La mattina dopo, quando la signora Emilia [...] gli disse: "E' morta la contessa Grippa; l'hanno trovata morta in camera", Andrea ne fu attonito, come se quella voce l'avesse accusato di assassinio.
- E' morta!
Piangeva con la testa fra le mani, i gomiti sul tavolino, guardando sbigottito il ritratto di lei.
- E' morta!
Non poteva crederlo. Gli pareva impossibile!
E sentiva penetrarsi da un occulto senso di sollievo.
Sgomento e senso di colpa da un lato, incredulità e liberazione dall'altro, sono gli stati d'animo che a coppie antitetiche attraversano l'animo e la mente di Andrea Gerace, l'amante ormai annoiato, stanco e, per certi aspetti, un po' vile di Giacinta Marulli, moglie mai sentitasi tale del conte Grippa di San Gelso, uccisasi per amore, avendo ormai la certezza di aver perso la sua battaglia d'amore.
Non è un caso che Capuana abbia terminato con la parola "sollievo" il suo romanzo. Intorno a esso egli lavorò per circa un anno dal maggio del 1878 all'aprile dell'anno successivo. Un anno di duro impegno, durante il quale, chiuso in un grande isolamento alla maniera di Balzac, lavorò sino a sedici ore al giorno "dormendo [...] e mangiando poco" (1). E l'impegno maggiore gli fu richiesto proprio dagli ultimi due capitoli. Difatti il 22 marzo del 1879 non aveva ancora "messo fine alla Giacinta-", sebbene due mesi prima avesse comunicato all'amico Verga di "essere agli ultimi due capitoli" del romanzo(2).
La parola "sollievo" ha, quindi, una duplice valenza. Da un lato, essendo interna al plot del romanzo e riferendosi ad Andrea Gerace è segno di rottura e quindi della liberazione dì questo personaggio dalla sua storia d'amore con Giacinta. Dall'altro, essendo esterna al plot e riferendosi a Capuana, è segnale di un altro tipo di liberazione: quella dello scrittore dalla sua fatica. Certo, se il romanzo, a livello di scrittura, richiese un impegno di circa un anno, non cosi fu per quanto riguarda la sua ideazione e progettazione. Per questo aspetto l'impegno di Capuana risaliva al lontano 1875, quando, attraverso il racconto di un senatore del Regno, Giacinta gli apparve per la prima volta all'immaginazione come una seducente visione (3). Fu questo senatore (Francesco Nicotera? De Luca?) che, in una serata d'ottobre del 1875, mentre passeggiavano lungo un viale del Pincio, credendo di raccontargli semplicemente un aneddoto mondano, gli mise addosso uno di quegli invasamenti contro cui è inutile lottare. Da quel momento Capuana non fantasticò, non sognò altro che la sua futura eroina. Questo lavoro di fantasticheria, di ripensamento, di organizzazione interiore durò più di due anni4. E quando si trovò nella condizione di passare da questa fase a quella della scrittura dovette affrontare e superare parecchi problemi, il più grande dei quali era quello di riuscire a rendere la sua creatura tal quale la vedeva e la sentiva nell'immaginazione e nel cuore, cioè quello di darle forma. La ricerca della forma lo tormentò per lungo tempo, sia perché non aveva una grande esperienza come narratore sia perché, senza tradizioni e senza guida, si trovò, per primo, a sperimentare da noi il rinnovamento del romanzo. Alcune questioni interne al genere gli apparivano così ardue, che il solo proporsele diventava un atto d'incedibile audacia. Nonostante ciò, iniziò a scrivere i primi capitoli del suo romanzo, chiuso in una camera d'affitto di via Dogana a Milano. Quelli furono - a suo dire - giorni di eccitazione e di lotta, perché lo strumento - la lingua e lo stile - non assecondava la sua idea. La forma stessa del racconto procedeva incerta, oscillante tra quella di Balzac dove l'autore interviene e giudica e riflette, e l'altra, che più lo seduceva,, di Flaubert dove l'autore si sforza di nascondersi, lasciando piena libertà all'azione e ai caratteri dei personaggi. Capuana, talvolta, era consapevole dei suoi limiti e dei suoi difetti, ma non sapeva correggerli; cosi passava dalla fiducia allo sconforto, da periodi costellati da lunghe soste e lunghi abbandoni a repentine e improvvise riprese. Andò avanti in questo modo fin quando non fece ritorno a Mineo, suo paese natale, dove, dopo un anno di intenso lavoro e non poche interruzioni dovute ai frequenti terremoti, riuscì a portare a termine il suo romanzo. "E quando Giacinta, visto crollato ogni suo sogno di felicità - scrive in proposito Capuana (5) - si punse disperatamente con lo spillo intinto nel curaro, e Andrea esalò il suo egoismo di amante stanco in un triste respiro di sollievo, un maggiore e più giusto respiro di sollievo trassi io, appena scritta la desiderata parola Fine".
Cosi, con una parola speculare di due sentimenti, del suo e di quello di Andrea Gerace, Capuana terminava Giacinta, il primo saggio di romanzo moderno italiano, al quale, sin dal 1879, era toccato in sorte uno strano destino: di non essere né un testo di piacere né un testo di godimento (6), quanto piuttosto di essere un testo inattuale. Inattuale rispetto all'orizzonte d'attesa di quei primissimi anni dell'Italia unita.
Giacinta, pur se si inseriva, per il suo concetto di amore inteso come sofferenza e come morte, nella grande tradizione letteraria occidentale tracciata dal romanzo-mito di Tristano e Isotta (7), al suo primo apparire - cosi come era avvenuto per Madame Bovary - fu un'opera in anticipo sui tempi e, a causa del suo contenuto scabroso, destinata a suscitare scalpore, come del resto avevano presagito lo stesso autore e Verga (8). I timori e i sospetti dei due scrittori ben presto sì rivelarono amare certezze. Questo per una serie di motivi di ordine storico-culturale interagenti tra di loro.
Quando Giacinta fu pubblicata c'era nel panorama culturale dell'Italia unita un'atmosfera di scontro tra vecchio e nuovo. Da una parte c'era chi, come Capuana, sentiva il valore innovativo del verismo e aspirava a orientare il gusto in maniera diversa che per il passato - difatti il romanzo sperimentale voleva contrapporsi all'ultima letteratura romantica retorica e stanca, e il soffermarsi a guardare il lato brutto della vita aveva il significato di una ribellione e di un rinnovamento nei confronti dei personaggi troppo ostentata-mente eroici dell'ambiente romantico -; dall'altra c'era una schiera di letterati che erano stati messi sul chi vive da produzioni erotiche e di scarso valore artistico - Cletto Arrighi e Cesare Tronconi, tra gli altri, avevano scritto opere veriste stimolando gli istinti erotico-sessuali del grosso pubblico -, o fondavano la loro critica sulle vecchie basi moralistiche - l'accusa di immoralità era rivolta a quasi tutti gli scrittori naturalisti come dimostra l'indignazione di Zola al riguardo (9); e, in Italia in particolare, questa era l'accusa costante dei manzoniani nei confronti del verismo; i Bonghi, i D'Ovidio, i Cantù si schierarono contro il verismo come in genere tutti Ì difensori delle concezioni religiose o spiritualistiche -; o piuttosto amavano le acque chete della letteratura dove essi avevano,un posto di un certo rilievo(10).
Quindi Giacinta apparve in un panorama storico-culturale in cui la cultura ufficiale era incapace di intendere il nuovo che allora si incominciava a produrre e dove il pubblico - abituato, come scriveva Capuana, ai manicaretti "pepati" solo di retorica e di romanticismo -, non era in grado di intendere la semplicità quasi nuda del romanzo (11). In tale situazione culturale e di gusto fu cosa scontata che il 7 giugno del 1879, quando non era ancora stato pubblicato alcun articolo su Giacinta, Capuana scrivesse all'amico Guzzanti dì avere come il presentimento che la critica avrebbe potuto "dir corna" della sua opera (12). Anche questa volta, Capuana non si sbagliava. Di li a pochi giorni - come egli stesso scrive - fu un urlo di indignazione. La critica moralistica che aveva già preso posizione contro le opere di Cletto Arrighi e di Cesare Tronconi, quando scese in campo per Giacinta, accomunò Capuana a costoro e lo indicò come "un corruttore e come un anticristo" (13).
L'indignazione con cui fu accolta Giacinta incominciò a manifestarsi il 16 giugno del 1879. Sul "Corriere del mattino" di Napoli apparve, quel giorno, un articolo di Verdinois (cui a distanza di due e tre settimane ne sarebbero seguiti altri due sulla "Illustrazione Italiana"), nel quale il critico accusava Capuana di essere il profanatore della bellezza e della virtù (14). Il 29 giugno seguente si ebbe la punta più alta della bufera critica. Il Treves con un articolo apparso sulla "Illustrazione Italiana" stroncò il romanzo definendolo "un'opera immonda". Capuana, quello stesso giorno, amareggiato per l'articolo del Treves, scrisse da Milano una lettera a Verga, dura nei toni e nella quale minacciava di schiaffeggiare il suo recensore se questi non gli avesse pubblicato una lunga missiva inviatagli in difesa di Giacinta. Sollecitamente Verga gli rispose da Firenze il 6 luglio dichiarandosi solidale con lui ma soprattutto pregandolo di astenersi dal fare scenate (15).
L'invito alla calma rivoltogli da chi aveva seguito passo passo la sua opera (16) e da chi, avendo letto Giacinta, per primo lo confortò di un giudizio positivo, pur non peritandosi di muovergli qualche velata critica(17); insomma l'invito alla calma che gli proveniva dall'amico Verga al giudizio del quale egli tanto teneva(18) e che lo aveva sempre sostenuto colla propria stima durante la stesura del romanzo(19), nonché la pubblicazione sulla "Illustrazione Italiana" della sua lettera calmarono l'ira e il disappunto di Capuana che non dette seguito alle minacce nei confronti del Treves.
Certo quelli furono giorni difficili per Capuana, al quale giunsero due lettere che, pur non essendo esplicitamente critiche, erano tuttavia di tutt'altro tono rispetto a quella che Zola gli aveva spedito da Médan il 27 maggio precedente e con la quale si era dichiarato onorato e felice per avergli egli dedicato Giacinta. Le due lettere in questione portavano entrambe la data del 2 luglio 1879 e provenivano l'una da Monaco a firma di Heise e l'altra da Sambuca Zabut a firma di Navarro della Miraglia. La critica di Heise era molto sottile, perché giocata sul piano della poetica. Difatti, pur rallegrandosi con Capuana per Giacinta, subito precisava che per lui "idealista credente e reazionario impenitente" ci sarebbe voluto per "formare una pura opera d'arte" nientemeno che "un soffio di forza eroica". Che era come dire, poi, non accettare la tendenza verista nell'arte. Mentre Navarro della Miraglia, entrando nel merito del gran baccano suscitato dal romanzo di Capuana e scrivendo che non ci sarebbe stato scandalo se lo scrittore mineolo avesse "modificato, qui e là, qualche mezza pagina", se avesse "addolcito qualche tinta cruda", se avesse "soppresso qualche frase un po' troppo sensuale e [...] brutale", finiva con il confermare come giuste, se non tutte, almeno in parte, le critiche che erano state sino ad allora mosse a Giacinta.
Dopo circa venti giorni di relativo silenzio, la critica della carta stampata fece di nuovo sentire la sua voce il 16 luglio di quell'anno. Quel giorno sulla "Nuova Antologia" apparve un articolo di Panzacchi, che, pur nella moderazione della critica contenutistico-moralistica, non si distaccò di molto per i suoi toni stroncatorii dagli altri articoli precedenti. Anzi, per certi aspetti, era tutto sommato più duro. Difatti la stroncatura di Panzacchi avveniva sul piano dell'arte: Giacinta era un romanzo immorale, perché non era un'opera d'arte (20). Certo se l'articolo di Panzacchi non era duro nei toni come al contrario lo era stato quello di Treves, lo era, e in modo inesorabile, nella sostanza. All'articolo di Panzacchi seguirono, a distanza di più di un mese l'uno dall'altro, quello di Farina e l'altro dell'Arcoleo, pubblicati rispettivamente 1'8 agosto del 1879 sulla "Rivista minima" di Milano, e il 14 settembre dello stesso anno sul "Fanfulla della Domenica" di Roma. Mentre il Farina attraverso Giacinta colpiva di fatto tutto il movimento del verismo (21), l'Arcoleo, conducendo il suo discorso critico su basi estetiche e non su quelle contenutistico-moralistiche, considerava Giacinta non riuscita come opera d'arte (22), pur riconoscendole una certa validità nel fatto di essere il tentativo e la ricerca di una forma nuova di vero romanzo che ancora mancava all'Italia (23).
L'articolo dell'Arcoleo, proprio per la sua natura di parziale stroncatura, si poneva come spartiacque tra i detrattori del romanzo di Capuana e le voci, invero pochissime, che aldilà dei pregiudizi moralistici, seppero intendere il valore artistico di Giacinta. Queste voci in Italia furono quella di Benetti e l'altra di Torre. Il primo giudicò Giacinta "una splendida opera d'arte, un capolavoro" che poneva il suo autore come "il primo fra [...] i romanzieri [italiani] contemporanei" (24). Il secondo usò quasi gli stessi toni di Benetti: Giacinta, pur con qualche difetto, era "uno dei migliori, se non il migliore, dei romanzi contemporanei comparsi in Italia" (25). Chiudeva questo esiguo numero dì voci positive, quella della straniera "Revue Suisse" che vedeva in Giacinta la presenza di un enorme talento.
Nonostante questi pochissimi riconoscimenti, il furore e l'indignazione dei moralisti erano talmente cresciuti che a Torino il libraio Casanova fu costretto da alcuni "zelanti" a togliere il romanzo dalla vetrina, in quanto opera licenziosa (26). In questo senso riduttivo i più giudicavano il romanzo, ovvero la storia di Giacinta che, stuprata a 11 anni, decide, in lotta con la società in cui vive, di sposare l'uomo che non ama e di diventare l'amante di quello che ama, finendo con l'uccidersi di veleno.
Ma perché un soggetto come quello di Giacinta, giudicato scabroso per l'epoca, aveva, al contrario, affascinato cosi intensamente Capuana da spingerlo a intesservi intorno un romanzo?
I motivi sono diversi. Innanzi tutto perché tale soggetto trovava riscontro nei molteplici casi offerti dalla realtà, soprattutto in quello della anconetana Maria Cesari, diventata poi Marchesa di Bourbon del Monte (27). In secondo luogo, perché esso seguiva un precedente soggetto scabrosissimo cui in qualche modo somigliava per la sua natura anomala: quello di un'eroina di nome Adriana alla quale un difetto fisico impediva di amare appieno, se non di essere amata in qualche modo, ma che quasi subito - come scrive Capuana - mori "nella cova" (28). In terzo luogo infine, e conseguenzialmente, perché con tale soggetto attinto direttamente dalla realtà egli vedeva la possibilità di rinnovare il romanzo italiano, allineandolo su quello naturalista francese, che egli considerava la forma più moderna e più avanzata del genere. Difatti, Capuana con questo soggetto vedeva la possibilità di realizzare nel campo artistico-operativo alcune delle teorie di Taine sull'arte e la letteratura. Non solo la teoria che voleva la letteratura come il prodotto della razza,dell'ambiente e del momento, ma anche l'altra che voleva come oggetto dell'arte i documenti di una realtà patologica e malata (29) che egli aveva mutuato da Zola.
Con questo soggetto, quindi, Capuana aveva prodotto il primo saggio di romanzo contemporaneo italiano, dove aveva tentato l'analisi di un carattere, lo studio di una passione vera, benché strana, anzi patologica, e con cui aveva sperimentato la possibilità di attuare una narrazione originale. Ma affinché egli potesse riuscire a ottenere tutto ciò avrebbe dovuto percorrere una strada di studi lunga, tortuosa, difficile.
Intorno ai primi anni '70, non aveva ancora un'idea precisa su ciò che sì poteva tentare per il romanzo, modellandolo su quello francese, la forma a suo giudizio più sviluppata e più compiuta di allora. Nonostante egli avesse letto i romanzi dì Balzac, Madame Bovary e i primi volumi dei Rougon-Macquart, gli sfuggivano le reali potenzialità di questo genere letterario che in Italia, salvo l'esempio dei Promessi sposi, non aveva prodotto opere innovative. Cosi, tranne alcuni timidi tentativi condotti più sul genere di Ottavio Feullet che d'altro, il romanzo era ancora fermo al modello dei romanzi storico-politici, sebbene, anni addietro, il Tommaseo con il suo racconto Fede e bellezza avesse tentato di evadere da quella moda dominante.
Ma il suo tentativo era stato accolto con tanta e tale indignazione dalla stampa che egli non ebbe più la volontà e la forza di ricominciare, sicché il suo racconto, caduto nell'oblio, non fu di nessun giovamento alla nuova generazione cui apparteneva Capuana. Questi, abbandonato il suo iniziale interesse per il genere drammatico e quindi passato alla novella e da questa al romanzo, sotto la spinta di Carlo Levi e dell'"ingleseggiante pittore di piazza Santa Croce" Telemaco Signorini, dovette far i conti con la situazione di arretratezza e di vecchiume in cui si trovava il genere in Italia. Ma anche dovette compiere una vera e propria personale ricerca sulla natura e sulla forma del romanzo. E ciò quasi senza nessuna tradizione alle spalle se si eccettuano Boccaccio, Sacchetti, Manzoni, cui ispirarsi e senza una guida da seguire. Ma mentre si dibatteva tra incertezze e dubbi soprattutto relativi alla forma, trovò parecchie risposte ai suoi interrogativi nel testo di De Meis, Dopo la laurea. In tal senso egli potè compiere il suo processo di maturazione, in cui giocarono un ruolo decisivo e la messa a frutto della lezione mediatrice di De Meis, che gli aveva chiarito la possibilità di raccordare la problematica critico-estetica di De Sanctis sul motivo della forma a quella di Taine circa la teoria dell'arte come prodotto naturale e degli influssi, e la rifondazione del suo hegelismo ormai "reintegrato con gli studi delle scienze naturali moderne" (30). Forte di tale maturazione e forte dell'esempio che gli fornivano Ì romanzi francesi e fatto proprio l'indirizzo scientifico della moderna cultura che ormai penetrava da ogni lato ravvivando e innovando persino l'arte, Capuana aveva potuto tentare il rinnovamento del romanzo italiano. Con Giacinta, egli non solo aveva combattuto pregiudizi, non solo aveva trattato una materia più cruda, ma anche aveva aperto una via nuova e originalissima che altri sul suo esempio avrebbero percorso poco più tardi con esiti artistici forse superiori. La via additata era il richiamo a una maggiore serietà umana senza le sovrastrutture di certi schemi per poter guardare alla vera natura degli uomini e delle loro cose: indagare i fatti nella loro non sempre lineare elementarità, i sentimenti nella loro essenziale, seppure complicata, ingenuità. Un matrimonio può essere una sovrastruttura, l'amore un'insopprimibile necessità(31). Certo non bastava solamente credere in questa nuova morale istintiva e passionale per avere la consapevolezza di aver fatto una grande operazione culturale con Giacinta. Bisognava anche e soprattutto essere convinti di aver fatto un'opera valida per il suo aspetto formale e quindi per la sua natura artistica. Fu proprio tale consapevolezza che spinse Capuana, dopo le stroncature iniziali, a intraprendere per il suo romanzo, al fine di imperlo, una vera battaglia.
Vi lavorò su ancora per dieci anni durante Ì quali ripropose la sua opera in altre due nuove edizioni - la prima nel 1885-86, la seconda nel 1889 -rivedute e corrette. L'ostinato attaccamento alla sua opera, intanto, era diventato cosi proverbiale nell'ambiente letterario, che il 21 febbraio del 1886 sul "Capitan Fracassa" usci, per la rubrica Una al giorno, una vignetta in cui Depretìs, rivolgendosi a Capuana, gli diceva: "facciamo, su per giù, da molti anni lo stesso lavoro. Voi rifate la Giacinta, io il ministero; e son sempre la stessa Giacinta e l'identico ministero".
Il continuo incessante lavoro di revisione cui Capuana sottopose la sua opera produsse gli effetti sperati. La seconda Giacinta, quando apparve in pubblico, fu accolta positivamente. Ora, nel 1886, le polemiche e le stroncature che avevano accompagnato la Giacinta del 1879 erano solo un lontano ricordo. Elementi di ordine interno all'opera e di ordine storico-culturale favorirono ciò: oggettivamente la seconda Giacinta era, a livello formale, superiore alla prima; dal 1884 il verismo, non estraneo certo neppure il De Sanctis, si era affermato come tendenza letteraria, facendo, di conseguenza, maturare un nuovo gusto che non essendo più, come per il recente passato, una scheggia, quasi un frammento isolato nel panorama culturale italiano, ora vi trovava posto non a latere ma accanto a quello della tendenza dominante; la critica laica, infine, intuito il valore di Giacinta, aveva opposto il romanzo ai vecchi interessi metafisici e ne aveva fatto una bandiera. Del resto, lo stesso Capuana era servito alla critica laica per la battaglia che essa conduceva. Difatti nel 1885, Pipitene Federico, sostenendo che lo scrittore mineolo aveva voluto rompere con il romanticismo neocattolico, ne aveva fatto un mezzo per combattere, insieme al clericalismo, qualsiasi metafisica o concezione idealistica(32)
Insomma, era avvenuto che nel panorama culturale italiano, in seguito alle battaglie combattute e alle polemiche suscitate dalla tendenza verista, si era affermato anche un nuovo orizzonte d'attesa.
Cosi, eccettuato un articolo apparso sull'"Illustrazione Italiana" il 7 marzo 1885 che, lodando la nuova stesura, manteneva il dissenso per la Giacinta del 1879, tutti gli altri che apparvero nel 1886 furono un coro di elogi. "La storia di Giacinta è la dolorosa tragedia del mondo contemporaneo" e il romanzo ha "una propria originalità", scriveva Nencioni(33). Il romanzo di Capuana - rimandava Pica - "è di quelli che rimarranno vivi"(34). E mentre Cimbali parlava di "rappresentazione viva e palpitante"(35) e il Cesareo come al solito si dibatteva in un giudizio che era insieme positivo e negativo(36), Pipitene Federico(37) sottolineava con enfasi il valore artistico e storico-culturale di Giacinta. A queste voci dì elogi e consensi si aggiunsero quelle di De Roberto(38) e di Oriani(39) che lodarono Giacinta e come opera che non imitava gli scrittori naturalisti francesi, e come "uno studio della vita moderna".
Intanto, la fama di Capuana cresceva anche all'estero, soprattutto in Germania dove Giacinta aveva avuto una nuova diffusione ed era stata ricoperta di lodi, e in Francia, dove nel 1888 si preparò una sua traduzione(40).
Nonostante ciò, o forse proprio per ciò, Capuana non riusciva, o non voleva, distaccarsi dalla sua eroina. Nel 1888 dal romanzo ricavò il dramma in 5 atti Giacinta che, ancor prima di essere rappresentato, fu oggetto di un'aspra polemica sul "Fanfulla della Domenica" tra il Capuana e il Checch(41), nella quale ricorrevano le solite accuse nei confronti dello scrittore siciliano, ovvero di essersi egli macchiato dì "apostolato zoliano".
La commedia, che prima fu accettata entusiasticamente dalla Duse e in seguito, per ragioni intime in cui ebbe un ruolo fondamentale l'Andò, rifiutata, venne rappresentata per la prima volta dalla compagnia Rossi, il 18 maggio 1888, al teatro Sannazzaro di Napoli, presente, fra gli altri, il Verga. La commedia (che solo in quell'anno fu rappresentata altre cinque volte(42), due nell'anno successivo (43), ripubblicata nel 1890, e, infine, rappresentata di nuovo nel 1898), suscitò una serie di giudizi contrastanti (44). Si parlò persino di fiasco per la rappresentazione romana al Teatro Valle (23 novembre 1888) e per quella milanese al Teatro Filodrammatico (13 marzo 1889)(45). Gli insuccessi di Roma e di Milano non nocquero alla figura di Giacinta che, attraverso il romanzo e attraverso il dramma, era ormai nota avendo suscitato spesso giudizi entusiastici nella critica militante(46).
Come non nocque al romanzo la recensione di Depanis apparsa sulla "Gazzetta letteraria" del 12 ottobre 1889 in occasione della terza edizione pubblicata dall'editore catanese Giannetta. II Depanis riportava i termini del discorso critico indietro di dieci anni. Difatti, pur riconoscendo al Capuana "qualità poderose di osservatore e di scrittore", ammetteva di non condividere "la simpatia e gli entusiasmi" che la critica recente aveva mostrato di avere per il romanzo, a causa del suo soggetto che egli considerava "anormale".
A questo punto, in base a quanto finora esposto, ci sembra doveroso e opportuno fare una prima, fondamentale riflessione, e cioè che Giacinta non solo è stato il soggetto verso il quale Capuana si senti particolarmente attratto, ma anche è stata l'opera che lo ha accompagnato, come presenza costante, negli ultimi quaranta anni della sua vita come dimostrano le due ristampe seguite alla terza edizione del romanzo, una del 1913 (47) e l'altra nel 1914 (48). Quest'ultima, si badi bene, appena un anno prima di quel tragico 29 novembre del 1915, allorché, colpito da paralisi cardiaca, egli spirò alle tre di mattina.
Del resto che Capuana avesse voluto "molto molto bene" - come egli stesso scrive - a questa sua "figliola" non è solo dimostrato dal fatto che avrebbe voluto dare al figlio che sarebbe nato dalla sua relazione con la Beppa, il nome di Giacinta Marulli, se femmina, e Giacinto se maschio, ma anche perché la storia d'amore di Giacinta aveva in comune qualche aspetto con il suo personalissimo rapporto con Beppa che, in quanto ex-serva di casa, pur amandola, mai avrebbe potuto sposare, secondo un principio avito siciliano (49). Ma soprattutto perché, lavorando a Giacinta, Capuana, a sue spese, aveva appreso molte cose utili come scrittore; e perché si rendeva conto di avere, mediante essa, rinnovato il romanzo italiano, anche se poi, per sua stessa ammissione, le opere che, sul piano strettamente estetico-letterario, prediligeva erano Il Marchese di Roccaverdina, le Paesane e Rassegnazione.
Basterebbero questi motivi per spiegare e giustificare la riproposizione che noi oggi facciamo di un testo che, seppure è da considerare l'archetipo, la pietra miliare della poetica del documento, del caso patologico con cui in Italia prendeva corpo la grande stagione narrativa della tendenza verista (50) -, al suo primo apparire assunse i connotati di un testo inattuale. Basterebbero questi motivi se non ce ne fossero altri di natura critico-estetica. Questi certo meglio spiegano e giustificano oggi, dopo il grande sviluppo avuto dal romanzo nel Novecento, il recupero di un testo che, essendo stato considerato per il passato quasi privo di una grande forza di cattura emozionale-estetica, non appartiene alla memoria di ognuno di noi (come, al contrario, accade per i Promessi Sposi, I Malavoglia, Mastro Don Gesualdo, etc.), perché lasciatene fuori dal potere culturale.
Questi motivi si basano fondamentalmente su due principi critico-estetici: che solo la lettura da essenzialità a un testo (Sartre) e che questo non invecchia con gli anni, ma si trasforma, in quanto lo scarto tra l'esperienza della lettura e quella della scrittura è accentuato dall'evoluzione delle parole e dai mutamenti di vita e di pensiero da un'epoca a un'altra; insomma un testo si trasforma in quanto si trasforma l'orizzonte d'attesa (Jauss). Allora riproporre Giacinta significa, da un lato, darle essenzialità, rimuovendola dall'oblio in cui è stata relegata in questi ultimi venti anni, dopo che l'interesse di critici quali Raya (51), Navarria (52), Emanuelli (53), Bellisà (54), Lo Curzio (55), Zimbone (56), Buttafava (57), Lugli (58), Di Blasi (59), Santangelo (60), Madrignani (61), Pampaloni (62), a turno, l'hanno fatta rivivere dal 1926 al 1972; dall'altro vedere se il suo tasso di cattura emozionale-estetica è tale, oggi, in un diverso orizzonte d'attesa, da poter fare del romanzo un'acquisizione definitiva e stabile della nostra memoria.
Un altro problema, però, si pone a chi come noi voglia indagare sull'opera di uno scrittore composito e complesso qual è Capuana. Ed è quello di dovere prendere posizione tra due linee interpretative antitetiche tra loro. Una, che sinteticamente possiamo definire del Verga-Borgese (63), e l'altra del Croce-Pompeati-Luti (64). La prima postula la superiorità del Capuana narratore sul Capuana critico. La seconda l'esatto contrario. Anzi, attribuisce una certa deficienza della sua arte alla sua attività critica, quasi che il critico sopraffacesse l'artista.
A me sembra che entrambe queste tendenze abbiano estremizzato le loro posizioni, perché in Capuana il critico e l'artista sono un tutt'uno organico e inscindibile. Ciò che egli ha prodotto nel campo dell'arte lo ha prodotto perché in lui viveva quel tipo di critico e viceversa. Tanto più è vero ciò, quanto più si ricordi come il fine unitario della sua attività critico-artistica sia stato quello di essere un innovatore, ovvero di rompere con tutta una lunga tradizione o sentimentale-idealistica, o realistico-religiosa e di rinnovare il gusto estetico-letterario del suo tempo. E questo è quanto egli ha fatto precisamente con Giacinta, con il romanzo, cioè, con cui si sono affermati da noi la poetica del patologico e il metodo del verismo (65). Però, affinché da tale poetica e da tale metodo potesse nascere un'opera d'arte era necessario che venisse superata la distanza estetica, la zona morta del linguaggio, l'ombra dell'impossibilità di dire, la dura oscurità della forma, che sempre separa lo scrittore dalla sua creazione. Capuana era consapevole dì ciò. Nella Confessione a Neera, al secolo Anna Radius Zuccari, della terza edizione di Giacinta, parlava di "narrazione originale" da ottenersi superando le difficoltà del "dire e non dire quello che doveva proprio essere il perno dell'azione", ovvero di "dirlo abbastanza perché tutto il resto riuscisse chiaro" e nello stesso tempo "accennarlo appena per non assalire" il lettore (66).
Ciò implicava, a suo parere, prima di tutto un "lavoro di fantasticheria, di ripensamento, d'organizzazione interiore", la strada maestra per cui avviene che un personaggio reale giunga a elevarsi alla dignità di personaggio dell'arte (68). Capuana, dunque, era consapevole che la distanza estetica che separa un oggetto reale dall'essere - dal divenire - un soggetto artistico stava nella capacità di riuscire a rendere questo soggetto tale e quale egli lo vedeva e lo sentiva nell'immaginazione e nel cuore (69), o meglio ancora, nella capacità di fondere in un tutto unico l'immaginazione, il sentimento e la riflessione (69). In tale prospettiva il metodo del verismo è solo il mezzo, lo strumento, per ottenere quella "narrazione originale", che, cancellando "qualunque segno, qualunque ombra con cui la personalità dell'autore fa qua e là capolino", muta la narrazione in azione e, privilegiando la "semplicità" e la "rapidità" nella rappresentazione, esprime "sensazioni, idee nuove, complicatissime [...], sfumature d'ogni sorta", cioè riesce a rendere "un mondo esteriore e interiore molto particolare, molto individuale, come prima non usava" (70).
Questo sistema di idee trova la sua più compiuta attuazione in Giacinta, in quell'opera, cioè, che, pur se è ascrivibile come forma narrativa al novel piuttosto che al romance (71), è sempre e comunque una forma di Dichtung. Non, come è ovvio, forma di Dicbtung in quanto menzogna, ma in quanto realtà, trasformata dalla fantasia, dal sentimento e dalla riflessione in dirczione artistica. E se Giacinta è la storia di un caso patologico, di questo caso non è semplice illustrazione o esemplificazione, ma compiuta rappresentazione, che, in quanto sì serve delle categorie della semplicità e della rapidità, scioglie la narrazione in azione. Quindi Capuana, in questo romanzo, non narra e neppure descrive, ma rappresenta. In tal senso egli si allontana dal naturalismo francese. Difatti mentre gli scrittori naturalisti descrivono(72), Capuana rappresenta, implicando ciò un concetto di azione, di movimento, insomma dì drammatizzazione del tutto estraneo ai primi. Alla luce di ciò e di quanto la critica ha ravvisato circa la differenza tra il naturalismo francese e il nostro verismo (73) appare evidente come Capuana fosse nel giusto, quando in età avanzata, con vigore si difendeva dall'accusa di essere stato, in gioventù, un seguace del naturalismo francese, o, che è la stessa cosa, di essere stato il padre del naturalismo italiano(74).
Drammatizzare significa, da un lato, servirsi in modo prioritario del dialogo:
- Capitano, - disse Giacinta. [...] - E' vero che il tenente Brogini ha un'amante vecchia e brutta che talvolta lo picchia?
- Perdoni, signorina: ma...
- Al solito, gli scrupoli! - esclamò Giacinta con una piccola mossa di dispetto. - E' una scommessa; me lo dica, mi faccia questo piacere. Dopo, se vorrà, potrà sgridarmi.
- Io non la sgrido; non ne ho il diritto né l'autorità - rispose il Capitano. -
Però ho tanto stima di lei e le voglio...
- Tanto bene! - lo interruppe Giacinta, ridendo.
- Sì, tanto bene, che non posso vederle commettere, senza dispiacere, una leggerezza da nulla.
- Ho fatto male?
- Almeno qui, dinanzi a questa gente che suoi dare una maligna interpretazione anche delle cose più innocenti.
- Com'è severo! Oh! Oh!
- Non dica cosi. Spesso spesso le apparenze valgono più della realtà, e il mondo...
- E vero o no che il tenente Brogini...? - ripetè Giacinta spazientita. (75)
Dall'altro significa che invece di raccontarci ci viene mostrato qualcosa:
Vedendola sdraiata li, con la bruna testa buttata indietro e la faccia rivolta verso di lui, stette ad osservarla, in piedi, dondolando la seggiola. Quella personcina minuta, rannicchiata tra la soffice imbottitura della poltrona e cosi ben modellata dalle pieghe dell'abito, gli richiamava alla mente l'immagine d'un gioiello tra la bambagia carnicina e il rosso azzurro dell'astuccio; mentre Giacinta, vistagli apparire negli occhi la forte commozione che gli agitava il cuore in quel momento, sorrideva a fior di labbra (76).
Del resto questo concetto di azione, di movimento viene reso anche grazie al ricorso a un artifizio tecnico proprio del romanzo oggettivo che i tedeschi chiamano erlebte Rede (Walzel) e i francesi le style indirect libre (Thìbaudet) e le monologue intérieur (Dujardin) (77):
Ah!... forse, con minor fierezza d'animo vivrei tranquilla, anche felice!. ... Ma, Dio mio! come perdonare al miserabile che, dopo, anche in un momento di collera, avesse la viltà di rinfacciarmi? (78); - La morte! Una morte rapida, sicura, dolce come il sonno]... Ma che me n'importa! Oh, la vita è troppo bella, e io l'assaporo appena. È fin bella anche quando è trista (79); - Sarebbe un'infamia! [...] - una cosa contro natura! ... Nel naufragio della mia vita, mi sono aggrappata a lui come a una tavola di salvezza, e me gli aggrappo di giorno in giorno più fortemente, per passione, per gratitudine. ... E nello stesso caso anche lui. ... Non dovrebbe accadergli lo stesso?(80) ; - Poiché accusarlo? Una forza superiore ci preme tutti e due! ... M'amava davvero, senza secondi finì, con lo stesso ardore con cui m'ero gettata fra le sue braccia! Se ora non m'ama più, se il nostro amore, creduto tale da dover durare in eterno, è stato più corto d'un sogno che colpa n'ha luì? ... E tarda a venire appunto oggi! ... Oh! Vorrei morire perdonandogli, dicendogli che muoio per averlo troppo amato! (81); - Un bell'anniversario, davvero! Ma la colpa è di lei che ingrandisce ogni nonnulla e si foggia continui spauracchi. Diamine! ... Dopo quattro anni, è naturale non sì rinnovino gli entusiasmi di una volta. L'abitudine ammonisce le impressioni più acute. ...Ma perché non lo dico anche a lei? Perché sto muto? (82).
Ma soprattutto è dato da quell'artifizio più spesso sfruttato da Capuana, ovvero 1'analisi interiore (83). Artifizio questo con cui egli riassume il movimento di pensiero e di sentimento dei suoi personaggi:
- Oh, no, non era cosi! ... La sua giovinezza fioriva tuttavia, il suo povero cuore palpitava ancora! Il Mochi la trattava da figliuola, poco esigente. ... Chi del resto, nell'intimo, le impediva d'amare un altro? ... Il passato le ritornava alla mente come un conforto. ... Quel ballo, quella canzone napolìtana, quella terrazza al lume di luna e quel giovane bruno dagli occhi neri, dai capelli neri e crespi, che le mormorava nell'orecchio parole dolcissime, indimenticabili. ... Ma non commetteva ella, a quel modo, un'infedeltà senza scuse? ... E Andrea perché veniva a cercarla fin nella solitudine dove volontariamente s'era condannata? Che pretendeva dunque? No, non era generoso! Voleva abusare della propria forza, della fragilità di lei? Ed ella resìsteva, lottando, mascherando con la bruschezza la debolezza che invadevala. ... Sarebbe stata un'indegnità! E fiera della sua vittoria, si attaccava ancor più al suo liberatore, al suo benefattore. ... Non lo chiamava mai suo marito (84) ; Ah, la fatai catena s'era ribadita! ... E lei che già si lusingava di essere sul punto di spezzarla! Perché, perché non l'afferrava a due 0 mani, per sbatterla in viso alla gente? Cosi doveva fare, cosf! ... E quella sua i mamma che non cessava di torturarla anche lei. Quella sua mamma! ... Oh Dio! ., , si sentiva diventare malvagia! ... Il sangue le si trasmutava in fiele! La trascinavano peì capelli a fare qualcosa di enorme! E tramortiva dallo spasimo, con gli occhi al soffitto, stanca di piangere (85); una cupa irritazione gonfiava il cuore di Giacinta.
- Come? ... Era tutto? ... Invece di incoraggiarla, di sollevarla, le ragionava di difficoltà da vincere, di ostacoli da superare? ... Dio dunque la respingeva? ... Dio dunque la rigettava nell'abisso quand'ella, aggrappata all'orlo, gridava disperatamente "soccorso"? (86) .
Insomma, per dirla con Lubbock (che a sua volta si rifa a James) Capuana, servendosi del dialogo, dell'azione e degli artifizi tecnici, non racconta la storia intima dell'anima di Giacinta, ma fa si che sia proprio questa anima a dirci di sé e da sé. In tal senso, essendo quest'anima "drammatizzata", diventa "un'anima visibile". Ed è un'anima condannata al non-amore, alla solitudine, ali''incomunicabilità (87)'; che è come dire, un'anima in cui si manifesta un'inquietudine "intricata e ombrosa", propria di una psicologia moderna che avrebbe più tardi sostanziato il romanzo del Novecento (88). Cosi, Giacinta, pur rispondendo a una "patologia morale" di stampo e di impronta positivistico-naturalistico, è "personaggio moderno" (89), come, del resto, il romanzo, pur con i suoi limiti storici di lingua e di stile (90), anticipa, per alcuni aspetti, quello del Novecento.
E intanto: sotto l'aspetto compositivo-architettonico Giacinta è un testo, tessuto, composito, costruito intorno a un plot dalla duplice valenza, una psicologica e l'altra d'azione, dove il tutto viene giocato sulle opposizioni ingenuità/violenza, illusione/disillusione, normalità/trasgressione, successo/ fallimento, felicità/sofferenza, amore/morte.
Il mutamento (change), il movimento per cui il romanzo diviene e si fa come tessuto, è strettamente connaturato a questo plot dalla duplice valenza ed è il prodotto di più forze antagoniste. In quella sorta di plot-archetipo dalla valenza psicologica, l'azione che trasforma il carattere morale dì Giacinta è determinata dalla violenza che si manifesta, prima, come stupro e, in seguito, come maldicenza le cui azioni concomitanti, corrompendo lo stato di ingenuità della piccola Giacinta, danno origine a un microracconto, organizzato intorno allo schema sintetico dell'inganno. Questo microracconto si caratterizza e si configura più propriamente come racconto panoramico che assume le caratteristiche di "un'anacronìa narrativa". Il romanzo dopo i due primi capitoli dove viene rappresentata la scena del salotto di casa Marulli, in cui si verifica la costruzione a più voci o fugata - gruppi dì uomini e di donne si scambiano pettegolezzi e allusioni - a partire dal terzo sino a metà del diciottesimo capitolo ripercorre a ritroso, riassumendola, la vicenda di Giacinta: dall'abbandono dei genitori, allo stupro, al soggiorno in collegio, al ritorno a casa, alla malattia, alla delusione provata a causa del cavalier Mochi, al primo incontro con Andrea, etc. Tale riassunto o racconto panoramico che è contenuto come memoria nel racconto vero e proprio, serve a Capuana per far comprendere la causa della patologia morale di Giacinta trasgressiva che appare subito nei due primi capitoli del romanzo, nonché le fasi e le vicende successive che si svilupperanno nella seconda e terza parte dell'opera. Proprio perché questo microracconto o racconto panoramico si situa non all'inizio, ma a racconto già avviato, è anche "un'anacronia narrativa", ovvero una "forma di discordanza tra l'ordine della storia e quello del racconto", che, per dirla con Genette, possiamo definire "analessi" (retrospezione) "omodiegetica" (concernente la stessa sfera di azione del racconto primario) "completiva" (in quanto colma a cose fatte una lacuna anteriore) la cui portata (la distanza temporale che la separa dal momento della storia in cui il racconto si interrompe) e la cui ampiezza (la durata coperta dall'anacronia) interferiscono sì sul racconto ma solo in quanto lo esplicitano, completandolo di alcuni elementi.
Dicevamo che questo microracconto, o racconto panoramico, è contenuto come memoria nel racconto vero e proprio al quale poi trasferisce quella sorta di plot-archetipo dalla valenza psicologica. Tale plot-archetipo combinandosi con il sotto-plot di azione qui presente, non solo forma il plot vero e proprio del romanzo, ma, proprio per questo, fa si che il mutamento che si verifica nello stato di Giacinta, da un lato, sia determinato dal suo carattere e dal suo modo di pensare, e, dall'altro, sia orientato, analizzato, espresso, in chiave rigorosamente psicologica. In tal senso, l'azione che trasforma lo stato di Giacinta è determinata dalla trasgressione morale, intesa quale sfida portata alla società con le sue leggi di comportamento, e come gesto di orgoglio con cui ella tenta di "risarcirsi della normalità che l'è stata tolta per sempre nell'infanzia" (91). Ed è proprio tale azione a dare origine al racconto vero e proprio, anch'esso organizzato intorno allo schema sintetico dell'inganno. Giacinta non precipita perché è una donna disadattata, ma perché è essa stessa ; una ingannatrice sconfitta dalla vita, in quanto ingannata nell'amore dall'uomo cui aveva donato, senza riserve, tutta se stessa. Questo schema sintetico i dell'inganno è, a ben vedere, alla base della tensione interna che tiene concatenati tra loro i fatti, e che, creata da Capuana sin dall'inizio del racconto e intrattenuta durante il suo sviluppo, trova la sua soluzione nell'epilogo del romanzo.
La curva drammatica che essa traccia è, qui, simile a una linea spezzata, in cui si alternano curve discendenti e picchi molto accentuati. L'intreccio, il plot, evolve con un gioco di avvenimenti spettacolari equivalenti a colpi di scena teatrali di cui Tunica protagonista è Giacinta, e che vanno dall'abbandono allo stupro, alla maldicenza della Camilla, alla malattia, al primo incontro con Andrea, al proposito di sposare l'uomo che non ama e al contrario di diventare l'amante di quello che ama, all'attuazione di tale proposito, alla felicità di amare e di essere riamata dal suo amante, alla affermazione sociale, alla felicità per la nascita di Adelina e alla disperazione per la sua morte, al sospetto di non essere più amata da Andrea, all'interesse per il dott. Pollini, alla compassione per il marito rimbecillito, alla perdita dell'amore di Andrea, e infine al dramma finale del suicidio.
E il plot evolve in questo suo gioco lungo Tasse della diacronia su cui si dispongono, via via in positivo e in negativo, le linee ora dritte, ora spezzate delle opposizioni; sul primo piano, quelle della ingenuità, dell'illusione, della normalità, del successo, della felicità e dell'amore; sul secondo le altre della violenza, della disillusione, della trasgressione, del fallimento, della sofferenza e della morte. E poiché sarà questo piano della negatività, della sconfitta, a prevalere nel tessuto rappresentativo del romanzo, risulta che la stessa curva drammatica sarà orientata dalla negatività, cosicché il brutto (la patologia morale) è elevato da Capuana a categoria estetica; e in quanto assurto a bello estetico, non solo fa di Giacinta il romanzo della sconfitta ma anche garantisce della sua qualità estetico-letteraria.
E tuttavia - voglio dire: nonostante questa curva drammatica cosi articolata - Giacinta è, per riprendere la classificazione di Thibaudet (92), un romanzo passivo. Esso "prende semplicemente, come unità, l'unità di un'esistenza umana" che viene rappresentata e che diviene il centro focale della rappresentazione stessa. Del resto, proprio Capuana aveva ammesso di aver concentrato tutta la luce dell'analisi, tutta la vivezza del colorito, tutta la espressione del disegno soprattutto in Giacinta, mentre - se si esclude Andrea - aveva relegato in secondo piano gli altri personaggi, che aveva appena abbozzato o delineato con pochi e rapidi tratti, perché concepiti al servizio del rilievo che voleva dare prima di tutto a Giacinta e in secondo luogo ad Andrea (93). A una lettura attenta del romanzo ci si rende conto che Capuana prova continuamente il bisogno di fermare lo sguardo sulla sua eroina, di farla agire davanti a noi, facendo cosi crescere i germi delle scene che la storia contiene in gran numero, insomma, sente la necessità di drammatizzare, nel senso di scrivere delle scene, cosi come avrebbe raccomandato più tardi Henry James, e il bisogno di "rilevare con precisione" ogni momento particolare come aveva detto, con analogo intento, Flaubert a Maupassant (94). Ed è per questo che in Giacinta la scena conferisce ai fatti descritti un carattere unico, rappresentativo, dunque definitivo, che corrisponde a un momento accentuato della curva drammatica. Si prenda la scena del matrimonio di Giacinta con il conte Grippa di San Gelso: qui un atto importante si verifica, le personalità e i sentimenti si rivelano, i conflitti esplodono. Giacinta concede il suo amore e il suo corpo a Gerace, non al marito, Tuna e l'altro cedono al sentimento dell'amore, da un lato emerge la personalità aggressiva dì Giacinta, dall'altro quella remissiva di Andrea, e cosi via. Ma il testo di Capuana, in quanto tessuto appunto, ha un impianto strutturale assai complesso e articolato. In esso, accanto alla storia d'amore di Giaciuta e Andrea, affiorano, germinate da questa - secondo il principio dell'alternanza (95) - altre due: quella tenue e ideale di Andrea ed Elvira, la fragile creatura malata di tubercolosi, e l'altra razionale e consolatoria di Giacinta e del dott. Pollini. Queste due storie, però, non giungono a maturazione, non si compiono, quasi restano bloccate nei loro primi, timidi passi, per dar modo alla storia centrale di evolvere sino alla catastrofe finale. Insomma, vi è nel romanzo quasi una sorta di racconto nel racconto, aspetto quest'ultimo che fa di Giacinta una specie di laboratorio, in cui Capuana non solo sperimenta alcune tecniche narrativo-rappresentative di notevole efficacia, soprattutto quella della drammatizzazione, ma anche traccia alcuni sentieri nella fitta foresta della sua scrittura, quali sono molte parole-chiave che, costituendo un sistema di motivi da decifrare, meglio ci aiutano a comprendere il senso e il significato dell'opera. Questa, sinteticamente, può essere letta come il tentativo riuscito di una fuga, che testimonia però di una sconfitta.
La prima parte del romanzo, caratterizzata dall'annuncio dell'infrazione e organizzata intorno allo schema sintetico dell'inganno, presenta otto parole-chiave che, facendo parte di campi semantici ben definiti, fanno leggere questa parte come il tentativo di fuga di Giacinta dall'angoscia. Le parole-chiave sono cugino(96), muda (97), chiuso(98) pregiudizio(99), segreto(100) purificata (101) buio(102). Le prime due che significano rispettivamente amante e cambiar le piume sono inserite nei seguenti campi semantici "cambierò da bianca in nera"(103) e "amante si, a ogni costo, marito no, mai!" (104). Esse sono indicative di una trasformazione totale che avviene in Giacinta, e ci indicano, soprattutto la prima parola e il secondo campo semantico, la natura di tale trasformazione.
Ci dicono che il cambiamento è in effetti una trasgressione morale. La parola-chiave chiuso è una parola cerniera che unisce e raccorda le prime due alle due successive, pregiudizio e segreto ed è legata al seguente campo semantico dì cui è parte organica: "il mio cuore [...] deve restare un cuore chiuso"(105). Essa è Ìndice di una situazione di angoscia, di solitudine, in cui si trova Giacinta. Le due parole-chiave successive, pregiudizio e segreto, sono legate rispettivamente a questi due campi semantici: "la società è fatta così, impastata da cima a fondo di pregiudizi, forti più delle stesse leggi"(106), "ella era felice di queste maliziette che davano maggior sapore al loro dolce segreto"(107). Esse sono esplicative dell'azione trasgressiva che Giacinta vuole attuare. La prima ci dice che tale azione nasce perché Giacinta vuole opporsi alla società cosf come è strutturata; la seconda connota la trasgressione nella clandestinità. Insomma, Giacinta vuole opporsi al pregiudizio morale che la società nutre nei suoi confronti. Difatti, poiché è stata stuprata a undici anni non viene considerata più normale, è una diversa. A questa condizione cui l'ha condannata la società e che le procura angoscia e solitudine, Giacinta vuole opporsi, ma da diversa, cioè da trasgressiva: "ma perché non accettava dunque la sua sorte? Perché non si cacciava a fronte, armata dì disprezzo, fra quella brutta società dove la chiamava il destino? A che dispiacersi inutilmente, farsi valere doveva!"(108). Da qui la sua decisione di sposare l'uomo che non ama e di diventare l'amante di quello che ama. Cosi la relazione che intraprende è una relazione clandestina e, seppure dolce, vissuta nel segreto, e altresì è il suo tentativo di fuga dall'angoscia. Situazione esistenziale quest'ultima messa maggiormente in risalto dalla parola-chiave purificata che, inserita nel seguente campo semantico: "come se le trecento mila lire l'avessero già purificata"(109), ci indica l'intensità del dolore e dello sgomento con cui Giacinta vive la sua condizione di diversa. Infine, la parola buio, poiché è parte organica del seguente piano semantico: "e con lo sguardo balenante pareva cercasse qualcosa nel buio dell'avvenire" (110), ancor più ribadisce la condizione di incertezza, di angoscia, di solitudine di Giacinta. Insomma tale parola da un lato chiude questo momento dell'infrazione attuata, solo parzialmente, dall'altro anticipa, quasi annuncia la sua attuazione totale che si avrà nella seconda parte del romanzo.
Questa, caratterizzata dall'infrazione attuata fino in fondo, cosi come la prima, è organizzata intorno allo schema sintetico dell'inganno. Qui appaiono alcune parole-chiave che, inserite nei loro rispettivi campi semantici, fanno leggere questa parte come fuga di Giacinta dalla sua solitudine e dalla sua angoscia. Le parole in questione sono morta (111), altèra(112), vortice e abisso(113), enimma(114), audacia e rivincita(115), adulterio(116), memoria(117), giota(118), infamia(119), pietà(120), potenza(121), curare(122). La prima è una parola che rappresenta la condizione psicologica di Giacinta allorché decide di mettere in atto il secondo - anche se non definitivo - aspetto della sua trasgressione e sposa il conte Grippa di San Gelso che non ama: "come se quelle lenzuola di tela di Olanda dovessero servire a involgerla morta fra una o due settimane"(123). Le tre parole che seguono indicano piuttosto gli atteggiamenti e gli stati d'animo di Giacinta quando compie materialmente il passo decisivo - il matrimonio - per attuare in modo compiuto l'infrazione morale, ovvero l'inganno nei confronti del conte Grippa: "Giaciuta s'inoltrava altera, con certi sguardi che pareva volessero sfidare le persone"(124); "Giacinta [... ] lasciavasi trascinare [da Gerace], come se quel walzer dovess'essere un vortice da travolgerla nell'abisso dov'ella non aveva più il coraggio di buttarsi da sé"(125). Mentre la parola enimma è la parola-chiave del quadro della trasgressione morale attuata. Essa, riferendosi a Giaciuta(126), è la chiave interpretativa che ci fa intendere i due momenti successivi della trasgressione. Questa è si profanazione del matrimonio, ma solo in quanto il matrimonio è sovrastruttura e convenzione sociale e non necessità e bisogno d'amore. Per tale motivo è necessario un patto segreto tra i due amanti, una sorta di celebrazione laica e per cosi dire soggettiva della loro unione: "Giacinta toltosi dal dito l'anello nuziale cercava di infilarlo al dito di lui" (127). Dopo questa simbolica sostituzione di persona, Giacinta dona il suo corpo in segno di amore a Gerace. Le parole-chiave audacia, rivincita, adulterio segnano due fasi fondamentali della trasgressione compiuta. Le prime due ribadiscono che la trasgressione di Giacinta è la sua personale rivincita nei confronti della società: "E sentivasi adesso un profondo sgomento. Di che? Della sua audacia forse? Ma era la sua rivincita, il trionfo! [...]. Preso un amante si era messa in regola colla società"(128). La terza ci dice che per Giacinta il vero matrimonio è quello particolarissimo e personalissimo celebrato con Andrea; difatti ella compirebbe adulterio unicamente se cedesse al desiderio del conte Grippa di cui è moglie per convenzione sociale. E qui è - a nostro parere - la grande moralità di Giacinta. La parola memoria, collegata con l'altra, gioia, indica opposizione di situazioni. Essa, ricordandoci che le cause della trasgressione compiuta da Giacinta hanno origini remote, nel suo passato fatto di sofferenze(129), si pone in maniera contrastante, oppositiva, con la situazione presente di Giacinta che è una condizione di gioia e di felicità, di realizzata fuga dall'angoscia e dalla solitudine. La parola infamia, invece, introduce una situazione di conflitto che viene a turbare, ma solo per poco, la felicità raggiunta dai due amanti. Essa è legata all'episodio della delazione con cui due amiche pettegole della signora Marulli le riferiscono della relazione clandestina di sua figlia con Gerace. Da qui si sviluppa una lunga serie di situazioni di contrasto tra Giacinta e la madre, tra Gerace e gli amici, tra Gerace e la signora Marulli, e, infine, tra Giacinta e il conte Grippa, situazione quest'ultima segnalata dalla parola-chiave pietà. Insomma, ancora una volta si sviluppa opposizione tra Giacinta e il microcosmo provinciale e meschino in cui ella vive, che dalle descrizioni ambientali presenti nel romanzo si evince essere quello della città di Ancona. Le parole ; che più frequentemente ricorrono per indicare tale situazione contrastativi sono fango(130), mantenuto/a(131), reputazione(132), amante (133). La situazione di conflitto turba - come abbiamo scritto - solo per poco tempo i due amanti. Ben presto la loro storia d'amore sarà da tutti accettata, anche perché sia Giacinta che sua madre, sia pure per diverse strade, otterranno una rispettabile affermazione sociale, segnalata, qui, nel romanzo, dalla parola potenza. La loro ascesa sociale è vista da Capuana in contrapposizione alla decadenza della vecchia aristocrazia, destinata inesorabilmente a soccombere nei confronti di una borghesia attiva e intrigante, mossa da una concezione della vita dinamica e funzionale. Il tutto è magistralmente rappresentato da Capuana con semplici e rapidi tocchi nell'episodio della festa data da un lato da Giacinta nella sua palazzina costruita in base alle moderne concezioni architettoniche, e dall'altro, dalla baronessa Sturini nel suo vecchio, angosciarne palazzo nobiliare.
Infine la parola curare (sta per curaro) è significativa per due motivi: ci dice della presenza del dott. Pollini, e con il suo significato introduce nel romanzo l'atmosfera sinistra Ì cui esiti definitivi si avranno nella terza e ultima parte. In quella parte, cioè, in cui l'infrazione si ritorce come un boomerang contro Giacinta, e che è organizzata, come le due precedenti, intorno allo schema sintetico dell'inganno. Anche qui appaiono alcune parole-chiave che, inserite nei loro rispettivi campi semantici, fanno leggere questa terza e conclusiva parte e, per riflesso speculare, l'intero romanzo, come la storia di una sconfitta e, quindi, come fuga dalla vita di Giacinta che, in tal senso, realizza, in quanto lo compie, il destino di morte figurato persino nel suo stesso nome(134). Le parole-chiave sono disposte su due piani narrativi delimitati nei loro rispettivi confini dalla parola-chiave centrale inganno(135) Questa si riferisce all'inganno patito da Giacinta per il disamoramento di Andrea che è del resto speculare di quello maturato da Giacinta nei confronti del conte Grippa. Questa, essendo una parola centrale, non solo separa tra loro i due piani narrativi, ma anche li riempie del proprio significato. Nel primo piano narrativo alla parola strano(136), segnale dell'estraneità che Giacinta avverte provenire da Andrea, segue un grappolo di parole-chiave che si riferiscono tutte alla situazione di dolore di Giacinta: soffro(137), malessere(138) pazza(139), oppio(140). Giacinta soffre, è oppressa da un interno malessere e persino crede di essere sul punto di impazzire al solo sospetto di non essere più amata da Andrea, per cui cerca di trovare conforto nell'oblio mediante il ricorso all'oppio. Quest'ultima parola, rievocando la figura del dott. Pollini, bene ci testimonia del lento e inesorabile sgretolamento dell'io di Giacinta e ci indirizza già sulla strada della sua sconfitta. Difterite(141), rimorso(142), colpa(143) sono parole-chiave che chiudono questo primo piano narrativo e ci introducono direttamente nella catastrofe abbattutasi su Giacinta che ha un duplice volto: quello della perdita di Adelina e l'altro del suo suicidio. La morte di Adelina non solo sprofonda Giacinta nel più cupo dolore ma anche la consuma come colpa e rimorso: durante la malattia della sua bimba, infatti, ella era stata soprattutto atterrita al pensiero di poter perdere l'amore di Andrea. Qui siamo entrati in pieno nel secondo piano narrativo, attraversato e caratterizzato dalle seguenti parole-chiave: noia, stanchezza, viltà(144), calma, benessere, fanciullezza(145), dignità(146), fuga(147), espiazione(148) meretrice(149), morire, curare(150) specchio(151), spillo(152), scandalo(153) e di nuovo inganno(154).
Le prime otto parole si riferiscono ad Andrea e indicano il passaggio da una situazione esistenziale caratterizzata dalla noia, dalla stanchezza, dalla viltà e dalla mancanza di dignità per essere egli ramante-mantenuto di Giacinta, a quella del suo riscatto favorito dall'amore che nutre per la giovane Elvira(155). Riscatto che cinicamente richiede, esige, la sua fuga da Giacinta. Mentre le sei parole che seguono si riferiscono a Giacinta e indicano il turbinio di sensazioni e la fredda determinazione dei propositi di morte maturati in lei dopo che un flash-back sul suo passato(156), dandole la certezza che la violenza subita da bambina non era stata ancora cancellata dalla sua anima(157), le aveva fatto assaporare con più atrocità l'onta dell'ultimo inganno subito a opera di chi aveva amato più di se stessa. E, crollato ormai in modo irreparabile il castello incantato della sua illusione d'amore, aveva deciso di farla finita per sempre. La sua disperazione, del resto, ella l'aveva vista raffigurata , in tutta la sua devastante miseria, nello specchio158. Come aveva visto raffigurata la sua morte in quella che, con il curare, aveva scientemente procurato al suo canarino (159) -. Non le restava ora che congedarsi per sempre dal mondo. Ma prima di compiere l'estremo gesto, quasi come ultima sua sfida alla società, matura l'ultimo inganno, quello che, facendo credere alla gente di essere lei e Gerace ancora e sempre innamorati l'uno dell'altra, le evitava lo scandalo della separazione. Appare chiaro, quindi, come le due parole-chiave inganno e scandalo si riferiscono a quella società contro la quale Giacinta sino all'ultimo, inutilmente, aveva tentato di lottare.
Del resto che il romanzo vada letto e interpretato come il tentativo di una fuga, per altro riuscita, è testimoniato anche dalla rappresentazione e quindi dell'uso che Capuana fa dello spazio nella sua opera. Giacinta, come Madame Bovary, è un romanzo quasi immobile. Il suo spazio privilegiato è dapprima il salotto di casa Marulli, e, in seguito, quello di casa Grippa, per cui è un romanzo immobilizzato in quadri. Proprio per questo motivo, quei pochi spostamenti che vi si verificano assumono una forza e un significato particolari.
In questi spostamenti vi è una dialettica tra spazio reale e spazio immaginario, nel senso che gli spostamenti effettivi dei personaggi e, di conseguenza, dell'azione si accompagnano a spostamenti ideali che, nel nostro caso, tendono tutti verso il campo metaforico-semantico della fuga. Fuga dalla sua responsabilità di madre abbiamo quando la signora Marulli da a balia la piccola Giacinta a una famiglia di contadini, e, allorché, dopo lo stupro, la mette in un Istituto femminile; fuga dall'abbandono familiare è quando Giacinta ritorna a casa dall'Istituto; fuga dalle convenzioni morali familiari e, di riflesso, da quelle della società si ria quando Giacinta lascia la casa paterna per stabilirsi nella palazzina che si è fatta costruire, o, quando, vedendosi di nascosto con Andrea, passeggia di notte per le strade di Ancona diretta verso il porto; fuga da una condizione, ormai divenuta insopportabile di amante-mantenuto è quella di Andrea quando cambia la propria abitazione. Come, del resto, e lo abbiamo già visto, fuga finale e quindi sconfitta, è la morte di Giacinta. In base a tutto ciò non ci sembra azzardato ripetere per Giacinta quanto è stato scritto per Madame Bovary: il romanzo si svolge su due piani spaziali che corrispondono a due piani psicologici: la realtà un angolo di provincia e il sogno utopico di superare tale realtà. Ma lo spazio, quando è inserito in quadri specifici, assume anche altri valori. Serve a Capuana per rappresentare gli stati d'animo dei suoi personaggi; sia che si tratti di spazio interno:
Per il terrore di quel silenzio turbato un istante rivolgeva gli occhi alla palla di porcellana dentro cui la fiamma della lampada guizzava, a intervalli, con la luce fredda, rischiarando i mobili scuri, dando un aspetto strano ai disegni della tappezzeria. Poi i suoi occhi attratti, tornavano verso quell'angolo dove l'ombra si addensava, e di lì a poco l'allucinazione riprendeva il suo corso(160); II salottino, tappezzato di color cupo, con la piccola lampada di bronzo pendente dal soffitto, aveva qualcosa di funebre. Andrea, quasi colpito da paura, girò gli occhi attorno. Un gran vaso di porcellana dì Ginori, gl'intagli della consolle di ebano, le sbarre delle seggiole disposte in due righe presso la finestra, la tavola inglese di noce si accendevano di vivi riflessi fra la tinta scura delle pareti. Un piccolo canapè rannicchiavasi nell'ombra, a sinistra, in quel silenzio pieno d'un terrore indefinito(161) Andrea, senza scomodarsi dalla poltrona dov'era disteso, prendeva di tratto in tratto con le molle un bel pezzo di legna e lo aggiungeva agli altri tizzi che scoppiettavano fiammeggianti nel caminetto. Più in là, accanto al tavolino ingombro di matassine di lana di diversi colori, Giacinta lavorava a una piccola tappezzeria, girando sul pugno il filondente, tirando la corta gugliata con un i movimento nervoso, alzando il capo quando i tizzi all'improvviso crollavano, e la fiamma si sminuzzava in tante linguette azzurrognole, agitantisi sulla brace. Il vento che urlava fuori, la pioggia che sbatteva sui cristalli rompevano a mala pena ; quel silenzio pieno d'impaccio;(162)
sia che si tratti di spazio esterno:
Tutto quel verde inondato di sole le pareva una festa. Le casette li in fondo, con le vetrate spalancate e quei vasi da fiori sui davanzali, sorridevano tranquille. E guardava intenerita i due piccioni che facevano delle volatine su pei tetti, da un comignolo all'altro, o si nettavano col becco le piume del collo(163); A un tratto, le parve che il cuore le si chiantasse davvero, che il respiro le venisse meno... e balzò in piedi e spalancò la finestra. Col terrore che la scoteva tutta sprofondava gli occhi in quel ciclo buio, coperto qua e là di nuvole, con rare stelle che scintillavano fioche, come smarrite nello spazio; e tendeva l'orecchio, senza sapere perché, in quel vasto silenzio interrotto soltanto dagli urli del mare che si dibatteva laggiù, fra gli scogli simile a un mostro incantato;(164) Nella piazzetta quadrata, in capo alla via, un fanale agonizzava nel plenilunio, accanto al piedistallo di quel santo di pietra grigia che, col braccio levato in alto, appuntava l'indice verso il ciclo [...]. Quei lampioni che fuggivano, allineati sulla banchina, straluccicantì dì riflessi; quel mare imprigionato nel vasto seno del porto, che sbatteva le sue sorde ondate ai fianchi dei bastimenti e delle barche e sui massi granitici della scogliera; quello strano intreccio di vele e dì sartiame disegnatesi netto sul ciclo oscuro, in mezzo ai fanali rossi, verdi, azzurri, pari a pupille dì mostri marini saliti a fìor di acqua e intenti a guardare, le avevano prodotto, di primo colpo, un'impressione di sgomento;(165) Quando si trovò presso la Porta Vecchia, davanti i casotti del Dazio, non si raccapezzava [...]. Una fitta nebbia invadeva lentamente la via, ravvolgendo l'arco romano della Porta e le case attorno, velando i fanali che pareva agonizzassero [...]. Il piazzale era deserto. La guardia daziaria di sentinella [...] pareva uno spettro nero dileguantesi a poco a poco nella caligine [...]. Una confusione di ombre enormi, s'agitava intanto sotto l'arco della Porta; voci e rumori uscivano dì mezzo alla nebbia, che i fanali rischiaravano appena. [...] I carri andavano via pesantemente, facendo dondolare le loro lanterne di tela, visibili appena tra le ruote nere, dietro le gambe dei cavalli. Qualcosa di funebre e di malauguroso (166).
Altresì è significativo per mostrarci la forza e la grande perizia rappresentativa di Capuana, quasi fossero le sue parole pennellate rapide di colore attraverso le quali ci si manifestano paesaggi, luoghi, oggetti, atmosfere, animali, persone:
Non passava anima viva. Gli orologi battevano il tocco, e si rispondevano dalla torre del Municipio e dai campanili come per darsi la voce, uno dietro all'altro, da vicino, da lontano, come ondulazioni malinconiche e paurose [...]. La luna listava di bianco metà della via. Da quel lato, i cristalli di alcune finestre luccicavano, e le fiammelle dei rari fanali tremolavano giallastre nel chiarore; (167) Poco dopo, cessato ogni rumore, il mare sonnecchiava dentro il porto, con le barche cullantesi tra gli spruzzi delle brevi ondate; e dietro il fanale, che brillava intermittente in cima alla torretta bianca del faro, l'immensa distesa dell'Adriatico tremolava, per un gran tratto, sotto gli argentei riflessi della luna.(168) La città mezza arrampicata sulla collina, colle guglie dei campanili e le cupole, che si intravedevano a traverso il folto fogliame, di là dei merli delle mura(169); I polli razzolanti sul mucchio del concime, scapparono, starnazzando, chiocciando, tosto ch'essi volsero a destra, fra le due strisce di lino in fiore [...]. Il lino ondeggiava al soffio del venticello che faceva stormire le fronde dei gelsi intorno: i festoni di vite con le foglioline novelle, si dondolavano, da un albero all'altro. In fondo, dietro la collinetta mezza nascosta tra gli ulivi, il camino quadrangolare d'una fabbrica di mattoni, di cui si vedeva soltanto il tetto annerito, mandava fuori leggiere ondate di fumo che disperdevansi subito(170); Dalle stecche rialzate delle persiane, il sole accennava strisce e punti di luccicanti riflessi sui mobili, sugli oggetti di cristallo e di porcellana, lasciando in penombra uniforme tutto il resto dove non frangevasi la viva punta dei suoi raggi. E, a un tratto, in quel silenzio e in quel tepore, che sembrava tenessero in deliziosa sonnolenza anche gli oggetti inanimati, arrivava, da la via, la stridula voce d'un organino stuonante una melodia del Ruy Blas(171) .
Giacinta, e lo abbiamo già notato, è un romanzo quasi del tutto immobilizzato in quadri che, nello specifico, sono dati prevalentemente dal salotto di casa Marulli e da quello di casa Grippa. Ora, anche se la loro caratteristica è quella di essere 'rumorosi' (vociare continuo, pettegolezzi, canti, suoni, feste, danze, etc. ), il ritmo della frase e l'insieme rappresentativo del testo suggeriscono, al contrario, un'atmosfera fatta di silenzi, di ombre, di malinconie, filtrata da un cromatismo tenue, tremolante in cui il colore predominante è il bianco, segnale speculare di psicologie in sofferenza quali sono soprattutto quelle di Giacinta e di Andrea, nonché del tragico epilogo della storia del racconto.
Come per lo spazio anche per il tempo, Giacinta presenta alcune par-ticolarità. Innanzitutto presenta una struttura temporale complessa. L'avventura del romanzo che è un'avventura passata, ci viene offerta dallo scrittore non solo nella terza persona del passato, ma anche nella terza persona del presente. Questo soprattutto nei dialoghi. E poiché essi costituiscono quasi la maggior parte del tessuto narrativo del romanzo, risulta che Capuana esprime un'azione passata servendosi principalmente del tempo presente. Questo uso del presente non è certo senza significato. Difatti, mediante esso, Capuana attualizza un problema, una situazione, ovvero da all'avventura il brivido e l'incertezza del presente. Oltre a questo uso dei tempi grammaticali, la complessità dell'organizzazione temporale di Giacinta si coglie soprattutto nella sostanza del suo tempo romanzesco, Giacinta, cosi come Madame Bovary rna con esiti diversi, è costruita sulla duplice opposizione spaziale e temporale dell'ora e qui e del futuro-altrove. L'ora è il cerchio particolarissimo della vita quotidiana che Giacinta consuma nella casa paterna, il futuro è la sua tensione a infrangere, al fine di sconfiggerlo, tale cerchio mediante modi e forme particolari di vita che si è data nella sua propria casa per difendersi dalla meschinità e dal falso perbenismo della vita provinciale. Ma il suo futuro-altrove, pur opponendosi al tempo ciclico vissuto, troverà la sua realizzazione al di fuori del tempo immaginario progettato, in quanto si realizzerà, al di là dello spazio e del tempo, nell'oscuro nulla della morte. Insomma la duplice opposizione spaziale e temporale dell'ora e qui e del futuro-altrove evolverà inesorabilmente nella sconfitta. Ma la complessità dell'armatura temporale dì Giacinta è data anche da quella sorta di accelerazione del tempo del racconto, prodotta da tecniche narrative quali lo stile indiretto libero o monologo interiore e l'analisi interiore. Tali tecniche, inoltre, servono a Capuana per presentare i suoi personaggi principali, Gerace e Giacinta soprattutto. Difatti, ella, mediante tali tecniche narrative, spingendosi nella profondità del proprio essere, finisce con il presentare da se stessa la parte più recondita della propria complessa psicologia, che è come dire finisce col presentare da se stessa se stessa. Insieme e accanto a tale presentazione, che vale per Giacinta e assai meno per Gerace, si trovano nel romanzo altre forme di presentazione dei personaggi. La prima è quella realizzata mediante il dialogo, cioè facendo in modo che siano gli altri a presentare i personaggi: il che, nel caso specifico, significa affidare la presentazione di personaggi agli stessi personaggi:
Quella ragazza è impastata di ghiaccio. [...] Pensava [il capitano Ranzelli] un pò mortificato: "Strana ragazza"(172) .
- Dunque sposiamoci! - disse Andrea risoluto [...] - Impossibile! - rispose Giacinta [...]. - Ecco dunque! Sposerai lui!
- Né te né lui.
- E tu mi ami?
- Con tutta l'anima! [...]
- Chi ti capisce?(173);
- Mamma! - rispose Giacinta sdegnata.
- Che c'è? - domandava il signor Marulli apparso sull'uscio.
- C'è... che tua figlia è pazza! - rispose la signora Teresa (174)
- Piuttosto - aggiunse il commendatore Muzzi, Procuratore del Re, - dite che quella donna ha un gran carattere. Tanta arditezza nel mettere in mostra una condizione anormale, e tanta austerità di passione, non sì veggono, convenienti, tutti i giorni. - E continuava, [...]: - Forse abbiamo li un caso di patologia morale non ordinano.(175)
La seconda è quella ottenuta mediante una descrizione visiva che comprende tanto l'abituale cornice del personaggio e la sua abitazione, quanto il suo viso, il corpo, l'abbigliamento:
Vedendola [Giacinta] sdraiata li, con la bruna testa buttata indietro e la faccia rivolta verso dì lui stette a osservarla in piedi, dondolando la seggiola.
Quella personcina minutina, rannicchiata tra la soffice imbottitura della poltrona e cosi ben modellata dalle pieghe dell'abito, gli richiamava alla mente l'immagine d'un gioiello [...]. Sotto il grande specchio di Murano dalla cornice di cristallo tutta fiori e foglie scintillanti ai vivi riflessi dei lumi, la bella signora Clerici rideva [...] Più in là la signora Mazzi, bionda e grassona, movendo lentamente il ventaglio, con gli occhi socchiusi [...] stava a sentire(176) ; Dal sedile a foggia di un'esse posto nel centro del salotto, la signora Rossi [...] li spiava di sbiego, con la sua aria maligna di magra stecchita, storcendo [...] gli occhi sul faccione da mula. [...] Il Ranzi, eretto sulla vita, impettito, scuro in viso, mordevasi i baffi(177); La signora Marulli, col vestito nero accollato, orlato da un goletto bianchissimo, a cartocci, che dava risalto alla sua bella testa di donna matura [...]; la signora Maciocchi che, [...] pareva gli parlasse [...] facendo ballare i nastri, i fiori, i tralci della sua enorme pettinatura [...]. [Gerace] tormentava [...] la punta dei suoi baffetti incipienti [...] pallido e con gli occhi intorbidati (178) , il cavalier Mochi [...] con la lente all'occhio sinistro [...], vecchio raffinato, rapicchiato, vestito sempre all'ultima foggia (179).
La terza, infine, mediante una formula caratterizzante nella sua semplicità:
Quell'insulso dell'avvocato Ratti [...]; la signora Mazzi [...] da quella indolente che era (180); [il] Merli parlava sempre lui quel buratto! [...]; gli sguardi pettegoli della Gìna [...]; quel grullo del conte Grippa di San Gelso (181); Quell'usuraio del signor Forati(182).
Gli ultimi due casi, dando una rappresentazione dei personaggi dal di fuori, di fatto drammatizzano il conflitto tra i personaggi e la società. E proprio per sottolineare come la lotta tra un individuo e una collettività sia un rapporto di forze antagoniste, Capuana si serve di un personaggio introspettivo e psicologicamente complesso quale è appunto Giacinta, di un 'round character' direbbe il romanziere inglese Forster (183). Sia che egli ricorra alle tecniche di presentazione dell'analisi intcriore o del monologo interiore o, in alternativa, del dialogo, condotto per lo più in prima persona, sia che, al contrario, ricorra a quella tipica di un narratore extradiegetico, con il ricorso alla terza persona (che Benveniste definisce "la forma non personale della flessione verbale") (184), si tratta sempre e comunque di una presentazione che esclude ogni intervento dell'allocutore nella narrazione e, quindi, ogni apporto realmente personale dello scrittore, che è poi come dire, che esclude la presenza di un narratore onnisciente. Da ciò nasce la forza rappresentativa dell'opera di Capuana e soprattutto la presa emozionale-estetica del personaggio femminile di Giacinta che è il primo agente dell'azione del romanzo. Ma, se Giacinta da al romanzo il primo impulso dinamico, se ne è la forza tematica, affinchè in esso ci sia conflitto, cioè, affinchè l'azione si intrecci, vi è la necessità della presenza di una forza oppositrice, di un antagonista, insomma di un ostacolo che impedisca a questa forza tematica di dispiegarsi nel suo microcosmo. Questo antagonista è presente nel romanzo e nei panni della signora Teresa Marnili e in quella entità impersonale ma reale rappresentata dalla società. Sono proprio loro, la signora Marnili e la società, a ostacolare il raggiungimento dell'oggetto desiderato di Giacinta che è l'amore per Andrea (in cui si attua la sua volontà di trasgressione morale). In tal senso sia Gerace che Giacinta sono i destinatari, i beneficiari dell'azione, il primo in forma passiva in quanto riceve quest'azione, la seconda in forma riflessiva, in quanto l'azione non solo è da lei compiuta ma anche a lei ritorna. Quattro, quindi, sono le forze o funzioni - per dirla con Souriau - di cui si serve Capuana - che combinandosi tra loro producono l'azione del romanzo: il protagonista, l'antagonista, l'oggetto desiderato e il destinatario(185). Ma l'operazione di scrittura compiuta da Capuana non si ferma qui. Essa è ancora più articolata. Difatti, egli, servendosi nel suo romanzo del metodo oggettivo e in linea con tale metodo che ammette un controllato punto di vista, compie, nella terza e ultima parte del romanzo, uno spostamento di prospettiva da Giacinta ad Andrea: questi da personaggio negativo diviene personaggio positivo alla ricerca di un suo riscatto morale e sociale. E altresì introduce all'interno del racconto un personaggio, quello del dott. Pollini, non dissimile da se stesso, e che per questo gli serve per esprimere indirettamente il suo variegato, complesso mondo di idee che va dalla fede nella scienza, all'accettazione della magia, dell'occultismo (186), dello spiritismo (187), al tentativo di conciliare il materialismo scientista con una sorta di spiritualismo laico (188) (ennesima incarnazione del personaggio del savant, caro alla tradizione del naturalismo francese). E quel che a noi più interessa, in questa sede, per dar voce al suo credo estetico che si fondava, come abbiamo visto, sulla poetica del "caso", dì "un caso di patologia morale non ordinario" (189) e sul metodo impersonale, o che è la stessa cosa sul metodo del verismo (190). Tale metodo, se permette un mutamento di prospettiva relativamente ai personaggi, non lo permette per quanto riguarda il narratore, in quanto autore implicito (implied author), voce, enunciazione narrativa. Egli deve essere al di fuori dell'azione presentata della storia che racconta (narratore eterodiegetico), non deve comparire, quasi deve farcì dimenticare che si tratta di un racconto, in una parola non deve raccontare, ma deve mostrare, deve rappresentare. Cosi, Capuana, in quanto autore implicito - voce - mette in atto quella che Genette chiama, relativamente al punto di vista, "fecalizzazione esterna" e Pouillon "visione dal di fuori", anche se poi, in quanto uomo storicamente determinato, nutre una forte simpatia e partecipazione per la sua eroina. E non poteva essere diversamente se egli, scrittore borghese, ci rappresenta mirabilmente, attraverso la storia di un caso patologico, uno spaccato significativo della vita e del costume della nuova classe borghese che andava nascendo e affermandosi all'indomani dell'unità politica del nostro paese. Ed è proprio questa forza rappresentativa, questa sua capacità di drammatizzare - restando invisibile nella sua opera pur se lo si sente ovunque - a innalzare Capuana al livello dei grandi scrittori europei dell'Ottocento e a fare di Giacinta il primo grande romanzo borghese - naturalista e psicologico insieme - dell'Italia unita.
NOTE
1 - Cfr. L. CAPUANA, Lettera a Verga del 26 maggio 1878, in G. RAYA, Bibliografia di L Capuana (1839-1969), Roma, Ciranna, 1969, p 36.
2 - Cfr. L. CAPUANA, Lettere a Verga del 22 marzo 1879 e del 28 gennaio 1879, in G. RAYA, op. cit., p. 38.
3 - L. CAPUANA, A Neera, in ID., Giacinta e altri racconti, a cura di G. Pampaloni, Firenze, Vallecchi, 1972.
4 - Ivi, pp. 32-33
5 - Ivi, p. 34.
6 - Cfr. R. BARTHES, II piacere del testo, Torino Einaudi, 1975.
7 - Cfr. D. DE ROUGEMONT, L'amore e l'occidente, Milano, Rizzoli, 1987.
8 - Capuana, proprio per evitare qualsiasi accusa di immoralismo aveva apposto alla prima edizione del romanzo la seguente dichiarazione al lettore: "Questo libro non è né ipocrita, né immorale". Verga in una lettera scritta all'amico don Lisi da Catania il 3 marzo 1879 cosi si esprimeva: "La tua Giacinta farà rumore e indiavolato, ma ti consiglio di andare a reggerla a battesimo". (Cfr. G. RAYA, op. cit., p. 38).
9 - Cfr. E. ZOLA, Les Romancters naturatistes, Paris, 1881, p. 69.
10 - V. SANTANGELO, Luigi Capuana e i suoi critici, Roma, Editrice Ciranna, 1969, pp. 27 e 26, passim.
11 - Ivi, pp. 37 e 38.
12 - Cfr. ivi, pp. 27 e 28-
13 - Cfr. P. VETRO, L. Capuana. La vita e le opere, Catania, Studio editoriale moderno, 1922, p. 116, cit. da V. SANTANGELO, op. cit., p. 26.
14 - Cfr. F. VERDINOIS, in "Corriere del mattino", Napoli, 16 giugno 1879, e in "Illustrazione Italiana", 2-9 Giugno e 16 Luglio 1879.
15 - Riportiamo qui i brani più significativi della lettera di Capuana e della risposta dì Verga. ' "Oggi il Treves ha pubblicato uno sporco articolo nella "Illustrazione Italiana": dichiara il mio libro molto immondo. Io gli ho scritto una lunga lettera in difesa del mio lavoro citando dei brani di esso. Se si rifiuta di pubblicarlo son deciso di schiaffeggiarlo in pubblico in qualunque luogo lo troverò", "Ho [...] letto l'articolo del!'"Illustrazione Italiana". Cela devrait ètre. Nella nostra condizione bisogna avere lu stomaca ài li mascamti. Niente scene, dunque, per l'amor di Dio!", (cfr. L. CAPUANA, Lettera a Verga, Milano, 29 giugno 1879, e G. VERGA, Lettera a Capuana, Firenze, 6 luglio 1879, in G. RAYA, op. tit., pp. 39-40).
16 - Era stato G. Verga a suggerirgli per i! romanzo il titolo di Giacinta. Cfr. G. VERGA, r Lettera a Capuana, Catania, 1 febbraio 1879, in G. RAYA, op. cit., p. 38.
17 - Giacinta "ha superato la mia aspettativa. [...] L'analisi che predomina nella seconda parte è forse più perfetta, ma resa con minor efficacia, parlo di quell'efficacia che nasce dalla rappresentazione e non dal fatto" cfr. G. VERGA, Lettera a Capuana, Catania, 18 giugno 1879, in G. RAYA, op. di., p. 39.
18 - "Ad ogni pagina [di Giacinta} che scrivo mi faccio la domanda: che ne dirà Giovanni?" cfr. L. CAPUANA, Lettera a Verga, Milano, 4 gennaio 1879, in G. RAYA, op. cit., p. 38.
19 - "Credo di essere solo con te e qualcun altro a capire come si faccia a fare lo stufato. Gli altri sono imbrattacarte, lavapiatti" cfr. G. VERGA, Lettera a Capuana, Catania, 16 marzo 1879, in G. RAYA, op. cit., p. 38.
20 - Del resto Capuana - aggiungeva Panzacchi - non aveva saputo serbare misura e sobrietà nello scrivere; poiché nessuno aveva saputo trarre ardite e belle immagini dalla vicenda di Giacinta era logico che tale vicenda non fosse né proponibile né accettabile.
21 - "Oggi - scriveva Farina - a forza di naturalismo, o di realismo, o di verismo si è arrivati a questo che uno scrittore pieno di ingegno e di buon gusto ci annoia con un racconto, in cui la protagonista esordisce con lo stupro, va innazi nell'adulterio e nel menage a tre, e finisce uccidendosi di veleno, d'un veleno nuovo, il curare. Gli è che dopo aver descritto il vizio per ottenere il successo [...] senza fatica il realismo si è preso sul serio, ha voluto diventare arte nuova, ha fatto mille smorfie in cerca del nuovo e si è ribattezzato nel naturalismo".
22 - In proposito cosi scriveva: "lo stile è sereno ma la sostanza arruffata; elevatezza di concetti, ma volgarità di situazione; osservazione profonda, ghirigori sofistici, qui la vernice di una non spontanea frase toscana, lì lo scatto brusco del dialetto".
23 - "In tal caso - concludeva l'Arcoleo - la questione di moralità e di realismo diventa affar di mamme e di pedanti; è gran merito il tentativo: e l'autore può sorridere, anche se morta, alla sua Giacinta".
24 - Cfr. G. BENETTI, in "La squilla di Brescia", 13 agosto 1879.
25 - Cfr. A. TORRE, in "Napoli Letteraria", a. Ili, n°. 14,1879, in P. VETRO, op. di., p.116
26 - Cfr. V. SANTANGELO, op. cit., p. 31.
27 - In proposito il Barone Lorenzo De Luca, in una lettera inviata a Capuana il 22 gennaio 1880 cosi scriveva: "Chiave della Giacinta, Giacinta, al secolo si chiamò Maria Cesari poi Marchesa di Bourbon del Monte". (Cfr. G. RAYA, op. cit., p. 44).
28 - Nella Confessione a Neera, al secolo Anna Radius Zuccari, Capuana affermava che questa eroina che tanto Ìntimamente era imparentata con la Signora Récamier, lo aveva affascinato e lusingato per un breve periodo tanto da indurlo a scrivere alcuni capitoli dì un romanzo quasi subito interrotto. (Cfr. L. CAPUANA, A Neera, cit., p. 31).
29 - Cfr. V. LANSON, Histoire de la littérature franqaise, Paris, 1894, pp. 1043-1048; e pure cfr. V. SANTANGELO, op. cit., p. 56.
30 - Cfr. R. PATERNOSTRO, Luigi Capuana. Dalla problematica dei generi alla poetica dell'aggettività, ìn "F.M. " Annali del Dipartimento di Italianista, 1982/2, Roma, Bulzoni, 1982, pp. 102-103.
31 - Cfr. V. SANTANGELO, op. tit., pp. 32-33.
32 - Cfr. G. PIPITONE FEDERIGO, II metodo critico di Luigi Capuana, in ID., Saggi di letteratura contemporanea, I serie, Palermo, 1885; per tutta questa parte cfr. V. SANTANGELO, op. cit., p. 33. Come abbiamo sostenuto all'affermazione della tendenza verista contribuì anche il De Sanctis, con una serie di scritti che vanno dal Saggio sul Petrarca del 1869, a quello su Zola è l'Assomoir del 1879, alla recensione del libro del Kirchmann, Uber die Prindpen des Realismus, del 1876, al Darwinismo nell'arte del 1883, alle Postille al Saggio sul Petrarca, del 1883.
33 Cfr. E. NENCIONI, in "Fanfulla della Domenica", 7 febbraio 1886.
34 - " Cfr. V. PICA, in "Domenica del Fracassa", 14 febbraio 1886.
35 - Cfr. A. CIMBALI, in "Gazzetta letteraria", 27 febbraio 1886.
36 - Cfr. G.A. CESAREO, in "Cronaca Bizantina", 14 marzo 1886.
37 - Cfr. G. PIPITONE FEDERIGO, in "Scena illustrata", 1 giugno 1886.
38 - F. DE ROBERTO, Lettera, pubblicata da C. DI BLASI, in Luigi Capuana. Vita amicizie relazioni letterarie, Mineo, 1954, p. 36.
39 - A. ORIANI, Lettera, pubblicata da C. DI BLASI, op. cit., pp. 336-337.
40 - Cfr. V. SANTANGELO, op. cit., p. 53.
41 - Cfr. E. CHECCHI, A proposito di una commedia, in "Fanfulla della Domenica", 22 gennaio 1888; L. CAPUANA, A proposito di una commedia, in "Fanfulla della Domenica", 29 gennaio 1888; E. CHECCHI, Chi la fa l'aspetti, in "Fanfulla della Domenica", 5 febbraio 1888; L. CAPUANA, Botta e risposta, in "Fanfulla della Domenica", 12 febbraio 1888.
42 - Il 21 giugno 1888 la commedia venne rappresentata all'Arena Nazionale di Firenze; il 29 luglio la compagnia Pietroboni la ripropose all'Arena Pelerò di Messina; il 25 agosto la compagnia Filo la rappresentò al Teatro Nazionale di Messina; il 13 ottobre la compagnia Città di Torino la dette al Teatro Cerbino di quella città e la ripropose il 23 novembre al Teatro Valle di Roma.
43 - II 13 marzo 1889 fu rappresentata al Teatro Filodrammatico di Milano e il 6 dicembre successivo fu riproposta al Teatro Goldoni di Venezia.
44 - Si cfr. i resoconti apparsi su diversi organi di stampa quali: "Gazzetta letteraria" del 4 febbraio e del 26 maggio 1888; "Corriere di Napoli" del 18-19 maggio 1888; "La Nazione" del 25 giugno 1888; "Gazzetta di Catania" del 26 agosto 1888; "Capitan Fracassa" del 21 e 23 novembre 1889 e "Fanfulla della Domenica" del 25 novembre 1889.
45 - Sulla "Cronaca Napoletana" del 20 maggio 1888, in occasione della prima al Teatro Sannazzaro di Napoli si parlò di "insuccesso", anche se poi il recensore C. Conforti nel suo resoconto aggiungeva che il 2° e il 4° atto erano di "una bellezza meravigliosa". Ma il Capuana, la sera stessa della prima con un telegramma e la mattina successiva con una lettera, informava l'amico Guzzanti di Mineo del grande successo ottenuto dalla commedia, nonostante l'audacia del soggetto. AI contrario Scalinger, il 15 luglio del 1888 sulla "Scena illustrata", recensendo la rappresentazione all'Arena Nazionale di Firenze lamentava che nel dramma il carattere di Giacinta si presentava già fatto e tutto il passato che ne giustificava l'anormalità era un prologo noto soltanto a chi ricordava il romanzo. Mentre "il più completo dei successi della stagione" e "un trionfo" definirono la commedia la "Gazzetta di Messina" del 30 luglio 1888 e la "Gazzetta dì Catania" del 26 agosto che recensirono rispettivamente !a rappresentazione data all'Arena Peloro di Messina e l'altra al Teatro Nazionale di Catania. Di "inesperienze sceniche" parlò la "Gazzetta del Popolo" del 14 ottobre di quell'anno in occasione della rappresentazione al teatro Cerbino di Torino; e "pessimo dramma" cavato da "un romanzo mediocre" fu il giudizio inesorabile di Checchi sul "Fanfulla della Domenica" del 26 novembre 1888 in occasione della rappresentazione al Teatro Valle di Roma. E quando il dramma Giacinta fu rappresentato il 13 marzo dell'anno successivo al Teatro Filodrammatico di Milano, il "Pungolo" parlò di un "insuccesso, vero, completo [...] meritato". Infine il Monticelli sulla "Democrazìa Veneta" del 7 dicembre 1889 leggeva il dramma come "battaglia combattuta in nome dell'arte nuova".
46 - Cfr. in proposito il "Capitan Fracassa" del 18 maggio 1888, cit. da V. SANTANGELO, op. cit., p. 54.
47 - Fu stampata dall'editore Cervieri di Milano.
48 - Fu stampata dall'editore Madella di Sesto San Giovanni.
49 - Cfr. in proposito V. SANTANGELO, op. cit., p. 32.
50 - Quella stagione narrativa era stata già abbozzata con le novelle Comparatico di Capuana, e Nedda di Verga.
51 - Cfr. G. RAYA, Giacinta nel museo capuanesco, in "Giornale dell'isola", 12 dicembre 1926, e Ricerche e documenti sulla "Giaciuta" di L. Capuana, in "II regime fascista", 14 novembre 1931.
52 - Cfr. A. NAVARRIA, Giacinta, in "II Tevere", Roma, 22 agosto 1930.
53 - Cfr. E. EMANUELLI, Giacinta, in "Italia letteraria", Roma, 7 settembre 1930.
54 - Cfr. G. BELLISÀ', L'autore dì " Giacinta", in "Sicilia liberata", 10 giugno 1944.
55 - Cfr. G. LO CURZIO, L'autore di "Giacinta", in "Sicilia", 12 ottobre 1954.
56 - Cfr. C. ZIMBONE, Giacinta, in "Giornale dell'isola", Catania, 11 marzo 1955.
57 - Cfr. V. BUTTAFAVA, Le amare verità di Luigi Capuana. Dalla cronaca all'arte, il dramma di "Giacinta", in "Radiocorriere", Torino, 24-30 giugno 1956.
58 - Cfr. V. LUGLI, Bovary italiane ed altri saggi, Caltanissetta, Sciascia, 1959.
59 - Cfr. C. DI BLASI, Come nacque " Giacinta", in "La Fiera letteraria", 4 agosto 1963.
60 - Cfr. V. SANTANGELO, La battaglia intorno a "Giacinta", in ID. Luigi Capuana e i suoi critici, cit., pp. 26-41.
61 - Cfr. C.A. MADRIGNANI, II romanzo naturalista, in ID., Capuana e il naturalismo, Bari, Laterza, 1970, pp. 154-225.
62 - Cfr. G. PAMPALONI, Introduzione a L. CAPUANA, Giacinta e altri racconti, cit.
63 - Verga definì Capuana "più artista che critico", mentre Borgese definì Capuana uno scrittore "dal prepotente istinto narrativo" (cfr. L. e V. PERRONI, Storia de "I Malavoglia", Carteggio con l'editore e con L. Capuana, in "Nuova Antologia", 15 marzo e 1° aprile 1940, e A. BORGESE, La vita e il libro, Bologna, 1928, pp. 170-176).
64 - Croce ravvisava "la fonte riposta" di "una certa deficienza" dell'arte di Capuana nel suo "atteggiamento da naturalista" e nella presenza in lui di un "critico che si vale della riflessione". Mentre Pompeati definiva Capuana "un creatore [...] mortificato da uno studioso", Luti su per giù ribadiva lo stesso concetto definendo lo scrittore siciliano "un critico che subisce lo sperimentalismo come un vincolo e un limite allo scatto finale verso una tecnica autonoma" (cfr. B. CROCE, Letteratura della nuova Italia, vol. Ili, 5a ed., Bari, Laterza, 1949, pp. 103-120; A. POMPEATI, Storia della letteratura italiana, vol. IV, Torino, UTET, 1950, pp. 500-^06; G. LUTI, voce "Capuana" nel Grande Dizionario Enciclopedico, vol. III, Torino, UTET, 1967).
65 - Cfr. R. PATERNOSTRO, op. cit., pp. 63, 112, 114, 115, 116, 118, 119, 120, 121, 122. :0.
66 - Cfr. L. CAPUANA, A Neera, in ID., Giacinta e altri racconti, cit., p. 31.
67 - Ivi, pp. 32-33. '
68 - Ivi, p. 33.
69 - Cfr. R. PATERNOSTRO, op. cit., pp. 111-112.
70 - L. CAPUANA, op. cit., pp. 36-37, passim.
71 - Cfr. C. REVEE, Progress of Romance, London, 1785.
72 - Cfr. G. LUKACS, Narrare o descrivere?, in ID., Il Marxismo e la critica letteraria, Torino, Einaudi, 1964.
73 - Zola accettando il realismo come metodo giungeva ad accettarlo, poi, fìlosofìcamente, mentre il verismo giungeva limitativamente solo a un'acccttazione psicologica di esso; il romanzo sperimentale di Zola, costruito con il rigore della scienza - a esso non erano estranee le analisi di Claude Bernard - si caricava anche di motivi politico-sociali, estranei al verismo (cfr. V. SANTANGELO, op. cit., pp. 34, 46-47).
74 - Cfr. R. PATERNOSTRO, op. cit., pp. 120-121.
75 - Cfr. L. CAPUANA, op. cit., pp. 41-42.
76 - Ivi, p. 42.
77 - Dujardin lo definisce come l'arficio che tende alla "diretta introduzione del lettore nella vita intcriore del personaggio senza alcun intento di spiegazione o di chiosa da parte dell'autore", o come "espressione dei pensieri più intimi, quelli che sono vicini all'inconscio". Mentre Wellek e Warren sostengono che la frase inglese stream of consciousness, risalente a W. James, è il libero e completo corrispondente della francese monologue intérieur, di diversa e opposta opinione sono R. Bourneuf - R. Ouellet (cfr. R. WELLEK-A. WARREN, Teoria della letteratura, Bologna, II Mulino, 1979, p. 303, nota 29 e R. BOURNEUF - R. OUELLET, L'Universo del Romanzo, Torino, Einaudi, 1981).
78 - L. CAPUANA, Giacinta, in ID., Giacinta e altri racconti, cit., p. 96.
79 - Ivi, p. 189.
80 - Ivi, p. 196, cfr. pure pp. 213, 234.
81 - Ivi, p. 251.
82 - Ivi, p. 197; e cfr. pure pp. 120, 232.
83 - Cfr. L.E. Bowling, R. Humphrey, M. Friedman, in R. WELLEK-A. WARREN, op. cit., p. 304, nota 31.
84 - L. CAPUANA, op. cit., p. 97.
85 - Ivi, p. 103.
86 - Ivi, p. 109; cfr. pure pp. 164, 173, 174, 177, 209, 232, 233, 246.
87 - G. PAMPALONI, Introduzione, a L. CAPUANA, Giacinta e altri racconti, cit., pp. 18-19 passim.
88 - A. MOMIGLIANO, Storia della letteratura, Milano, Messina, Principato, 1937, p. 536.
89 - G. PAMPALONI, op. cit., p. 19.
90 - Si cfr. in proposito, le seguenti espressioni: "se n'erano appellati a lei" (L. CAPUANA, Giaciuta, cit., p. 43); "quel buratto" (Ivi, p. 43); "mordevasi i baffi" (ibidem); "erasi già scostato" (Ivi, p. 47); "eran rimasti" (Ivi, p. 48); "passavano nel salottino accosto" (Ivi, p. 49); "Grulla!" (Ivi, pp. 52 e 58); "l'intiera mesata" (Ivi, p. 54); "Perché mi guardi a cotesto modo?" (Ivi, p. 59); "massime la sera" (Ivi, p. 67); "Vo' andargli incontro" (Ivi, p. 88); "si netti ia bocca" (Ivi, p. 101); "trovossi" (Ivi, p. 103}; "le parve che il cuore le si chiamasse" (Ibidem). Inoltre dì Giacinta quale romanzo che anticipa quello del Novecento cfr. A. MOMIGLIANO, Storia della letteratura, Milano, Messina, Principato, 1937, p. 536 e G. PAMPALONI, Introduzione, a L. CAPUANA, Giacinta e altri racconti, cit. p. 21.
91 - Cfr. G. PAMPALONI, op. cit., p. 18.
92 - Cfr. A. THIBAUDET, Riflexiotis sur le roman, Paris, Gallimard, 1938, pp. 18-23. Qui accanto al romanzo passivo il crìtico parla di romanzo attivo e di romanzo grezzo. Il primo "isola e sviluppa un episodio significativo" ed è "opera di composizione metodica", in cui ogni elemento è accuratamente collocato e subordinato all'insieme. Il secondo, "dipinge un'epoca nella sua complessità, in modo da dare un'impressione di tempo multiplo, di inesauribile forza, di un ritmo di vita sociale die oltrepassa ogni rappresentazione individuale" (cit. da R. BOURNEUF-R. OUELLET, L'Universo del romanzo, cit., p. 48).
93 - Cfr. L. CAPUANA, A Neera, cit., p. 16. Lo studio minuto di una sola passione non era nuovo nella letteratura italiana: con gli stessi intenti furono scritti i romanzi intimi della Vita Nuova di Dante e quello dello Jacopo Ortis del Foscolo (cfr. G.A. CESAREO, op. cit. ).
94 - Cfr. R. BOURNEUP-R. OUELLET, L'Universo del romanzo, cit., pp. 56-57.
95 - Cfr. T. TODOROV, les categories du rècti luterai, in "Communications", n° 8, 1966, p. 140.
96 - Cfr. L. CAPUANA, Giaciuta, cit., p. 46.
97 - Ivi, p. 76.
98 - Ivi, p. 92.
99 - Ivi, p. 100
100 - Ivi, p. 113.
101- Ivi, p. 114.
102 - Ivi, p. 115.
103 - Ivi, p. 83.
104 - Ivi. p. 110
105 - Ivi, p. 92.
106 - Ivi. p, 100.
107 - Ivi, p. 114.
108 - Ivi, p. 83.
109 - Ivi, p. 114.
110 - Ivi, p.115.
111 - Ivi, p. 126.
112 - Ivi, p. 130.
113 - Ibidem.
114 - Ivi, p. 133.
115 - Ivi, p. 139.
116 - Ivi, p. 140.
117 - Ivi, p. 148.
118 - Ivi, p. 157
119- Ivi, ,p.161.
120- Ivi, p.177.
121 - Ivi, p. 180
122 - Ivi, p. 181.
123 - Ivi, p. 126.
124 - Ivi, p. 130.
125 - Ivi, p. 131.
126 - "II cuore di qualla ragazza era proprio un enimma" (cfr. Ivi, p. 133).
127 - Ivi, p. 135.
128 - Ivi, p. 139.
129 - "Vedeva passarsi dinanzi, rapidi, sfolgorando un istante, in un vortice della memoria, tutti i tristi ricordi del suo passato" (cfr. Ivi, p. 148).
130 - Ivi, p. 172.
131 - Ivi, p. 171.
132 - Ivi, p. 176.
133 - Ivi, p. 178.
134 - II nome di Giacinta è legato al mito di Giacinto, bellissimo giovane della Laconia, che per sbaglio fu ucciso da un disco scagliato, mentre gareggiavano, dal dio Apollo suo amico inseparabile. Il dio provò un sincero dolore, e per immortalare il nome dell'amico fece nascere dal suo sangue il fiore omonimo. Secondo una leggenda, indipendente da questa, il fiore del giacinto fiori sul sangue colato dalla ferita di Aiace Telamonio, allorché l'eroe si uccise.
135 - IL. CAPUANA, Giaciuta, cit., p. 210.
136 - Ivi, p. 195.
137 - Ivi, p. 195.
138 - Ivi, p. 197.
139 - Ivi, p. 205.
140 - Ibidem.
141 - Ivi, p. 205.
142 - Ivi, p. 212.
143 - Ivi, p. 215.
144 - Ivi, p. 219
145 - Ivi, p. 222
146 - Ivi, p. 244
147 - Ivi, p. 252
148 - Ivi, p. 237-239
149 - Ivi, p. 242
150 - Ivi, p. 247
151 - Ivi, p. 248
152 - Ivi, p. 251
153 - Ivi, p. 254
154 - Ivi, p. 255
155 - In proposito si legga questo passo esplicativo: "allora quella testina chinata sulla scacchiera, con le chiocchette dei capelli che le adombravano la fronte; la bella mano dalle dita affusolate [...]; iJ tiepido alito [...] gJi davano una dolce sensazione di calma, d'interno benessere; gli richiamavano in mente i giorni felici della sua fanciullezza, tra la mamma e le sorelle nella casa nativa, sulla riviera di Posillipo tutta smagliante di sole" (cfr. Ivi, p. 222}.
156 - "Con la testa fra !e mani, i gomiti appoggiati sul tavolino, lo sguardo perduto nello spazio, riviveva [...] la sua triste infanzia, la sua dolorosa giovinezza. Rivedeva luoghi, persone da un pezzo non più viste, o sparite; sentiva voci che tacevano da anni; provava [...] sensazioni dimenticate, palpitando e soffrendo al ricordo delle sue prime lotte, delle sue disperazioni di ragazza; felice, per un istante, dell'immensa felicità allora conquistata a un prezzo senza pari, al prezzo di tutta sé stessa" (Ivi, p. 235).
157 - "Si rizzò subitamente impallidita, come se una voce insultante le avesse soffiato in un orecchio: "E Beppe, eh?" - Ah! Beppe! - balbettò, nascondendo il volto fra le mani. Cosi aveva fatto dianzi, quando il testone arruffato, i grandi occhi neri e le labbra carnose di quel triste l'avean fatta fremere tutta, con un brivido ghiaccio" (Ivi, p. 237).
158 - "Seduta davanti lo specchio [...] Giacinta osservava il suo viso squallido e disfatto, dalle occhiaie livide, dalle labbra contratte. La testa con i capelli sciolti sulle spalle e gli occhi stralunati, aveva una cosi strana espressione che [...] n'ebbe quasi paura" (Ivi, p. 248).
159 - "Quando lo punse con lo spillo avvelenato, ei mostrò appena di risentirne. Beccò il pezzettino di zucchero [...] e, rientrato nella gabbia, continuò a saltellare qua e là. [...] Dopo alcuni minuti [...] non saltellò più. Appollaiato sulla stecca, volgeva la testina attorno [...]. Stirò una zampina, [...] nascose la testa sotto un'ala... e cadde in fondo alla gabbia" (Ivi, p. 252).
160 - Cfr. Ivi, p. 97.
161 - Ivi, pp. 132-133.
162 - '" Ivi, p. 193.
163 - Ivi, p. 79.
164 - Ivi, p. 105.
165 - Ivi, p. 146. Oppure pur non essendoci diretta corrispondenza rappresentativa tra spazio e stati d'animo dei personaggi, lo spazio viene usato per rappresentare, per contrasto, i sentimenti delle persone: "Andrea Gerace camminava con lesti passi, sotto i rami degli alberi che ombreggiavano la viottola deserta. Quel cielo limpidissimo, filettato di nuvolette bianche, diafane, dagli orli color rosa; quel verde novello delle fronde che tremolava, a ogni alito d'aria, come preso da fremiti d'amore nell'onda d'oro che il sole vespertino spandeva dall'alto, pareva lo spronassero allegramente, quantunque egli fosse preoccupato" (Ivi, p. 155).
166 - Ivi, p. 258.
167 - Ivi, pp. 144-145.
168 - Ivi, p. 147.
169 - Ivi, p. 156.
170 - Ivi, p. 157.
171 - Ivi, p. 245.
172 - Ivi, p. 45.
173 - Ivi, p. 50. 1
174 - Ivi, p. 55 e cfr. pure pp. 88-90 e 100.
175 - Ivi, p. 201.
176 - Ivi, p. 42. Cosi in altro luogo seguita la descrizione di Giacinta: "piantò in viso ad Andrea, quel paio dì occhi scintillanti che erano la sua bellezza" (Ivi, p. 49).
177 - Ivi, p. 43.
178 - Ivi, p. 44. Così Capuana completa la descrizione di Teresa Marnili: "C'era un che di volpino in quegli occhi piccoli e vivacissimi, in quella fronte piatta con la pelle lucida, tirata, e le sopracciglia sottili, in quel naso profilato, cartilaginoso, colte pinne che si gonfiavano, a certi movimenti di quella bocca diritta, delle labbra fine, con le pozzette ai lati su cui la peluria, più addensata, metteva una piccante sfumatura di virilità" (Ivi, pp. 85-87).
179 - Ivi, pp. 46 e 77.
180 - Ivi, p. 42.
181 - Ivi, p. 43.
182 - Ivi, p. 99.
183 - Cfr. E.M. FORSTER, Aspects of thè novel, Harmonswordt, Penguin Books, 1968 [trad. it. Aspetti del romanzo, Milano, Mondadori, 1968], cit. da R. BOURNEUF - R. OUELLET, L'Universo del romanzo, cit., p. 162.
184 - E. BENVENISTE, La méthode de Bakac, in "Messages", serie I, Paris, Gallimard, 1926, p. 230, cit. da R. BOURNEUF - R. OUELLET, L'Universo del romanzo, at., pp. 191-192.
185 - Cfr. E. SOURIAU, Les deux ceni mille situations dramatiques, Paris, Flammarion, 1950 e ID., Grandi problèmes del'estkétique théàtrale, Paris, CDV, 1962, cit. da R. BOURNEUF - R. OUELLET, L'Universo del romanzo, cit., pp. 153-155.
186 - L. CAPUANA, Giacinti, cit., p. 220.
187 - Ivi, p. 251.
188 - Ivi, p. 203.
189 - Ivi, p. 201.
190 - Cfr. Ivi, pp. 205 e 204. Qui così si legge: "II Follini [...] studiava Giacinta con la fredda curiosità d'uno scienziato di fronte a un bel caso [...]. S'era seduto in un angolo, fuori vista, per osservarla con più comodo". E ancora: "Perché mi osserva a quella maniera?" / "La studio". |