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SOTTO LA TORRE

Incontri sulla letteratura italiana
dell'Otto-Novecento

(Nettuno Gennaio-Aprile 1991)

di
ROCCO PATERNOSTRO

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06 - GIORGIO PATRIZI
Dal testo opaco. Calvino prefatore

Qualunque progetto di ricostruire l'intensa vicenda delle prefazioni scritte da Italo Calvino non può non partire dalla suggestione delle pagine della più nota delle prefazioni calviniane, una delle rarissime premesse che Calvino scrive per una sua stessa opera (1), quella preposta all'edizione einaudiana di Il sentiero dei nidi di ragno, nella ristampa del 1964. Si staglia, quella Prefazione, con il fascino di un archetipo, un modello di metaprefazione, dove l'introduzione alle pagine del romanzo è una riflessione serrata sulle motivazioni che presiedettero alla scrittura e sulle modalità per presentarle, la scrittura e le motivazioni.

Se ne possono ricordare alcuni tratti:

Questo romanzo è il primo che ho scritto... Più che un'opera mia lo leggo come un libro nato anonimamente dal clima generale d'un epoca, da una tensione morale, da un gusto letterario che era quello in cui la nostra generazione si riconosceva... Chi cominciò a scrivere allora si trovò cosi a trattare la medesima materia dell'anonimo narratore orale... Personaggi, paesaggi, spari, didascalie politiche, voci gergali, parolacce, lirismi, armi ed amplessi non erano che colori della tavolozza, note del pentagramma, sapevamo fin troppo bene che quel che contava era la musica e non il libretto, mai si videro formalisti così accaniti come quei contenutisti che eravamo, mai lirici così effusivi come quegli oggettivi che passavamo per essere... Questo è il primo romanzo che ho scritto.

Che effetto mi fa a rileggerlo adesso? (Ora ho trovato il punto: questo rimorso. È di qui che devo cominciare la prefazione). Il disagio che per tanto tempo questo libro mi ha dato in parte si è attutito in parte resta... Questo romanzo è il primo che ho scritto. Come posso definirlo ora, a riesaminarlo tanti anni dopo? (Devo ricominciare da capo. M'ero cacciato in una direzione sbagliata: finivo per dimostrare che questo libro era nato da un'astuzia per sfuggire all'impegno: mentre invece al contrario...

Devo ancora cominciare da capo la prefazione. Non ci siamo. Da quel che ho detto, parrebbe che scrivendo questo libro avessi tutto ben chiaro in testa: i motivi di polemica, gli avversari da battere, la poetica da sostenere...(2)

Poi un'affermazione che ancora sembra poter riguardare la tecnica prefati va:

Le letture e l'esperienza di vita non sono due universi ma uno. Ogni esperienza di vita per essere interpretata chiama certe letture e si fonde con esse.

Che i libri nascano da altri libri è una verità solo apparentemente in contraddizione con l'altra: che i libri nascano dalla vita pratica e dai rapporti tra gli uomini...

Interrompo. Ogni discorso basato su una pura ragione letteraria, se è veritiero, finisce in questo scacco, in questo fallimento che è sempre lo scrivere. Per fortuna scrivere non è solo un fatto letterario, ma anche altro. Ancora una volta sento il bisogno di correggere la piega presa dalla prefazione.

…Ecco ho trovato come devo impostare la mia prefazione. Per mesi, dopo la fine della guerra, avevo provato a raccontare la esperienza partigiana in prima persona o con un personaggio simile a me. Il protagonista simbolico del mio libro fu dunque un'immagine di regressione: un bambino... Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c'è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita... E al libro dì Fenoglio che volevo fare la prefazione: non al mio. Questo romanzo è il primo che ho scritto, quasi la prima cosa che ho scritto. Cosa ne posso dire oggi? Dirò questo: il primo libro sarebbe meglio non averlo mai scritto. Finché il primo non è scritto si possiede quella libertà di cominciare che si può usare una sola volta nella vita.

...Cosi mi guardo indietro, a quella stagione che mi si presentò gremita d'immagini e di significati... e le pagine scritte sono li nella loro sfacciata sicurezza che so bene ingannevole, le pagine scritte già in polemica con una memoria che era ancora un fatto presente, massiccio, che pareva stabile, dato una volta per tutte, l'esperienza, - e non mi servono, avrei bisogno di tutto il resto, proprio di quello che lì non c'è. Un libro scritto non mi consolerà mai di ciò che ho distrutto scrivendolo. (3)

In questa forma, nella riflessione amara e nella capacità della pagina di seguirne le volute, gli ondeggiamenti, Calvino disegna un modello di prefazione che, sia pure in termini diversi continuerà a essere proposto a proposito dei tanti e diversi testi con cui si è confrontato nella lunga attività editoriale presso la Einaudi.

C'era dunque dell'altro da fare, se si voleva tentare un panorama esauriente delle prefazioni calviniane che arrestarsi alle emozioni delle pagine premesse al Sentiero. C'era da ripensare la teoria dei testi di cui le prefazioni intendevano via via definire il profilo e scorgere, nella vicenda editoriale e culturale assieme che così si componeva, il senso di un lavoro di ricerca, di promozione culturale, ma anche il tentativo di approntare gli strumenti che via via potessero risultare adeguati a indagare il mondo. E non è allora forse un caso che la prima Prefazione di Calvino è quella preparata per Einaudi per Letteratura americana ed altri saggi di Cesare Pavese, del 1951.

E noto quanto rappresentò Pavese per Calvino che lo definisce suo maestro nel lavoro editoriale, quello che per primo aveva compreso le valenze favolistiche della sua narrazione (4). A Pavese dedica vari scritti, negli anni Cinquanta (5): nel Sessanta, a dieci anni della morte, lo ricorderà come un rigoroso testimone di una "morale del fare" che da un lato si traduce in instancabile lavoro culturale e dall'altra in una coscienza della letteratura come scelta dì stile, che è scelta estetica ma assieme morale politica (6).

Nella Prefazione del '51, sottolinea i tre filoni della ricerca pavesiana: la scoperta di nuovi orizzonti letterari, i rapporti tra letteratura e civiltà, la ricerca di una natura più profonda del testo (magari con l'aiuto degli strumenti della antropologia ed etnologia). La cultura americana è superata nei termini di un simbolismo "un pò tortuoso", da cui nasce la tematica del mito: Frazer, Mann, Vico, "la sudata teoria razionale dei rapporti tra natura e storia", il tema del destino (7).

E ancora mito e destino ritornano nella Prefazione del 1955 (8) per una raccolta dì fiabe africane, di cui è sottolineato subito il regime anonimo e collettivo della narrazione: la precarietà del narratore individuale e la pluralità delle voci che sono alla base del racconto ricordano la tecnica in atto nei racconti della Resistenza come vengono presentati dalla citata Prefazione al Sentiero; Calvino propone quindi una riflessione sulle tracce della presenza (violenta) della civiltà bianca nell'affabulazione dei primitivi.

Il tema del destino ritorna nella più nota e importante Prefazione alla raccolta di Fiabe italiane approntata per la Einaudi e pubblicata nel 1956 (9). E nota la complessità del lavoro di raccolta e di riscrittura realizzato da Calvino sulla tradizione delle favole italiane. Nel paragrafo Criteri del mio lavoro egli fornisce un disegno del proprio modo di rielaborazione delle favole, derivate per lo più da tradizioni dialettali. Eccone alcune scansioni:
Tradurle (le favole) dai dialetti in cui erano state raccolte [...], arricchire sulla scorta delle varianti la versione scelta, quando si può farlo serbandone intatto il carattere, l'interna unità, in modo da renderla più piena ed articolata possibile; integrare con una mano leggera d'invenzione i punti che paiono elisi o smozzicati; tener tutto sul piano d'un italiano mai troppo personale e mai troppo sbiadito, che per quanto è possibile affondi le radici nel dialetto, senza sbalzi nelle espressioni "colte" e sia elastico abbastanza per accogliere e incorporare dal dialetto le immagini, i giri di frase più espressivi e inconsueti. (10)

Riguardo queste ultime affermazioni, è noto come la stessa lingua di Calvino possa essere descritta proprio secondo parametri simili a quelli che Calvino imponeva alla propria riscrittura delle favole. Cosi ad esempio l'ha descritta Mengaldo:

potando la disordinata ricchezza dell'italiano - che a lui, come a Manzoni, doveva parere in definitiva miseria - drenandone o arginandone le correnti più limacciose e centrifughe, lo scrittore ha inteso anzitutto modernizzarlo, ridurre lo scarto dalle lingue di cultura più compatte e veicolari; ma chissà che cosi facendo non abbia per tempo mirato ad attingere la condizione linguistica ideale..., quella di essere nello stesso tempo una lingua moderna e una lingua morta. Per cui caratteristiche della lingua calviniana vengono ad essere la "resistenza al dialetto", "la misura nel manipolare le risorse della lingua", il contrasto del linguaggio figurato con l'uso "scientifico" della lingua, la paratassi (11).

Così d'altronde Calvino, in una intervista rilasciata alla Corti descriveva le qualità ottimali della buona prosa:

scatto e precisione nella scelta dei vocaboli, economia e pregnanza e inventiva nella loro distribuzione e strategia, slancio e mobilità e tensione nella frase, agilità e duttilità nello spostarsi da un registro all'altro, da un ritmo all'altro (12).

E' evidente come questa descrizione si accosti all'altra, di trenta anni prima e come entrambe si fissino come una sorta di programmatica descrizione di un progetto linguistico - ma anche culturale - capace di un'equilibrata equidistanza tra cultura alta e bassa, tra lingua colta e parlata, in un "arduo incontro di astrazione e tangibilità", secondo una definizione di Manganelli(13). Ma ancora dell'altro va colto dalla Prefazione alle fiabe. Scrive Calvino:

Ora il viaggio tra le fiabe è finito, il libro è fatto, scrivo questa prefazione e ne son fuori: riuscirò a rimettere Ì piedi sulla terra? Per due anni ho vissuto in a boschi e palazzi incantati.. Ora che il libro è finito posso dire che questa non è stata un'allucinazione. E stata piuttosto una conferma di qualcosa che già sapevo in partenza, quel qualcosa cui prima accennavo, quell'unica convinzione mia che mi spingeva al viaggio tra le fiabe; ed è che io credo questo: le fiabe sono vere. Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti... sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna (14).

E dopo aver descritto le tipologie fondamentali delle situazioni narrate, cosi concludeva la Prefazione, a proposito della coscienza della condizione sociale che emerge dalle favole contadine o comunque di derivazione umile:

Chi sa quanto è raro nella poesia popolare (e non popolare} costruire un sogno senza rifugiarsi nell'evasione, apprezzerà queste punte estreme d'un'auto-coscienza che non rifiuta l'invenzione d'un destino, questa forza di realtà che interamente esplode in fantasia. Miglior lezione, poetica e morale, le fiabe non potrebbero darci (15).
Quanto Calvino abbia messo a frutto questa lezione ce lo prova l'attività degli anni immediatamente successivi, e cosi si rivela anche un primo manifestarsi di quella che è forse la chiave centrale per una lettura delle prefazioni calviniane: in esse, l'autore, che dimostra costantemente un'autocoscienza pronta e lucida, parla di altri testi per ritrovarvi i termini, le prospettive, i progetti della propria ricerca, della propria scrittura.

Tra le prefazioni alle favole e quella ai Nostri antenati (in cui raccoglie la trilogia fantastica scritta tra il '52 e il '59) si collocano alcuni momenti nodali della biografia di intellettuale di Calvino: da un lato l'uscita dal Partito Comunista dopo i fatti d'Ungheria, dall'altro il ribadimento costante, in alcuni scritti sulla letteratura contemporanea di una sua idea della letteratura come testimonianza di una critica dell'esistente, della "non accettazione della situazione data, dello scatto attivo e cosciente, della volontà di contrasto, della ostinazione senza illusione", come scriveva nel Mare dell'aggettività, nel '60 (16).

Su queste prospettive ideologiche si va elaborando quella maniera dì narrare, di natura favolistica, che già aveva individuato Pavese, come si è detto. Nella Prefazione al volume einaudiano del '60 I nostri antenati, denuncia le difficoltà del realismo incerto tra il tono brillante falso e quello grigio riflessivo, quando lo scatto della fantasia è invece assicurato da un'immaginazione come "ottimismo spietato". Il tema narrativo di fondo, nella trilogia, è quello - scrive - di una persona che si da una regola - come personaggio ma anche come prospettiva morale - e la segue fino in fondo, fino alle estreme conseguenze. L'uso di un io narratore commentatore, che non s'identifica con il protagonista delle vicende, permette una costante presa di distanza dalla narrazione e una messa a fuoco dei problemi della scrittura. E conclude:

Tre storie come si dice "aperte", che innanzi tutto stiano in piedi come storie, per la logica del succedersi delle loro immagini, ma che incomincino la loro vera vita nell'imprevedibile gioco d'interrogazioni e risposte suscitate nel lettore. Vorrei che potessero essere guardate come un albero genealogico degli antenati dell'uomo contemporaneo, in cui ogni volto cela qualche tratto delle persone che ci sono intorno, di voi, dì me stesso (17).

Ecco: è evidente come sia possibile leggere le prefazioni proprio come una ricerca nell'altro, nell'esterno, di tratti che appartengono all'esperienza, alla vita culturale o a quella emotiva di Calvino stesso. Lo verifichiamo quando nella nota aggiunta per spiegare i criteri di edizione delle Poesie edite e inedite di Pavese, nel volume einaudiano del '62, leggiamo:

II titolo Lavorare stanca sarà appunto la versione pavesiana dell'antitesi di ; Augusto Monti (e di Withman) ma senza gaiezza, con lo struggimento di chi non si integra: ragazzo nel mondo degli adulti, senza mestiere nel mondo di chi j lavora, senza donna nel mondo dell'amore e delle famiglie, senza armi nel mondo delle lotte politiche cruente e dei doveri civili (18).

Il che non può non ricordare l'accenno, nella Prefazione di due anni dopo al Sentiero:

L'inferiorità dì Fin come bambino di fronte all'incomprensibile mondo dei : grandi corrisponde a quella che nella stessa situazione provavo io, come borghese. E la spregiudicatezza di Fin, per via della tanto vantata sua provenienza dal mondo della malavita, che lo fa sentire complice e quasi superiore verso ogni "fuori legge" corrisponde al modo intellettuale d'essere all'altezza della situazione, dì non meravigliarsi mai, dì difendersi dalle emozioni... Così data questa chiave di trasposizione... la storia in cui il mio punto di vista personale era bandito ritornava ad essere la mia storia... (19)

Ritorna dunque quell'oscillazione tra una precisa lettura dell'esterno e la ricerca costante di segni del sé, nell'interno. Cosi farà ad esempio nei due scritti su Vittorini del '67 e del '68, in cui parlerà del "primato dell'esperienza e dell'immaginazione sull'assolutizzazione ontologica e gnoseologica o moralistica o estetica" o ancora di Vittorini come espressione di un ideale di letteratura antiautoritaria (20). Ancora, in un altro scritto del '68, parlerà dì una scelta di stile (letterario) come scelta etica (21). Le Cosmicomiche, del '65, Il Castello dei destini incrociati, Le città invisibili rispondono tutti probabilmente a questa complessa scelta ideale; ma c'è un altro scritto, del '67, che è necessario richiamare prima di proseguire il nostro cammino tra le prefazioni calviniane. E la conferenza dedicata a letteratura e cibernetica "sulla letteratura come processo combinatorio", in cui sì esplicitano tanti temi che saranno centrali per l'attività di Calvino negli anni Settanta. Affermando appunto la natura essenzialmente combinatoria della narrativa, egli riconosce "una tendenza che affiora contemporaneamente da varie parti: il mondo nei suoi vari aspetti viene visto sempre più come discreto e non come continuo... Il pensiero che fino a ieri ci appariva come qualcosa di fluido evocava in noi immagini lineari come un fiume che scorre... oggi tendiamo a vederlo come una serie di stati discontinui, di combinazioni di impulsi su un numero finito (un numero enorme ma finito) di organi sensori e di controllo" (22). E dinanzi a questa meccanicità combinatoria della letteratura:

ciò che io provo istintivamente - scrive - è un senso di sollievo, dì sicurezza. Lo stesso sollievo e senso dì sicurezza che provo ogni volta che un'estensione dai contorni indeterminati e sfumati mi si rivela invece come una forma geometrica precisa, ogni volta che, in una valanga informe di avvenimenti riesco a distinguere delle serie di fatti, delle scelte tra un numero infinito di possibilità. Di fronte alla vertigine dell'innumerevole, dell'inclassificabile, del continuo, mi sento rassicurato dal finito, dal sistematizzato, dal discreto (23).

Questa logica della costruzione razionale, del frammento da cui ricostruire un sistema più ampio e complesso, si afferma progressivamente in tutti gli scritti, gli studi di Calvino (24): ed insieme il gusto per una fantasia, un'immaginazione come "accelleratore" dei procedimenti logici.

La fantasia salta dei passaggi - dice Calvino in un'intervista dell'85 - la ragione senza la fantasia comporta una grande perdita dì tempo. Perché bisogna percorrere tutti i passaggi e anche tutti Ì casi che poi vengono scartati (25) .

Tutti questi temi, fantasia, costruzione attraverso il frammento, dialettica strettissima tra immaginazione e realtà, finzione e scienza riemergono costantemente nei testi di cui Calvino andrà scrivendo prefazioni negli anni Settanta.

È del 1970 una sua rilettura e rinarrazione dell'Orlando Furioso: nella Prefazione, dopo aver fornito tutte le coordinate stilistiche e storico-culturali del poema; Calvino si accende di simpatia per il personaggio che avverte più vicino a sé, evidentemente, nell'intero poema, il paladino Astolfo, più mago che guerriero, quasi una figura di letterato in cui la fantasia non ha rinunciato alla realtà: "esploratore lunare...vive circondato dal meraviglioso e si vale di oggetti fatati...con la leggerezza di una farfalla ma sempre per raggiungere fini di pratica utilità e del tutto razionali" (26).

A partire dal 1971 Calvino è autore di una fitta serie di prefazioni. Per lo più per romanzi stranieri, raccolti nella collana "Centopagine". Colpisce l'attenzione rivolta soprattutto a testi non italiani - e ciò accadrà costantemente, salvo qualche eccezione - quasi che in essi, più che tra i nostri scrittori, Calvino cercasse le tessere per comporre il mosaico di una sua idea di letteratura.

In Pierre et Jean di Maupassant, il primo titolo della collana, Calvino coglie, tra le righe del racconto come "étude psycologique", la caratterizzazione della società borghese, questo senso di solidità tranquilla d'una società che espelle l'elemento perturbatore, che allontana da sé la propria coscienza infelice, con una sorta di difesa della "salute animale" del sistema (27).

In Amore e ginnastica di De Amicis sottolinea il disegno di un mondo come campo di forze contrastanti tra slanci ideali e grovigli morbosi (28), cosi come nella Postfazione alla Storia di cronopios e di fama di Cortazar lo affascinano le due anime di Cortazar, quella che costruisce immagini nel "vortice dell'arbitrio" e quella che innalza "costruzioni ossessivamente geometriche", due anime tra cui è impossibile tracciare un netto confine (29. E se in Daisy Miller di Henry James ammira la capacità di concretizzare in un fatto di natura, risolutivo sul piano del plot, come la malaria, il fascino misterioso e un po' malato della tecnica narrativa reticente, il non-detto che caratterizza i romanzi di James(30), nei Mimi siciliani di Francesco Lanza evidenzia la carica utopica di festa carnevalesca che anima Ì racconti(31).

Va ricordata in questa fase del lavoro di Calvino la presenza costante del tema dell'utopia.

Nel '71, la Einaudi ripropone La teoria dei quattro movimenti. Il nuovo mondo amoroso e altri scritti sul lavoro, l'educazione, l'architettura nella società d'Armonia, di Fourier, con la Prefazione di Calvino, che, negli stessi anni, dedica all'utopista francese vari scritti.

Il maggio francese - scriverà Calvino - aveva vantato Fourier tra Ì suoi precursori, ma a me interessava come modello d'un ordine mentale che non seguiva affatto la corrente. Fourier dimostra che una civiltà antirepressiva non vuoi dire uno scatenamento d'impulsi vitali, di spontaneismi confusi, ma richiede conoscenza e precisione, un'organizzazione complessa, spirito classificatorio, programmi previsti nei minimi dettagli(32).

In Fourier "ordinatore" dei desideri è riconosciuto un modello di utopia su cui è ancora possibile riflettere e lavorare.

Ancora nel '71 Calvino scrive la Prefazione al libro di fotografie di Ugo Mulas dedicate alle opere del pittore Fausto Melotti. Ciò che sembra più colpire Calvino è il movimento ascendente dei segni, visivi e plastici, creati da Melotti:

I segni vanno tenuti alti: senza nessuna prosopopea, con la leggerezza, l'attenzione, l'industriosa ostinazione dei palafitticoli(33).

Ad un altro pittore, Giulio Paolini, è dedicato uno scritto più complesso, ad apertura di un altro volume fotografico einaudiano, del '75. In questa occasione Calvino esce allo scoperto; tutta la Prefazione è giocata sul confronto tra il pittore e lo scrittore; li divide la possibilità che ha il pittore di esibire il farsi del proprio lavoro creativo, anche nella fase che, per scelta o per contingenza, è sottratta all'espressione o alla comunicazione, in cui ciò che appare è la materia sulla quale il pittore costruisce il proprio linguaggio e i propri codici. A differenza dello scrittore che è costretto nelle dimensioni della parola, la pittura - e la sperimentazione sui supporti materiali della pittura condotta da Paolini - ha la possibilità di porsi secondo una dialettica di opposti di grande suggestione: "la pittura è totalità a cui nulla si può aggiungere e insieme potenzialità che implica tutto il dipingibile"(34).

Di altri testi, Calvino registra con attenzione il procedimento di astrazione per cui, dai fatti della realtà, si fanno scaturire logiche geometriche che poi sono quelle che presiedono anche mondi apparentemente in preda al caos; cosi per L'uomo che corruppe Hadleyburg di Mark Twain, tradotto da Einaudi nel '72, per Ferragus di Balzac, o per i bambini autori dei Quaderni di Gersolé, curati da Maria Maltoni, nel '72. Di questo esperimento didattico quello che più interessa Calvino è la possibilità di ritrovarvi uno dei valori che egli ha sempre posto al centro del proprio lavoro letterario: la precisione del linguaggio e il "precoce governo del buon senso su ogni moto dell'animo" ; questa morale del buon senso come amministrazione di sé e regola della propria presenza nel mondo, ritorna nella Prefazione al Candide di Voltaire, in cui si sottolinea il primato di un ideale di un impegno pratico, responsabile, grazie al quale l'individuo è giudicato "non più nel suo rapporto con un bene e un male trascendente ma in quel poco o tanto che può fare"(36). Due anni dopo la prospettiva di questa lettura si precisa e si articola nello scritto che introduce Montezuma di Burland; l'interesse che Calvino coltiva per la tragica figura del re azteco in questi anni è testimoniata anche da altre pagine dedicate a Montezuma e dalla illuminante "intervista impossibile" in cui la passione calviniana per le contrapposizione geometriche e speculari mette a confronto la logica della conquista occidentale e la logica di un fìdeismo barbarico, sanguinoso quanto dissennato(37).

La Prefazione al volume di Burland ha una struttura tipica del procedimento argomentativo calviniano: all'interno di un calibrato gusto del racconto (la partita a bocce tra Montezuma e Cortéz fa da sfondo simbolico al dialogo che si immagina tra i due personaggi) è introdotta una interpretazione autonoma, originale del re vittima degli spagnoli.

La figura del Montezuma - scrive Calvino - non ci appare soltanto nella luce patetica che ispirano i deboli e i vinti, ma fissata in una tensione sospesa quasi che la partita tra lui e il suo nemico fosse ancora aperta: se una sua vittoria è esclusa dall'inizio, non è che la sua sconfitta sia certa. C'è in Montezuma un'attitudine perplessa e ricettiva che sentiamo vicina ed attuale, come quella dell'uomo che nella crisi dei suoi sistemi dì previsione cerca disperatamente di tenere gli occhi aperti, di capire(38) .

È questa volontà irriducibile che Calvino avverte come motivazione primaria della propria attività intellettuale, come molla della sua scrittura e delle sue letture; è in questo senso che gli interessa il cinema contemporaneo -come scrive nella Prefazione a Quattro film di Federico Fellini - volume che raccoglie le sceneggiature dei Vitelloni, della Dolce vita., di Fellini 8/2, di Giulietta degli spiriti(39) - che segna la fine del cinema come affabulazione, trionfo dell'immaginario (quale era il cinema americano degli anni Quaranta e Cinquanta), per diventare registrazione della nevrosi e dell'alienazione quotidiana.

La ricerca di una chiave per possedere questa realtà diviene sempre più pressante. È del '78 la fondamentale conferenza sui Livelli di realtà in cui Calvino afferma che se pure la letteratura fa i conti con una realtà che appare complessa e non controllabile a pieno, essa consente di verificare parzialmente la "stratificazione" della realtà, i suoi livelli non riconnessi in una totalità:

la letteratura non conosce la realtà ma solo livelli. Se esiste la realtà di cui i vari livelli non sono che aspetti parziali, o se esistano solo i livelli, questo la letteratura non può deciderlo. La letteratura conosce la realtà dei livelli e questa è una realtà che conosce forse meglio di quanto non s'arrivi a conoscerla attraverso altri procedimenti conoscitivi(40).

Due anni prima aveva scritto, a proposito del dibattito sugli "usi politici della letteratura":

la letteratura è necessaria alla politica prima di tutto quando essa da voce a ciò che è senza voce, quando da un nome a ciò che non ha ancora un nome(41).

Negli scenari che Calvino va disegnando, a partire dai contesti più diversi, affiora, l'ansia dì una formula di scrittura, di una scelta stilistica, linguistica, semantica che possa aiutare a sistemare dei tasselli di realtà, la realtà delle cose e quella dell'immaginazione, assolutamente omologhe e parallele, i cui confini si mescolano come quelli, tra uomini e divinità, che descrive Ovidio nelle sue Metamorfosi: di esse Calvino conserva soprattutto la suggestione di un Olimpo che si avvicina alla terra tanto da confondersi con le strade di Roma, un universo pieno, gremito, riempito da un horror vacui che accumula dettagli, rivela un'ossessione per i particolari, una concentrazione sul frammento(42). La stessa mania che percorre la scrittura delle Storie naturali di Plinio, alla cui riedizione einaudiana del '82 Calvino dedica una Prefazione che, al solito, stringe la riflessione verso i problemi consueti:

Potremmo distinguere un Plinio poeta e filosofo con un suo sentimento dell'universo, un suo pathos della conoscenza e del mistero e un Plinio nevrotico collezionista di dati, compilatore ossessivo, che sembra preoccupato solo di non sprecare nessuna annotazione del suo mastodontico schedario... La scienza di Plinio oscilla tra l'intento di riconoscere un ordine della natura e la registrazione dello straordinario e dell'unico(43).

La composizione di questi due livelli, la messa a punto di una struttura -testuale e assieme logica - capace di organizzare la conoscenza dell'ordine e del disordine, è il filo rosso delle riflessioni e affabulazioni che Calvino elabora nel passaggio dagli anni Settanta agli Ottanta; in questo sembra cogliere l'accellerazìone di un processo di degrado del mondo umano e di vittoria del caos sul senso e la ragione delle cose. Lo testimoniano gli scritti raccolti in Collezioni di sabbia come in Palomar, quelle cronache minute di eventi di un microcosmo (e talvolta di un macrocosmo) teso tra ordine e disordine, tra conservazione e distruzione. Sulla stessa polarità si dispongono ulteriori prefazioni calviniane di questi anni: schematizzando si può dire che dal lato della razionalità creativa, della "struttura come libertà" ci sono le pagine dedicate a Queneau e al lavoro dell'Oulipo (44): la letteratura è tecnica e gioco, è gusto del linguaggio come fantasia e formalizzazione, si apparenta al numero per le virtù combinatorie, riconosce lo stesso calore nel discorso comico e in quello pragmatico-scientifico. Dal lato del vuoto, dell'inquietante, del caso e dell'imprevedibile c'è la lettura dei Racconti fantastici dell'Ottocento, con la preferenza per il fantastico quotidiano, quello che si annida fra le pieghe dell'esperienza più usuale, o per il fantastico che nasce dal pensiero scientifico, dai dati della sfera dei sensi(45), secondo quel filone da cui erano nate le Cosmicomiche, la raccolta di racconti e apologhi del '65 non casualmente riproposta e ampliata nell'84. E ancora da questo lato opaco va collocata la Postfazione alla discussa Antologia delle Più belle pagine di Landolfi, curata da Calvino nell'82. Epitome che forse non rende giustizia alla variegata narrativa landolfiana ma che offre un progetto calviniano di narratore fantastico, appassionato del caso e del gioco nonché dell'idea che lo spazio "vuoto" del fantastico salvi dal troppo pieno dell'esistenza:

la morte, il nulla - scrive Calvino - spesso nominati ma raramente rappresentati appartengono dunque al ristretto numero di concetti astratti del sempre concreto Landolfi. Un concetto che rappresenta il limite necessario, il respiro, il riposo di questo mondo cosi denso di esistenza, cosi carico, cosi fitto... Il vero incubo di Landolfi è questo: che il nulla non esista(46)

Nell'estrema fase del suo lavoro Calvino continua a girare attorno ai problemi della sua poetica, a quell'intreccio tra una "vena oscura" che sembra minare ogni costruzione razionale(47) e una vocazione sistematoria, classificatoria, didascalica che pure sembra accentuarsi in proporzione all'accrescimento delle inquietudini. Alla "nitidezza della percezione e trasfigurazione verbale" che ammira in Mestico di Emilie Cecchi, a cui dedica la sua ultima prefazione nel!'85, si contrappone e si mescola il vertiginoso "elogio" dei sensi, materico e labirintico, costruito con i racconti incompiuti di Sotto il sole giaguaro(48). A voler riflettere sulle modalità della lettura calviniana, qual è alla base delle sue prefazioni, si può ricordare quanto scrivono, a proposito della lettura e della prefazione, Barthes e Compagnon:

Leggere è sempre, in qualche modo, accedere a una verità. Ma qual è questa verità, dov'è? Descartes in un certo senso rispondeva che la verità del testo è la sua intenzione, il suo pretesto; la lettura, per giungere alla verità, deve eliminare il testo, A lettura compiuta non deve più esistere il testo, ma un ritorno alla condizione preliminare della sua scrittura: la lettura compie il percorso inverso alla scrittura, essa ne è come lo specchio(49).

In parte il metodo di Calvino segue questa procedura; solo qualche volta il testo è penetrato e smontato. Per lo più - dalla Prefazione al Sentiero a quelle degli anni Ottanta - la lettura accompagna l'opacità del testo, la sua non-trasparenza, si dirige verso l'origine di esso, dove risiede quella intentio operis che è il dato contingente da rilevare per inserirlo in un più vasto quadro, un progetto generale, di letteratura e talvolta di vita, a cui il testo opaco rimanda come ad una possibile totalità, dove ogni cosa - testo, lettura -acquisti un senso forte, compiuto. È la stessa opacità che Calvino ha inteso da tempo come preliminare alla conoscenza: nello stesso modo in cui, in un fondamentale testo del 71, Dall'opaco, nel ricordo dell'universo a "terrazze" conosciute dalla familiare costa ligure, disegnava un metodo di scoperta del complesso, del generale a partire dal parziale, dal frammentario(50).

Non sarebbe difficile immaginare che Calvino giungesse a costruire progetti editoriali, o almeno serie di letture e di prefazioni, a partire dall'opaco, dall'opacità del testo, della identità dell'opera colta in un segno, una cifra cosi da poter essere collocata all'interno di un più ampio sistema, nella logica razionale di un mondo. Certo non bisogna identificare Calvino in questa attenzione maniacale al frammento, alla parte; ma egli non cessa mai, mi sembra, anche nelle prefazioni redatte per i testi più diversi, di tentare una descrizione di un mondo ideale - per valori e problemi - e del linguaggio necessario a raccontarlo. E non cessa di tentare un confronto continuo di questo mondo ideale con il mondo reale. Proprio come Edmond Dantès, rinchiuso nella fortezza, nella riscrittura del Conte di Montecristo che chiude Ti con zero:

Così continuiamo a fare i conti con la fortezza, Paria sondando i punti deboli della muraglia e scontrandosi con nuove resistenze, io riflettendo sui suoi tentativi falliti per congetturare nuovi tracciati di muraglie da aggiungere alla pianta della mia fortezza-congettura. Se riuscirò col pensiero a costruire una fortezza da cui è impossibile fuggire, questa fortezza pensata o sarà uguale alla vera - e in questo caso è certo che noi di qui non fuggiremo mai; ma almeno avremo raggiunto la tranquillità di chi sa che sta qui perché non potrebbe trovarsi altrove - o sarà una fortezza dalla quale la fuga è ancora più impossibile che di qui - e allora è segno che qui una possibilità di fuga esiste: basterà individuare il punto in cui la fortezza pensata non coincide con quella vera per trovarla .

È difficile dire con certezza se Calvino, nella mappa disegnata con le sue prefazioni, fosse giunto alla prima o alla seconda conclusione: ma credo che egli non abbia mai smesso di pensare che la differenza tra il mondo della letteratura e il mondo degli uomini, dunque il varco da cui la fuga dalla "fortezza" fosse possibile, esistesse sul serio.

 

NOTE

1 - Cfr. I. CALVINO, Prefazione a ID., Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1964. L'unica altra prefazione che Catvino scrive per un proprio testo è quella per la trilogia dei Nostri antenati, Torino, Einaudi 1960.

2 - CALVINO, Prefazione a II sentiero..., cit. pp. 6-12.

3 - Ivi, pp. 19-25.

4 - Ivi, p. 18.

5 - Cfr. le sue opere Natura e storia nel romanzo del '58 e Tre correnti del romanzo italiano del 59 ora in I. CALVINO, Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980, rispettivamente pp. 19-38 e 46-57.

6 - I. CALVINO, Pavese: essere e fare in ID., Una pietra... cit., pp. 58-63.

7 - I CALVINO, Prefazione a C. PAVESE, Letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi, 1951, pp. XVH-XXXI. La citazione è a p. XXXI.

8 - I. CALVINO, Le fiabe africane (Prefazione a Fiabe africane, a cura di P. Radìn, Torino, Einaudi, 1955) ora in ID., Sulla fiaba, Torino, Einaudi, 1988, pp. 3-10.

9 - 1. CALVINO, Le fiabe italiane (Prefazione a Fiabe italiane, cit., Torino, Einaudi, 1956) ora in ID., Sulla fiaba, cit., pp. 11-64.

10 - Ivi, p. 21.

11 - P.V. MENGALDO, Aspetti delle lingua di Calvino, in AA.VV. Tre narratori. Calvino, Primo Levi, Parise, a cura di G. Polena, Padova, Liviana, 1989, pp, 9-55. La citazione è a p. 10.

12 - M. CORTI, intervista a Italo Calvino in "Autografo", ottobre 1985,pp. 30.

13 - Cfr. il risvolto di copertina firmato da Giorgio Manganelli di I. CALVINO, Sotto il sole giaguaro, Milano, Garzanti, 1986.

14 - I. CALVINO, Le fiabe italiane, cit. p. 19.

15 - Ivi, p. 55.

16 - I. CALVINO, II mare dell'aggettività, in ID., Una pietra sopra, cit., p. 45. Per la militanza politica di Calvino cfr. P. SPRIANO, Le passioni di un decennio. 1946-1956, Milano, Garzanti, 1986, pp. 11-33.

17 - I. CALVINO, Prefazione & I nostri antenati, cit., pp. 00.

18 - I. CALVINO, Noie generali al volume di C. PAVESE, poesie edite e inedite, Torino, Einaudi, 1962, pp. 193-223. La citazione è a p. 218.

19 - I. CALVINO, Prefazione a II sentiero... cit., p. 22.

20 - I. CALVINO, Vittorini: progettazione e letteratura e Per una letteratura che chieda di più (Vittorini e il Sessanttotto), in ID., Una pietra sopra, cit., rispettivamente pp. 127-149 e 192-194.

21 - I. CALVINO, Due interviste su scienza e letteratura, in ID., Una pietra sopra, cit., pp. 184-191.

22 - 1. CALVINO, Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla letteratura come processo combinato-rio], in ID., Una pietra sopra, cit., pp. 164-181. La citazione è a p. 167.

23 - Ivi, pp. 173-174.

24 - Un tentativo di descrivere questo procedimento e di coglierne i significati di teoria e di poetica negli scritti calviniani in G. PATRIZI, Il significato del grigio. Calvino e le forme del saggio, in "Nuova Corrente", XXXIV, 1987, nn. 99-100, pp. 297-328.

25 - S. PETRIGNANI, Italo Calvino, in ID., Fantasia e fantastico, Brescia, Camunia, 1985, p.

26 - I. CALVINO, Presentazione a L. ARIOSTO, Orlando furioso raccontato da Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1970, p. XIX.

27 - I. CALVINO, Noia introduttiva a G. DE MAUPASSANT, Pierre e Jean, Torino, Einaudi,
1971, P. VII

28 - I. CALVINO, Nota introduttiva a E. DE AMICIS, Amore e ginnastica, Torino, Einaudi, 1971, p. V

29 - I. CALVINO, Postfazione a J. CORTAZAR, Storta di cronopios e di fama, Torino, Einaudi, 1971, p. 149.

30 - I. CALVINO, Nota introduttiva a H. JAMES, Daysy Miller, Torino, Einaudi, 1971, p. 8.

31 - I. CALVINO, Prefazione a F. LANZA, Mimi siciliani, Palermo, Sellerie, 1971, p. 6.

32 - I. CALVINO, Sotto quella pietra, in "La Repubblica" 15 aprile 1980. Su Fourier cfr, gli scritti calviniani raccolti in Una pietra sopra, cit., nella sezione Per Fourier, pp. 221-254.

33 - I. CALVINO, I segni alti, in F. MELOTTI, Lo spazio inquieto, Torino, Einaudi, 1971, p. 92.

34 - I. CALVINO, La squadratura, in G. PAGLINI, idem, Einaudi, Torino, 1975, p. XII.

35 - AA.VV: I quaderni di S. Gersolé, a cura di Maria Maltoni, Torino, Einaudi, 1972, p. 8.

36 - I. CALVINO, II "Candide" di Volture, in VOLTAIRE, Candido ovvero l'ottimismo, Milano, Rizzoli, 1974, p. 10.

37 - I. CALVINO, Montezuma, in AA.W., Interviste impossibile, Milano, Bompiani, 1975; cfr. anche ID., I potenti della terra. Montezuma, in "II Corriere della sera" 14 aprile 1974 e I potenti della terra. Gli dei del Messico, in "II Corriere della Sera" 21 aprile 1974.

38 - I. CALVINO, Montezuma e Cortéz in C. A. BURLAND, Montezuma signore degli Aztechi, Torino, Einaudi, 1976, p. XXIL

39 - I. CALVINO, Autobiografia di uno spettatore, in F. FELLINI, Quattro film, Torino, Einaudi, 1974, pp. XXIII-XXIV. Sul complesso rapporto tra Calvino e il cinema cfr. AA.VV. L'avventura di uno spettatore. Italo Calvino e il cinema, a cura dì Lorenzo Pellizzari, Bergamo, Lubrina, 1990.

40 - I. CALVINO, 7 livelli detta realtà in letteratura, in ID., Una pietra sopra, cit., p.323

41 - I. CALVINO, Usi politici giusti e sbagliati detta letteratura m ID., Una pietra sopra, cit., p.292.

42 - I. CALVINO, Gli indistinti confini, in P. OVIDIO NASONE, Metamorfosi, Torino, Einaudi, 1979, pp. VII-XIV.

44 - I. CALVINO, introduzione a R. QUENEAU, Segni, cifre e lettere, Torino, Einaudi, 1981 e I. CALVINO, Piccola guida alla Piccola Cosmogonia, in R. QUENEAU, Piccola cosmogonia portatitle, Torino, Einaudi, 1982.

45 - I. CALVINO, Introduzione ID., a Racconti fantastici dell'800, Milano, Mondadori, 1983, pp. 9-10.

46 - I. CALVINO, L'esattezza e il caso, in T. LANDOLFI, Le più belle pagine, scelte da Italo Calvino, Milano, Rizzoli, 1982, p. 425.

47 - Cfr. G. FERRETTI, Le capre di Bikini. Calvino giornalista e scrittore, Roma, Editori Riuniti, 1989, p. 154.

48 - I. CALVINO, Prefazione a E. CECCHI, Messico, Milano, Adelphi, 1985, p. XV.

49 - R. BARTHES - A. COMPAGNON, Lettura, in Enciclopedia, voi. Vili, Torino, Einaudi, 1979, p. 192.

50 - I. CALVINO, Dall'opaco, in AA. W., Adelpbiana, Milano 1971, ora in ID., La strada di S. Giovanni, Milano, Mondadori, 1989, pp. 119-134.

51 - CALVINO, Le cosmicomiche vecchie e nuove, Milano, Garzanti, 1984, p. 317.







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