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NETTUNO VISTA
DA UN GIORNALISTA
1982 - Collana Caritas

di
OSCAR RAMPONE

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Il Borgo


 

Se vuoi conoscere veramente Nettuno, devi cominciare dal Borgo. La sua storia è accumulata lì. Le epoche si sono sovrapposte ed, a scavare, si troverebbero tracce di tutti i suoi abitatori che, tra una guerra e l'altra, si sono succeduti.
I ritrovamenti andrebbero dalle armi d'acciaio a quelle di selce, dalla ceramica " Ginori " alle prime terrecotte, dagli arnesi moderni a quelli medievali, arabi, romani, volsci e forse anche paleolitici.
Venendo a ritroso alla nostra epoca, perverremmo dagli idoli e dèi pagani, agli dèi greci e romani, e quindi al dio e santi cristiani.
Era nel Borgo che sorgeva il tempio di Nettuno, il dio che alla città diede nome, ed è qui che, quando gli dèi romani tramontarono, proprio sui ruderi del tempio di Nettuno, sorse la prima chiesa cristiana.
Ma anche se gli dèi romani erano caduti nell'oblio, i nettunesi non se la sentirono di mettere completamente da parte l'antico patrono della città. Così, ad un certo momento, il dio del mare venne riabilitato.
Intendiamoci, non è che fosse tornato in auge, come ai tempi romani, quando al suo tempio saliva dal mare una candida scalea di cento gradini di marmo pario. Il dio Nettuno non ha più un tempio e non è più nemmeno vicino al mare. Prima, tanti anni fa, gli eressero un monumento in piazza del Mercato. Ma lì non si trovava bene. I venditori di frutta e verdura ed i pescivendoli non avevano alcun riguardo per lui. Non solo discutevano e urlavano intorno alla sua vasca, ma vi portavano a bere i cavalli e vi buttavano scorze di anguria ed altri rifiuti.
Così l'autorità, sensibile alla mitologia, lo trasferì in un luogo più adatto a un dio in pensione: un giardinetto con panchine al centro della città.
Ora, all'ombra dei lecci, se ne sta in una conchiglia, a cavallo di un delfino, che si contorce fino a cingergli la vita con la coda e, come se fosse irato, getta dalla bocca e dalle narici acqua nella vasca.
II dio dal tridente fa la sua bella figura. Sembra infatti che i cavalli aggiogati alla conchiglia siano sul punto di uscire d'impeto dalla vasca per staccare il galoppo.
Nel Borgo, si respira aria di Medio Evo. Alla roccaforte si sono saldate le case, ma senza riuscire a cancellarne l'aspetto austero. Si tratta in gran parte di case minuscole, dalle persiane verdi o rosse, alcune con piccole scale esterne, sormontate da portoncini che lasciano passare una sola persona alla volta.
Gl'imponenti torrioni e palazzi severi, come il Doria Panfili e quello Baronale, sono in contrasto schiacciante con la folla di casette che intimidite, si tirano da parte, si stringono insieme e si fanno più piccole, fino ad assumere un aspetto che sa vagamente di Disney Land. Solo qui nel Borgo puoi trovare un vicoletto largo 90 centimetri e notare che la chiesa si bacia col fabbricato accanto,
II Borgo è nato in un'epoca di risorse limitate e di pericolo, quando era necessario fare economia, aiutarsi, stare tutti insieme per far fronte al nemico comune, che arrivava dalla terra o dal mare.
Ora, la civiltà dei consumi ha portato una certa agiatezza e maggiore sicurezza collettiva, ma anche l'alienazione e, con essa, il bisogno di vivere lontano dagli altri. Così, o si ha, o si sogna una villa al mare, in campagna, o in collina, purché lontana dalla città.
Si sono acquisite tante cose nuove e perdute tante altre vecchie. Da una parte è stato un bene dall'altra un male. Più il bene o più il male? Su questo punto le opinioni variano con l'età degl'interlocutori. Certo è che quel tipo di poesia gozzaniana ed il calore umano sono spariti quasi dovunque. Fortunatamente, qui nel Borgo resistono ancora.
Nelle giornate di sole, vale a dire quasi sempre, perché, come tutti sanno, Febo è vecchio amico di Nettuno, la roccaforte una volta aggrottata, che sembrava tendere il pugno al corsaro saraceno ed a tutti gli altri nemici, sorride e ride con la policromia delle casette, che le si attaccano addosso come ostriche allo scoglio e sventolano i gran pavesi dei panni stesi ad asciugare.
Il sapore di antico è così attuale che, nelle notti di luna, chi ha fantasia può vedere alabardieri e archibugieri lungo la Marciaronda, e sentirne perfino il passo pesante e cadenzato. Può anche veder avanzare, maestosamente, antiche bellezze nettunesi nei loro ricchi costumi rossi.
Certe deliziose viuzze, in cui il mare viene ad occhieggiare, non hanno subito l'oltraggio delle carrozze. Sono piene di dignità, e portano i fanali come fiori all'occhiello.
Sulle vie e piazzette del Borgo affacciano finestre bifore e pesanti portoni rosicchiati e impreziositi dal tempo. Custodiscono chi sa quali segreti. Su alcuni di essi il nome del proprietario è scritto in latino, come quello di Jacobus Philip-pus De Baptistis.
Quando vi era il tempio di Nettuno, vennero qui Caligola, Nerone, Vespasiano, Tito, Traiano, Cicerone..., nei secoli più vicini a noi, si occuparono di Nettuno quasi tutti i papi, si serba memoria, a partire dal secolo X, di Giovanni X e Benedetto VIII che fortificarono il castello. Martino V, Alessandro VI (papa Borgia), Giulio II (il papa guerriero), Clemente VIII ed altri pontefici ancora fino ai giorni nostri, mentre echeggia ancora nel Borgo il nome eloquente degli illustri suoi feudatari, succeduti, dopo il 1100, ai monaci di Grottaferrata: i guelfi Orsini e i ghibellini Colonna in eterna lotta fra loro, i Borgia, i Carafa, i Borghese Aldobrandini.
Vivono qui antiche famiglie nettunesi, ma anche alcuni professionisti che, per amor di silenzio o di passato o, più semplicemente, per sete dì azzurro, vi hanno eletto dimora.
Le une e gli altri abitano nella folla di casette molte delle quali si affacciano dai muraglioni. Dalle alte finestre dalle quali il pensiero facilmente emigra, era dolce una volta osservare l'eterno mare dal mutevole umore, ora carezzoso lambire, ed ora minaccioso aggredire gli spalti della fortezza.
Poi il mare fu spinto indietro, ed ora sono i macigni delle dighe a goderne le fresche carezze, o a romperne in alti spruzzi la furia degli assalti.
Dall'alto di questa roccaforte vennero osservati grandi avvenimenti come, ad esempio, nel 1286, il vindice incendio del castello d'Astura o, nel 1378, la sanguinosa battaglia che oppose la flotta veneziana di Vittor Pisani a quella genovese di Luigi del Fiesco, che perdette quasi tutte le navi e 500 uomini, o nel 1494, la disfatta dell'assediante Alfonso d'Aragona che fuggì verso Terracina incalzato dalle forze colonnesi ed angioine, o nel 1550, l'arrivo fortunoso della pellegrina Madonna delle Grazie, ed altre grandi vicende, ultima delle quali lo sbarco alleato del 1944.
Anche se sui tetti è nata l'orrida selva delle antenne tivvù, anche se tubi dell'acqua, fili elettrici e cavi telefonici feriscono un po' dovunque l'estetica, ed anche se le auto invadono piazza Marconi e piazza Colonna, in molte case non sono ancora arrivati ascensori, lavatrici e termosifoni, e resistono ancora usanze che hanno una loro soave e malinconica poesia.
Si fanno ancora le conserve, i sottaceti, le marmellate. Si vedono ancora, su qualche balconcino, serti di aglio e mazzi di pomodori e peperoncini rossi. Anche se le antiche anfore sono sparite, si attinge ancora acqua alla fontana chiacchierina di piazza Colonna.
Nel Borgo si trovano ancora alcuni degli ultimi artigiani scampati all'avanzata della tecnica. E senti il ronfare della forgia, il ronzio della mola smeriglio, le martellate dell'idraulico, lo strisciare della pialla del falegname ed altri rumori operosi ormai inconsueti.
Una volta, richiamato da colpi di martello, mi accostai ad una bottega di calzolaio: una stanzetta scura piena di gabbie. Entrava però una fascia di sole, che veniva accolta allegramente dai trilli dei canarini.
Chiesi al calzolaio, che vedendomi aveva smesso di battere la suola, se qualche volta cantasse anche lui. Mi rispose un po' seccato: " Mi lasci stare. Ho 78 anni, e poi... " e m'indicò, in un angolo, una sedia a rotelle e due grucce che non avevo notato. Ci restai male e mi scusai.
Visto che avevo parlato ingenuamente, mi spiegò che lui era così dalla nascita, e che tuttavia aveva sempre lavorato, si era anche sposato ed aveva avuto tre figli.
" Complimenti! " esclamai, " anche questo è un modo di cantare ".
Rinfrancato, egli disse: " Veramente, una volta cantavo anch'io, ora sono i canarini a cantare per me ".
Il mondo è diventato troppo serio e preoccupato. Non si canta più. Ma qui, nel Borgo, sì. A volte ti raggiunge la voce di una massaia che, mentre cuce, lava, rassetta o cucina, si scalda il cuore con una bella canzone di tanti anni fa.
Qui vi sono vecchi che sembrano più antichi dello stesso Borgo. Non è raro trovarne qualcuno che, senza tema di essere disturbato, siede su di una sedia in mezzo al vicolo, e fa il bagno di sole.
Il Borgo è ombroso e fresco d'estate, quando i refoli di brezza marina si rincorrono lungo i vicoli, s'impennano sulle scalette, e fanno carosello sulla Marciaronda.
È conquistato, in autunno, dall'odor di mosto, quando sulla strada, con moto circolare, le botti vengono lavate ed approntate per accogliere il vino nuovo.
D'inverno è triste, ma non troppo, ché spesso il sole si cala a curiosare nei vicoli e nelle finestre, ed a sdraiarsi su piazze e terrazze.
Allora sorridono perfino palazzi severi come quello baronale, in cui si muovevano importanti personaggi e accaddero memorabili avvenimenti, come quando il poeta nettunese Antonio Ongaro declamò il suo poema Alceo, innanzi alla corte dei Colonna: " Alceo prima gloria ed ornamento dì questo mar, che nacque nel Castello che dal gran Dio dell'onde ha preso il nome... ".
Poi arriva la primavera con le mani piene di gerani, e corre, con piede leggero, ad infiocchettare i balconi.
Ed ecco ancora l'estate, che apre tutte le porte, e butta fuori da ristoranti e pizzerie sedie e tavoli, subito conquistati da villeggianti seminudi e pittoreschi ed, a volte, anche un po' buffi, che in quest'oasi si riposano dalla giornata movimentata.
È una folla allegra e chiassosa che, tuttavia, non riesce nemmeno a scalfire la solennità e dignità del Borgo, il quale, anzi, sembra accettare divertito la parentesi estiva.
Dai due lati di piazza Marconi, si fronteggiano amichevolmente il Palazzo Baronale e la chiesa di San Giovanni. Accanto ad essa, Nettuno, che onora i suoi figli migliori, ha dato al monumento dell'illustre oratore gesuita Paolo Ségneri appropriata sistemazione. Qui, infatti, egli è presso due cose amate, la casa in cui nacque e la chiesa in cui pregò.
La chiesa di San Giovanni non si è lasciata sedurre dai nuovi tempi. È rimasta all'antica. Ma non per questo è musona. Al contrario, è accogliente, anche se dignitosa e discreta.
È un po' la custode degli affetti e delle antiche usanze del Borgo. Il Borgo è bello così com'è e così deve restare. È un bene inestimabile, che diventerebbe fugace, se non venisse protetto e difeso, non solo nei suoi valori morali, ma anche nella sua integrità materiale.
L'autorità, infatti, l'ha dichiarato monumento nazionale.
Ma il Borgo è amato da tutti i nettunesi, molti dei quali ne sanno cogliere l'intima bellezza. Spesso noti gente che si aggira ciondoloni, col naso all'aria ed un po' in sogno. " Sono turisti ", pensi. Ma ti sbagli. Sono nettunesi per i quali il Borgo è una persona cara. La vanno a trovare così, senza una vera ragione, come per stringerle idealmente la mano. Altre volte, quando le cose non vanno, per calmare le preoccupazioni.
Senza accorgersene, rivelano i loro crucci al vecchio amico che, a sua volta, si mette a raccontare antiche storie di prìncipi ed illustri nettunesi che ormai sono lì sempre con lui, nelle vie che il Comune ha donato loro.
Ed ecco che, via via che il Borgo racconta, i nettunesi vengono risucchiati nel passato. Si sentono sempre più lontani nel tempo e leggeri leggeri. Le loro preoccupazioni non esistono più. Sono restate fuori del Borgo, nella vita frettolosa di alcuni secoli dopo.

 





OPERA APPARTENENTE AL FONDO BIBLIOGRAFICO
"100 LIBRI PER NETTUNO"
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