1. Di alcune premesse.
Anche la storia della fortuna di Belli, o, meglio, della sua lunga sfortuna nelle lettere italiane, è oggi sufficientemente nota. Dalle sue linee essenziali, comunque, sì evince molto agevolmente che la prima vera stagione critica belliana ha inizio soltanto con il secondo dopoguerra, in particolare con gli importanti e decisivi contributi di Giorgio Vigolo e di Carlo Muscetta (1)
Da allora sono venuti a cadere anche gli ultimi pregiudizi teorici e culturali nei confronti della letteratura in dialetto, tanto più quando ci si muova a livelli cosi alti. Sono per lo più rientrate le forti riserve ufficiali ed accademiche nutrite verso un percorso cosi inusuale ed eccentrico (fin nella lingua, ma non solo in essa) rispetto al diagramma letterario nazionale. Sono state in gran parte superate le tenaci resistenze di un tempo nei riguardi di un'esperienza satirica cosi risentita ed irriverente, quando non persino francamente oscena e blasfema, ed in più consumata con l'ausilio di un pessimismo magari anche estremamente lucido, rigoroso ed acuto, ma di certo profondo, totale e cupo, che alla fine non lascia aperto alcuno spiraglio e nulla concede né a "magnifiche sorti e progressive", né a futuri destini di riscatto. E contemporaneamente si sono, infine, diluite di molto le esercitazioni dei tanti "romanisti", che così a lungo hanno imperversato.
Pertanto, grazie a tutto ciò, in tempi recenti anche la poesia dialettale di Belli è potuta divenire sempre più terreno legittimo della critica letteraria professionistica e dell'indagine scientifica.
In conclusione, molta acqua è passata nel frattempo sotto i ponti, e ne è venuta fuori una figura di intellettuale e di letterato assai diversa da quella di un passato ancora prossimo a noi. Per dirla molto sinteticamente, la vecchia, sfocata e logora immagine del poeta tutto istintivo e spontaneo, del bozzettista popolaresco e folcloristico, si è ormai definitivamente dileguata e si va sempre più affermando, viceversa, quella di un grande e consapevole poeta d'arte, di un artifex esperto e raffinatissimo (2), che occupa a buon diritto i livelli più alti della tradizione poetica italiana, e tanto più di quella ottocentesca.
Sennonché proprio questa nuova visuale critica ha finito anche per svelare tutta la ricca complessità dell'operazione tentata da Belli, che pertanto si rivela bisognosa, per essere intesa correttamente, di molteplici chiavi di lettura, capaci di penetrarne e delucidarne tutte le varie ed intricate stratigrafie, i diversi livelli semantici. In altri termini, una volta apertasi la vera stagione critica anche per Belli, la sua poesia ha cominciato a porre non pochi problemi ai suoi interpreti, tanto da render necessaria l'adozione di un'ottica altrettanto variegata e polivalente quanto lo sono state le finalità e le caratteristiche del percorso intellettuale e letterario del poeta romano.
Del resto tale complessità dell'operazione belliana abbiamo noi stessi più volte ricostruita (3), soprattutto in margine a quella lucida e splendida dichiarazione programmatica costituita dall' Introduzione ai sonetti romaneshi. Possiamo perciò qui limitarci a riproporne soltanto una rapida delineazione., a mo' di semplice premessa alle nuove linee di ricerca che vorremmo invece suggerire in questa sede.
Una volta presa la decisione documentaria di "lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma", d'altro canto Belli si mostra subito perfettamente consapevole delle enormi difficoltà che si frappongono alla realizzazione del suo progetto poetico. Esse riguardano intanto l'oggetto stesso del monumento, e cioè la plebe romana, la quale resta pur sempre una plebe ignorante, soffocata da pregiudizi e superstizioni, che non è neppure in grado di parlare a lungo "in discorso regolare ed espositivo". Anzi, a ben guardare, le difficoltà investono l'intero complesso degli strumenti indispensabili alla stessa operazione letteraria e poetica, visto che quella plebe, come altre del resto, risulta priva delle "risorse della cultura e dell'arte": cioè l'oratoria, la retorica, la poetica, la metrica, infine la poesia stessa e persino la scrittura. E mentre a questo punto sembrerebbe proprio che non vi sia più luogo a procedere, Belli costruisce invece tutto un sistema funzionale e pragmatico, da un lato veramente geniale, e dall'altro destinato a creare al lettore non pochi problemi interpretativi.
Resta comunque il fatto che Belli decise che potessero essere sufficienti, ai fini del proprio disegno, una certa dose di vitalismo popolare, una qualche forma di originalità della plebe romana, del resto parte di quel "gran tutto" che è Roma, "città cioè di sempre solenne ricordanza", la sua concettosa arguzia, la propensione innata al sarcasmo e all'epigramma, "al dir proverbiale e conciso", il suo "dialogo inciso, pronto ed energico", il suo "metodo dì esporre vibrato ed efficace", le sue "strane contraddizioni" e la "frequenza di equivoci e di anfibologie" e, soprattutto la sua lingua, per quanto "tutta guasta e corrotta", tanto da costringere il poeta al "soccorso di un idiotismo continuo".
Per il resto Belli ricorse ad una vera e propria scommessa, ad una pura acrobazia mentale ed intellettuale, innescando un procedimento dì supplenza mimetica, e cioè fornendo lui tutto ciò di cui risultava irrimediabilmente priva la sua plebe: la poesia, la scrittura, appunto, ma anche "la facoltà delle figure, le inversioni della sintassi", "il numero poetico e la rima", e cosi via. Eppur facendo molta attenzione a non prevaricarla troppo con le risorse della propria cultura, in maniera tale che tutto sembri "uscire come per accidente dall'accozzamento, in apparenza casuale, di libere frasi e correnti parole non iscomposte giammai, non corrette, né modellate, né acconciate con modo differente da quello che ci manda il testimonio delle orecchie: altalene i versi gettati con simigliante artificio non paiano quasi suscitare impressioni ma risvegliare reminiscenze" (corsivi nostri).
Giacché non bisogna dimenticare che quella supplenza si fonda sul presupposto di un forte mimetismo, di una continua traduzione in "popolano". Di qui discenderanno insieme, conseguenti e complementari, due altri procedimenti tecnici: la necessità di una regressione dell'intellettuale Belli fino ai livelli primordiali della sua plebe e la condizione di assoluta distanza indispensabile per rappresentarla. Una distanza che il poeta stesso postula come radicale e profonda, quale soltanto può esser quella, fin quasi "razziale", ma certamente sociologica e culturale, intercorrente tra il popolo e i ceti superiori: e quindi tra la plebe e gli stessi intellettuali, fra cui di certo Belli si ascrive.
Di qui deriva anche quel suo netto privilegi amento della rappresentazione da lontano su quella ravvicinata, o, in altri termini, della "reminiscenza" sul "bozzetto". Nonché la preferenza accordata decisamente all'ottica e all'acustica, per cosi dire, piuttosto che alla prospettiva ideologica ed al messaggio politico-sociale: cioè al reale dell'oggi, anziché al possibile modello di un domani, del resto assai incerto ed improbabile, almeno per lo scetticismo disincantato ed il pessimismo irredimibile di Belli:
Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello ma si per dare una imagine fedele di cosa già esistente e, più, abbandonata senza miglioramento(4) .
II che significava aggiungere alle precedenti caratterizzazioni del rapporto poeta/popolo anche alcune connotazioni sociologiche e sociali affatto particolari, ma che comunque fruttarono a Belli l'esenzione la più assoluta e totale da ogni atteggiamento populistico come paternalistico, che magari avesse graziato tanta letteratura "popolare" e realistica, prima e dopo di lui, solo apparentemente molto più vicina al popolo, ed inoltre non certo grande letteratura, com'è invece quella belliana.
Sin qui le premesse sintetiche, del resto fondate, come anticipato, sulle più diffuse risultanze di precedenti analisi. Vediamo ora dì svolgerle in nuove direzioni.
Quel rigoroso programma di distacco documentario, mentre assicura un lucido e penetrante strumento conoscitivo nei riguardi di una dimensione popolare, vista come altra ed inconciliabile, non esclude affatto, a nostro avviso, che possano darsi nello stesso tempo anche forme alte e risentite di partecipazione, e persino di "complicità"(5), certo, tra il poeta romano e la sua plebe. Anzi, siamo personalmente convinti che i sonetti romaneschi di Belli vadano addirittura oltre, fino a restare tra le pochissime opere della nostra tradizione letteraria in grado di assicurare, al loro interno, un reale e cospicuo protagonismo plebeo. Solo che siamo altrettanto convinti che ciò essi garantiscono proprio in grazia di un percorso complessivo e di una strumentazione specifica tutt'altro che semplici ed affatto particolari, talvolta persino assai intricati e contorti, i quali pertanto finiscono necessariamente per mettere in campo più livelli semantici, richiedendo quindi anche livelli complessi di ermeneutica e di indagine critica.
Per questo continuano a non trovarci d'accordo proprio tutte quelle letture che in passato hanno teso viceversa ad una semplificazione dei problemi, imboccando decisamente la scorciatoia della resa unidimensionale ed unidirezionale delle molteplici valenze di questi sonetti. E con ciò non intendiamo riferirci soltanto alle molte esercitazioni puramente impressionisti-che, che pure ci sono state, quanto piuttosto a quelle proposte, assai più serie ed articolate, che pur hanno privilegiato, ora in una direzione, ora nell'altra, la rischiosa scorciatoia dell'indagine unicamente o prevalentemente ideologica, Da qui è discesa quella propensione a fare di Belli, in modi troppo diretti, molto più spesso il paladino di messaggi progressivi e finanche eversivi,o, al contrario, ma meno frequentemente per la verità, l'alfiere di una prospettiva conservatrice e reazionaria.
Intanto, ci è sempre parsa molto significativa già questa forte e divaricata oscillazione, questa duplice possibilità che sembra offrire la stessa poesia belliana, oltre, ovviamente, alle oscillazioni e alle possibilità tutte soggettive che sono poi dei critici e dei lettori.
Ma, in sostanza, non è tanto questo che conta.
Ci interessa piuttosto chiarire ulteriormente che il protagonismo plebeo di cui noi parliamo è di natura diversa, come vedremo, e, soprattutto, che le vie da noi indicate per individuarlo e caratterizzarlo risultano alla fine diametralmente opposte alle altre sopra ricordate, come quelle che vedono proprio nella disposizione a-ideologica di Belli, in alcuni casi addirittura anti-ideologica, il mezzo più opportuno da lui rinvenuto, in quella specifica situazione, per conseguire appunto il risultato notevole di quel protagonismo.
Ad esso, infatti, il poeta romano non sembra proprio pervenire imbracciando vessilli ed innalzando sia pur metaforiche barricate, quanto piuttosto per un cammino assai più indiretto ed irto di difficoltà. Tanto aspro e difficile da rendere in pochi casi persino indecifrabile, e in molti altri decisamente ambiguo, il "messaggio" affidato alla voce del personaggio popolare; senza contare poi tutte le volte in cui risulta altrettanto complesso definire con esattezza quanto sia da attribuire a quella voce di attore e protagonista e quanto invece all'autore medesimo, che è poi il vero regista di tutta l'azione scenica, magari sempre celato, come del resto si conviene, ma ciò non di meno onnipresente.
In ogni caso, oltre a quanto detto, quel che rende ancor più complicato il percorso proposto da Belli consiste proprio nel fatto che egli non sembra davvero escludere che, per conseguire quel protagonismo, occorra passare pure per la porta stretta della sferza satirica esercitata anche nei confronti della sua stessa plebe. Nonché per l'altra, ugualmente angusta, ma storicamente e sociologicamente credibile, di lasciarle esprimere liberamente tutto il "buio di fallacie" in cui si ravvolge ed il cumulo delle "più strane contraddizioni" da cui è attanagliata(6): e quindi anche la istintiva e primordiale ambiguità dei suoi "messaggi", talvolta, appunto, cosi diversi ed opposti tra loro. Del resto ciò richiedevano, in fondo, anche quella stessa ottica documentaria del "monumento" e quella categoria storico-geografica dell'"osservatorio romano" da noi altrove definite ed analizzate (7).
Comunque proprio su tali impervie vie della satira del popolo e della molteplicità dei suoi messaggi vorremmo ora soffermarci, con l'ausilio di un campione di sonetti, nonché, infine, su quel peculiare protagonismo plebeo che pur vedremo da ciò niente affatto impedito, e forse neppure ostacolato più di tanto.
2. La satira della plebe.
Non sarà inopportuno partire da una sorta di preventiva dimostrazione e contrario, come quella che tende a dar ragione delle cadute belliane (che pur ci sono, sebbene non frequentissime, nell'arco lungo di questi 2279 sonetti) proprio ricorrendo alla pericolosa riduzione delle distanze nei confronti della materia poetica, che li si viene a verificare.
Ci sembra intanto che ciò avvenga ogni volta che Belli sceglie l'itinerario più facile ed immediato, ma anche l'ottica più ravvicinata, che è propria del bozzetto popolaresco e folcloristico. Insomma, quell'ottica che egli stesso avrebbe definito - lo abbiamo visto - come l'ottica più diretta e scontata delle semplici "impressioni", alla quale contrappone l'altra, invece più suggestiva, mediata ed allontanante, volta a risvegliare "reminiscenze". E questo è forse il caso più ricorrente, ma anche il più conosciuto, tanto da non richiedere in questa sede particolari esemplificazioni.
Meno spesso, per fortuna, tali distanze possono però diminuire sino al punto di trasformare quella partecipazione generalmente tutta implicita, e comunque solo ammiccante e controllatissima, in forme di adesione cosi evidenti ed intense da scivolare pericolosamente verso esiti di patetismo, che tra l'altro contrastano, in modi troppo eclatanti, con la misura più vera dell'acre lucidità e dell'aspro rigore dati dalla predominante disposizione satirica. Per documentare questo caso invece meno noto, o addirittura costantemente rintuzzato e quasi negato dalla critica(8) , ci serviremo volutamente di alcuni tra gli esempi più alti del patetico belliano, come i tre splendidi "interni" che seguono, proprio a miglior dimostrazione di quali zeppe e stridori possa ingenerare quell'atteggiamento troppo vicino ed aderente anche nei picchi più notevoli di questa poesia.
Non a caso un sonetto come La famjja poverella (1677) (9) doveva attirare l'attenzione ed incontrare il gradimento di un poeta come Pascoli, che Io inserì nella sua raccolta antologica Fior da fiore:
Quiete, crature mie, stateve quiete:
Sì, ffijji, zitti, che mmommó vviè ttata.
Oh Vvergine der Pianto addolorata,
Provedeteme voi che lo potete.
Nò, visscere mie care, nun piaggnete:
Nun me fate mori ccusi accorata.
Lui quarche ccosa l'averà abbuscata,
E ppijjeremo er pane, e mmaggnerete.
Si ccapìssivo er bene che vve vojjo!...
Che ddichi, Peppe? nun vói sta a lo scuro?
Fijjo, com'ho da fà ssi nun c'è ojjo?
E ttu, Llalla, che hai? Povera Lalla,
Hai freddo? Ebbe, nnun méttete llì ar muro:
Viè in braccio a mmamma tua che tt'ariscalla.
26 settembre 1835
Meglio dominati sono invece i cedimenti patetici nel sonetto di tema analogo La bbonafamijja (287), in parte riscattato anche da quel "par d'ora de sgoccetto" e, soprattutto, da quella "pissciatina" collocata in sequenza contigua con la "sarvereggina" (ed anzi rafforzata dalla rimalmezzo), che ci pare capovolgano il patetico avvio:
Mi' nonna a un'or de notte che vviè ttata
Se leva da fila, ppovera vecchia,
Attizza un carboncello, sciapparecchia,
E mmaggnamo du' fronne d'inzalata.
Quarche vvorta se famo una frittata
Che ssi la metti ar lume sce se specchia
Come fussi a ttraverzo d'un'orecchia:
Quattro nosce, e la scena è tterminata.
Poi ner mentre ch'io, tata e Ccrementina
Seguitamo un par d'ora de sgoccetto,
Lei sparecchia e arissetta la cuscina.
E appena visto er fonno ar bucaletto,
'Na pissciatina, 'na sarvereggina,
E, in zanta pasce, sce n'annàmo a lletto.
28 novembre 1831
Un analogo raggelante interno di miseria evoca anche L'avocato Cola (1731), pur se con una "oggettivazione figurativa degna d'un rame di Goya" (Muscetta):
Ma eh? Cquer povero avocato Cola!
Da quarche ttempo ggià ss'era ridotto
Che ssi e nnò aveva la camìscia sotto,
E jje toccava a ggastigà la gola.
Ma ppiuttosto che ddì cquela parola
De carità, piuttosto che ffà er fiotto,
Se venne ttutto in zette mesi o otto,
For de l'onore e dd'una ssedia sola.
Mò un scudo, mò un testone, mò un papetto,
Se maggnò, ddisgrazziato!, a ppoc' a ppoco
Vestiario, bbiancheria, mobbili e lletto.
E ffinarmente poi, su cquela ssedia,
Senza pane, senz'acqua e ssenza foco
Ce serrò ll'occhi e cce mori dd'inedia
8 novembre 1835
Le date in calce dimostrano come gli esiti siano sostanzialmente simili quando s'imboccano vie di questo genere, anche a cadenze cronologiche diversificate e persino nei momenti della maggiore maturità belliana.
Ebbene, nonostante gli autorevoli pareri contrari, continua a non convincerci a pieno proprio quella caduta di distanza, la quale, sia pure in misure diverse nei tre esempi, comunque si verifica ed incrina appunto quel programma di marmorea oggettivazione che è del Belli migliore.
C'è infine un terzo caso, in cui la prospettiva d'osservazione e rappresentazione si abbrevia a tal punto da indurre una vera e propria identificazione del poeta con il popolano romano. Ma si tratta di esempi appartenenti in prevalenza alla prima fase della sonetteria belliana, in cui evidentemente interagiscono ancora una serie di insufficienze nella messa a punto della più efficace ottica da lontano.
Quando questa risulterà invece più matura, ne costituirà un segnale assai significativo proprio la comparsa della tendenza diametralmente opposta, secondo la quale Belli non esiterà minimamente, in taluni casi, a rendere la plebe stessa oggetto di satira. Tendenza solo in apparenza sorprendente e paradossale, se, oltre alla questione delle distanze, si consideri che essa risulta in fondo del tutto conseguente con altri postulati visti in precedenza: e le istanze realistiche del "monumento" e il fatto stesso che neppure il popolo costituisce un "modello" in questo Inferno romano.
All'interno di quella tendenza alla satira si danno, ovviamente, vari livelli d'intensità.
A parte la fitta serie di sonetti sui difetti, i pregiudizi e le superstizioni, i vari "spropositi" popolari e le pretese o affettazioni di "incivilimento" (10), che toccano semmai le corde del puro divertmement, o al massimo Ì toni di un'ironia più lieve, esistono poi livelli assai più rilevanti del negativo plebeo. Essi danno luogo, anzi, alla delineazione di una vera e propria etica popolare tutta stravolta e quasi deturpata, che arriveremmo a definire come una peculiarissìma morale "cristiano-romanesca"', date le frequenti commistioni che questi tratti del plebeo romano vengono ad avere con una sua singolarissima concezione della fede religiosa.
II primo orizzonte esistenziale che conosce paradossali mescidazioni con il sacro è, naturalmente, quello profano per eccellenza dato dal sesso. D'altro canto, nella sua qualità di espressione privilegiata del vitalismo plebeo, esso richiede che ci si limiti ancora, per lo più, alla semplice chiave dell'ironia.
Come a proposito del singolare "credo" di questa sorta di Don Giovanni in romanesco, contenuto nella prima quartina del sonetto L'incrinazzione (469):
Sèntime: doppo er Papa e ddoppo Iddio
Cquer che mme sta ppiù a ccore, Antonio, è er pelo;
Pe cquesto equa nun zo nnegatte ch'io
Rinegherìa la lusce der Vangelo.
Dove, dopo aver pagato quel formale tributo di rispettoso suddito pontificio, che, fra l'altro, antepone nella sua istintiva gerarchia il sovrano terreno a quello celeste (come del resto avviene in molti altri sonetti), questo Casanova popolano rivela alla fine il suo vero ordine di preferenza, dal momento che per le donne sarebbe disposto a rinnegare persino il Vangelo, ancor più oltraggiato, ci sembra, dalla irriverente rima con "pelo".
Del resto, in questo mondo popolare sembra del tutto normale e naturale dividersi tra esigenze fisiologiche ed istanze spirituali, tra sesso e preghiera, come recita in fondo anche il sonetto Giuveddi Ssanto (932), la cui vera morale, e quasi un icastico sottotitolo, è consegnata al verso 7:
Fa'... che ggusto!... spi... Zzitto! ecco er cannone!
Abbasta, abbasta, su, ccaccia l'uscello.
Nu lo senti ch'edè? spara Castello:
Ssegno ch'er Papa sta ssopra ar loggione
Mettémesce un'e ll'antro in ginocchione:
Per oggi contentàmesce, fratello
Un po' ar corpo e un po' all'anima: bberbello
Pijamo adesso la bbonidizzione.
Sino al punto che il congiungimento sessuale può trovare la sua esaltante sublimazione all'interno di un confessionale dell'Oratorio di Sant'Ignazio e all'ombra dei sacri simboli della fede, come nel caso della coppia protagonista del sonetto L'ingeggno dell'omo (625):
Ggià llì ppare de sta ssempr'in cantina:
E cquer lume che cc'è, ddoppo er rosario
Se smorzò ppe la santa dissciprina.
Allora noi in d'un concessionario
Ce dassimo una bbona ingrufatina
Da piede a la stazzione der Zudario.
Ne consegue, ovviamente, una parallela e precisa caratterizzazione della plebea romana, segnata da una particolare mescolanza di religione e ...
"puttaniscizzia" (cosi il titolo del sonetto 620), come in Le donne de cqui (535), il cui ultimo verso ci rinvia del resto alla situazione precedente:
Nun ce so ddonne de ggnisun paese
Che ppòzzino sta appetto a le romane
Ner confessasse tante vorte ar mese
E in ner potesse dì bbone cristiane.
Averanno er zu' schizzo de puttane
Spianteranno er marito co le spese;
Ma a ddivozzione poi, corpo d'un cane
Le vederai 'ggnisempre pe le chiese
Ar monno che jje danno? la carnaccia
Ch'è un zaccaccio de vermini; ma er core
Tutto alla Cchiesa, e jje lo dico in faccia.
E ppe la santa Casa der Ziggnore
E ttanta la passione e la smaniaccia,
Che cce vanno pe ffà ssino a l'amore.
Naturalmente la mescolanza è destinata a durare fin tanto che lo consentano le compatibilità biologiche; dopo una certa età, come dichiara La vita de le donne (407), ad esse resta, insieme a tutta la "rabbia", il solo conforto religioso:
La donna appena arriva ar rifriggerlo
De godè li bbimestri o er bonifìscio,
Incomincia a ccapi che ccos'è cciscio
E pprincipia a ppeccà dde dìsiderio.
Po' appena è bbona de sona er zarterio
E dde fa ar maschio cuarche bbon uffìscio,
Incomincia a rrubbà la carne ar miscio
E pprincipia a ppeccà de cazzimperio
Ma cquanno che ppe vvia der zona-sona
Diventa un orto che ggnisuno stabbia,
E ffà ttele de raggno a la ficona,
Vedenno er ciscio nun torna ppiù in gabbia,
Se dà ppe ccorpo morto a la corona,
Sin che in grazzia de ddio crepa de rabbia.
Ma in tale orizzonte la corona del rosario non è simbolo e prerogativa unicamente femminile. Avvilita al livello di una sorta di feticcio e contaminata dalla compresenza del coltello affilato, diventa dotazione ricorrente anche dell'uomo, come insegnano i precetti paterni impartiti in L'aducazzione (57). Ci troviamo qui di fronte ad una stravolta pedagogia popolana, che ignora assolutamente il dettato cristiano del porgere l'altra guancia e dell'amore del prossimo, eppur resta uno degli esempi più significativi e convincenti di quella singolarissima etica cristiano-romanesca sopra definita. Tanto che Belli ci sembra anche riconvertirsi dall'ironia ai toni più risentiti della satira, magari quella più distaccata e raggelante quale sa essere la sua migliore:
Fijjo, nun ribbartà mmai tata tua:
Abbada a tté, nnun te fa mmette sotto.
Si cquarchiduno te vie a ddà un cazzotto,
Li ccallo callo tu ddàjjene dua.
Si ppoi quarcantro porcaccio da uà
Te sce fascessi un po' de predicotto,
Dijje: "De ste raggione io me ne fotto:
Iggnuno penzi a li fattacci sua."
Quanno ggìuchi un bucale a mmora, o a bboccia,
Bbevi fijjo; e a sta ggente bbuggìarona
Nii ggnene fa rrestà mmanco una goccia.
D'esse cristiano è ppuro cosa bbona:
Pe cquesto hai da porta ssempre in saccoccia
Er cortello arrotato e la corona(11) .
E se qui la violenza è soltanto preannunciata all'interno di una compiuta, ma ancora teorica educazione "rugantina", si pensi alla violenza tutta dispiegata e truculenta dei tanti "tosti" di belliana memoria, il cui archetipo si potrebbe forse fissare in Ricciotto de la Ritonna (1472), ma non certo privo di compagnia in questa "Commedia romana", fatta anche di maneschi ed assassini in quantità, come l'uxoricida di L'aricompenza (1000), che qui sì ricorda perché anch'egli è autore di strane coniugazioni tra violenza feroce e qualità da devoto suddito pontificio difensore della fede:
'Ggni prete, predicanno pe le cchiese,
Disce: "Chi bbene fa, bbene aritrova."
Si, ssur cazzo, io risponno. A sto paese
Mò ss'è inventata una ggiustizzia nova.
Ste meravijje se saranno intese
Quann'era er gallo che ffetava l'ova.
Ma dda si cch'er Governo è un Maganzese,
Si mmiracoli fai manco te ggiova.
Specchiateve in Antonio. Stammatina,
Perché ammazzò la mojje (ch'arfin' era
Carne sua) nun è annato in quajjottina
Ecchelo er ber compenzo, e in che mmaggnera
S'è ppremiato er cristiano che pper dina
Portò ar piede der Papa una bbanniera!
E la nota di Belli al sonetto, mentre meglio chiarisce i termini del fatto di cronaca, non lascia dubbi di sorta sulle intenzioni satiriche:
Ne' fortunosi giorni del febbraio 1831, una numerosa masnada di Romani de' rioni Monti e Borgo fece e portò a far benedire dal Papa una bandiera di religione. Il vessillifero (un tal Pericoli, carrettiere montigiano) accoltellò poco dopo la moglie, e poi cosi ferita la chiuse in una camera, perché morisse senza soccorso. Di che fu egli giudicato e ne andò al patibolo, con grave meraviglia e scandalo de' suoi confratelli difensori della fede del 1831.
Pertanto pure l'assassinio in senso stretto, e non solo l'"aducazzione" ad una generica violenza, è fatto oggetto di questa stravolta pedagogia romanesca, che ancora una volta mescola anche il crimine con la credenza religiosa, o quanto meno con i suoi simboli, con i luoghi fisici della fede e della devozione. Pedagogia e contaminazione assai frequenti e simili a quelle esplicitate da Er rifuggio (554), in cui si consiglia di consumare l'uccisione di una donna (moglie o amante) nei pressi di una chiesa, entro cui ricoverarsi subito dopo il delitto, per godere del privilegio di asilo:
A le curte, te vói sbriga d'Aggnesa
Senza er risico tuo? Bbe', ttu procura
D'ammazzalla viscino a cquarche cchiesa:
Poi scappa drento, e nnun ave ppavura.
In zarvo che ttu ssei doppo l'impresa,
Freghete der mannato de cattura;
Che a echi tte facci l'ombra de l'offesa
Una bbona scommunica è ssicura.
Lassa fa: staccheranno la liscenza:
Ma ppe la grolia der tìmor de Ddio
C'è ssempre cuarche pprete che cce penza.
Tu nun ze un borzarolo né un giudio,
Ma un cristiano c'ha pperzo la pascenza:
Dunque, tu mmena, curri in chiesa, e addio.
Un mondo, quindi, questo romano e plebeo, popolato anche di Don Giovanni e di devote un po' puttane, di violenti e di assassini, ma, ovviamente, anche di ladri o "misci", di ubriaconi, di guitti e di prostitute vere e proprie. Un mondo i cui orizzonti sono gravati dall'endemica ed irriverente accidia, di Er lavore (840):
Nun vojjo lavorà: ccosa ve dole?
Pe sta vita io nun me sce sento nato.
Nun vojjo lavorà: mme so spiegato,
O bbisoggna spregacce antre parole?
A ddiggìuno so ffiacco de stajole;
E ddoppo c'ho bbevuto e cc'ho mmaggnato,
Tutto er mi' gusto è dde sta Ili sdraiato
Su cquer murello che cce bbatte er zole.
Cuanno che ffussi dorce la fatica,
La vorìano pe ssé ttanti pretoni
Che jje puncica peggio de l'ortica.
Va' in paradiso si cce so mminchioni!
Le sante sce se gratteno la fica,
E li santi l'uscello e li cojjoni.
Da un'ignavia cronica e torpida, che al lavoro e all'operosità preferisce la "bella vita" del dolce far niente carcerario, come in Li debbiti (1303):
Nun zò mmorto: so stato un anno e mmezzo
Carcerato pe vvia d'un creditore
Che ddoppo avemme limentato un pezzo
M'ha abbandonato con mi' gran dolore.
Io a sta vita sce so ttanto avvezzo,
C'oggni vorta che in grazzia der Ziggnore
Faccio un debbito novo e ariccapezzo
De torna ddrento, me s'allarga er core.
Che vviggna! maggnà e bbeve alegramente
A ttutta cortesia de chi tt'avanza:
Dormì la notte, e 'r giorno nun fa ggnente:
Sta in tanti amichi a rrìde in d'una stanza
O a la ferrata a cojjonà la ggente
Ah! er debbituccìo è una gran bella usanza! (12)
Da un pesante e ricorrente clima di razzismo, quale ad esempio quello antisemita di Nono, nun disiderà la donna d'antri (848):
Forze a Rroma sciamàncheno puttane
Che vvai scercanno le zzaggnotte in ghetto?
Vòi fotte? eh fotte co le tu' cristiane
Senza offenne accusi Ddio bbenedetto.
Cqua per oggni duzzina de Romane
Un otto o un diesci te guarnissce er letto:
E cche pòi spenne? Un pavolo, un papetto,
E dd'un testone poi te sciarimane
Eppuro tu ssei bbattezzato, sei:
E nnun zai che cquann'uno è bbattezzato
Nun pò tocca le donne de l'ebbrei?
E una vorta c'hai fatto sto peccato,
Hai tempo d'aspettà lli ggiubbilei:
Se more, fijjo mio, scummunicato.
Ma è un mondo che conosce anche forme dì ipocrita perbenismo, che si adattano alla morale corrente, fino al punto di coniarne una davvero singolare, secondo la quale "ppe vvive... a la cristiana/ bisoggna lasscià ssarva l'apparenza!", come suggerisce l'ulteriore sfaccettatura dell'etica cristiano-romanesca illustrata da Er decoro (425):
Pussibbile che ttu cche ssei romana
Nun abbi da capì sta gran sentenza,
Che ppe vvive in ner monno a la cristiana
Bisoggna lasscìà ssarva l'apparenza!
Co cche ccore, peddio!, co cche ccusscenza
Vói porta scritto in fronte: Io so puttana?
Nun ze pò ffà Ile cose co pprudenza?
Abbi un po' de ggiudizzio, sciarafana.
Guarda fra Ddiego, guarda don Margutto:
C'è bbarba-d'-omo che nne pò ddf ggnente?
Be', e la vìggijja maggneno er prescìutto
Duncue sta verità tiettela a mmente
Che cquaggiù, Checca mia, se pò ffà ttutto,
Bbasta de nun da scànnolo a la ggente.
Si danno da ultimo alcuni casi che, per quanto forse più sporadici, risultano altamente significativi ai fini del nostro discorso. Sono quelli in cui Belli bilancia la sua satira con perfetto equilibrio, con una sorta di lucida e disincantata equanimità sociologica, rivolgendola tanto contro la sommità quanto verso il fondo del corpo sociale. Si veda in questo senso uno degli ultimi sonetti, Er fatto de la fijja (2198), a prima vista tutto proteso, nell'incalzante climax delle quartine, verso la denuncia del solito stupro perpetrato da un aristocratico ai danni di una giovane popolana, e che invece nelle terzine, in particolare in quella finale (e quindi in posizione ancor più forte e rilevata), muta all'improvviso il proprio obiettivo polemico, rivolgendosi causticamente contro la meschina grettezza del padre della stuprata:
Lui, propio er mercordì de carnovale,
La trova: je tiè dd'occhio: je va appresso:
L'arriva sur portone: ar temp'istesso
Je parla: l'accompaggna pe le scale:
Senza nemmanco dimannà er permesso,
Entra co Ilei: la tira p'er zinale:
Doppo tre ggiorni lei se sente male...
Bbasta, è ssuccesso poi quer ch'è ssuccesso.
E pperch'io sbattajjai doppo tre mmesi
Er zor Contino me mannò ssei scudi
Voressi tu cche nu l'avessi presi?
Li pijjai perch'è un fijjo de famìjja;
Ma, ddico, sei scudacci iggnud'e crudi
Pe l'onore che ssò, povera fijja?
D'altro canto sono proprio sonetti come questi(13) che dimostrano, in modo esemplare, quali grossi rischi di fraintendimenti corrano quelle letture monodimensionali cui si accennava qualche pagina indietro, sia perché sembrano limitarsi al solo senso più apparente o al puro livello tematico, e sia perché risultano volte ad isolare unicamente i contenuti "filo-popolari" del messaggio belliano. In tal modo ignorando, o comunque trascurando, la densa polivalenza semantica di questi sonetti, inoltre originati assai più spesso da molle linguistiche, stilistiche, di tecnica poetica e metrica persino, e tutte interne, insomma, e molto meno rispondenti agli stimoli esterni delle tematiche sociali ed ideologiche(14).
Con il che non intendiamo nemmeno negare l'evidenza, e cioè che la satira belliana rinverrà i suoi bersagli preferiti, ed anche i più vibrati e costanti, soprattutto nei livelli alti della società e dell'organizzazione del potere a Roma; ma volevamo più semplicemente ricordare che esiste anche quest'altra sua direzione e tentare di fornirne una spiegazione non semplicistica e non banale, come è quella che la congiunge direttamente con le logiche interne e i meccanismi stessi di funzionamento di questa poesia.
3. La pluralità dei "popolari discorsi".
Logiche e meccanismi che, insieme al rispetto dello stato di cose esistente in quell'osservatorio romano che si è prescelto, vietarono quindi a Belli anche la fuga ideologica e populistica.
Tanto che, non a caso, nessuna indagine risulta più irta di difficoltà di quella volta ad individuare le direzioni dei "messaggi" dei suoi sonetti.
La prima e somma di quelle difficoltà è data appunto dallo stesso proposito belliano di svolgere nella propria poesia i "popolari discorsi" (15): in altri termini, dai due diversi piani, quello dell'autore e quello del locutore, che in tal modo si vengono a configurare, e che non è affatto detto che debbano coincidere, proprio per tutte le premesse progettuali ricostruite in precedenza. Mentre la prevalenza finora datasi di ipotesi critiche "letteraliste" ha di molto semplificato la questione, tendendo per lo più a far coincidere assai strettamente quei due piani, e finendo cosi per attribuire direttamente a Belli tutti i messaggi (o, peggio ancora, solo alcuni di essi) che si possono evincere dai sonetti. Di qui i risultati di cui si diceva qualche pagina prima. Da un lato la figura duplex di un poeta ora progressivo ora reazionario. Dall'altro, nel caso della prima lettura (quella progressista), la proposta altrettanto singolare che unicamente i molti sonetti di contenuto sanfedista sarebbero poi da attribuire alla sola Vandea plebea, tant'è vero che il poeta opererebbe un ribaltamento sul piano comico di quelle problematiche ideologiche conservatrici.
Né offrono più alcun soccorso, nello sciogliere il dilemma, vecchi schemi del passato, tendenti a risolvere i problemi all'interno di un iter belliano contrassegnato, nelle varie fasi, da diversi e persino opposti convincimenti ideali e politici. Infatti, se tutto ciò può conservare, forse, una sua minore validità sul piano puramente biografico, non si dimostra affatto strumento adeguato a fornirci chiavi di lettura della sua poesia di un qualche interesse e di sicura attendibilità, dal momento che proprio il diagramma interno di quella poesia viene a stridere conflittualmente con quei tentativi di esterna periodizzazione. Lo dimostrano, ad esempio, le varie e sfaccettate compresenze, a volte assolutamente contemporanee, nell'ambito degli stessi sonetti romaneschi; ed ancora le altre compresenti divaricazioni in proposito della produzione in lingua, oggi nota in modo più organico e compiuto(16), e che ci restituisce persino componimenti di edificazione religiosa nello stesso periodo della massima irriverenza della musa trasteverina. Ma si consideri poi, soprattutto, che l'esperienza dialettale di Belli, pur compresa, nei suoi estremi cronologici, nell'arco di oltre un ventennio, in realtà, almeno stando alle date poste in calce ai sonetti negli autografi (17), si consuma in massima parte nel giro di pochi anni, ed in particolare tra il 1831 ed il 1835 (18). Pertanto si tratta di un periodo troppo breve per attagliarsi all'onda lunga che invece quelle periodizzazioni suggeriscono, mentre all'interno di quella stessa fase più feconda non mancano davvero forti oscillazioni ed innumerevoli incertezze.
Per quanto riguarda queste ultime, infatti, va sempre tenuto presente che anche in tale direzione ideologica i sonetti belliani sono spesso costellati di vere e proprie cruces interpretative di non facile soluzione, che invece una lettura meno attenta o più semplificata ha in passato più volte trascurato e persino ignorato. Talora, ad esempio, si è sottovalutato quella sorta di doppio registro costituito dalla sede del sonetto e dal piano delle note di autore, assai numerose, del resto, e non volte unicamente ad intenti esplicativi e a chiarimenti di ordine linguistico. Talvolta i due registri procedono concordemente nella medesima direzione, ma in altri casi quello delle note costituisce un livello semantico secondo ed altro, come se l'autore, in qualche misura più vincolato nel sonetto dal procedimento di mimesi del popolano, si ricavasse poi uno spazio più proprio ed autonomo appunto nelle note. Resta comunque il fatto che si registrano anche esempi in cui questa specifica sede d'autore induce scarti notevoli rispetto a quanto sembra invece evincersi dalla sola lettura del sonetto.
Inoltre non vanno mai sottovalutati gli altri scarti improvvisi che le dominanti intenzioni ironiche e satiriche inducono anche in termini ideologici. Abbiamo già visto nel paragrafo precedente alcuni casi, nei quali la subitanea comparsa di una finalità satirica rivolta nei confronti della stessa voce popolare protagonista del sonetto può cambiare sensibilmente la primitiva direzione dell'invettiva, originariamente protesa verso le classi alte e verso tematiche di risentito egualitarismo. E quando ciò non avviene al livello esplicito dell'inversione improvvisa del piano ironico, si danno altrove frequenti zeppe, costituite, ad esempio, dalla sottolineatura sinanche impietosa dei vari "spropositi" popolari(19), che generano non pochi dubbi circa le reali intenzioni del poeta e che, insemina, finiscono col dare un carattere decisamente "amletico" a molti sonetti della raccolta, quando si tratti di individuarne con esattezza l'obiettivo ideologico preminente.
Ciò per quanto riguarda l'avvertenza preliminare circa le incertezze di cui ci paiono disseminati questi sonetti romaneschi in fatto di analisi ideologica (20), ma abbiamo parlato poco sopra anche di forti oscillazioni che in questa stessa direzione li caratterizzano. Esse contribuiscono la loro parte a determinare ulteriori rischi nel caso di una lettura troppo diretta ed univoca, la quale non potrà assolutamente darsi, se non pagando lo scotto - come del resto si è già verificato - di privilegiare solo alcune delle indicazioni fornite da Belli, trascurando e sottacendo tutte le altre che si muovono in senso diverso e, teiera, diametralmente opposto.
Vediamone comunque alcune esemplificazioni.
Da un lato si danno, certo, casi di sonetti di prevalente "satira politica", per cosi dire, e cioè nel senso che almeno sembra definirsi in essi, in qualche misura, un obiettivo politico privilegiato.
Esso può essere costituito da tematiche piuttosto generali e, pertanto, non di rado generiche, soprattutto se non si dimentichi l'intermediazione che esse devono subire da parte del plebeo incolto, al cui resoconto sono per lo più affidate: resoconto che quindi risulterà elementarmente concentrato su alcuni nodi eterni ed universali della sua condizione di oppresso.
Cosi i frequenti lamenti contro il "governo ladro", presenti anche, a puro titolo di esempio, nel sonetto del 1830 dal titolo Er ciancico (92):
A ddà rretta a le sciarle der Governo,
Ar Monte nun c'è mmai mezzo bbaiocco.
Je venissi accusi, sarvo me tocco,
Un furmine pe ffodera d'inverno!
E accusi' Ccristo me mannassi un terno,
Quante ggente sce campeno a lo scrocco:
Cose, Madonna, d'agguanta un batocco
E ddajje in culo sin ch'inferno è inferno.
Cqua mmaggna er Papa, maggna er Zagratario
De Stato, e cquer d'Abbrevi e 'r Cammerlengo,
E 'r Tesoriere, e 'r Cardinal Datario.
Cqua 'ggni prelato c'ha la bbocca, maggna:
Cqua... inzomma dar più mmerda ar majorengo
Strozzeno tutti-quanti a sta cuccaggna.
O nella terzina di chiusa del più tardo (1834) La difesa de Roma (1270):
Che ccorpa sce n'ha Rroma poverella
SÌ un governo affamato allonga er braccio
E vve se vie a vvotà ppila e scudella?
Ma cosi anche l'eterno tema dei "governanti" e dei "governati", che ricorre per la verità con notevole frequenza, passando attraverso una serie di sfumature ed accentuazioni. Esse prevedono sia l'andamento quasi favolistico di Li soprani der monno vecchio (361), un sonetto del 1832:
C'era una vorta un Re cche ddar palazzo
Manne ffora a li popoli st'editto:
"Io so io, e vvoi nun zete un cazzo,
Sori vassalli bbuggìaroni, e zzitto.
Io fo ddritto lo storto e storto er dritto:
Pózzo vénneve a ttutti a un tant'er mazzo:
Io, si vve fo impicca, nun ve strapazzo,
Che la vita e la robba Io ve l'affìtto.
Chi abbita a sto monno senza er tìtolo
O dde Papa, o dde Re, o dd'Imperatore,
Quello nun pò ave mmai vosce in capitolo.
Co st'editto anno er boja pe ccuriero,
Interroganno tutti in zur tenore;
E arisposeno tutti: E vvero, è vvero.
Sia la delineazione, per cosi dire astratta e dogmatica, di una condizione tanto miserevole ed ingiusta quanto sostanzialmente immodificabile, quale ci sembra quella codificata dal sonetto del 1833 Er monno (981):
Vedi mai nove o ddiesci cor palosso
Attorno a un ber cocommero de tasta,
Che inzinamente che cce sii rimasta
'Na fetta da sparti, ttajja ch'è rrosso?
Accusi er monno: è ttanto granne e ggrosso
E a nnove o ddìesti Re mmanco j' abbasta.
Oggnuno vò er zu' spicchio, e ppoi contrasta
Lo spicchio der compaggno e jje da addosso.
E llèvete li scrupoli dar naso
Che nnoi c'entramo per un cazzo: noi
Semo monnezza che nnasscémo a ccaso
Ar piuppiù ciacconcedeno er
De quarche sseme che jje casca, eppoi
N'arivonno la mmànnola pe llòro
Sia l'individuazione di una più concreta alterità tra sovrani e sudditi, come nella prima terzina del sonetto Le speranze de Roma (1607) 1835:
Che jje n'importa un cazzo de la pila
De la povera ggente a li Sovrani
Che cconteno le piastre a ccento-mila?
Per giungere sino alle tinte più forti dell'equiparazione dei sovrani a "l'assassini de strada", che si da nell'ultimo verso de Le maggnère che ttùfeno (1918), o a quelle ancor più fosche e cupe del popolano, tra rassegnato e reazionario, che fa risalire direttamente a Dio la distinzione tra padroni e servitori in questa polemica risposta ai "dottori" frammassoni e giacobini, contenuta nella chiusa di L'ommini der monno novo (350), che è del 1832:
Ma ppòi puro risponne a sti dottori
Che Iddio l'ommini, for de scinqu'o ssei,
Tutti l'antri l'ha ffatti servitori.
Ma lo stesso tema può assumere anche i toni più alti, e quasi filosofeg-gianti, di quella singolare gnomica popolana che talvolta ricorre in questi sonetti, come nel caso fornito da Li sordati bboni (1268), del 1834:
Subbito e'un zovrano de la terra
Crede c'un antro j'abbi tocco un fico,
Disce al popolo suo: "Tu sei nimmico
Der tale o dder tar re; ffàjje la guerra."
E er popolo, pe sfugge la galerra
O cquarc'antra grazzietta che nnun dico,
Pijja lo schioppo, e vviaggia com' un prico
Che spedischino in Francia o in Inghirterra.
Ccusì, pe li crapiccì d'una corte
Ste pecore aritorneno a la stalla
Co mmezza testa e eco le gamme storte.
E eco le vite sce se ggiuca a ppalla,
Come quela puttana de la morte
Nun vienìssi da lei senza scercalla.
O gli irriverenti tratti canzonatori e gli "umori volterriani" (Muscetta) del coevo sonetto Li Vicarj (1166):
Cqua cc'è un Vicario de Ddio nipotente:
C'è un Vicario, vicario der vicario:
E pper urtimo c'è un Vicereggente
Vicario der vicario der vicario.
Ste distinzione equi ttìettel' a mmente
Pe nnun sbajjà vvicario co vvicario:
Che una cosa è vvicario solamente,
Antra cosa è vvicario de vicario.
Ccusì er primo commanna sur ziconno,
Er ziconno sur terzo, e ttutti poi
Commanneno su ttutto er mappamonno.
Tira adesso le somme come vói,
Smovi er pancotto, e ttroverai ner fonno
Che cchi ubbidissce semo sempre noi.
Tuttavia quest'ultima citazione, riconducendoci in un più specifico orizzonte romano e pontificio, ci consente di cogliere un ulteriore passaggio possibile, nell'ambito di questa satira politica belliana, in quanto essa sa poi anche trascorrere dalle tematiche più generali sinora analizzate a bersagli polemici assai più circoscritti e puntuali.
Infatti può appuntarsi proprio sulla sostanza tutta peculiare del potere, sulle forme particolari della sua organizzazione, che sì danno a Roma per il permanere di quell'anacronismo storico costituito dal governo assoluto e teocratico della Chiesa.
Pure in tal senso, è vero, ci sono i casi più immediati, e forse anche più facili e scontati, indirizzati verso una ricorrente satira ami ecclesiastica: volti, insomma, ad illuminare l'arrogante rapacità, la sfrenata corruzione, l'assoluta indifferenza sociale (ed ancor prima così poco cristiana) nei confronti delle classi subalterne da parte di quanti, per lo più ecclesiastici, detengono il potere in uno Stato siffatto.
Cosi avviene nel 1831 con L'Apostoli (260):
T'hai da capascità cche, o bbianco, o rrosso,
O nnero, o ppavonazzo, te sfraggella.
Sin che in ner mare sce sta er pessce grosso,
Er piccolo ha d'ave la cacarella.
Tristo chi nnassce sott'a cquella stella,
E a le snerbate nun za ffacce l'osso!
Bìsoggna fasse mette la bbardella
E bbascià er culo che tte caca addosso.
Prima sce bbuggiarava er zor Pìetruccio:
Oggi nun è ppiù bbroccolo, ma ccavolo,
E cce bbuggera in cammio Pavoluccio
Inzomma, un giorno Pietro e un giorno Pavolo,
Noi stamo sempre com'e ddon Farcuccio
Sott'a le granfie o dd'un demonio o un diavolo.
E nello stesso anno, con un di più di pathos sociale, concentrato nella chiusa, abbiamo anche La Reverenna Cammera Apopretica (283), ironica storpiatura della Reverenda Camera Apostolica, Ministero delle Finanze pontificio, "le cui sigle venivano interpretate comunemente Rubate Canaglie Allegramente" (M. T. Lanza):
Sta Cammera de Cristo è una puttana:
Bbeati quelli che la ponno fotte,
E ddajje che sse sentine le bbòtte
Sino ar paese de la tramontana.
Da pertutto qui sbarcheno marmotte,
Che nun zò ussciti ancora da dogana
Che ssubbito, alò, cchirica e ssottana,
Eppoi tajjele ggiù che ssò rricotte!
A Rroma, abbasta de sapé er canale
E trova er buscio pe ffìccà un zampetto,
A cquaresima puro è ccarnovale.
Ma er padre de famijja poveretto
Nassce pe tterra, more a lo spedale,
E si ffiata sciabbusca er cavalletto.
Ma talvolta Belli sceglie di percorrere vie ancor più decise, rivolgendo la sua attenzione direttamente a "la radisce" stessa di questo "canchero" che è ormai il potere della Chiesa, per di più "solo ar monno", e rappresentato sotto figura di "albero" e sotto forma di "allegoria da cercarne il senso nella Vigna del Signore", come spiega la prima nota d'autore al sonetto L'arberone (1060):
Immezzo all'orto mio sc'è un arberone
Solo ar monno, e oramai tutto tarlato:
Eppuro fa er zu' frutto oggni stagione
Bbello a vvede, ma ascerbo e avvelenato.
Ricconta un libbre che da quanno è nnato
È vvienuta a ppotallo oggni nazzione;
Ma er frutto c'arifà ddoppo potato
Pizzica che nemmanco un peperone.
Quarchìduno me disce d'inzitallo,
Perché accusi er zu' frutto a ppoc' a ppoco
Diventerebbe bbono da maggnallo.
Ma un Carbonaro amico mio me disce
Che nnun c'è antro che l1'accetta e 'r foco,
Perché er canchero sta in ne la radisce.
Questo sonetto reca in calce la data del 15 gennaio 1834. Solo due giorni prima, sia pure in termini diversi e più sfumati, Belli aveva già insistito su un tema analogo, in Er governo der temporale (1055), con la divertita anfibologia tra l'"uragano" e il "temporale", riferito invece al potere terreno dello Stato ecclesiastico:
Oh, ppenzateve un po' ccome volete
Ch'er reggno ar Papa je l'ha ddato Iddìo,
Io sto eco le parole de don Pio:
"Sete cojjoni assai si cce credete."
E Ggesucristo ar popolo ggiudio
Sapete che jje disse? eh? lo sapete?
"Io so vvienuto in terra a ffà da prete,
E nnun è dde sto monno er reggno mio."
Che bbella cosa saria stata ar monno
De vede er Nazzareno a ffà la guerra
E a scrive editti fra vviggijja e ssonno!
E, dde ppiù, mmannà ll'ommini in galerra,
E mmette er dazzio a le sarache e ar tonno
A Rripa-granne e a la Dogàn-de-terra.
Si tratta di esempi che evidenziano in modo sin troppo scoperto l'affiorare di una componente di marca liberale, che pertiene assai più al poeta che non al protagonista popolano. Tanto scoperta e cosi poco probabile questa componente a livello di soggetto-pari ante, che Belli è costretto a sovrapporgli l'allusione ad un secondo referente, ad altra voce fuori campo, con tutta probabilità anche di diversa origine sociale: il "don Pio" del v. 3 nel secondo sonetto, il quale da dei "cojjoni" a quanti credono che il potere temporale derivi al Papa direttamente da Dio, e tanto più il "Carbonaro" del v. 12 dell'Arberone, che invita alla soluzione rivoluzionaria dell'abbattimento del potere della Chiesa con "l1'accetta e 'r foco"(21).
Ma per fortuna il poeta romano si affiderà non troppo spesso a questa via più diretta, ma assai improbabile, di un presunto popolano portatore di valori liberali, e semmai preferirà passare per un percorso più indiretto, e magari più tortuoso, ma molto più credibile ed efficace. Quale potrebbe essere quello che s'imbocca con Lo Stato der Papa (209), nonostante il sonetto sia cronologicamente assai più precoce di quelli citati in precedenza: è infatti del 1831. Ne è protagonista una delle tante voci emergenti dalla Vandea popolana, che si impegna a fondo in una difesa oltranzista del potere temporale, in assoluto contrasto, quindi, con le posizioni emergenti dai due precedenti esempi; eppure, se non andiamo errati, ... ci sembra proprio un tipico caso di in cauda venenum:
Come er Papa ha da sta ssenza lo Stato
Quann'è vvicario lui de Ggesucristo?
M'ha ddetto er coco a mmé de San Calisto
Che inzinente a ddiscorrene è ppeccato.
Ggesucristo c'ha ttanto faticato
Pe ffàcce tuttoquanto avemo visto,
Doverla scede puro a echi è ppiù ttristo
Sto cantoncel de monno conzagrato?!
Cede un par de cojjoni! E dde sto
S'arriva a llevà Iddio dar paradiso,
Pe mmettesce in zu' logo Satanasso!
Duncue pare che ssii bell'e indisciso
Ch'er Zantopadre a sto monnaccio è ll' asso,
E ppò ddi rriso ar farro e ffarro ar riso.
Comunque, ogni dubbio residuo che può ancora darsi per questa nostra ultima proposta dì lettura "obliqua", si dirada completamente in un sonetto più tardo, del 1834, anch'esso dedicato al Papa in quanto sovrano di Roma, che suona più precisa caratterizzazione del precedente e generale tema dei sudditi e dei governanti. Ci riferiamo a Le risate der Papa (1348):
Er Papa ride? Male, amico! È sseggno
C'a mmomenti er zu' popolo ha da piaggne.
Le risatine de sto bbon padreggno
Pe nnoi fijjastri so ssempre compaggne.
Ste facciacce che pporteno er trireggno
S'assomijjeno tutte a le castaggne:
Bbelle de fora, eppoi, pe ddio de leggno,
Muffe de drente e ppiene de magaggne.
Er Papa ghiggna? Sce so gguai per aria:
Tanto ppiù cch'er zu' ride de sti tempi
Nun me pare una cosa nescessaria.
Fijjì mii cari, state bbene attenti.
Sovrani in alegria so bbrutti esempi.
Chi rride cosa fa? Mmostra li denti.
In più, il giudizio popolare questa volta è puntualmente confermato da una severa nota d'autore al "pe nnoi fijjastri" del v. 4:
II nostro romanesco ha ragione. Noi difatti siam figli di Gesù Cristo e della Chiesa sua sposa, la quale, morto il primo marito, è tornata a tante altre nozze, e non cessa malgrado della sua decrepitezza.
E di nuovo una nota ci fornisce un minimo di soccorso nello svelamento di una sostanziale vena ironica, che sembra cosi di dover attribuire ad un altro apparente difensore del potere illimitato del Vicario di Cristo, che in modi ancor più espliciti, anzi, non esita ad affermare che "er Zanto-padre è un Gesucristo in terra". Pertanto i casi sono due. O il "filosofo" plebeo, nel porsi ancora una volta il problema della natura del potere a Roma, ne fornisce di nuovo una lettura obliqua, sarcastica cioè nella sostanza, e nella forma, invece, tutta aderente alla dottrina di Santa Romana Chiesa. Oppure si tratta dell'ennesimo caso di conflittualità tra il piano del protagonista e quello dell'autore, il quale, ad ogni buon conto, proprio quell'identificazione tra Cristo e Papa con tutto ciò che ne consegue ("È ttutto suo pe cquanto vede er zole"), cosi commenta in nota: "Dottrina della chiesa romana, alquanto però controversa". Il sonetto in questione si intitola Er monno (772) e reca in calce la data del 17 gennaio 1833:
Va bbè dde lamentasse co rraggione,
Ma echi sse laggna a ttorto è un cazzo-matto.
Er monno è una trippetta, e ll'omo è un gatto
Che jje tocca aspetta lla su' porzione.
Tutto cuer che cc'è ar monno, chi l'ha ffatto?
Ggesucristo: lo sa ppuro un cojjone.
Ggesucristo però dduncue è 'r padrone
D'empicce a ttuttì o rripulicce er piatto.
Ma Ggesucristo, sor cazzaccio mio,
Lo sapete chi è llui? è, ssora sferra,
La terza parte de domminiddio
Duncue nun zerve a ffà ttante parole:
Si er Zanto-padre è un Gesucristo in terra,
È ttutto suo pe cquanto vede er zole.
Del resto, non mancano davvero cenni, in questa Commedia romana, a considerazioni più complessive, ispirate al più cupo pessimismo nei confronti di questo Stato pontificio. Come nel caso di quell'amara allegoria, secondo la quale, assai significativamente, in tale Stato il libro dei battesimi si potrebbe anche chiamare libro dei morti, che ci è suggerita dal sonetto Er battesimo der fijjo maschio (1266), del '34, dalla consueta vena gnomico-sentenziosa di un altro filosofo popolano:
Cosa so sti fibbioni sbrillantati,
Sto bber cappello novo e sto vistito?
Sta carrozza ch'edè? cch'edè st'invito
De confetti, de vino e dde ggelati?
E li sparaggni tui l'hai massagrati,
Cazzo-matto somaro sscimunito,
Perché jjerì tu' mojje ha ppartorìto
Un zervitore ar Papa e a li su' frati?
Se fa ttant'alegria, ttanta bbardoria,
Pe bbattezzà cchi fforzi è ccondannato,
Prima de nassce, a cojje la scicoria!
Poveri scechi! E nnun ve sete accorti
Ch'er libbro de bbattesimi in sto Stato
Se poterla chiama llibbro de morti'?
A tali esempi di satira politica potremmo affiancarne altri di ancor più risentita "satira sociale", che in qualche misura sembrano muoversi lungo direttrici sostanzialmente omologhe. Anche se, personalmente, siamo convinti che l'analogia si da soltanto a livelli molto generali, che potremmo identificare in una loro comune matrice progressista. Da un lato, infatti, c'è un di più rispetto ai casi precedenti, consistente in un'accentuazione della carica egualitaria o, per converso, nell'insistita rappresentazione delle divisioni di classe, non presenti, o comunque meno appariscenti, nei messaggi di stampo prevalentemente liberale finora analizzati. Ma dall'altro c'è anche un di meno di caratterizzazione politica in senso stretto, che rende ideologicamente meno riconoscibili e meno definibili tali messaggi sociali, affidandosi qui Belli ad una generica vena di protesta popolare, al massimo puramente quanto velleitariamente ribellistica, cui potrebbe non restare del tutto estraneo un filone di egualitarismo cristiano.
Tra i molti casi possibili ne trascegliamo alcuni notissimi, e che d'altro canto si collocano anche ai più alti livelli poetici, mentre sotto il profilo cronologico sembrerebbero attestare una certa concentrazione di questa particolare vena belliana nel periodo centrale e più produttivo dei Sonetti.
Cominciamo da Li morti de Roma (815), del 1833, dove tutto è risolto, d'altronde, in una composta ed efficace sequenza narrativa, tutta oggettivata e sostenuta da un sottile filo ironico, sia pure amaro e raggelante:
Cuelli morti che ssò dde mezza tacca
Fra ttanta ggente che sse va a ffà fotte,
Vanno de ggiorno, cantanno a la stracca,
Verzo la bbùscìa che sse l'ha dda iggnotte.
Cuell' antri, in cammio, c'hanno la patacca
De siggnori e dde fijji de miggnotte,
So ppiù cciovili, e ttiegheno la cacca
De fuggì er zole, e dde viaggià dde notte.
Cc'è ppoi 'na terza sorte de figura,
'N'antra spesce de morti, che ccammìna
Senza moccoli e ccassa in zepportura.
Cuesti semo noantri, Crementina,
Che ccottivatì a pessce de frittura,
Sce bbutteno a la mucchia de matina.
Passiamo quindi ad un'altra pietra miliare di questa sfaccettatura della satira belliana, costituita da Li du' ggener umani (1169), del '34, in cui finanche Cristo è chiamato in causa, in quanto viene di fatto imputato di aver anch'egli usato due diversi pesi e misure nei confronti dei due "generi umani", persino nel momento stesso del suo divino sacrifìcio:
Noi, se sa, ar monno semo usscitì fori
Impastati de mmerda e dde monnezza.
Er merito, er decoro e la grandezza
So ttutta marcanzia de li siggnori.
A ssu' Eccellenza, a ssu' Maestà, a sii
Fumi, patacche, titoli e sprennori;
E a nnoantri artiggiani e sservitori
Er bastone, l'imbasto e la capezza.
Cristo creò le case e lì palazzi
P' er prencìpe, er marchese e 'r cavajjere,
E la terra pe nnoi facce de cazzi.
E cquanno morze in croscè, ebbe er penziere
De sparge, bbontà ssua, fra ttanti strazzi,
Pe cquelli er zangue e ppe nnoantri er ziere.
E nello stesso anno ci imbattiamo nella vibrata protesta di un altro notissimo protagonista, Er ferraro (1406), che cosi esplode:
Pe rnmantené mmi' mojje, du' sorelle,
E cquattro fijji io so c'a sta fuscina
Comincio co le stelle la matìna
E ffinisco la sera co le stelle.
E cquanno ho mmesso a rrisico la pelle
E nnun m'arreggo ppiù ssopr'a la schina,
Cos'ho abbuscato? Ar zommo una trentina
De bbajocchi da empicce le bbudelle.
Eccolo er mi' discorzo, sor Vincenzo;
Quer chi ttanto e echi ggnente è 'na commedia,.
Che mm'addanno oggni vorta che cce penzo.
Come!, io dico, tu ssudi er zangue tuo,
E ttratanto un Zovrano s'una ssedia
Co ddu' schizzi de penna è ttutto suo!
Ma anche nel 1836 si danno due notevoli esempi, Er merito (1811) e Le gabbelle (1818), anche se, soprattutto nel primo, la secchezza del sonetto precedente, tutta essenziale eppur violentemente protestataria, tradisce un dì più di pathos: quello, per intenderci, alla "noantri poverelli":
Merito dite? eh ppoveri merlotti!
Li quadrini, ecco cr merito, fratelli.
Li ricchi soli so bbonì, so bbelli,
Sò ggrazziosi, so ggioveni e ssò ddotti.
A l'incontro noantri poverelli
Tutti schifenze, tutti galeotti,
Tutti deggni de sputi e de cazzotti,
Tutti cucuzze in càmmio de scervelli.
Fa' ccomparì un pezzente immezzo ar monno:
Fussi magàra una perla orientale,
"Presto cacciate via sto vagabbonno."
Tristo chi sse presenta a li cristiani
Scarzo e ccencioso. Inzìno pe le scale
Lo vanno a mmozzicà ppuro li cani.
Ah, ddunque, pperché nnoi nun negozziamo
E nnun avémo manco un vaso ar zole,
Lei vorebbe conchiude in du' parole
Che le gabbelle noi nu le pagamo?
Le pagamo sur pane che mmaggnamo,
Sur panno de le nostre camisciole,
Sur vino che bbevémo, su le sòie
De le scarpe, e sull'ojjo che llogramo.
Le pagamo, per dio, su la piggione,
Sur letto da sdrajacce, e su li stijji
Che ssèrveno a la nostra professione.
Le pagamo (e sta vergna è la ppiù ddura)
Pe ppijjà mmojje e bbattezzà lì fijji
E pper èsse bbuttati in zepportura.
Un messaggio pertanto, quello sinora individuato, che certo potremmo sinteticamente definire progressista. Talvolta lo è in misure più esplicite, persino violentemente ed enfaticamente gridate ad alta voce, altre volte in modi più indiretti ed incerti, costringendoci a ricorrere a letture oblique, a note o ad altri strumenti che sembrano stravolgere il piano semantico più apparente, quello suggeritoci da una prima lettura, più fiduciosa nella natura veridica ed autentica della voce popolare.
Ma la realtà della plebe romanesca, vista con l'occhio attento, corretto ed impietoso che fu di Belli, non ci restituisce soltanto segnali di tale natura, bensf anche altri di tipo completamente diverso. E ciò rende alla fine oltremodo problematico ogni tentativo di ricondurre a monolitica unità il connettivo tessuto ideologico di questi sonetti.
Naturalmente pure in casi del genere si danno tutta una serie di sfumature, che collocano su piani diversi le direzioni e le finalità ideali.
Non infrequenti sono, ad esempio, i sonetti in cui compaiono protagonisti di gran lunga meno protestatari e ribelli dei precedenti, ed anzi del tutto rassegnati alla loro miseranda condizione di oppressi. Tanto che se ne possono trarre chiari messaggi ispirati ad un plebea filosofia della rassegnazione, che talvolta assume anche i toni di una sorta di cristiana rassegnazione, magari icasticamente compendiata nel motto latinesco "Piatte volontà stua e ccusi ssia"(22) o nell'altro, negazione evidente di ogni concezione storica di progresso, "Sicu t'era tin principio nunche e ppeggio"(23). E continuiamo tenacemente a ritenere che proprio in una dirczione consimile vada letta, nonostante tutto, anche La bbona famijja (287), da noi già riportata nel precedente paragrafo, e di cui vorremmo qui solo richiamare quel "in zanta pasce" del verso finale. Ma un'esemplificazione ancor più esplicita ci è fornita poi da La madre poverella (913), del 1833. A renderla più significativa è proprio l'incastonatura di quella terzina finale, di vago sapore manzoniano, all'interno di un contesto che, sebbene non assuma i toni aspri e risentiti che abbiamo già visti, pur si muove nella consapevolezza della profonda ingiustizia sociale che regna nel mondo e della sostanziale sordità dei "ricchi" alle altrui "tribbolazzione". Una consapevolezza che trova per di più momenti alti in alcune icastiche definizioni, ora ispirate alla saggezza della gnomica popolare - come quel "li ricchi so ttutti un riduno" del v. 2 (cosi spiegato da Belli in nota: "Tutti una massa: tutti uguali"), o quel "ppanza piena nun crede ar diggiuno" al v. 8 -, ora invece riecheggiami, con somma naturalezza e con concretezza tutta popolare, quasi dei principi evangelici, come ci pare avvenga nella prima terzina con le "ddu' perzone" della ricchezza e della carità:
Fìjja, nun ce spera: ffatte capasce
Che equa li ricchi so ttutti un riduno;
E un goccio d'acqua nun lo da ggnisuno,
Si tte vedessi immezzo a una fornasce.
Tu bbussa a li palazzi a uno a uno;
Ma ppòì bbussa cquanto te pare e ppiasce:
Tutti: "Iddio ve provedi: annate in pasce."
Eh! ppanza piena nun crede ar diggiuno.
Fidete, fijja: io parlo pe sperienza.
Ricchezza e ccarità ssò ddu' perzone
Che nnun potranno mai fa cconosscenza.
Se chiede er pane, e sse trova er bastone!
Offerimolo a Ddio: che la pascenza
E un conforto che ddà la riliggione.
Altri settori di questa plebe più dimessa ed umbratile possono però procedere oltre, fino ad accettare anche "la morale dell'offendi i minori e rispetta i grandi"(24), o fino ad innalzare quel cupo inno di qualunquismo conservatore che si desume da un sonetto del 1831, Accusi va er monno (234):
Quanto sei bbono a staitene a ppijja
Perché er monno vò ccurre pe l'ingiù:
Che tte ne frega a tte? llassel'annà:
Tanto che speri? aritirallo su?
Che tte preme la ggente che vivrà
Quanno a bbon conto sei crepato tu?
Oh ttira, fìjjo mio, tira a ccampà,
E a ste cazzate nun penzacce ppiù.
Ma ppiù de Ggesucristo cche ssudò
'Na camiscia de sangue pe vvedé
De sarvà ttutti; eppoi che ne cacciò?
Pe cchi vvò vvive l'anni de Novè
Ciò un zegreto sicuro, e tte lo do:
Lo ssciroppetto der dottor Me ne ...
Ma si da anche per questo tipo di sonetti quel messaggio forte e violento, gridato ad alta voce, di cui si diceva prima a proposito della vibrata protesta sociale. Infatti, in alcuni casi ci si muove decisi verso le tinte ben più fosche e reazionarie della Vandea, come del resto abbiamo già accennato. Proprio il 1831, un anno costellato di moti ed insurrezioni anche all'interno dei confini pontifici, è invece fitto di atti di conformistica fedeltà papalina e di agghiacciante livore sanfedista.
Si rilegga, ad esempio, L'armata nova der Zommo Pontescife (207):
Com'è ita a ffinf la ribbijjone
C'aveva da sfasscià Ppiazzacolonna?
Ce l'ha mmesse le mane la Madonna!
E vvienuto Sanpietro cor bastone!
La bbarca de la fede nun z'affonna,
Nun ha ppaura un cazzo de bbarbone:
Duncue chi wò alloggia ssenza pìggione,
Ce vienghi a rriprovà eco la siconna.
Pe ffà mmejjo addannà li ggìacobbinì
Mo ss'ariveste 'n'antra truppa vera,
E sse so ttrovi ggià li tammurrini.
Già s'arippezza a nnovo la bbanniera;
E ddoppo a li sordati papalini
Je s'ha da fa 'na statua de scera.
E, ancor più, Li bbaffutelli (197), titolo che allude alla moda di portare i baffi, che era propria dei liberali:
No ppe ccristaccio, nun volemo un cazzo
Sti bbaffetti pe Rroma in priscissione;
Che vviengheno a ddà er zacco su a Ppalazzo,
E a bbuggiarà la Santa Riliggione.
Ma er Papa nostro, si nun è un cojjone,
Ce l'ha dda fa vvedé cquarche rrampazzo!
Bast'abbino l'idea de frammassone
Pe mmannalli a impicca ttutt'in un mazzo.
E ppe nnun fa a echi fijjo e a echi ffijjastro,
A le mojje bbollateje la sorca,
E a li fijji appricateje l'incastro.
Si a ddà un essempio a sta canajja porca
Poi manca er boja, so equa io pe mmastro,
Che sso ccome se sta ssott'a la forca.
Una vena consimile persiste del resto anche l'anno successivo, in cui \ permangono disordini e ribellioni aperte nelle Romagne. Ci limitiamo a : riportare il solo Memoriale ar Papa (394) (24):
Papa Grigorio, nun fa ppiù er cazzaccio:
Svejjete da dormi Ppapa portrone.
San Pavolo t'ha ddato lo spadone,
E ssan Pietro du' chiave e un catenaccio?
Duncue, a tté, ffoco ar pezzo, arza cuer braccio
Su ttutte ste settacce bbuggiarone:
Di' lo scongiuro tuo, fajje er croscione,
Serreje er paradiso a ccatenaccio.
Mostra li denti, caccia fora l'oggne,
Sfodera una scommunica papale
Da falli inverminì com'e ccaroggne.
Scommunica, per cristo e la madonna!
E tremeranno tutti tal e quale
Ch'er palazzo der prencipe Colonna.
Ma questa componente sopravvive un po' per tutto l'arco dei sonetti, come testimoniano anche Er governo de li ggiacubbini (1160) e Le scramazzione de li ggiacubbini (1167), che per di più recano in calce le date del 5 e 6 aprile 1834 e, pertanto, vengono ad essere del tutto contemporanei a quel ben diverso inno di protesta sociale, che solo il 7 aprile si leverà, vibrato ed alto, nel citato Li du' ggener' umani:
Iddio ne guardi, Iddio ne guardi, Checca,
Toccassi a ccommannà a li ggiacubbini:
Vederessi una razza d'assassini
Peggio assai de li Turchi de la Mecca.
Pe aringrassasse la panzaccia secca
Assetata e affamata de quadrini,
Vederessi manna eco li facchini
Li càlisci de Ddio tutti a la zecca.
Vederessi sta manica de ladri
Raschià ddrent'a le cchiese der Ziggnore
L'oro da le cornisce de li quadri.
Vederessi strappà ssenza rosore
Li fijji da le bbraccia de li padri,
Che ssarìa mejjo de strappajje er core.
*******
Nun ze sent'antro da li ggiacubbini
(Che o rromani de Roma, o fforestieri,
Tielli tutti una macchia d'assassini,
Carne da bboja e ggaleotti veri);
Nun ze sente dì antro a sti paini
C'oggi li Papa so ttiranni neri
Che sse n'escheno for da li confini
Cor gastigà inzinenta li penzieri.
SÌ jje piasce l'ajjetto: tanto bbene:
S'ha da punì inzinenta l'intenzione,
E accusi nnun faranno tante sscene.
Un Papa è un visce-ddio; e dde raggione
Ha da tenè nne l'accordà le pene
Tutte quante l'usanze der padrone.
E si veda anche La cremenza minchiona (1626), che è del 1835:
Ch'er Papa, co l'annà ttanto bberbello
Contr'a li ggiacubbini de la setta,
Se possi conzervà Rroma soggetta,
Ciò le mi' gran difficortà, ffratello.
Eh ssi ffuss'io, pe cquanto?, pe un'oretta,
Governator de Roma e bbariscello,
Vederebbe oggni suddito ribbello
Cosa se chiama ar monno aspra vennetta.
'Na bbrava manettata lesta lesta,
Un proscessaccio, e, appena condannati,
Sur carretto, e ppoi subbito la testa.
E ppe incùte a la setta ppiù ppavura,
Doppo avelli accusì gghijjottinati
Je darebbe una bbona impiccatura.
O Li rivortosi (1947) del '38
Chiameli allibberàlì o fframmasoni,
O ccarbonari, è ssempre una pappina:
E ssempre canajjaccia ggìacubbina
Da levàssela for de li cojjonì.
E ppe Ppapi io vorìa tanti Neroni
Che la mannàra de la quajjottina
Fascéssino arrotalla oggnì matina
Acciò er zangue curressi a ffuntanoni.
Tu accèttua noantri in camisciola
E li preti e li frati, er rimanente
Vacce a la sceca e sségheje la gola.
Perché è mmejjo a scanna cquarch'innoscente,
De quer che ssia c'una caroggna sola
Resti in ner monno a impuzzolì' la ggente.
E, non a caso, questa stessa componente reazionaria torna poi a rinfittirsi subito dopo la morte di Gregorio XVI e durante il biennio riformista di Pio LX. A quest'ultimo viene infatti dedicata una lunga serie di sonetti, in cui il solito plebeo forcaiolo non manca di esprimere le proprie riserve sui metodi troppo liberali del nuovo pontefice e, nel contempo, si rivela un nostalgico quanto convinto sostenitore del governo assoluto di "Papa Grigorio". Il quale viene rimpianto apertamente già nel sonetto del '46, Er Papa novo (2140), proprio per la sua decisa azione antiliberale ed antigiacobina:
Che cce faressì? è un gusto mio, fratello:
Su li gusti, lo sai, nun ce se sputa.
Sto Papa che cc'è mmó rride, saluta,
È ggiovene, è a la mano, è bbono, è bbello...
Eppuro, er genio mio, si nun ze muta,
Sta ppiù pp'er Papa morto, poverello!:
Nun fuss'antro pe ave mmess' in castello,
Senza pietà, cquela ggìnìa futtuta.
Poi, ve pare da Papa, a sto paese,
Er dà cconto a pprelatì e a ccardinali,
E Pussci a ppiede e er risegà le spese?
Guarda la su' cuscina e er rifettorio:
So ppropio un pianto. Ah cqueli bbravi ssciali,
Quele bbelle maggnate de Grigorio!
E Gregorio diventa infine colui che conosceva "l'arte vera/ de risponne da Papa a l'inzolenze", e che pertanto la "tosteria" tracotante di questa Vandea avverte a lei più congeniale, al contrario delle aperture del "ssor Pio", sentite come segno di debolezza e di cecità. Che è quanto avviene, appunto, nel sonetto del '47 La secchezza der Papa (2162):
No, ssor Pio, pe smorza le trubbolenze,
Questo equi nun è er modo e la maggnera.
Voi, Padre Santo, nun m'avete scera
De fa er Papa sarvanno l'apparenze.
La sapeva Grigorio l'arte vera
De risponne da Papa a l'inzolenze:
Vònno pane? mannateje innurgenze:
Vònno posti? impiegateli in galera.
Fatela provibbi st' usanza porca
De dimannà ggiustizzia, eh' è un inzoggno:
Pe ffà ggiustizzia, ar più, bbasta la forca.
Seguitanno accusi, starete fresco.
Bbaffi, e ggnente pavura. A un ber bisogno
C'è ssempre l'arisorta der todesco.
Per cui, trovandoci di fronte ad un panorama siffatto e contemporaneo(26) di tante ed opposte Decorrenze, noi siamo sempre stati convinti che non resti che arrendersi: e cioè considerare forse persino la estrema improduttività, dì certo i notevoli rischi di un'analisi unicamente o prevalentemente ideologica di questi sonetti. Ciò non vuoi dire, certo, che riteniamo illegittime questo tipo di letture; ma volevamo più semplicemente, da un lato, suggerire la massima cautela e la più vigile accortezza nei confronti di tutte le "trappole" più o meno consapevolmente disseminate da Belli, e dall'altro ribadire il nostro convincimento che tali indagini, se pur necessarie, non sono da sole sufficienti. Sia perché ci sembra che quella disposizione belliana che abbiamo definita come a-ideologica sia reale e fondativa per la sua ottica; sia perché quelle indagini finiranno sempre per risultare poco fruttuose e puramente tangenziali ed esterne, se non verranno comunque ricollocate correttamente tutte all'interno dei reali percorsi letterari di un'operazione poetica come quella belliana.
Da ultimo, onde evitare equivoci, vorremmo chiarire tuttavia che non è neppure nostra intenzione attribuire necessariamente all'intellettuale Belli gli stessi umori sanfedisti della sua plebe, e con ciò sostituire l'immagine sinora prevalente di un poeta progressista con quella specularmente opposta, ma assai più improbabile, di un Belli reazionario e codino. Giacché quella distanza che egli ha voluto programmaticamente stabilire tra sé e la materia della propria rappresentazione poetica, e che abbiamo per primi teorizzato, deve poter funzionare in tutte le direzioni, e quindi anche in quest'ultima.
Cosi come non escludiamo del tutto che su tale situazione fortemente oscillante e persino ambigua possano aver influito, in qualche misura, anche orientamenti intellettuali del poeta e loro successivi ripensamenti. È ad esempio noto che già negli anni '40 vanno maturando in Belli involuzioni, che diverranno assai più esplicite dopo l'esperienza della Repubblica Romana, ma che possono aver lasciato tracce più che sospette anche nell'ultima fase della sonetteria romanesca. Va inoltre opportunamente ricordato che perfino in esatta coincidenza con il suo periodo più fecondo sussisteva già la profonda delusione per il fallimento dei moti del 1830-1831, la quale ha contribuito la sua parte alla concrezione di quel cupo pessimismo e di quella radicata sfiducia nelle speranze di miglioramento e di progresso.
E le stesse scarne testimonianze che è dato ricavare, tra le caotiche maglie dello Zibaldone, di un Belli aforista borghese (e tanto più di un "borghese senza borghesia"(27), possono pure aver suggerito la sua decisione di riservare un trattamento analogamente satirico sia alle classi alte che al "popolazzo" (per quanto, come abbiamo già detto, non in egual misura), o possono aver sorretto l'altro suo proposito di rappresentare di quest'ultimo anche tutto il "cumulo" delle "più strane contraddizioni". Si rileggano comunque in proposito i due brani seguenti, di sapore quasi berchettiano, che del resto sono assolutamente coevi:
2453. etimologia, popolo. - "Turbare", "turbamento", "mente turbata", "turbolento" ecc. ecc. = sono astratti e translati di "turba". La turba o il popolazzo n'è la radice.
Tutto ciò che è confuso, disordinato, inconseguente, instabile, è prerogativa della turba, del popolo. Il muoversi senza motivo, senza ordine, senza scopo, ma solo alla mercé delle impressioni del momento, è proprietà della turba. Dunque il "turbare la mente", i pensieri, gli affetti, l'esser turbato ecc. equivale al dare all'animo, al cuore, il disordine che si ravvisa nell1 andar delle turbe (Pesaro, 8 giugno 1830).
2459. in medio consistit vtrtus
Applichiamo questo venerando proverbio ai tre generali ordini della società: nobili, cittadini, e plebe. Il primo, io dico, ed il terzo, siccome estremi, somigliansi e sovente si confondono. Qua rozzezza per instituzioni mancanti; là orgoglio per educazione fallace. Nell'uno la infedeltà del bisogno; nell'altro la rapacità della cupidigia. In questo la cecità della superstizione; in quello l'offuscamento del pregiudizio. In entrambi sconoscenza ed oblio di fine: difetto o rifiuto di mezzi: ignoranza o disprezzo di doveri. Il Grande corrotto si degrada sino alla nefaria del popolo, confidando che un solo nome cancellerà la vergogna di molti vizii. E quando il plebeo salga col favor di fortuna, vorrà mai ristarsi prima di giungere a un titolo? Il Cittadino al contrario, quale cristallo in mezzo allo splendore del patriziato e alle tenebre del volgo, sta incontaminato tra due. azioni che lo attraversano per bilanciarsi. Nelle repubbliche l'uomo è cittadino; nelle monarchie il cittadino è uomo, dopoiché escluso per necessità dalla " insolenzà del privilegio, e per animo dall'abbiezione della servitù, si consola nella mediocrità, e ingentilisce il costume nella filosofia. Se poi la virtù verrà ad
eguagliare le differenze del sangue, avvicina essa allora gli estremi nel centro: cosi che la patria non troverà mai salute che nell'equilibrio della civica temperanza.
Perché questo canone non soccorrerà al nostro assunto? Una verità, per dirsi tale, deve rispondere a tutti i principii, della sua natura: una sola eccezzione [sicl] l'abbasserà dall'assioma alla ipotesi (Pesaro, 8 giugno 1830) (28).
Eppure continuiamo a ritenere che l'origine e la spiegazione della pluralità dei messaggi di questi sonetti siano da rintracciare soprattutto altrove, ed in particolare nella stessa concezione del "monumento di quello che oggi è la plebe di Roma", come recita, appunto, l'incipit dell'Introduzione.
4. Il protagonismo plebeo.
In altri termini, pensiamo che sia dall'interno stesso dei principi letterari ed estetici, che sostengono il disegno poetico di Belli, che emerga la sua consapevolezza, e quasi la necessità, di dover comunque rappresentare tutta la realtà popolare, "tutto il cumulo del costume e delle opinioni di questo volgo", anche se esso dovesse risultare sostanzialmente contraddittorio.
Lo richiedeva, intanto, proprio quell'istanza documentaria del "monumento".
Ma lo richiedeva poi il rispetto del diaframma geografico che si era scelto: quell'"osservatorio romano", appunto, cosi peculiare nel panorama nazionale, come Belli non si stancherà di sottolineare.
Lo richiedeva, infine, la precisa scansione storica definita: "quello che oggi è la plebe di Roma". Il che esclude la prospettiva di un eventuale futuro d'"incivilimento", che si può certo desiderare, ma che per ora non si da senza tradire l'altro assunto di "una immagine fedele di cosa già esistente e, più, abbandonata senza miglioramento".
Appunto su tali specificità, oltre che su quelle ulteriori dello strumento linguistico prescelto, si fonderà quello scatto di orgoglio con cui si rivendica l'assoluta originalità del proprio "disegno":
Oltre a ciò, mi sembra la mia idea non iscompagnarsì da novità. Questo disegno cosi colorito, checché ne sia del soggetto, non trova lavoro da confronto che lo abbia preceduto (29).
E sarà appunto quella "novità" a sostanziare l'ulteriore scatto della polemica presa di distanza, che si può leggere in filigrana nella stessa introduzione (30), dalla precedente produzione dialettale romanesca, e comunque dalla letteratura popolare e populistica; quest'ultima con l'ulteriore limite di proporre il popolo come "modello": e cioè esattamente il contrario di quanto egli ha detto di voler fare con i suoi sonetti.
Ma cosa vuoi dire tutto ciò, all'epoca di Belli, se non procedere ad un'indiretta ma parallela denuncia di tutta la fragilità e l'insufficienza del nazional-popolare romantico e del pensiero liberale che lo sorregge, quando si sia scelta proprio la materia popolare quale oggetto di una rappresentazione poetica? Che cosa si vuoi significare se non che in quella situazione, pertanto, le ragioni dell'estetica vengono prima di quelle dell'ideologia (31)? O anzi, meglio ancora, che a realizzare il tutto sia assai più opportuna, e persino necessaria, quella particolare disposizione a-ideologica di cui abbiamo parlato? Non sarà da escludere che sia soprattutto essa a determinare proprio le oscillazioni e le pluralità suddette, ma nel contempo servirà anche a corroborare tutte le distanze e le alterila necessarie alla rappresentazione di un oggetto così magmatico, fluttuante, istintivo, quale può essere la plebe romana, e, forse, persino ad assicurare una patina di imparziale e veridica sostanza documentaria della ricostruzione, che in ultima istanza è pur sempre e soprattutto poetica.
Infatti, che sia questo o (molto più probabilmente) altro il modo di procedere dell'analisi storica, sociale e sociologica, assai poco conta in un caso come quello di Belli - nel caso, cioè, di un poeta -, ed anzi continua semmai a sorprendere come possa ancora interessare qualcuno.
Non è quindi certamente su piani del genere, bensì su quelli più squisitamente letterari, che torniamo a riproporre l'altra vera novità di questi sonetti, e cioè quel protagonismo plebeo che essi riescono appunto ad esprimere e realizzare, restando per ciò, anzi, un esempio pressoché unico nella nostra tradizione.
In altre parole, lo riteniamo noi stessi un risultato che segna sì una svolta "rivoluzionaria", ma, per quanto detto, lo iscriviamo esattamente nell'ambito suo peculiare della storia delle strutture e delle forme letterarie. E l'elemento solo apparentemente paradossale è dato appunto dal fatto che, in questa specifica situazione, l'uso dispiegato della strumentazione a- o non -ideologica non solo non ostacolò, ma sembrò proprio favorire e consolidare quello stesso protagonismo.
Che del resto Belli lo ricercasse con evidente ed assoluta consapevolezza, cosi come che avesse ben chiari gli strumenti per conseguirlo, ci pare oggi fuor di ogni dubbio.
Basterebbe ricordare un brano chiave dell'Introduzione:
Cosi accozzando insieme le varie classi dell'intiero popolo, sfacendo dire a - ciascun popolano quanto sa, quanto pensa e quanto opera, ho io compendiato il cumulo del costume e delle opinioni di questo volgo, presso il quale spiccano le più strane contraddizioni (32) .
O l'altro, contenuto in quella sorta di Postfazione ai sonetti che è la legifera del 1861 al principe Gabrielli;
A quale poi mi chiedesse perché abbia io dunque in altri tempi impiegata la mia penna in simiglianti lavori, risponderei mio intento non essere stato già quello di fissare in carta una lingua a cui meritamente manca in Italia un posto, ma si unicamente di introdurre il nostro popolo a parlare di sé nella sua nuda, gretta ed anche sconcia favella, dipingendo cosi egli stesso i suoi proprii usi, i suoi costumi, le sue storte opinioni, e insieme con tutto ciò i suoi originali pensieri intorno ai più .. elevati ordini di questo social corpo di cui esso occupa il fondo (33) .
Più chiari ed espliciti di cosi non si poteva essere!
Quindi è lo stesso Belli a dichiarare con esemplare evidenza le reali finalità della propria opera ed i vari strumenti impiegati per realizzarla: e, pertanto, anche le effettive chiavi di lettura che oggi sta a noi usare per decodificarla correttamente (34). Tra l'altro, se soprattutto si rileggano i contesti viciniori delle due precedenti citazioni, è proprio Belli a motivare con ragioni assolutamente interne, e cioè tutte letterarie, quella sua dichiarata intenzione di fare della plebe romanesca l'unico ed autorizzato protagonista (o coprotagonista, se si preferisce) dei suoi sonetti. Sino al punto, anzi, di fondare su tale intenzione, in modo determinante anche se non esclusivo, tutto il progetto della propria opera; nonché la stessa scelta dello strumento espressivo del dialetto, che altrimenti non avrebbe senso alcuno e nessuna giustificazione(35) all'interno della poetica alta che fu di Belli, se non, appunto, come unica lingua possibile dell'esclusivo e basso protagonista che si è prescelto.
Nei limiti, ben inteso, entro i quali avrebbe resistito, costante e continua, la forte tensione che quel suo proposito necessariamente comportava: e in un arco cosi ampio come quello dato da 2279 sonetti, pari, per numero di versi, ad oltre il doppio della Divina Commedia, era umanamente impensabile che non si dessero momenti di caduta o anche semplicemente di allentamento di quella tensione. Nonché nei limiti in cui lo avrebbe consentito l'impervia sfida costituita da quell'operazione di vero e proprio straniamento, di alienazione spinta sino ai limiti, di sdoppiamento quasi schizzofrenico. Si trattava, infatti, di elevare al rango di protagonista un popolo ignorante e la sua lingua "abbietta e buffona36", ma all'interno di un'opera letteraria alta e colta, dì una delle strutture metriche più antiche e preziose della lirica nazionale. E quindi in un interscambio continuo tra idiotismo e cultura, in presenza di un perenne procedimento di supplenza intellettuale, che potesse surrogare le "deficienze" plebee, senza d'altro canto inficiarne il protagonismo, e cioè senza che si intravedessero troppo scopertamente i fili occulti della macchina che si era cosi congegnata: vale a dire le filigrane segrete di quei prestiti e di quelle supplenze del poeta.
Forse anche così, con qualche caduta di tensione e con le enormi difficoltà dello straniamento, possono spiegarsi, almeno in parte, alcune delle oscillazioni e delle ambiguità viste in precedenza. Non pretendiamo davvero di decifrarle esaustivamente con l'ausilio di questi soli strumenti, tant'è vero che ne abbiamo fornito noi stessi anche altre motivazioni. Tuttavia questo supplemento di spiegazione ci sembra pur sempre di particolare efficacia, dal momento che non fa alcun ricorso a ragioni esterne ed indirette, ma anzi le ricava direttamente da dentro il nucleo vitale e progettuale del disegno letterario belliano.
Resta comunque il fatto che ogni cosa in questi sonetti è vista o rivisitata attraverso quest'unica ottica plebea.
Intanto, a voler seguire la traccia fornitaci da Belli, il popolo stesso, direttamente introdotto, come abbiamo visto, "a parlare di sé nella sua nuda, gretta ed anche sconcia favella, dipingendo cosi egli stesso i suoi propri usi, i suoi costumi, le sue storte opinioni".
Quindi "i suoi originali pensieri intorno ai più elevati ordini di questo social corpo di cui esso occupa il fondo": in altre parole, tutte le classi e i ceti sociali verranno qui descritti assumendo quel "fondo" quale unico punto dì vista, in una sorta di ottica sociologica rovesciata.
Toccherà ai pochissimi borghesi che frequenteranno questi sonetti, ma soprattutto ai più assidui personaggi desunti dall'aristocrazia romana. Anzi, in questo caso, tanto l'osservatorio partirà dal basso del "social corpo" che molto spesso i nobili non compariranno in scena direttamente, in prima persona, ma saranno soltanto evocati dalla fitta schiera dei loro servitori, camerieri, cavalcanti, cocchieri, tanto da ingenerare una vera e propria "prospettiva servile" (37).
A tale osservazione ab imis, poi, non sfuggiranno certo né il basso né l'alto clero, che anzi si accampano da veri e propri comprimari della Commedia romana, protagonisti ovviamente in negativo, che si attireranno una delle più violente satire amiecclesiastiche della nostra storia letteraria, come in parte abbiamo già visto (cfr. p. 41 e ss.). Si tratta del resto di un aspetto talmente diffuso e noto che ne basteranno qui poche esemplificazioni significative.
Si può dire preliminarmente che non c'è vizio o peccato che non trovi incarnazione in qualche figura di ecclesiastico, sino a configurare una vera e propria "razzaccia de preti bbuggiarona"(38), sullo sfondo di una città che, appunto grazie a loro, è divenuta "la stalla e la chiavica der monno(39)".
Si può andare dall'ironia ancora bonaria e divertita che caratterizza Er confessore (595), rappresentante con tutta probabilità il clero inferiore:
Padre... - Dite il confiteor. - L'ho ddetto. -
L'atto di contrizione? - Ggià l'ho ffatto. -
Avanti dunque. - Ho ddetto cazzo-matto
A mmi' marito, e jj'ho arzato un grossetto.
Poi? - Pe una pila che rame róppe er gatto
Je disse for de me: "Ssì' mmaledetto";
E è ceratura de Ddio! - C'è altro? - Tratto
Un giuvenotto e cce so ita a lletto. -
E llì ccosa è ssuccesso? - Un po' de tutto.-
Cioè? Sempre, m'immagino, pel dritto. -
Puro a rriverzo... - Oh che peccato brutto!
Dunque, in causa di questo giovanotto,
Tornate, figlia, con cuore trafitto,
Domani, a casa mia, verso le otto.
Per giungere ai quadretti altrettanto ironici, ma già più tesi e vibrati, che dipingono i costumi delle alte gerarchie ecclesiastiche. Cosi il crapulone protagonista di Er cardinale de pasto (1149):
Cristo, che ddivorà! Ccome ssciroppa
Quer Cardinale mio, Dio l'abbi in pasce!
E la bbumba? Cojjoni si jje piasce!
Come sscìùria, per dio! come galoppa!
Quello? è ccorpo da fa bbarba de stoppa
A un zei conventi: che ssaria capasce
De maggnajjese er forno, la fornasce,
Er zacco, er mulo, e 'r mulinare in groppa.
Lui se sfonna tre llibbre de merluzzo,
Quann'è vviggijja, a ccolazzione sola:
Capite si cche stommichi de struzzo?
Oh a lui davero er don de l'appitito
Lo sarva dar peccato de la gola,
Perché appena ha mmaggnato ha ggià smartito.
O l'ubriacone (40) e lussurioso, ricco sfondato e bestemmiatore, del sonetto L'udienza de Monziggnore (986):
Nun dico che nun vai da Monziggnore,
Che de raggione tu cce n'hai d'avanzo:
Dico che nun ce vai de doppo-pranzo,
Perch'è arta la pasqua, Salvatore.
Quell'è er tempo ch'er povero signore
Fa un po' de rótti sur zofà de ganzo:
E llui se pìjja quer tantin de scanzo
Pe ddà udienza a le pupe e ffà l'amore.
Oppuramente ruzza cor caggnolo
O s'aritìra in stanzia a ccontà er morto,
O bbiastima tra ssé dda sol'a ssolo.
Nun danna ddunque a or d'indiggistione:
Che la matina, è wero, pò ddà ttorto,
Ma er doppo-pranzo nun da mmai raggione.
Fermo restando che non si esita a sospettarne persino la sostanziale mancanza di fede, come nello splendido Li cardinali in cappella (2125), va poi da sé che sono tutti avidi amanti del denaro, che son disposti a procurarsi con ogni mezzo, tanto che la loro "ladreria" diviene una sorta di caratteristica omologante, che tutti li accomuna, anzi una vera e propria categoria esistenziale: "Tutti ladri sti santi sascerdoti" recita, infatti, l'icastico avvio della seconda quartina del sonetto Er riccone (723), mentre gli esempi in proposito si potrebbero poi moltiplicare all'infinito.
Preferiamo invece soffermarci ancora un attimo su quei momenti in cui, viceversa, Belli ed il suo popolano abbandonano la misura più lieve (si fa per dire!) dell'ironia, per dar luogo a forme più risentite e violente di severa indignatio. A casi molto più noti e più alti, anche per valori poetici, preferiamo due altri esempi, forse minori, ma fortemente paradigmatici del discorso che stiamo qui conducendo, proprio per i loro tratti più generalizzanti ed emblematici. Tali ci sembrano quelli del sonetto L'essempio (1257), i cui "pretacci" divengono il simbolo stesso di tutti i peggiori vizi umani:
Conzideranno come so accidiosi
Sti pretacci maliggni e ttraditori:
Esaminanno quanto sò rrabbiosi,
Jotti, avari, superbi, e fottitori;
Ripiji un po' de fiato, t'arincori,
T'addormì ppiù tranquillo e tt'ariposì:
Perché li loro vizzi più peggiori
Serveno a illuminà Ili scrupolosi.
E er Crero che cc'impara a ffà ll'istesso,
Er Crero, c'ha scordato er gran proscetto
D'ama er prossimo suo corn'e ssestesso.
Mentre li preti offènneno er decoro
E la lègge de Ddio j'è mmorta in petto,
Chi vvorà rrispettà Ila lègge lóro?
Analoghi i toni simbolici e forse ancora maggiore l'indignazione in La porpora (761), nonostante la delimitazione dell'invettiva ai cardinali del Sacro Collegio (le "settanta sscimmie de sovrani") e nonostante le incertezze e le incompiutezze sul piano poetico, anche per un di più di irrisolto patetismo che qua e là affiora tra le violente bordate satiriche:
Ch'edè er colore che sse vede addosso
A ste settanta sscimmie de sovrani?
Si, ll'addimanno a vvoì: ch'edè cquer rosso?
Sangue de Cristo? Nò: dde li cristiani.
E' er zangue de noi poveri Romani
Che jje curre a li piedi com'un fosso,
Cuanno sce danno in gola cor palosso
Come se fa a le pecore e a li cani.
Ner zangue de noi pecore sta a mmollo
Cuella porpora infame; e a nnoi sta sorte
Tocca, per dio, da presentale er collo.
Epperò le patente de sta Corte
So ttutte in carta-pecora e ccor bollo:
Che pprima bbolla, e ppoi condanna a mmorte.
Ma dentro gli orizzonti di questo osservatorio romano ed ecclesiastico non potrà non darsi un ruolo affatto privilegiato del Pontefice, anch'egli rivisitato alla luce dell'ottica plebea. Tuttavia questo aspetto abbiamo già evidenziato ampiamente nel paragrafo precedente, seppur da altro angolo visuale (cfr. p. 43 e ss.), e qui ci limitiamo, pertanto, a due soli esempi.
Il primo è costituito da La vita da cane (2087), un sonetto tardo, del 31 dicembre 1845, che è però un richiamo d'obbligo in materia papale. Infatti, non solo è ancora oggi tra i più noti della serie, ma fu anche tra i pochissimi sonetti che ebbe subito larga diffusione e fortuna, mentre Belli era ancora in vita (41):
Ah sse chiam'ozzio er zuo, bbrutte marmotte?
Nun fa mmai ggnente er Papa, eh?, nun fa ggnente?
Accusì vve pijjassi un accidente
Come lui se strapazza e ggìorn' e nnotte.
Chi pparla co Ddio padr' onnipotente?
Chi assorve tanti fijjì de miggnotte?
Chi mmanna in giro 1' innurgenze a bbotte?
Chi vva in carrozza a bbinidì la ggente?
Chi jje li conta li quadrini sui?
Chi 1' ajjuta a cerea lì cardinali?
Le gabbelle, pe ddio, nnu le fa llui?
Sortanto la fatica da facchino
strappa tutto l'anno memoriali
E bbuttalli a ppezzetti in ner cestino!
II secondo caso, dato da Er passa-mano (1696), ci consente invece di proseguire oltre nel discorso qui intrapreso sul protagonismo plebeo:
Er Papa, er Visceddio, Nostro Siggnore,
E' un Padre eterno come' er Padr' Eterno.
Ciovè nun more, o, ppe ddi mmejjo, more,
Ma mmore solamente in ne l'isterno.
Che cquanno er corpo suo lassa er governo,
L'anima, ferma in ne l'antico onore,
Nun va nné in paradiso né a l'inferno,
Passa subbito in corpo ar zuccessore.
Accusì ppò vvariasse un po' er cervello,
Lo stòmmico, l'orecchie, er naso, er pelo;
Ma er Papa, in quant' a Ppapa, è ssempre quello
E ppe cquesto oggni corpo distinato
A cquella indiggnìtà, ccasca dar celo
Senz'anima, e nun porta antro eh' er fiato.
Mentre è tuttora aperta la disputa sulle probabili fonti, e quindi sulle componenti ideologiche del sonetto (42), a noi interessa piuttosto, in questa sede, indicarlo come esempio tra i più suggestivi di quella alta finzione poetica in base alla quale si conduce, anche di un tema cosi colto e persino subtilis, una integrale rilettura in una presunta chiave "popolana". Se lo si osserva da tale specifico punto di vista, quel tanto di ambivalenza, che certamente il sonetto contiene, potrà allora apparire come conseguenza del tutto inevitabile in casi del genere, e forse, invece di disturbare o di indurre a chiarimenti dialettici ad ogni costo, costituirà un elemento addizionale in termini di fascinazione poetica.
Tuttavia il motivo fondamentale per cui ricordiamo qui Er passamano riguarda poi quella sorta di identificazione tra la figura divina e quella pontificale che il sonetto suggerisce chiaramente. Non si tratta, per di più, di un fatto insolito o isolato. Se è vero che molto spesso la figura del romano pontefice è colta nei suoi tratti di un Papa-Re assoluto e tirannico, non di ci si presenta come immagine di un Papa-Dio altrettanto assoluto, opposto speculare della caritas cristiana (43).
Sennonché l'analogia non funzionerà in Belli a senso unico. Cioè non andrà soltanto nella direzione che conduce da Dio al Papa, ma indurrà, almeno indirettamente, il teologo popolano a ricostruire un'immagine divina che possiede spesso gli stessi caratteri negativi del suo legittimo rappresentante in terra: il Dio-Papa biblico e dispotico, terribile e vendicativo, della creazione, della cacciata dall'Eden e dell'ultimo giudizio, che sarà consegnato ad una fitta serie di sonetti dell'Abbibbia romanesca, talora fra i più alti e significativi dell'intera raccolta. Quel Dio che, "pe una meluccia, c'averà crostato/ mezzobbaiocco(44)", conchiude in un'unica rapida sequenza la creazione e la successiva vendetta contro Adamo ed Eva. Dapprima quasi pigro ed annoiato, finché si esercita stancamente come "impastatore" del mondo, egli sembra destarsi ed animarsi solo nell'ira che lo coglie quando scopre in flagrante peccato i due progenitori. In altre parole, il Dio di La creazzione der Monno (165):
L'anno che Ggesucristo impastò er monno,
Che ppe impastallo ggià cc'era la pasta,
Verde lo vorze fa, ggrosso e rritonno
All'uso d'un cocommero de tasta.
Fesce un zole, una luna, e un mappamonno,
Ma de le stelle poi di' una catasta:
Sù uscelli, bbestie immezzo, e ppesci in fonno:
Piantò le piante, e ddoppo disse: "Abbasta."
Me scordavo de di cche ccreo l'omo,
E ccoll'omo la donna, Adamo e Eva;
E jje proibbì de nun toccajje un pomo.
Ma appena che a mmaggnà ll'ebbe viduti,
Strillò per dio con cuanta vosce aveva:
"Ommini da vieni, sséte futtuti."
Di fronte ad una divinità siffatta non sarà davvero sporadico il caso in cui sia il locutore plebeo sia il suo icastico cantore mostreranno di indulgere, divertiti e maliziosi, al gusto paradossale ed abnorme dì patteggiare apertamente per coloro che una tradizione autorevole e secolare ci ha consegnato come "malvagi", e che ora possono assumere, in quest'ottica stravolta, anche i tratti dei reprobi e dei reietti.
Sia che riguardi il primo malvagio della storia, come nel sonetto Caino (180):
Nun difenno Caino io, sor dottore,
Che lo so ppiù dde voi chi ffu Ccaino:
Dico pe ddì che cquarche vvorta er vino
Pò acceca l'omo e sbarattajje er core.
Capisch'io puro che agguanta un tortore
E accoppacce un fratello piccinino,
Pare una bbonagrazzia da bburrino,
Un carcio-farzo de cattiv'odore.
Ma cquer vede ch'Iddio sempre ar zu' mèle
E a le su' rape je sputava addosso,
E nnò ar latte e a le pecore d'Abbele,
A un omo com' e nnoi de carne e dd'osso
Aveva assai da inascidìjje er fele:
E allora, amico mio, tajja ch'è rrosso.
Sia che si tratti del maligno per eccellenza, come nel sonetto Le mmaledizzione (1585)(45). Tanto più che questo sottile dottore plebeo sembra rincarare ancor più la dose, fino a suggerire altrove una sorta di cosmogonico equilibrio tra il bene e il male, e quasi un implicito accordo tra i loro più alti rappresentanti. Cosi che potremo ritrovare il diavolo intento "a spartisse la ggente cor Messia" in una delle versioni dell'ultimo giudizio descritta in La fin der Monno (274), oppure rinvenire più di una traccia di "eresia cosmogonica di tinta manichea anzi che no" (Vigolo) nelle terzine del sonetto Li peccati mortali (304):
Cuanno Iddio creò ssette sagramenti,
Er demonio creò ssette peccati,
Pe ffà che ffussi contrasto de venti.
E cquanno che da Ddio fumo creati
Ar monno confessori e ppenitenti,
Er diavolo creò mmonich'e ffrati.
E a quest'ottica rovesciata non sfuggirà, naturalmente, neppure l'intera "corte" celeste, come è noto.
Ma vediamo ora di procedere piuttosto in altra direzione, che dalle classi o dalle categorie (umane o celesti che siano), oggetto della rappresentazione, passi a considerare alcuni dei soggetti della medesima, alcune precise tipologie di narratori e protagonisti.
Intanto a cominciare dal cronista degli avvenimenti contemporanei e della sostanza stessa del potere a Roma, che però abbiamo già visto.
Esiste poi anche un istintivo e saccente historicus popolare, il quale ama cimentarsi in una sua tutta singolare e spropositata anamnesi. Singolarità e spropositi che non mancano spesso di eccitare tutto il divertito gioco ironico dell'autore, ma bonario, sornione, appena ammiccante. Eppure, nella nuova prospettiva che stiamo qui affrontando, quegli spropositi assolvono anche alla funzione strutturale di assicurare il massimo di credibilità sociologica e di compatibilità culturale alle stravolte ricostruzioni di questo hìstorien plebeo. Le quali ricostruzioni non possono non partire dal presupposto ineliminabile dei suoi reali livelli di conoscenza. Sono essi stessi, pertanto, a richiedere come necessità intrinseca proprio la fitta serie di sviste di varia natura, i frequenti errori di cronologia, gli scambi di personaggi o di luoghi, la contaminazione di eventi diversi e, magari, distanti nel tempo. Ma soprattutto quei livelli di conoscenza comportano una particolare concezione della storia tutta attualizzata, tutta appiattita sull'unico piano del presente, che è tipica di chi a malapena conosce la realtà circostante e quindi solo nell'orizzonte della contemporaneità può muoversi. A lui il futuro non può davvero interessare, ma gli è in fondo ignoto lo stesso passato, almeno in tutta la sua interezza e complessità. E quei minuti frammenti, quegli sparsi lacerti che pur rientrano nella sua esperienza, preferisce tradurli nel proprio linguaggio quotidiano dell'"oggi": solo cosi potrà sperare di comprenderli, magari a suo modo.
Del resto si tratta di fenomeni talmente ricorrenti in questi sonetti "storici" che sarebbe superfluo e banale documentarli qui con ampiezza. Pochi esempi, i primi che ci tornano alla memoria, li evidenzieranno a pieno, del resto.
Si pensi a Muzzio Sscevola all'ara (199), che "in tonica da frate" e con tanto di manette viene condotto davanti a Porsenna "tra ssei cherubbiggneri", per poi alla fine compiere il suo gesto "cor un coraggio de sordato scivico". Oppure si rilegga la derivazione etimologica del nome dell'imperatore in La crudertà de Nerone (1595), mentre sullo sfondo Roma brucia da Piazza Sciarra fino al Sancta-Sanctorum del Laterano:
Nerone era un Nerone, anzi un Cajjostro;
E ppe l'appunto se chiamò Nnerone
Pell'anima ppiù nnera der carbone,
Der zangue de le seppie, e dde l'inchiostro.
Quer lupo, quer canìbbolo, quer mostro
Era solito a ddì nnell'orazzione:
"Dio, fa' cche tutt' er monno abbi un testone,
Pe ppoi ghijjottinallo a ggenio nostro."
Levò a fforza er butirro a li Romani,
Scannò la madre e ddu' mojje reggine,
E ammazzò ttutti quanti li cristiani.
Poi bbrusciò Rroma da Piazza de Sscìarra
Sino a Ssanta-Santòro, e svenò arfìne
Er maestro co ttutta la zzìmarra.
Questa particolarissima prospettiva storiografica, propria di "gente meccaniche, e di piccol affare" per eccellenza, comporta anche una buona dose di disposizione demitizzante rispetto all'Htsforia, "alle Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggi", di manzoniana memoria. Ma quando si consideri che la perenne ritraduzione in popolano della storia illustre si accompagna assai spesso ad un'attitudine altrettanto costante al suo rovesciamento sul piano comico, allora ci si può trovare di fronte persino ad una vera e propria anti-storia plebea, completamente riscritta e deformata rispetto a quella della tradizione colta.
E tanto più quando a farne le spese è la Storia per eccellenza per il cristiano e cattolico romano: quella sacra del Libro dei Libri. Che invece in questi sonetti diviene quella Bibbia "rovesciata", ironica e corrosiva, che è l'Abbibbia romanesca.
Certo, alla sua costituzione possono aver contribuito anche i demistificanti acidi volterriani, gli umori illuministici dell'autore, come vuole Muscetta, ma del resto anch'essi assai alterni e validi quasi "a semestri". Tuttavia non ci sembra questa la componente essenziale e determinante, non foss'altro perché essa si è oramai completamente fusa, anzi sapientemente celata dietro gli equivoci e i fraintendimenti del latinesco, i ribaltamenti comici ed irridenti, le anfibologie oscene, talvolta anche il pensoso e cupo pessimismo del singolare theologus popolano. In casi come questi è solo avvenuta una semplice riconversione. Il "dottore plebeo" evocato da una nota di Belli al sonetto 171 ("I ciabattini, i calzuolai e i barbieri sono i dottori della plebe"), e a cui in genere è attribuito il compito di narrare storia in prima persona o di confermare la narrazione altrui, si è fatto qui una sorta di doctor subtilis, che si cimenta con impegno tenace, e pur sempre spropositato, nella rievocazione della storia sacra e in bizzarre dispute teologiche.
Anche in tal caso saranno sufficienti, tra i tanti possibili, solo pochi frammenti (46) tesi ad esemplificare gli aspetti da noi toccati.
In questa Bibbia romanesca si possono cosi ritrovare semplici ritraduzioni di eventi e personaggi venerandi secondo una prospettiva più dimessa e quotidiana, ma non priva di divertiti ingredienti di comicità, come ad esempio in questa sorta di gustosa e minore "cronaca familiare" restituitaci da Er fugone de la Sagra Famijja (332):
Ner ventisette de discemmre a lletto,
San Giuseppe er padriarca chiotto chiotto
Se ne stava a rronfà ccom'un porchetto
Provanno scerti nummeri dell'otto;
Cuanno j apparze in zoggno un angeletto
Cor un lunario che ttieneva sotto;
E jje disse accusi: "Gguarda, vecchietto,
Che ffesta vie qui ddrento a li ventotto."
Se svejjò san Giuseppe com'un matto,
Prese un zomaro ggiovene in affitto,
E ppe la presscia manco fesce er patto.
E cquanno er giorn'appresso ussci l'editto,
Lui co la mojj' e 'r fio ggià cquatto quatto
Viaggiava pe le poste pe l'Eggitto.
Ma si danno pure casi di più evidente e dissacrante profanazione, come quello fornito da La bbella Ggiuditta (213), con le sue oscene metafore e con il suo finale tremendo ed irriverente:
Disce l'Abbibbia Sagra che Ggiuditta
Doppo d'ave ccenato con Llionferne,
Smorzate tutte quante le luscerne
Ciannò a mmette er zordato a la galitta:
Che appena j'ebbe chiuse le lenterne
Tra er beve e lo schiuma dde la marmitta,
Cor un còrpo da ffa de mastro Titta
Lo mannò a ffotte in ne le fiche eterne:
E cche, agguattata la capoccia, aggnede
Pe ffà la mostra ar popolo ggiudìo
Sino a Bbettujja co la serva a ppiede.
Ecchete come, Pavoluccio mio,
Se pò scanna la ggente pe la fede,
E ffà la vacca pe ddà ggrolìa a Ddio.
Mentre l'esperto di subtilitates teologiche può tentare di affrontare persino la delicata questione del mancato battesimo della Madonna, che pertanto "mmorze ggiudia", in termini di superflua ridondanza della,"lisciva" battesimale, nel suo caso, visto che era nata pulita come "un panno di bucato". Così, infatti, recita Er peccato origginale (972):
L'unica fu la Vergine Mmaria
Che sse sarvò ssenz'èsse bbattezzata,
Perché, a cquanto se sa, mmorze ggiudia.
E la cosa è bbenissimo aggiustata.
Nun aveva bbisogno de lesscìa
Chi nnascé ccome un panno de bbucata.
O può persino impegnarsi in questa singolare difesa del demonio, Appassionata, eterodossa, eppur a suo modo profonda, nel sonetto Le mmaleddizione (1585):
Chi bbiastimassi san Pietro e ssan Pavolo
Sarìa ppìù ppeggio; ma nnemmanco poi
Sta bbene l'antr'usanza, caro voi,
De dì 'ggnisempre mmaledetto er diavolo.
Pe mmé ccome l'intènno ve la sfravolo.
Er demonio, su o ggiù, vói o nnun vói,
E ccratura de Ddio quanto che nnoi
Che lo tenémo pe un torzo de cavolo.
Bbelle raggione de jjachemantonio!
Tutti li torti abbi d'avelli ar mormo
Quer povero cristiano der demonio!
Perché sto mmaledìllo in zempiterno?
Eh lassamelo in pasce in ner profondo
De le su' sante pene de l'inferno!
Ma i rischi non finiscono qui. Talvolta pare che Belli voglia proprio correrli fino in fondo, sino all'estremo limite possibile, e forse anche oltre. E cosi quel "dottore" ciabattino o barbiere, che abbiamo visto prodursi in una più lieve e più credibile vena gnomica e sentenziosa, quindi, sia pure a suo modo, farsi cronista e storico, o imboccare la via già molto più pericolosa del biblista e del teologo, arriva in alcuni casi ad assurgere addirittura al rango di un vero e proprio filosofo plebeo.
Anche questa sua enquète esistenziale egli svolgerà, naturalmente, entro precisi limiti e all'interno di parametri affatto particolari, entrambi resi il più possibile compatibili con i suoi orizzonti linguistici e con le sue esperienze effettuali. Infatti su sonetti del genere graverà un cupo quanto radicato pessimismo, affatto conseguente allo squallore di un'esistenza quotidiana misera e stentata. Allora non del tutto a caso, e tanto più nell'osservatorio romano e cattolico in cui egli si muove, ogni riflessione sulla "vita dell'orno" verrà ad avere confini assai prossimi e svelerà legami inscindibili con le tematiche della "morte" e dell'"inferno", che difatti il sentenzioso popolano privilegierà in assoluto, tenendole in più strettamente annodate fra loro. Entro un simile orizzonte esistenziale, è abbastanza ovvio che risultino contigue la morte reale con quella sorta di morte apparente, o poco più, che è la vita di tutti Ì giorni, solo di rado riscattata, nel confronto, da un estremo slancio e da un ultimo impeto vitalistico (47). Cosi come molto esiguo apparirà il limite tra il quotidiano inferno romano e quello oltretombale, del resto così concretamente e materialmente avvertito e descritto. Altrettanto scontata apparirà del resto, in questa escatologia tutta in negativo, anche l'altra contiguità intrecciata morte/inferno: i due termini hanno infatti persino lo stesso inizio e la stessa origine, anche per un punto di vista popolare (48), e non si danno certo grandi e reali possibilità di salvezza, neppure e tanto meno futura, in questa visione fosca e irredimibile del cristianesimo in plebeo.
La critica belliana ha individuato da tempo gli esempi più alti di questa "filosofia", e poi vi è tornata a più riprese e con strumenti interpretativi anche differenziati. Si tratta comunque di sonetti tra i più noti di questa Commedia romana. Due di essi sono inoltre pressoché coevi. La vita dell'omo (774) reca la data del 18 gennaio 1833 e si chiude, appunto, con una esplicita continuità tra morte ed inferno, come suggello finale di un'esistenza già costellata di mali e di infelicità:
Nove mesi a la puzza: poi in fassciola
Tra sbasciucchi, lattime e llagrimoni:
Poi p' er laccio, in ner crino, e in vesticcìola,
Cor torcolo e l'imbraghe pe ccarzoni.
Poi comincia er tormento de la scola
L'abbeccè, le frustate, lì ggeloni,
La rosalìa, la cacca a la ssediola,
E un po' de scarlattina e wormijjoni.
E' il caso, ad esempio, del sonetto Sto monno e quell'antro (494),datato 27 novembre 1832:
Me fai ride: e cche ssò ttutti sti guai
Appett'ar tibbi de cuer foco eterno?
Nu lo sai che le pene de l'inferno
So ccom'Iddio che nun finissce mai?
E ar monno, pe ddu' ggiorni che cce stai,
Te laggni de l'istate, de l'inverno,
De Ddio, de la furtuna, der governo,
dell'antri malanni che nun hai?!
Cqua, s'hai sete, te bbevi una fujjetta,
Ma a ccasa-calla nun ce so cconforti
Manco de l'acquaticci de Ripetta.
Cqua, mmaggni, dormi, cachi, pìssci, raschi,
Te scotoli, te stenni, t'arivorti...
Ma llà, {fratello, come caschi caschi.
E' appunto quanto si evince dalle quartine del sonetto del 1831, Er peccato d'Adamo (276):
E ttanto chiaro, e ste testacee storte
Nu la sanno capi, che dda cuer pomo
Che in barba nostra se strozzò er prim'omo
Pe ddegreto de Ddio nacque la morte;
E cche llui de l'inferno upri le porte,
E o granne, o ciucco, o bbirbo, o ggalantomo,
Ce fesce riggìstrà ttutti in un tomo,
Ce fesce distinà ttutt'una sorte!
Poi vie ll'arte, er diggiuno, la fatica,
La piggione, le carcere, er governo,
Lo spedale, li debbiti, la fica,
Er zol d'istate, la neve d'inverno...
E pper urtimo, Iddio sce bbenedica,
Vie la morte, e ffinissce co l'inferno.
.Al 22 dello stesso mese risale Er caffettiere fisolofo (805):
L'ommìni de sto monno sò ll'istesso
Che vvaghi de caffè nner mascinino:
C'uno prima, uno doppo, e un antro appresso,
Tutti cuanti però vvanno a un distino.
Spesso muteno sito, e ccaccia spesso
Er vago grosso er vago piccinino,
E ss'incarzeno tutti in zu l'ingresso
Der ferro che li sfraggne in polverino.
E ll'ommini accusi vviveno ar monno
Misticati pe mmano de la sorte
Che sse li ggira tutti in tonno in tonno
E mmovennose oggnuno, o ppiano, o ffòrte,
Senza capillo mai caleno a ffonno
Pe ccascà nne la gola de la morte.
Ma temi assai analoghi, soprattutto a quelli del primo sonetto, torneranno anche molti anni più tardi, in uno dei frutti ultimi ed altrettanto illustri della raccolta, quale è La morte co la coda (2136), datato 29 aprile 1846:
Cqua nun ze n'essce: o ssemo ggiacubbini,
O ccredemo a la lègge der Ziggnore.
Si cce credemo, o mminenti o ppaini,
La morte è un passo cche we ggela er core.
Se curre a le commedie, a li festini,
Se va ppe l'ostarle, se fa l'amore,
Se trafica, s'impozzeno quadrini,
Se fa dd'oggn'erba un fasscio... eppoi se more!
E ddoppo? doppo viengheno li guai.
Doppo sc'è ll'antra vita, un antro monno,
Che ddura sempre e nnun fìnissce mai!
E un penziere quer mai> che tte squinterna!
Eppuro, o bbene o mmale, o a ggalla o a ffonno,
Sta cana eternità ddev'èsse eterna!
Certo, è innegabile che proprio di fronte a sonetti come questo rinascono, appena sopite, le solite ed amletiche domande sul protagonista reale dell'inchiesta esistenziale, o, almeno, sul quantum attribuibile, rispettivamente, al poeta ed al suo alter ego, il "filosofo in plebeo". L'avvio non ci coglie di sorpresa: è anzi una situazione ormai canonica quella di scontrarsi ex abrupto con la voce del consueto minente reazionario e forcaiolo, protagonista di tanti sonetti. La sorpresa e l'incertezza vengono semmai subito dopo, nel crescendo successivo - illustre e coltissimo nei suoi precedenti letterari - di quel timor mortis e della cosmica disperazione che suggeriscono sia la "coda" sia il "mai" e, come se non bastasse, la triplice, tremenda sottolineatura della nota d'autore a quel "tte squinterna" che s'accompagna al terribile avverbio: "Ti scuote, sgomenta, schianta".
Si potrà certamente invocare per questo prodotto più tardo la sua appartenenza all'ultimo periodo della sonetteria belliana, caratterizzato da "grani" assai più avari e diradati nel tempo, ed inoltre affatto particolari e sospetti per più di un motivo, fra l'altro proprio perché più soggettivamente improntati. Infatti, pur con qualche prudenza residua, siamo disposti anche noi, come altri, a riconoscere che non è davvero quest'ultima fase a fornire le maggiori garanzie in termini di capacità di oggettivazione e di protagonismo plebeo (che soltanto di ciò si sta qui trattando, e non già dì risultati estetici, che viceversa possono perdurare anche consistenti ed alti). La sottolineatura, per quest'epoca, di un di più di emergenze soggettive ha costituito, anzi, una costante della critica belliana, cui generalmente si è affiancata l'altra ipotesi di un contemporaneo alleggerimento del dialetto, che si fa più vicino alla lingua (49).
Ma tutto ciò non riesce poi a spiegarci quasi nulla dei due sonetti precedenti La morte co la coda, o di altri consìmili qui non menzionati (50), eppure appartenenti al periodo centrale e più maturo del Belli romanesco, che non a caso la critica ha sempre congiunto in un'unica serie dotata di saldi e vari legami di continuità.
Certo, almeno parte di tale stabilita continuità è poi dovuta alla netta prevalenza di un orientamento tendente ad attribuire unicamente al poeta quel grappolo di riflessioni esistenziali (51). Mentre invece, richiamandoci alle brevi annotazioni con cui abbiamo introdotto l'intera serie, ciò finisce per ignorare completamente, e comunque per trascurare troppo il disegno complessivo che si sottende all'intera raccolta. In altri termini, non si prendono cosi in sufficiente considerazione, neppure in modo allusivo, quegli sforzi pur presenti di celamento dietro la "maschera del popolano", quei registri dì compatibilità pur tentati ed esperiti, anche se in un equilibrio quanto mai precario in casi del genere.
Queste avvertenze e questi correttivi ci sembra indispensabile continuare a porli, cosi come non andrà assolutamente sottovalutata la perdurante volontà, ìl costante impegno belliano dì quella ritrascrizione "popolare" dei molteplici spunti colti, scritturali e letterari (in particolare secenteschi), che sono chiaramente dietro questa tipologia dì sonetti (52).
Tutto ciò non deve però significare che ci si possano attribuire intenzioni di utilizzare in termini puramente meccanici e scopertamente ingenui le chiavi di lettura qui proposte e conducenti al fine ultimo del protagonismo plebeo. Anche per questo parlavamo poco sopra di rischi spinti oltre il limite, in questo caso specifico, cui aggiungeremmo, ma solo in parte, anche l'altro caso del plebeo teologizzante e biblista. Volevamo cioè intendere che ci troviamo di fronte a momenti di tensione estrema di quel già complesso congegno di scontro/incontro tra autore e protagonista: sottoposto a sollecitazioni cosi forti e squassanti, quell'equilibrio può anche usurarsi e perfino rompersi, in favore di sostrati più soggettivi e di Decorrenze colte più esplicite ed evidenti del solito.
Tanto poco abbiamo concesso a meccanicismo ed ingenuità da non aver mai proposto l'immagine sfocata di un puro e naturalistico trascrittore di scene di vita popolare. Al contrario, anche in altra sede, abbiamo sempre insistito nel chiarire con tenace puntigliosità tutte le diversità profonde intercorrenti tra Belli e la sua plebe: e tra di esse abbiamo in particolare sottolineato quella, invero fondamentale e decisiva, che tutta di Belli, e quindi tutta alta e colta, è questa poesia romanesca. Ciò nulla toglie, però, alla complessità dell'operazione da lui tentata, che non a caso abbiamo altrove definito come mimesi protagonistica (53): di essa, in fondo, e di alcuni suoi concreti e complicatissimi modi di funzionamento abbiamo qui inteso fornire nuove riprove.
Né ci pare, francamente, ci si possa attribuire neppure l'altra ingenuità dì voler far tornare ad ogni costo i conti di una rigida ipotesi preconcetta, dal momento che non solo quell'ipotesi abbiamo costruito a diretto contatto con i testi, ma soprattutto visto che non abbiamo fatto altro, sinora, che mettere in guardia dalle insidie delle varie scorciatoie ideologiche e dialettiche, appunto, e, viceversa, molto abbiamo insistito sugli ostacoli posti dalle cruces, dalle ambiguità belliane, dalla ricca pluralità delle voci in campo, tanto da dover postulare la necessità di molteplici chiavi ermeneutiche per tentare di decodificarle e rivelarle.
E pertanto sulla base di tutto il materiale documentario fin qui prodotto, delle linee interpretative formulate, che torniamo a riproporre la questione del protagonismo plebeo nei sonetti dì Belli. Le difficoltà stesse dell'assunto propostosi, e quelle ulteriori indotte dai meccanismi alquanto complessi messi in essere per conseguirlo, possono anche comportare momenti di parziale oscillazione in un senso o nell'altro, e addirittura fasi di caduta di tensione, o per incertezze tecniche nella realizzazione o per eccesso di gusto del rischio estremo. E possono quindi anche indurre nuove ambiguità e dubbi cospicui nel lettore e nell'interprete, senza che per questo, in alcuni casi almeno, ne siano intaccati i risultati poetici.
Ma la consapevolezza di tutto ciò non ci sembra inficiare per nulla, poi, quella nostra proposta del protagonismo plebeo, nella sua duplice veste di eccezionale risultato letterario conseguito da questi sonetti e di chiave di lettura critica dei medesimi.
NOTE
1 - Cfr., in particolare, di C. MUSCETTA, Cultura e poesia di G. G. Belli, Milano, Feltrinelli, 1961 (Roma, Bonacci, 1981), e di G. VICOLO, Il genio del Belli, Milano, Il Saggiatore, 1963, voll. 2; a quest'ultimo si deve anche la prima edizione integrale fatta sugli autografi ed il notevole commento dei Sonetti, Milano, Mondadori, 1952, voll. 3, per quanto assai discutibili risultino alcuni criteri ecdotici adottati, soprattutto in merito all'uniformazione della grafia diacritica belliana (cfr. in proposito: P. GIBELLINI, Le varianti autografe dei sonetti romaneschi di G. G. Belli, in "Studi di filologia italiana", XXXI (1973), PP- 247-359; R. MEROLLA, Il laboratorio di Belli, Roma, Bolzoni, 1984, in particolare le pp. 19-23; utile anche B. CAGLI, Per un'edizione critica dei Sonetti, in Letture belliane, 7, Roma, Bulzoni, 1986, pp. 83-115).
2 - Entrambe le definizioni proponemmo e motivammo già in Il laboratorio di Belli, cit., in particolare alle pp. 178-93, ma i nodi storico-critici e le finalità di fondo cui esse alludono costituiscono poi l'ipotesi portante dì tutti i nostri studi belliani.
3 - Soltanto questa ragione motiva il fitto ricorso ad una prassi di autocitazione che caratterizza le prime pagine di questo nostro lavoro, ma non, di norma, le nostre consuetudini. In ogni caso, sul programma di poetica e sulla strumentazione tecnica messa in campo da Belli si veda L'"Introduzione" e i sonetti del 1831. L'ottica del "monumento" (1981) ora, con ampliamenti e con il titolo L'ottica del "monumento", nel citato II laboratorio di Belli, pp. 195-272; sulla necessità dell'adozione di chiavi poliedriche di lettura cfr. l'Introduzione, ivi, pp. 6-8; sulla "doppiezza" belliana e sul procedimento di supplenza cfr. L'uno e il molteplice (1981), ora ivi, pp. 273-97.
4 G.G. BELLI, Introduzione a I sonetti, ediz. cit., a cura di G. Vigolo, vol. I, pp. CLXXXII-III (corsivi nostri). Guarnente anche le altre citazioni viciniori sono tutte tratte dalla medesima introduzione, i cui concetti essenziali Belli espose già in una lettera inviata all'amico Francesco Spada da Terni, in data 5 ottobre 1831, e poi rielaborò in modi più analitici in una redazione che reca in calce la data del 1° dicembre 1831; alcune importanti aggiunte furono effettuate in epoca successiva, fino ad arrivare ad una stesura ultima, forse neppure compiuta e comunque priva di data e firma, ma collocabile tra il 1843 ed il 1847 fcfr. Belli romanesco, a cura di R. Vighi, Roma, Colombo, 1966, pp. 6-10).
5 - "Eppure non si cede la propria voce a un personaggio per vent'anni, per oltre duemila sonetti, senza una profonda complicità" (P. GIBELLINI, G. G. Belli, Romano (1984), ora in ID., I panni in Tevere, Roma, Bulzoni, 1989, p. 56).
6 - G.G. BELLI, Introduzione, cit., rispettivamente p. CLXXXIV e p. CLXXXV.
7 - Cfr., in particolare, Il laboratorio di Belli, cit., pp. 289-97, e L'Inferno in Città, in Lo Stato della Chiesa, in Letteratura italiana. Storia e geografia, diretta da A. Asor Rosa, vol. II, tomo 2, Torino, Einaudi, 1988, pp.1104-9
8 - II solo, forse, che in parte ebbe ad individuare alcuni dei rischi indotti da questa vena patetica fu il De Michelis (cfr. E. DE MICHELIS, Un limite, il pathos (1959), in ID., Approcci al Belli, Roma, Istituto di Studi Romani, 1969, pp. 33-48)
9 - Secondo la consuetudine oramai invalsa, la cifra fra parentesi che seguirà ad ogni titolo si riferisce al numero progressivo dei singoli sonetti nella citata edizione a cura di G. Vigolo, dalla quale, d'ora in avanti, riprodurremo anche i testi, senza più fornirne il rinvio in nota.
10 - Di tutto ciò che abbiamo del resto già fornito amplia esemplificazione nel nostro Il laboratorio di Belli, cit., pp 238-44.
11 - In pieno parallelismo con questa educazione maschile si pongono, del resto, i sonetti sui precetti ammariniti dalle varie madri alle loro figliole, al fine di istruirle circa i modi di trarre il massimo profìtto dai propri corteggiatori ed amanti. Si vedano, ad esempio, Li conzijji de mamma (55), risalente alla stessa data del sonetto 57, ed il più tardo La mamma prudente (1486).
12 - Per un'analoga difesa ed esaltazione della vita carceraria cfr. anche La galena (549) e Le carcere (658).
13 - La prima segnalazione in questo senso del sonetto Er fatto de la fijja si deve a P. ZIBELLINI, nel saggio In margine alle varianti bellìane (1973), poi riedito, con il titolo Stile e ideologia nell'elaborazione dei Sonetti, in ID., Il coltello e la corona. La poesia del Belli tra filologia e critica, Roma, Bulzoni, 1979, pp. 63-90.
14 - Anche per queste ultime problematiche ci sia consentito un ulteriore rinvio alle indagini già compiute nel nostro II laboratorio di Belli, cit., e, in particolare, al supporto dimostrativo che nelle varianti autografe rinveniamo della prevalenza delle ragioni interne su quelle esterne (cfr. il capitolo II, L'officina, pp. 59-193).
15 - "Io non vo' già presentar nelle mie carte la poesia popolare, ma i popolari discorsi svolti nella mia poesia" (G.G. BELLI, Introduzione, rit., p. CLXXXII).
16 - Anche grazie all'edizione delle Poesie italiane, a cura di R. Vighi, Roma, Colombo, 1975, voll. 3.
17 - Approfittiamo dell'occasione per ribadire il nostro convincimento che assumere quelle date come approssimativamente coincidenti con la fase compositiva, o, comunque, non di molto distanziate da essa, costituisce un'ipotesi tutt'altro che inattendibile. A parte i ritmi di lavoro molto intensi che anche ad altro proposito sembrano essere stati sempre propri di Belli, abbiamo già dimostrato altrove, ad esempio, quanto esigui siano gli intervalli temporali che intercorrono tra i pochissimi appunti databili e la cronologia dei sonetti relativi (cfr. Il laboratorio di Belli, cit., p. 198, nota 1, e p. 71, nota 13). Qualche ulteriore e diversa riprova abbiamo poi rinvenuto, del tutto casualmente, nel corso del presente lavoro: e ciò significa che, a cercare intenzionalmente, molte altre se ne potrebbero trovare. Resta il fatto che in Er temporale de jjerì (1459), del 24 gennaio 1835, una nota dello stesso Belli ci informa che il sonetto è relativo al temporale effettivamente scoppiato solo il giorno precedente, mentre Le ragazzate de li Romaggnoli (2083), datato 30 settembre 1845, si riferisce evidentemente ai nuovi moti di Romagna, iniziati solo pochi giorni prima (23 settembre). Il che indurrebbe a confermare ancora una volta la rapidità dei ritmi compositivi belliani e la sostanziale attendibilità di quelle date in calce.
18 - Infatti, nei poco più di quattro anni che intercorrono tra il 7 settembre 1831 ed il 31 dicembre 1835, Belli compose circa i tre quarti dei suoi sonetti: per l'esattezza 1681 su 2279, pari a quasi il 74%. Per un più puntuale diagramma cronologico dei sonetti, quasi un indice statistico di produttività distinto per singoli anni, cfr. comunque il nostro Il laboratorio di Belli, cit., nota 2 alle pp. 198-9. E ovvio che qualche errore di calcolo è sempre possibile in imprese del genere, ma non sussiste assolutamente quello che ebbe a segnalare E. RAGNI, in "Le maschere eccresiastìche", in Letture belliane, 4, Roma, Bulzoni, 1983, p- 12, nota 6, sostenendo che 1684 e non 1683 sono i sonetti degli anni 1831-35: "L'errore è nel computo per l'anno 1832, che comprende i sonetti 307-696 (quindi 390), cui si deve aggiungere il 520 e togliere i nn. -449 e 613, appartenenti ad altri anni; totale: 389 sonetti, non 388". Dove invece è evidente che dai 390 sonetti di partenza vanno sottratti i due di altre annate, ma senza che ai 388 cosi risultanti sia aggiunto nuovamente il n. 520, che è senza data, per la semplice ragione che esso è già compreso nella serie progressiva che va dal 307 al 696. Segnaliamo invece, a nostra volta, un errore di calcolo di Ragni, visto che, se 1683 sono i sonetti del 1831-35, quando viceversa ci si riferisca al periodo 7 sett. '31 - 31 die. '35, come abbiamo fatto noi all'inizio di questa nota, e come fa Ragni nella stessa pagina citata, ma questa volta nel testo, i sonetti non risultano 1684, ma 1681: le tre unità eccedenti derivano in Ragni, una dal suo errore sopra menzionato, e le altre due dal non aver egli considerato che in questo caso non vanno computati i primi due sonetti del '31, il n. 93 ed il n. 94, rispettivamente del 2 febbraio e dell'I marzo.
19 - Va chiarito sin d'ora, però, che tali spropositi, mentre possono determinare difficoltà di non poco conto nell'analisi dei contenuti ideologici, d'altronde svolgono anche una funzione vitale ai fini dei reale protagonismo plebeo assicurato in questi sonetti. In altre parole, quando vengano ridotti ad un più neutro ruolo di strumenti tecnico-narrativi, essi fungono da mezzo di efficacissima mediazione tra il poeta ed il personaggio-narrante, consentendo di rivisitare il racconto nei termini e nei limiti degli orizzonti culturali e linguistici di quest'ultimo, ma, appunto per ciò, garantendo che il tutto venga filtrato attraverso la sua ottica effettuale ed insieme protagonistica.
20 - Teniamo a precisare che anche il campione che subito dopo utilizzeremo a dimostrazione delle diverse ed opposte tendenze ideologiche rappresentate da Belli, forniamo, ad ogni buon conto, con un minimo di beneficio d'inventario, tanto la situazione in proposito continua ad apparirci complessa ed incerta. In altri termini, per pura questione di principio non escludiamo totalmente che una nuova rilettura, un'eventuale più attenta considerazione di una nota, di una battuta ironica, di una variante magari, non possano mutare i piani ermeneutici qui proposti. E ciò sia detto non di certo quale excusatio non pelila per eventuali sviste, ma come indicazione metodologica generale di cui restiamo fermamente convinti.
21 - Su quest'ultimo sonetto cfr. anche la lettura di P. FASANO (I tarli dell'alberane (1984), ora in ID., I tarli dell'alberane. Saggi belliani, Roma, Bulzoni, 1991, pp. 21-66), il quale individuerebbe poi, all'interno di questa annata, un'intera serie di sonetti ispirati ad una prospettiva decisamente borghese e laica, che sarebbe espressa direttamente in prima persona dal poeta, proprio a partire dall'anomalo giacobinismo dell'Arberone.
22 - Cfr. Le tribbolazzione (142), v. 14.
23 - Questo il titolo del sonetto 599, del 12 dicembre 1832, che in tali termini Belli spiegherà in nota: "Cosi dicesi dal popolo a indicare durata e accrescimento di male"; mentre si ricordi anche l'altrettanto significativo incipit del sonetto: "Ar monno novo è ccome ar monno vecchio".
24 - Cosi la parte finale della nota belliana ai vv. 7-8 del sonetto Primo, nun pijjà er nome de Ddio invano (232): "Chi a sto monno ha ggiudizzio, Pippo mio, / Pjja li cacchi e lassa sta le scime"
25 - Ma sempre al 1832 risalgono altri sonetti analogamente antigiacobini e sanfedisti, come, ad esempio, Uno mejjo dell'antro (379), e trionfo de la riliggione (380) e lo stesso L'editto de l'ostane (542), almeno per la terzina finale.
26 - Anche a tal fine abbiamo sempre dato notizia delle date poste da Belli in calce ad ogni sonetto.
27 - Secondo una suggestiva definizione avanzata a suo tempo da Carpi (cfr. IL CARPI, L'intellettuale e la plebe nei sonetti romaneschi di G. G. Belli, in ID., Il poeta e la politica. Leopardi, Belli, Montale, Napoli, Liguri, 1978, p. 39), Per quanto va anche considerato in proposito che alcune puntuali indagini statistiche e sociologiche dimostrerebbero a sorpresa l'esistenza, anche nella Roma contemporanea, se non di nuclei consistenti di borghesia produttiva, certo dì un ceto medio delle professioni intellettuali; esistenza, per di più, attestata a livelli statisticamente assai significativi e persino rilevanti (cfr. R. MEROLLA, Noie sulla cultura della Restaurazione romana, in AA.VV., G. G. Belli romano, italiano ed europeo, Atti del li Convegno internazionale di studi belliani (Roma, 12-15 novembre 1984), a cura dello stesso, Roma, Bonacci, 1985, pp. 69-130, passim e, in particolare, le pp. 87-99 con relative tabelle).
28 - G.G. BELLI, Lettere Giornali Zibaldone, a cura di G. Orioli, con introduzione di C. Muscetta, Torino, Einaudi, 1962, rispettivamente alle pp. 513 e 516-7.
29 - G.G. BELLI, Introduzione a I sonetti, ediz. cit., p. CLXXXI; sempre daal'Introduzione sono tratte anche le citazioni immediatamente precedenti.
30 - Cfr. ivi, pp. CLXXXII e CLXXXIV.
31 - Come del resto puntualmente dimostra anche la ricostruzione del processo elaborativo e correttorio belliano, quale si desume dall'insieme degli appunti e delle varianti (c£r. in proposito la nostra indagine in II laboratorio di Belli, cit., pp. 59-193).
32 - G. BELLI, Introduzione a I sonetti, cit., pp. CLXXIV-V (corsivo nostro).
33 - G.G. BELLI, Lettere Giornali Zibaldone, cit., p. 378 (corsivi nostri).
34 - Approfittiamo dell'occasione per ripetere che condividiamo, in linea di massima, i frequenti inviti alla cautela nei confronti delle dichiarazioni programmatiche degli autori, i quali, da sempre presenti anche nella critica belliana, si sono poi particolarmente infittiti da quando noi stessi, già a partire dai primi anni Settanta, molto abbiamo insistito sui caratteri di lucido programma di poetica ed insieme di utile guida ermeneutica, che a nostro avviso posseggono sia {'Introduzione ai sonetti sia gli altri testi consimili. Tanto li condividiamo quegli inviti, che non ci pare proprio di avere mai fatto un uso ingenuo e meccanico di tali testi. Meno d'accordo ci trova, viceversa, l'argomentazione supplementare che soprattutto l'Introduzione verrebbe ad essere un testo fortemente datato e in più tutto (o quasi) preventivo ai sonetti medesimi. Infatti, come abbiamo già ricordato nella nota 4, essa risale si al periodo ottobre-dicembre 1831 nelle sue prime stesure, ma conosce anche in seguito frequenti ritorni, aggiunte importanti, conferme altrettanto significative, ulteriori redazioni, che praticamente accompagnano l'intera stagione romanesca; ed infine viene confermata, proprio in alcuni punti nodali, anche dalla Postfazione sopra ricordata, stesa solo due anni prima della morte e ad esperienza dialettale tutta conclusa e, per cosi dire, definitivamente seppellita da lungo tempo. Ugualmente inspiegabile ci sembra un altro atteggiamento critico, tanto duplex quanto incongruente. Da un lato è a tutti evidente che il richiamo &\\'Introduzione è divenuto ormai d'obbligo nella bibliografia belliana: si può anzi dire che non vi sia più intervento che non la citi almeno una volta e che su di essa non fondi almeno un'ipotesi di lettura. Dall'altro, assai spesso si torna ad insistere sulle predette prudenze, e talora proprio a proposito di alcuni punti centrali più frequentemente toccati da Belli, e comunque quelli di cui mostra di possedere, appunto, la più chiara ed esplicita consapevolezza. In conclusione, d'accordo sulle cautele, ma non sulla questione della "databilità" e sull'uso soggettivamente selettivo di questo testo, che invece paiono esser diventate delle vere costanti critiche. Infatti le ha riprese di recente anche Fasano, di cui non condividiamo proprio le conclusioni generali (del tutto affini a quelle sopra trattate) che sull'introduzione desume da una questione particolare e specifica, come i "distinti quadretti" ed il "filo occulto della macchina", sulla quale, invece, si può anche parzialmente convenire (cfr., comunque, P. FASANO, I tarli dell'alberane, cit., p. 34).
35 - parte qualche ulteriore spiegazione "profonda", che meriterebbe di essere indagata.
36 - Così ancora nella lettera al Gabrielli del 1861 (cfr. Lettere Giornali Zibaldone, cit., p. 378).
37 - Ne parlò, ad esempio, già Vigolo e ne fece il ventiduesimo dei suoi settanta raggruppamenti tematici dei Sonetti (cfr. G. VICOLO, II genio del Belli, cit., voi. II, pp. 112-7, cui rinviarne anche per le rispettive esemplificazioni); ma è in seguito divenuta una vera e propria categoria del linguaggio critico belliano e, in quanto tale, l'abbiamo noi stessi utilizzata anche in altre sedi.
38 - Er vedovo (991), v. 14.
39 - Cosi recita il verso finale del sonetto Li prelati e li cardinali (1269).
40 - È ubriaco' significa infatti quel è aria la pasqua del v. 4
41 - Cfr. R. VICHI, Le vicende del più famoso sonetto dì G. G. Belli, in "Palatino", XI (1967) 4 (ott.-dic.), pp. 375-83.
42 - Mentre Vigolo, nel suo classico commento a I sonetti (cfr. vol. III, pp. 2305-6), esclude Voltaire quale ispiratore della "facezia" e dell'"eresia giocosa" e si richiama piuttosto all'"antico substrato chiesastico-teologico", ricordando poi, per il Visceddio del v. 1, sia la Canzone alla Santità di Innocenzo X, di Fulvio Testi, sia le Grandezze di Cristo (6 t., I, p. 176), di Daniello Bartoli, invece Muscetta, in una nota dell'edizione dei Sonetti a cura di M. T. Lanza (Milano, Feltrinelli, 1965, vol. III, pp. 1782-3), cita appunto il Voltaire delle Lettres d'Amabed, schedate nello Zibaldone belliano, ed altre fonti consimili, A conclusioni completamente diverse giunge, POI, un'analisi del sonetto compresa nel volume Una dozzina di analisi di testo all'indirizzo di docenti ticinesi del settore medio, curato dal Seminario di Italiano dell'Università di Friburgo, diretto da Giovanni Pozzi (Zurigo 1975), ove si arriva a sostenere che quello belliano "non è un discorso empio o bestemmiatore, non è nemmeno, al limite, irriverente; paradossalmente, è un discorso integralmente cattolico".
(43) II caso è tutt'altro che infrequente. Ci limitiamo a ricordare il v. 13 (er Zanto-padre è un Gesucristo in terra] del sonetto Er monno (772), da noi già analizzato in precedenza, e l'identificazione del Papa con un Dio biblico, solitario padrone assoluto del mondo prima della creazione, che ci è suggerita da Cosa fa er Papa? (1706), un sonetto datato 9 ottobre 1835, e quindi di soli cinque giorni successivo a Er passa-mano. Se ne riveda almeno la terzina finale:
E cquasi quasi goderla sto tomo
De resta ssolo, come stava Iddio
Avanti de crea l'angeli e ll'omo.
44 - Er primo bboccone (254), vv. 5-6.
45 - Se ne riveda il testo e la nostra relativa proposta di lettura a p. 71.
46 - Altri se ne possono del resto trovare poco prima, e lì utilizzati a dimostrazione di quale possa risultare lo stesso Dio al diaframma di quest'ottica plebea.
47 - E' il caso, ad esempio, del sonetto Sto monno e quell'antro (494),datato 27 novembre 1832:
48 - E' appunto quanto si evince dalle quartine del sonetto del 1831, Er peccato d'Adamo (276):
49 - Cosi come, per motivi magari opposti, il complessivo meccanismo di distanza/supplenza non mostra di funzionare ancora egregiamente nella prima fase: li certo anche per ragioni tecniche di mancata messa a punto del congegno, ma soprattutto per limiti di misura in tutte le direzioni.
50 - Ma si ricordino almeno Meditazione (729), del 12 gennaio 1833, con quel suo icastico avvio, Morte scerta, ora incerta, con quel che segue; o anche La golaccia (1339), del 27 ottobre 1834, con la metafora tutta barocca dell'orologio come simbolo di morte (si pensi, ad esempio, ai vari sonetti di Ciro di Pers su tema analogo), che è nella prima terzina:
La morte sta anniscosta in ne l'orloggi;
E ggnisuno pò ddì: ddomanì ancora
Sentirò bbatte er mezzoggiorno d'oggi.
51 - E per ciò stesso inaugurando una nuova stagione critica caratterizzata da letture troppo scopertamente "leopardiane" di Belli, dopo quella ancor più riduttiva stagione di letture "portiane" che si era data in precedenza. Si pensi ad esempio alla torte rivalutazione degli aspetti "metafisici" che si evince da un libro come quello dì G. P. SAMONA, G.G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste, Firenze, La Nuova Italia, 1969, mentre ci pare che verso questa linea si vada ora orientando con favore anche l'ultima produzione bellistica dello stesso Pietro Gibellini.
52 - Sulla questione delle fonti, come sui problemi più generali dell'interpretazione di questi sonetti, è impegnata da tempo tutta la maggiore critica belliana, sia pure con prospettive diversamente atteggiate. Ma vi è tornato di recente anche P. GIRELLIMI, in "La vita dell'orno" e il quaresimale del Belli (1983), ora in ID., I panni in Tevere, cit., pp. 65-87.
53 - Cfr. R. MEROLLA, II laboratorio di Belli, cit., p. 288. |