dalle delusioni familiari. La sua indole femminile non era incline alle esaltazioni erotiche; fu riservata e repressa anche dai convincimenti cattolici. Ne è conferma il fatto che il suo matrimonio con un miliardario, due anni dopo la morte di Pirandello, naufragò nel divorzio, proprio perché - pare - lei rifiutò la vita coniugale.
Nell'epistolario appare chiaro che fra i due non vi fu mai tempesta dei sensi, ma Pirandello fu coinvolto in toto e non solo platonicamente, di certo, come dimostrano il suo tono appassionato e le sue reazioni fisiche sanguigne, l'altalenare penoso fra prostrazioni, dettate dalla lontananza, ed autoesaltazioni, lei vicina, della sua funzione di guida alla sua ascesa.
Si snodano cosi, l'una dopo l'altra e l'una dentro l'altra, queste lettere in una corrispondenza fittissima, che inclina nella morbidezza di toni spettacolari, indi si spegne nella tristezza di un soliloquio. Il tutto, in un alternarsi di registri: dal lirico all'elegiaco al drammatico, che scandiscono un concerto di sentimenti i più diversi, compresa la gelosia, e riflettono la mobilità di un caleidoscopio di colori, i più vari: dalle nuage rosa-lillà alla solarità del giallo-rosso ed inneggiano a lei, nelle trasfigurazioni radiose dei personaggi pirandelliani fino all'apoteosi nel Paradiso di Broadway. "Chiare, fresche e dolci acque...", "levommi il mio pensier..."; la réve di Laura ritorna in accenti rinnovati di modernità, ma con lo stesso fascino struggente che ha la poesia dell'échec.
Solo allora, quando ella è nel fulgore del ciclo della gloria, il Maestro sente di poter uscire dalla sua vita come in punta di piedi. Ed avviene quando lui esce definitivamente da quel cerchio dell'esistenza e depone per sempre il suo fardello di solitudine "randagia", rompe gli ultimi cocci dei due sogni per sempre perduti: un teatro di Stato e una vita autentica accanto a Marta, al di là e al di sopra delle finzioni di teatro.
L'epistolario è anche un documento storico-artistico, nonché politico, prezioso, quale chiave di lettura del periodo, attraverso la storia del rapporto di Pirandello con il Duce, nella perenne conflittualità fra l'istanza libertaria dell'arte e le dure leggi del potere che vogliono asservirla a sé, e strumento di conoscenza del costume attraverso la vicenda di due personaggi-miti dell'epoca stessa: il genio creatore e l'interprete.
Si adombrano anche le linee della poetica di Pirandello in fieri, nella misura in cui, più che enunciare teorie, il Maestro, nel momento in cui porge indicazioni o precetti alla sua allieva, segue il fatto d'arte nella sua genesi, nel suo farsi e nel suo svolgersi. Trascorrono, in queste pagine, fatti e problemi del ventennio nero, che vide un Pirandello cantore entusiasta della guerra d'Etiopia e di Mussolini, ma parimenti, avviluppato in difficoltà di contraddizioni e di contingenze, sostanzialmente privo di un saldo orientamento politico. Vero è che egli aveva appuntato sul Duce le sue speranze per la rinascita del teatro e dell'arte, ma non risparmia critiche dure, allorché vede naufragare il suo progetto di un teatro stabile nella volgarità della "mangiatoia" dei "soliti profittatori", che gli fanno gridare: "Che schifo!", nell'alternarsi di toni fidenti di speranza, o cocenti di delusione o vibranti di disprezzo.
Si dipanano, altresì, le trame sottili e fitte insieme, delle cronache di arte e di teatro in momenti di particolare interesse, quali l'ingresso del film sonoro, che chiamò in causa direttamente il teatro di Pirandello. Gli sembrò, per un momento, di poter sperare, con le conversioni dei soggetti teatrali in films, di risolvere il problema economico, definitivamente. Ma anche qui restò deluso. Dovè fare i conti con la quotidianità degli intoppi e degli impacci, provocati dal monopolio dei gestori del teatro: i nemici capeggiati dall'onnipotente Giordani, dai quali egli protesse Marta, preoccupandosi, costantemente, di ovattarla dai rischi della volgarità. Si ritrovò, così, solo e perdente ad affrontare un gioco di azzardi a cui era impreparato e che lo portò a doversi misurare col meccanismo kafkiano di un sistema giudiziario, anche allora allucinante.
Arriva a chiedere alla sua Marta di implorare per lui quel Dio in cui lei crede; lui, il Maestro "laico-cristiano", secondo un'etica naturale, a lei insegna e per lei professa i valori di giustizia, onestà e verità, che non conoscono frontiere di discriminazione umana o divina; proclama la purezza della vita e dell'arte, esalta, commosso, la "santità dell'amata", la invita a non degradarsi mai nel compromesso, mantenendo alto ed integro il suo stile etico-artistico. Una confessione, dunque, tragicamente vera, di una fragilità senza sostegno e di uno smarrimento senza speranza in un'atmosfera di stanchezza delusa, in cui è il fascino struggente di questa pagina di vita perdente e di arte vincente.
Si può ipotizzare la divisione dell'epistolario in tre parti, che seguono le tre fasi fondamentali della storia del rapporto e parimente dello svolgimento del teatro:
1. lettere degli anni 1925-'26: riguardano l'inizio solare e la brusca interruzione;
2. lettere degli anni 1925-'30: è il grosso del corpus pirandelliano. Sono lettere di arte e di amore che scandiscono le tappe del peregrinare di Pirandello e Marta Abba nel mondo e definiscono con chiarezza i termini del rapporto.
Di particolare incidenza sono le lettere del '29-'30, segnale da due eventi traumatici: la partenza di Marta da Berlino, il 13 marzo del '29, e la caduta della prima di Questa sera si recita a soggetto al Lessing Theatre, che induce anche Pirandello a lasciare la Germania. Da patria di adozione, Berlino gli si trasforma in città intollerabile ed ostile.
Afflitto da un pessimismo senza limite e da un vittimismo pericoloso che lo fa sentire perennemente perseguitato, egli rientra in Italia, nei giorni in cui infieriva la crisi economico-sociale che, in breve, avrebbe portato il nazismo al potere.
Indicativa è la lettera del 13 luglio del '28 da Nettuno e le lettere da Berlino del 14 marzo (n. 4), del 29 marzo (n. 5), del giorno di Pasqua (n. 6), queste ultime scritte nel '29.
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NETTUNO, 13 Luglio '28 (3)
Cara Marta,
ecco la tua prima lettera che viene a raggiungermi qui direttamente: lunga, bella, bella, con quell'efficacissima descrizione d'una scena del film, che m'ha rappresentata quella fanciulla perduta tra le nebbie d'una grande città come Londra o Berlino, con tale potenza espressiva, che io stesso - mi pareva - stessi a vederla con Te sullo schermo. E poi dici che non è vero che con un po' di studio e di concentrazione diventeresti una scrittrice! Tu sei una scrittrice nata. Ma tu sei anche TUTTO, Marta mia; e credi che tutto quello che soffri, le tue stanchezze, i tuoi disturbi, mali che sembrano del corpo e non sono, mali dì cui nessun medico troverà mai la ragione, hanno in questo la loro ragione, invece: che sono Vita, tutta la Vita che è in Te, tutte le possibilità d'essere che sono in Te, che vivono in Te, senza che tu forse nemmeno lo sappia, e che ti logorano, ti struggono, ti abbattono, ti esasperano, facendo di continuo impeto nel tuo spirito, o cercando di forzare i freni della coscienza in cui ti sei chiusa, forse troppo ristretta e borghese; mentre la tua volontà resta inerte e non insorge né a difendere il tuo corpo da questi rapitori venti dello spirito che tante volte io ti vedo passare negli occhi attoniti e assorti, né a persuadere la tua coscienza ad allentare quei freni per soddisfare a un tempo le prorompenti esigenze del tuo spirito e della tua carne. Io sarei un gran medico per Te, Marta mia: ma bisognerebbe che tu fossi solo affidata alle mie cure.
Berlino, 14 marzo 1929
Hotel Herkuleshaus
Friedriech-Wilhelmstr, 10 (4)
Mia cara Marta,
sei ancora in viaggio e ancora io ti seguo col pensiero, come fin dal primo momento che il treno si staccò per la partenza. Come io sia rimasto, te lo puoi immaginare. Non so come Tu abbia potuto supporre che potessi andare a cenare all'Aida. Cenare? Come, con questo nodo d'angoscia che mi serra la gola? Credi che riuscirò a sciogliermelo più, se Tu non torni? Me ne son tornato a casa, mi son buttato a sedere sulla poltrona accanto alla finestra, e son rimasto lì, non so quanto, al buio, col solo chiarore che veniva dai lumi della piazza. Il silenzio della stanza accanto, dove fino a poche ore fa Tu avevi abitato, mi dava il senso della morte. Mi sono sfogato a piangere per ore e ore. Perdonami, se te lo dico. Ero solo, e potevo piangere. Alle dieci e mezzo, distrutto, dopo aver cavati fuori i tuoi ritratti, presa con me la tua sveglietta, me ne sono andato a letto. Questa tua sveglietta, che pur mi segna le ore crudeli della solitudine in cui sono piombato, mi da tanta compagnia! Penso che Tu hai pur avuto negli orecchi, quando te la mettevi accanto, il suo ticchettio.
Mi sono svegliato questa mattina alle 6 e 1/2, e son durato a letto fino alle 8, quando la donna di servizio è entrata nello studio per accendervi la stufa. Mi son fatto portare il caffè e preparare il bagno.
Dalle nove son qui alla scrivania. Ma non ho potuto scriver nulla! Due. tre volte ho tentato; non mi è possibile. Guardo la tua fotografia che mi sorride, come per farmi animo; ma penso che non è vero; che sorride per sé questa tua immagine, e non per me e allora questo sorriso, che è pur così bello, così pieno di nobile grazia, mi diventa anch'esso crudele, e il mio sguardo lo rimprovera, mentre il cuore se ne bea.
Berlino, 29 marzo 1929 (5)
Ma bisognerebbe che Tu ti facessi veramente un programma inderogabile, da seguire punto per punto, con disciplina assoluta; e massima precisione. Perdi troppo tempo davanti allo specchio, a studiarti, a curarti; e non hai tutto questo tempo da perdere; non devi più averlo; e del resto è inutile; perché non ne hai bisogno: sei sempre bella lo stesso. Ti devi alzar presto, e sempre alla stess'ora; e non andar mai a letto dopo la mezzanotte e mezza; bagno, toilette per la mattina, basta un'ora; colazione, e mettersi a studiare, prima le parti, come facevi un tempo; nel pomeriggio, le lingue; ma lo studio dev'esser fatto anche sulle commedie, da coglierne fino in fondo lo spirito per farne venir fuori tutta la vita che vogliono avere, il senso e il valore che hanno; e poi tutti gli effetti che, rappresentandole, se ne possono cavare, non mai arbitrarii, sempre legittimi, sebbene personali, perché risultanti da una illuminazione della tua particolarissima intelligenza. E non aver tempo, non aver tempo mai per la noia e per i rimpianti; riempiendo costantemente d'opere la nostra giornata; la vita non apparirà più vuota; non ci parrà d'averla perduta, se ogni giorno la ritroviamo desta e pronta in noi, per nutrirne la passione nostra per l'arte, che non si sazia, non si stanca e non si contenta mai.
Berlino, il giorno di Pasqua 1929 (6)
Questo era l'unico conforto che Ti potesse venire da me, sapere che c'è uno al mondo che Ti ama più di se stesso, uno che non vive, che non può vivere senza di Te, che dunque vive per Te; e siccome quest'uno non è nessuno, siccome quest'uno qualcosa vale e non è uno straccio da prendere con due dita e buttar via; l'amore così grande di quest'uno, che era qua tutto per te, un conforto Te lo poteva e te lo doveva dare.
Dopo cinque gioiosi mesi di vicinanza e di collaborazione in Italia fra Roma e Milano per la realizzazione della compagnia di Marta, di nuovo, la lontananza fa cadere Pirandello nel buio. Le lettere da Parigi sono fra le più tristi, gridano il suo bisogno di amore innanzitutto e il suo desiderio di morte.
Parigi, 21 dicembre 1930
5, Avenue Victor Emmanuel III (7)
Marta mia,
Speravo che almeno questa mattina la posta mi recasse qualche Tua lettera; invece, niente; e per oggi, domenica, passata la mattina, non ho più nulla da sperare perché si fa una sola distribuzione. Non vuoi proprio scrivermi più?
Vuoi forse che anch'io smetta di scriverti? [omissis]
Io...
Ma è meglio che concluda quest'inutile lettera, mi sento soffocar dall'angoscia, e non voglio più seguitar a darti questo
miserando spettacolo di me.
[Il tuo Maestro]
3. La terza "sezione" comprende le lettere dal 1931 al 1935.
Le lettere del '31-'32 esprimono un momento di euforia: il successo di Pirandello nel mondo.
L'attende l'America; la Metro Goldwìn Mayer compra il soggetto di Come tu mi vuoi; i Sei personaggi trionfano a Vienna, grazie a Reinhardt; sul proscenio, I giganti della montagna. Il fervore creativo nel lavoro che gli "fila agile e colorito", è la vera terapia al suo male.
Finalmente, il Maestro spera di potere offrire una situazione di tale floridezza da obbligare Marta a stargli vicino. Ciò nonostante, quando lei è lontana, lo smarrimento l'assale.
Accorre a Genova al suo capezzale: Marta è malata, "una cavernetta come una noce" divora il suo polmone. Si succedono per lui onori "regali"; per Marta la prospettiva di recitare a Parigi significa l'ingresso al successo internazionale.
Parigi, 1° marzo '31(8)
Come hai passato Tu la fine dell'anno? Dove? Con chi? E hai pensato a me? Una cosa è strana. A un certo punto della serata, mentre ascoltavo le chiacchiere che quei tre facevano attorno a me, mi son sentito dentro come chiamare "Maestro!" con la Tua voce. Marta mia.
Tanto che m'è venuto istintivamente di guardar l'orologio. Erano le 11 e 5 minuti. Ebbene, Marta mia. forse veramente era il Tuo pensiero che mi chiamava, perché tra Francia e Italia c'è una differenza oraria di 55 minuti appunto; cosicché quando qua in Francia sono le 11 e 5, in Italia è mezzanotte precisa. Ma hai pensato Tu a me a mezzanotte precisa, veramente? Forse eri ancora nel Tuo camerino dopo la recita. Vorrei che Tu m'accertassi di questo, per sapere se ho avuto proprio un caso di telepatia alle 11 e 5 di ieri sera.
Non sto troppo bene. Sono molto dimagrito. Da cinque giorni soffro poi d'un disturbo circolatorio, di cui non soffrivo più da circa venti anni. Perdo in straordinaria misura il sangue e le forze. Se seguita, come pare, bisogna che consulti un medico per aver qualche rimedio a tanta perdita. Basta. Questo è il meno! Se avessi almeno l'animo lieto. Speriamo che il Tuo augurio mi porti fortuna, Marta mia. Abbiti tutto il bene che Ti vuole il tuo Maestro.
Parigi, 1° agosto '31 (9)
Marta mia. ma soffro troppo; e questo soffrire mi toglie la possibilità d'ogni occupazione, e mi rende intrattabile, come un ferito a cui nessuno si possa accostare. Sono di nuovo senza sonno, di nuovo con la nausea d'ogni cibo, senza voglia di nulla, tetro come una notte che covi una terribile tempesta. Non manca altro che un fulmine che mi spezzi il cranio. Non ne posso più!
Fra Roma e Parigi trionfano La favola del figlio cambiato, Come tu mi vuoi, scritta per lei; si concludono Trovarsi e Quando si è qualcuno.
Un periodo estivo al villino Mezzaluna con Marta gli regala un raggio di sole, improvvisamente spezzato da un fulmine: l'ultima udienza a Palazzo Venezia spazza, per sempre, il suo sogno del teatro stabile. Mussolini è malato: giallo in volto, spento, come schiacciato sotto il peso degli eventi, che andranno a travolgere il mondo in una guerra senza scampo.
Il teatro è fatto secondario che può attendere, Pirandello resta "gelato nelle vene". "Io forse non so vivere", confessa, ma "saper vivere" gli cagionerebbe una "tal nausea della vita" che preferirebbe rinunciare a vivere. Fortunatamente alla cronaca segue la storia.
Parigi, 20 gennaio 1932 (10)
Basta. Tu regolati come credi. Io forse non so vivere. Ma "il saper vivere" mi cagionerebbe una tale nausea della vita, che preferirei allora non vivere più. E una questione di stomaco. Il mio non resiste al minimo urto, e da fuori. "Saper vivere" è saper ingozzare. Fortuna che, dopo la cronaca, si fa la storia.
Nel maggio del '32 Pirandello lascia anche Parigi e chiude definitivamente con l'estero; si ritira nel villino di via Bosio, dove, fra te gioie della famiglia di Stefano e i ritmi degli impegni onorifici che pure, qua e là, gli annunciano fastidio, ritrova il gusto di vivere le cose vere.
Illuminante la testimonianza di Andrea, il nipote (11),
Pirandello viveva con noi, pranzava con noi, cenava con noi, era con noi intere ore della giornata e della serata, si divertiva con noi, oltre ad intrattenersi, tante volte nello studio di Stefano a discutere con passione. E c'era la reciproca: quando non solo Stefano saliva dal padre ma anche Ninni dal nonno e anche noi. [...] Pirandello era felice di avere trovato questo asilo, non aveva più la terribile solitudine di certi periodi berlinesi e parigini. Anche se, soffrendo ancora, e in qualche momento con crudezza, per la lontananza da Marta, poteva scriverle talvolta che la vita a Roma, dove era costretto a tanti obblighi come una delle massime personalità del tempo, o certi aspetti abitudinari della convivenza familiare lo tediavano.
Il 1934 è un anno infelice che vede Pirandello dibattersi, di nuovo, fra le difficoltà economiche, mentre Marta trionfa all'Odeon di Milano.
Il mito dell'America sfuma per le disattese di Shubert; La favola del figlio cambiato viene interpretata come irriverente alla religione e alla monarchia e se ne proibisce la rappresentazione. Di nuovo le lettere scandiscono toni di cupezza senza scampo, esprimono ancora una volta la volontà suicida.
L'estate al villino di Castiglioncello con la famiglia di Stefano, la vicinanza di Marta, la bellezza del paesaggio, riconciliano il Maestro con la vita. Compone di getto Non si sa come, poi il Premio Nobel. Alla cerimonia Marta è assente, causa un incidente automobilistico grave occorso al padre.
Stoccolma, 12 dicembre '34 (12)
Io sono addirittura stroncato da tutte queste feste.
Ma ormai, se Dio vuole, il grosso è passato. Ho ricevuto il Premio dalle mani del Re nella seduta solenne, che ha veramente una grandiosità impressionante, con tutta la corte e la folla degli invitati in tutto lo splendore delle decorazioni, Accademici, Ministri Generali e, sul palco, i candidati coi loro padrini. Te ne parlerò meglio a voce, e ti mostrerò lo splendido diploma e la grande medaglia d'oro. Dopo questa cerimonia si va al banchetto nel magnifico Palazzo della Città: banchetto di almeno 500 persone, presieduto dai Principi Reali. Qui ho dovuto [fare] il discorso e m'è toccato farlo in francese per suggerimento del nostro Ministro, non essendo ammissibile che un interprete traducesse il mio italiano. Me la son cavata bene. Tutto ieri m'è passato a far visite di ringraziamento e puoi immaginarti come e quanto m'abbiano stancato. Ieri sera, pranzo a Corte, col Re e tutti i Principi Reali. Il Re è stato con me; d'una cortesia senza pari; e uno dei Principi, il Principe Guglielmo, secondogenito del Re, s'è intrattenuto con me tutta la serata.
Stasera pranzo alla Legazione in mio onore; domani rappresentazione di gala del "Piacere dell'onestà" al Teatro Nazionale. La più grande attrice svedese. Tura Teje, interpreterà il "Trovarsi" in una tournée per tutti i paesi scandinavi; alla Radio hanno dato il " Vestire gl'ignudi".
C'è stato anche, la prima sera, al mio arrivo, un pranzo offerto in mio onore da tutta la federazione della stampa estera a Stoccolma. Quando penso che, appena finiti questi festeggiamenti svedesi, cominceranno quelli di Praga, mi vengono addirittura i brividi. Non mi par l'ora, Marta mia, di ritornare a Roma a riposarmi un po' almeno fino al 10 Gennaio,
Le lettere del '35-'36 ci riportano un Pirandello stanco e deluso: l'America che egli aveva salutato come il suo Eldorado, alla fine lo ammira moltissimo, ma non compra il suo prodotto, causa le sue idee politiche.
Nauseato delle tante ed inutili trattative, il maestro torna in Europa; sbarca a Napoli il 14 ottobre ed è colpito da un grave attacco cardiaco.
Le lettere implorano pace per lui, che esprime il proposito di lasciare definitivamente il teatro per darsi tutto alla narrativa.
In Le informazioni sul mio involontario soggiorno in Italia, scritto in questo periodo, ma pubblicato postumo, sigilla il suo distacco definitivo dal pianeta terra. Ma fino agli ultimi giorni è accanto a Marta, nella sua funzione di guida e consigliere; l'ultima parola è ancora e sempre per lei, per la sua salute, per il suo successo, sua unica ragione di vita, mentre lei vola sola, in America, dove è stata invitata da Miller, trascorrendo di trionfo in trionfo.
Per Pirandello, ormai, non c'è scampo alcuno. Sente di affondare irreversibilmente. Non gli interessano più gli onori ed i riconoscimenti del mondo, neanche il sapere che l'infida Germania ha tradotto tutto il suo teatro; il suo pensiero è solo per Marta.
Gli echi delle platee che inneggiano a lei: Baltimora, Filadelfia, infine Broadway sono la sola musica che ancora riscalda il gelo del silenzio in cui si è chiuso al mondo.
Pochi giorni prima di morire scrive che si sente vagare terribilmente solo come "mosca senza capo".
Roma, 21 novembre 1936 (13)
Mi domandi di me. Marta mia, ti lamenti che non Ti parlo di me, di quel che faccio. Non faccio più nulla, Marta mia, sto tutto il giorno a pensare, solo come un cane, a tutto ciò che avrei da fare, ancora tanto, tanto, ma non mi pare che metta più conto di aggiungere altro a tutto il già fatto; che gli uomini non lo meritino, incornati come sono a diventare più stupidi e bestiali e rissosi. Il tempo è nemico. Gli animi avversi. Tutto è negato alla contemplazione, in mezzo a tanto tumulto e a tanta feroce brama di carneficina. Ma poi, nel segreto del mio cuore, c'è una più vera e profonda ragione di questo mio annientarmi nel silenzio e nel vuoto.
C'era prima una voce, vicino a me, che non c'è più: una luce che non c'è più... Non mi sento più di lavorare; eppure dovrei, ne avrò tra poco il bisogno, lavorare come per una condanna, cosa atroce, alla mia età, dopo aver tanto tanto lavorato. Il poco messo da parte s'assottiglia, le spese, coi nuovi carichi addosso sono cresciute, crescono sempre più, non so come andrà a finire. Ecco perché, Marta mia, mi vieto di parlarTi di me. Perché affliggerTi? L'unico bene per me è il sapere che Tu hai vinto, che Tu trionfi, che Tu sei lieta, e hai tutta la ragione d'esserlo, perché tutto quanto hai fatto non è dono della fortuna, ma Te lo sei ben meritalo, e altro, altro ancora Ti meriti. Marta mia, per quello che sei, per la grande, grande, pura luce della Tua anima, per la non meno grande nobiltà del Tuo cuore, per la bellezza e la grazia del corpo, creatura d'elezione adorabile.
Roma, 4 dicembre '36 (14)
Ma soprattutto, così ben salvaguardata come sei dal contratto, stà' tranquilla e lieta, Marta mia, a goderti il Tuo trionfo che è grande e che Ti da, di per se stesso, la sicurezza del presente e dell'avvenire, una soddisfazione infinita, che non devi lasciarTi turbare da nessun piccolo pensiero d'interessi mediocri.
Colin non deve rappresentare nulla per Te; pagalo perché è giusto e poi tienilo a posto; o, se no, via.
Marta mia, la lettera è già lunga, ed è tempo che la mandi alla posta. Ma quando Ti arriverà? Se penso alla distanza, mi sento subito piombare nell'atroce mia solitudine, come in un abisso di disperazione. Ma Tu non ci pensare! Ti abbraccio forte forte con tutto, tutto il cuore.
Il Tuo Maestro.
E l'ultima lettera di Luigi Pirandello da Roma a Marta Abba, New York 6 West 53 Street. Un addio senza orizzonti. La lettera raggiunge l'adorata quando Pirandello è già scomparso.
Plimouth Theatre New York, dal proscenio: la sua Marta con voce rotta dall'emozione: "II Maestro è morto di polmonite, il 10 dicembre '36 a Roma".
Giovanna Scarsi
NOTE
1 - In Luigi Pirandello: lettere a Marta Abba, a cura di B. Ortolani, Milano 1995, p. 7.
2 - Roma, 20 agosto 1926, in ibid, p. 20.
3 - Nettuno, 13 luglio 1928, in ibid., pp. 45-46.
4 - Berlino, 14 marzo 1929, in ibid., p. 63.
5 - Berlino, 29 marzo 1929, in ibid., p. 97.
6 - Berlino, il Giorno di Pasqua 1929, in ibid., pp. 101-102.
7 - Parigi, 21 dicembre 1930, in ibid., pp. 569-570.
8 - Parigi, 1° marzo 1931, in ibid., p. 588.
9 - Parigi, 1° agosto 1931, in ibid., p. 838.
10 - Parigi, 20 gennaio 1932, in ibid., p. 901.
11 - Lettera di Andrea Pirandello a Benito Ortolani del 26 aprile 1991, in ibid.. p. 1071.
12 - Stoccolma, 12 dicembre 1934, in ibid., p. 1155.
13 - Roma, 21 novembre 1936, in ibid., pp. 1387-1388.
14 - Roma, 4 dicembre 1936, in ibid., p. 1392. |