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SOTTO LA TORRE

Incontri sulla letteratura italiana
dell'Otto-Novecento

(Nettuno Gennaio-Aprile 1991)

di
ROCCO PATERNOSTRO

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08 - ARMANDO GNISCI
Letteratura ed ecologia

Signore e Signori,
il titolo di questa mia conversazione può avervi incuriosito preventivamente per il semplice ed ovvio motivo che i due termini che esso mette in relazione - la Letteratura e l'Ecologia - sembrano cosi distanti e diversi fra loro da indurre e giustificare una qualche, sia pur blanda, curiosità.

Cosa può avere a che vedere la letteratura - regno dei sogni e dei desideri, delle parole alate (come dice Omero) e del piacere della lettura (come dice Proust), ma anche dello studio scolastico e della tradizione umanistica -con l'ecologia, argomento scientifico, politico e di attualità di cui cominciano ad essere pieni ultimamente i mezzi d'informazione, i nostri discorsi quotidiani e, spero, anche i nostri comportamenti? Cosa possono avere in comune Dante e il buco nella fascia dell'ozono, Montale e l'effetto serra, Shakespeare e la deforestazione dell'Amazzonia o la desertificazione dell'Africa? Insomma, mettere insieme letteratura ed ecologia è stato forse un errore di stampa sugli inviti e i manifesti, la bizzarria accademica di un professore in vena di originalità a tutti i costi, o si tratta dì un gioco combinatorio sconosciuto per lanciare qualche nuova moda o - addirittura - un romanzo, un autore o un movimento letterario più o meno verdi?

Come potete constatare, mi sono fatto da solo, e subito, le domande più provocanti e maliziose. Allora, fingerò - un po' per gioco, un po' per meritarmi la vostra attenzione, e un po' per sfidare me stesso a pensare il più radicalmente possibile il bizzarro argomento che ho proposto all'amico Rocco Paternostro - fingerò di non essere venuto stasera a Nettuno per tenere una conferenza ma per rispondere a tutte quelle domande che mi sono fatto immediatamente da solo, ma che, invece, mi sono rivolto al posto vostro, mettendomi dal vostro punto di vista. Insomma, più che intrattenervi con argomentazioni e riflessioni scelte da me e, in qualche modo, subite da voi, occuperò il nostro tempo rispondendo alle vostre domande. Credo, inoltre, che questa procedura un po' inusuale possa corrispondere, in qualche maniera, a ciò che il grande psicologo americano Gregory Bateson ha chiamato, e ha insegnato a tutti noi, "ecologia della mente" e della conversazione. Un gioco serissimo in cui è possibile curarsi a vicenda, nel senso di prendersi cura della intelligenza e della felicità mentale dì coloro che partecipano in qualsiasi modo - cosi come noi anche stasera - a quello che Platone ha definito il convito della conoscenza.

Comincerò, quindi,, col dire che nel mio intento discorsivo letteratura e ecologia non sono due termini che stanno insieme perché la letteratura si è interessata e si interessa, tra i suoi tanti temi e nelle sue molteplici vicende storiche, del destino della terra e dei viventi. Non è questo - o meglio, non è tanto questo - il senso del mio discorso. E tanto meno che la letteratura deve pur trattare nelle proprie forme le tematiche ambientalistiche, per rappresentare degnamente ed efficacemente, portandolo nella luce del proprio dire, uno dei problemi più scottanti dell'umanità contemporanea. Non mi interessa, nemmeno, mostrare come i letterati partecipino, o debbano partecipare, al movimento civile e politico di sensibilizzazione ai problemi ecologici, con una loro qualche competenza o azione, generica o specifica che sia. E nemmeno come la cultura ecologica, che sempre più sì va sviluppando nel tessuto politico e civile - più civile che politico - della nostra società occidentale a capitalismo avanzato possa trovare spunti, parole d'ordine, profezie e citazioni utili, corrispondenze e suggestioni nello sterminato patrimonio della letteratura mondiale, da Lucrezio a Italo Calvino. Per quanto sia sempre proficuo ed auspicabile che tutti - studenti, scienziati, operai e casalinghe - possiamo leggerci o rileggerci il De rerum natura e Le città invisibili.

Il mio intento, nel cercare di rispondervi, è un altro.

Mi muoverò, piuttosto, dalla letteratura e dal suo regno di illusioni -che è il campo del mio mestiere - per produrre qualche riflessione in vista dell'argomentazione e della dimostrazione dell'ipotesi che il discorso letterario e quello ecologico sembrano procedere nella stessa direzione: quella dell'indicazione e della costruzione di una coscienza, ecologica epocale, radicale e mondana che dobbiamo contribuire a edificare e diffondere tutti: scienziati e cittadini, educatori e studenti, genitori e filosofi, letterati e politici.

Per fare questo partirò da due citazione letterarie. Di Lucrezio e Calvino.

Nel terzo libro del De rerum natura il grande poeta latino afferma che

Gli esseri umani non cesseranno mai di nascere gli unì dagli altri e la vita non è proprietà dì nessuno, ma usufrutto di tutti (Vitaque mancipio nulli datur, omnibus usu).

E Calvino, nel presentare all'inizio del libro omonimo, il simpatico personaggio di Marcovaldo, cosi lo tratteggia:

Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l'attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che si impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai: non c'era tafano sul dorso d'un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse, e non facesse oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e le miserie della sua esistenza.

A queste due citazioni, da testi cosi diversi e lontani tra loro, vorrei aggiungere alcuni versi di Ungaretti, scritti nella trincea della prima guerra mondiale - datati, "Gotici il 16 agosto 1916" - dalla poesia I fiumi:

mi sono riconosciuto
una docile fibra
dell'universo

II mio supplizio
è quando
non mi credo
in armonia

Cosa ci dicono i poeti e i narratori d'Occidente? Su cosa ci invitano a riflettere?

Sul fatto che l'uomo vive sulla terra non come padrone finale e compiuto del mondo ma come utente generale e passeggero della vita e delle risorse che il pianeta - l'antica Gaia dei greci e dell'"ipotesi Gaia" dello scienziato contemporaneo James E. Lovelock - gli ha preparato e gli dispone e mantiene. Che questo uso è vincolato al sentirsi e comportarsi in armonia, con la natura, con se stessi e con gli altri. Ma che l'armonia è la più difficile delle conquiste, una vera e propria soglia e una mèta etica supreme e rischiose, e non certo uno stato naturale e primordiale concessoci gratuitamente in dotazione assoluta. Il cammino della civiltà, infatti, è stato ed è configurabile come un continuo distacco dalla physis, dalla natura primitiva ed indistinta. Da quando un gruppo di primati nelle savane africane ha conquistato la stazione eretta e ha affrontato l'ambiente, il cielo e l'altro, spintovi dal bisogno di guardare al di sopra della vegetazione per poter avvistare da lontano e in anticipo l'agguato dei predatori, per giungere fino all'astronave, al computer e alla fusione nucleare a freddo.

L'uomo è un animale in bilico e in avanti-, oltre che vita - come sostengono i filosofi - egli è ex-istentia, continua spinta fuori ed oltre di sé. L'uomo, affrontando il mondo, produce conoscenza e guerra, musica e barbarie, progresso e sterminio, felicità e dolore, Mozart e Hitler. È un animale imperfetto che cerca senza sosta la perfezione; è un ponte - come dice Nietzsche - tra il bruto e l'angelo, un'essenza sempre in via di superamento: un superuomo, o, più semplicemente, cosi come ognuno di noi esperisce nella quotidianità della propria esistenza, un Marcovaldo che vive in città con un occhio non di città, ma che non è mai stato in campagna; uno spaesato, un senza patria, che cerca sempre casa ma non avendo alcuna Itaca alla quale fare ritorno, se ne costruisce incessantemente una sempre più vasta e complessa davanti: la cultura e il dominio. Ecco il paradosso attraverso il quale si mostra come la nostra civiltà sia bisogno dì residenza e impulso al cammino nello stesso tempo; mèta irraggiungibile una volta per tutte eppure patria, che non abbiamo mai alle spalle ma sempre davanti. Davanti, dal momento nel quale abbiamo deciso di ergere la schiena dal suolo e abbiamo liberato le mani dal terreno per manipolare, costruire, produrre, distruggere, amare, scrivere, disegnare, progettare. Ecco perché si tramanda che Ulisse non regnò a lungo dopo il suo ritorno a Itaca, ma riparti per nuove avventure di conoscenza e nuove terre e lì, altrove, trovò la morte.

La letteratura e le altre arti rappresentano per i popoli occidentali - al fianco e a volte contro la religione - l'opera più perfetta della civiltà della parola e del gesto e la testimonianza della consapevolezza più tormentata e acuta del nostro destino: di esseri sublimi e imperfetti, sempre in cerca del meglio e del nuovo: "Pensatori senza pensieri conclusivi/In un cosmo sempre incipiente", come ha scritto il poeta americano Wallace Stevens.

Solo noi umani, tra i viventi e nella immane storia finora conosciuta dell'universo, abbiamo coscienza e conoscenza; siamo quegli esseri per i quali, come scrive sempre Stevens: "...il diritto di conoscere / E il diritto di essere sono tutt'uno...". E coscienza e conoscenza riguardano fondamentalmente e innanzitutto la nostra stessa imperfezione. Cosi come solo noi amiamo per amore, ridiamo, abbiamo creato dèi e città, sinfonie, sonetti e affreschi: opere sublimi dell'imperfezione che abbiamo chiamato civiltà, e dalla quale siamo nominati e individuati, mediante la quale ci riconosciamo. La civiltà bianca europea ha segnato finora l'avanguardia e i limiti dell'umano, l'arte occidentale ha segnalato il fronte più spinto del potere puro e della riflessione più acuta e mirabile sulla imperfezione e sul limite del progresso civile. Vi invito a leggere un pensatore-operatore come Giuseppe Mazzini - il saggio sull'idea di letteratura europea del 1829, in particolare - per trovare già gran parte delle cose che vado affermando.

Possiamo dire, allora, che la civiltà occidentale e il cosi detto progresso sono definibili come produttori di complessità, al pari della vita nell'universo e dell'universo materiale stesso nella sua evoluzione, secondo quanto ci illustrano le più avanzate teorie cosmologiche, fisiche e biologiche. La letteratura - e l'arte in generale - è la produzione più complessa nel campo assolutamente umano della parola e, nello stesso tempo, la coscienza di tale complessità, la sua raffigurazione totale portata a livello di sublimazione conoscitiva e di operatività compiuta in un testo che è un mondo e la totalità dei mondi possibili.

Natura, civiltà e letteratura sono forze produttrici di complessità e opere complesse e incompiute allo stesso tempo, che producono nuova forza e nuova complessità, come nel modello della teoria delle strutture dissipative di Prigogine (un fisico chimico che non a caso, nella sua famosa opera La nuova alleanza, parla di accordo tra sapere umanistico e sapere scientifico e di "ascolto poetico" della natura, e nel suo ultimo libro del 1988, Entre le temps et l'eternitè sempre in collaborazione con Isabelle Stengers, invoca la necessità di un "elemento narrativo" nel discorso teorico della fisica, indispensabile per poter concepire ed esprimere adeguatamente l'evoluzione della materia universale nei termini della irreversibilità storica della freccia del tempo). Ma già il nostro vecchio Aristotele aveva detto a proposito del rapporto tra arte e natura che la prima perfeziona la seconda e la incrementa, la porta nella verità; noi potremmo dire, che la rende più complessa e nuova. Non molto diversamente, in fondo, il fisico contemporaneo Paul Davies teorizza quando afferma che la materia universale (la natura) possiede una predisposizione alla complessità che però è impredicibile e che costituisce la sua "libertà di scelta", libertà di organizzare la complessità crescente e la propria consapevolezza. La differenza tra gli antichi e i moderni consiste nel fatto che noi non facciamo più ricorso a cause e spiegazioni fondative e finalistiche di carattere metafisico, trascendente e provvidenziale. Insomma, natura e cultura sembrano seguire nello stesso cammino, la stessa regola evolutiva e irreversibile: dal semplice al complesso e l'arte è la testimonianza e la forma di autocoscienza - libera, complessa e nuova, come è, al massimo grado - che segna e suggella l'accordo tra evoluzione della natura ed evoluzione della cultura, una specie di raccordo per pensare la loro coevoluzione. Sembra potersi proporre come l'interfaccia, e il simbolo che occupa l'interfaccia, tra galassie e atomi e filosofie e istituzioni, tra molecole e rocce e passioni e illusioni, tra franali e sky-lines urbani. L'arte è l'emblema sintetico del principio di libertà e di autorganizzazione cosmica. Per questo, forse, da sempre, è stata spesso accusata di non servire a nulla. Da sempre, però, il suo gioco è più largo e invisibile, anche se da sempre essa ci allieta e ci guarisce - come il mago Gandalf di Tolkien o la piccola Momo del romanzo di Michael Ende - nel liberare "nuove possibilità dalla combinazione di possibilità" (N. Luhmann). "La musica rida/salute alla terra", ha scritto il poeta americano Robert Duncan, quella terra desolata che Eliot aveva descritto negli anni Venti di questo secolo, la terra minacciata dalla follia tecnologica intravista da Svevo nell'ultima profetica e catastrofica pagina de La coscienza di Zeno del 1923.

Ammesso che questo ragionamento abbia un senso, cosa ha a che vedere con l'ecologia?

Quando parlo di ecologia, in verità, non intendo far riferimento né alla disciplina specifica che studia i legami tra sistemi viventi e ambiente né a ciò che, più o meno confusamente, va oggi di moda indicare come cultura dell'"arcipelago verde" e ambientalista. O, per lo meno, non solo e proprio a questi referenti culturali. Intendo, piuttosto, quanto può essere indicato e compreso sotto il nome di "coscienza ecologica" transdisciplinare ed etica. Essa è individuabile come la costruzione di un sapere complesso e multiverso, una "scienza" di contaminazione, una "ragione ibrida" potremmo dire con Leopardi, che annuncia l'avvenire di una nuova cultura - letteraria, scientifica, filosofica, politica e civile - che, sulla base della presa di coscienza epocale dello stato e delle tendenze del nostro progresso planetario e degli enormi problemi di squilibrio da questo determinati, si avvia a proporre un nuovo modo di considerare ed agire, una nuova etica globale per noi attuali viventi e operanti e per le generazioni future. Se il genere umano intende continuare ad essere una razza imperfetta e paradossale e non una cultura morente, una "natura morta" e di morte, un sublime fallimento della logica del vivente.

Questa nuova coscienza ecologica - che vede uniti nel suo sforzo costruttivo e propositivo scienziati come Lovelock e Tiezzi, Morin e Prigogine, Commoner e Touraine, e filosofi come Gadamer e Castoriadis, Habermas, Toesca, Alberoni e Veca, letterati e uomini politici di "buona volontà" [pochi], educatori e gruppi ambientalisti, dal WWF al Club di Roma, dal Worldwatch Institute ai vari movimenti "verdi", dalla Germania agli Indios amazzonici che continuano a difendersi nel nome di Chico Mendes - parte dal riconoscimento della necessità della contaminazione dei saperi, della collaborazione delle volontà politiche di cambiamento e dall'istanza fondamentale di una "coscienza di specie" come afferma Enzo Tiezzi, superiore e comprensiva di tutte le coscienze individuali, nazionali e di classe. La coscienza di specie è quella che oggi decide di prendersi cura del destino del pianeta e di tutte le sue forme viventi nel rapporto coevolutivo con la civiltà umana e, quindi, della pace e della felicità possibili dei nostri contemporanei tutti e delle generazioni dei nostri successori sulla terra; di prendersi cura della nostra imperfezione. E questa necessità, laica radicale e mondana, rappresenta la sfida epocale che ci vede tutti impegnati, dai mari dell'Alaska alle aule universitarie europee, dai laboratori californiani alle lotte per difendere gli alberi e la cultura degli Indios amazzonici come hanno fatto di recente gli scrittori sudamericani, da Jorge Amado a Mario Vargas Llosa. Impegnati in una sfida alla quale non possiamo ulteriormente sottrarci, che anzi dobbiamo pensare radicalmente e cercare di vincere una volta per tutte, per ora. Ogni minuto che passa può essere perduto, perché, come dice l'ecologa Laura Conti, come disse lo scrittore Primo Levi - citando l'antico detto talmudico del Maestro Hillel nel Pirque Aboth - la domanda ineludibile che tutti ci investe e coinvolge è: "Se non ora, quando?".

Meglio di ogni altro discorso, forse, questa sfida è stata riassunta ed espressa in termini chiari nel rapporto sullo Stato del mondo 1988 del Worldwatch Institute (a cura di L.R. Brown e E.C. Wolf):

La salute degli abitanti della Terra è inscindibile da quella del pianeta stesso... È fuor di dubbio, tuttavia, che il ritmo del degrado ambientale continua ad accelerarsi. Non ci resta se non un'amara constatazione: siamo la prima generazione cui spetti stabilire, grazie alle decisioni che prenderemo, se la Terra debba rimanere o meno un luogo abitabile.

I problemi sono quelli del degrado della qualità della vita, ma anche del senso da dare alla ricerca scientifica e al progresso tecnologico, alle politiche economiche e sociali mondiali e regionali, all'educazione e alla costruzione di nuovi valori. La sfida globale che tutti li regge è quella della rivalutazione del paradosso della nostra imperfezione insieme alla capacità rischiosa di crederci in armonia. Il paradosso illustrato dal giovane poeta che dentro la trincea del Carso, in faccia alla morte, canta 1'"inesauribile segreto" della vita e l'immensa illuminazione della parola, mentre Macbeth continua a imprecare che "la vita non è che un'ombra in cammino; un povero commediante, che s'agita e si pavoneggia per un'ora sul palcoscenico e del quale poi non si sa più nulla. È un racconto narrato da un idiota, pieno di urla e furore e senza alcun significato".

La letteratura da sempre, nelle terre dell'Occidente, invita a considerare la nostra natura come critica e a perfezionare la nostra imperfezione. La letteratura è la parola che diventa mondo e coscienza del mondo, destino e opera. E l'immagine di speranza, aperta e complessa, come le ultime parole di Re Lear a Cordelia o i versi di Virgilio. È figura della bellezza e della verità, come dice Keats, e del mistero e dello scacco, come ha mostrato Kafka. È l'emblema della perfezione che può guidare, simbolicamente, il cammino di imperfezione che andiamo costruendo davanti ai nostri piedi da quando ci siamo alzati in piedi nella savana. Pur essendo soltanto parola, testo, finzione e stile. La letteratura è la cifra totale del paradosso che noi umani rappresentiamo dentro l'arco aperto della evoluzione universale e il segno della salvezza al di là del massimo pericolo, come diceva Hòlderlin.

Solo la letteratura ci addita, produce e mantiene nella memoria, indimenticabile, la lista aperta dei doni che possediamo, che possiamo perdere, che possiamo ancora guadagnare, come nella poesia di Borges, Un'altra poesia dei doni:

Ringraziare voglio il divino
labirinto degli effetti e delle cause
per la diversità delle creature
che compongono questo singolare universo,
per la ragione, che non cesserà di sognare
un qualche disegno del labirinto,
per il viso di Elena e la perseveranza di Ulisse,
per l'amore, che ci fa vedere gli altri
come li vede la divinità,
per il saldo diamante e l'acqua sciolta,
per l'algebra, palazzo dai precisi cristalli,
per le mistiche monete di Angelus Silesius,
per Schopenhauer,
che forse decifrò l'universo,
per lo splendore del fuoco
che nessun essere umano può guardare senza uno stupore antico,
per il mogano, il cedro e il sandalo,
Per il pane e il sale,
per il mistero della rosa
che prodiga colore e non lo vede,
per certe vigilie e giornate del 1955,
per i duri mandriani che nella pianura
aizzano le bestie e l'alba,
per il mattino a Montevideo,
per l'arte dell'amicizia,
per l'ultima giornata di Socrate,
per le parole che in un crepuscolo furono dette
da una croce all'altra.
per quel sogno dell'Isiam che abbracciò
mille notti e una notte,
per quell'altro sogno dell'inferno,
della torre del fuoco che purifica,
e delle sfere gloriose,
per Swedenborg,
che conversava con gli angeli per le strade di Londra,
per i fiumi segreti e immemorabili
che convergono in me,
per la lingua che, secoli fa, parlai nella Northumbria,
per la spada e Tarpa dei sassoni,
per il mare, che è un deserto risplendente
e una cifra di cose che non sappiamo,
per la musica verbale dell'Inghilterra,
per la musica verbale della Germania,
per l'oro, che sfolgora nei versi,
per l'epico inverno,
per il nome di un libro che non ho letto: Gesta Dei per Francos
per Verlaine, innocente come gli uccelli,
per il prisma di cristallo e il peso d'ottone,
Per le strisce della tigre,
per le alte torri di San Francisco e dell'isola di Manhattan
per il mattino nel Texas,
per quel sivigliano che stese l'Epistola Morale
e il cui nome, come egli avrebbe preferito, ignoriamo,
per Seneca e Lucano, di Cordova,
che prima dello spagnolo scrissero
tutta la letteratura spagnola,
per il geometrico e bizzarro gioco degli scacchi,
per la tartaruga di Zenone e la mappa di Royce,
per l'odore medicinale degli eucalipti,
per il linguaggio, che può simulare la sapienza, .
per l'oblio, che annulla o modifica il passato,
per la consuetudine,
che ci ripete e ci conferma come uno specchio,
per il mattino, che ci procura l'illusione di un principio
per la notte, le sue tenebre e la sua astronomia,
per il coraggio e la felicità degli altri,
per la patria, sentita nei gelsomini
o in una vecchia spada,
per Whitman e Francesco d'Assisi, che scrissero già questa poesia,
per il fatto che questa poesia è inesauribile
e si confonde con la somma delle creature
e non arriverà mai all'ultimo verso
e cambia secondo gli uomini,
per Frances Haslam, che chiese perdono ai suoi figli
perché moriva così lentamente,
per i minuti che precedono il sonno,
per il sonno e la morte,
per due tesori occulti,
per gli intimi doni che non elenco,
per la musica, misteriosa forma del tempo.

La letteratura ci suggerisce i modi per sentirci giusti e in armonia, come ancora Borges ha visto, con i suoi straordinari occhi ciechi australi, nella poesia I giusti:

Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire,
Chi è contento che sulla terra esista la musica.
Chi scopre con piacere una etimologia.
Due impiegati che in un caffè del Sud giocano in silenzio agli scacchi.
Il ceramista che intuisce un colore e una forma.
II tipografo che compone bene questa pagina che forse non gli piace.
Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto.
Chi accarezza un animale addormentato.
Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto.
Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson.
Chi preferisce che abbiano ragione gli altri.
Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo.

La letteratura ci ricorda che essere giusti e in armonia, in fondo, può essere cosa molto semplice e naturale, può consistere nel sentirsi fratelli dell'umile anguilla, come dice Montale:

L'anguilla, la sirena
dei mari freddi che lascia il Baltico
per giungere ai nostri mari,
ai nostri estuari, ai fiumi
che risale in profondo, sotto la piena avversa,
di ramo in ramo e poi
di capello in capello, assottigliati,
sempre più addentro, sempre più nel cuore
del macigno, filtrando
tra goriellì di melma finché un giorno
una luce scoccata dai castagni
ne accende il guizzo in pozze d'acquamorta,
nei fossi che declinano dai balzi d'Appennino alla Romagna
l'anguilla, torcia, frusta,
freccia d'Amore in terra
che solo i nostri botri o i disseccati
ruscelli pirenaici riconducono
a paradisi di fecondazione;
l'anima verde che cerca vita là dove solo
morde l'arsura e la desolazione,
la scintilla che dice
tutto comincia quando tutto pare
incarbonirsi, bronco seppellito;
l'iride breve, gemella
di quella che incastonano i tuoi cigli
e fai brillare intatta in mezzo ai figli
dell'uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu
non crederla sorella?

Solo la letteratura ha questo potere, di produrre differenze e molteplicità senso e legami, di sviluppare sinergia, educazione e coscienza: educazione e coscienza della pace.







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