Quando Rocco Paternostro mi offri, gentilmente, di parlare qui di Moravia, io gli proposi come titolo Ricordo di Alberto Moravia. Poi ho visto che nel depliant, molto opportunamente, c'è scritto soltanto Alberto Moravia. E credo che sia giusto cosi, perché nel titolo Ricordo di Alberto Moravia c'era un non so che di funebre, di commemorativo; e invece io non voglio affatto fare una commemorazione di Moravia. Voglio parlare dell'opera di Moravia, naturalmente presupponendo che sia per buona parte nota a molti dì voi, e cercando di rivedere alcune cose. Rivedere, perché penso che molte le abbiate già viste. Rivedere, perché forse qualche giudizio può anche essere mutato dopo la morte dello scrittore. Confesso che ho qualche disagio a parlare dì Moravia ormai non più fra noi, perché la sua era una presenza talmente viva che sembra impossibile non risentirlo, non riascoltarlo, ancora magari in televisione, non intervenire a darci Ì suoi pareri, le sue opinioni che, comunque, erano sempre di estremo interesse.
Veniamo, dunque, a parlare di Moravia non per commemorarlo da morto, ma per ricordarlo come uno scrittore vivissimo, presente ancora tra di noi. Tralascio, quindi, le notizie biografiche, se non quelle minime che possano servire a introdurre le mie parole. Come ognuno sa, negli anni dell'adolescenza Moravia è stato malato di tubercolosi ossea. La permanenza in sanatorio coincide con l'inizio della sua attività di scrittore, cioè il sanatorio lascerà qualche traccia, anzi più di una traccia, anche nella sua opera di scrittore. Ma vengo subito al primo e fondamentale notissimo romanzo che sono Gli indifferenti, sul quale forse mi soffermerò un po' più a lungo che non sul resto, perché quello che dico intorno a Gli indifferenti vale, sotto molti aspetti, anche per l'opera successiva di Moravia. Ma intanto vediamo questa opera, che è del 1929, nella testimonianza stessa dì Moravia. Il 1929 è una data molto importante per vari aspetti sia di carattere politico sia di carattere strettamente letterario. Per ricordarli rapidissimamente al fine di mettere nella sua storia Alberto Moravia: è l'anno dei Patti Lateranensi, cioè dell'accordo tra Stato e Chiesa che comporta anche nel campo della cultura e della letteratura riflessi tutt'altro che secondari; è il momento, anche, in cui il Gran Consiglio del Fascismo diventa organo costituzionale e, quindi, il Fascismo-Partito diventa Fascismo-Stato; è l'anno in cui si inaugura l'Accademia d'Italia e, quindi, la cultura riceve questo crisma, per così dire, ufficiale. Insomma, veramente possiamo dire, per tagliare rapidamente questa introduzione, che è il momento in cui si passa da una fase ancora fluida tra il vecchio Stato liberale e il nuovo Stato fascista, al completo assetto del Fascismo come Stato. In quel momento cade, sia pure in ambito letterario e non certo in ambito politico, cade questa piccola bomba che sono Gli indifferenti di questo giovanissimo e sconosciuto scrittore che si chiama Alberto Moravia e che ognuno sa che non si chiamava Alberto Moravia. Permettetemi una brevissima precisazione: si chiamava Alberto Pincherle.
Quando circa trent'anni fa ci fu una autopresentazione di vari scrittori, Moravia disse che questo era uno pseudonimo. In una pubblicazione molto recente in cui c'è un'altra autopresentazione di vari scrittori, Moravia dice invece che questo di Moravia è il suo secondo cognome, perché era il cognome della madre. Comunque, chiusa questa parentesi, veniamo a Gli indifferenti. Incomincio con una citazione che mi sembra, per molti aspetti, importantissima. Dice Moravia:
Gli indifferenti, nella mia intenzione, non voleva essere che un romanzo, ossia un'opera letteraria. Ma la critica e il pubblico ci videro una violenta polemica sociale che c'era senza dubbio, ma che io non avevo avuto intenzione di metterci. Io non mi ero mai occupato di politica e i miei interessi erano soltanto letterari. L'accoglienza ostile di una parte della critica più ufficiale e delle autorità mi costrinsero, per cosi dire, a rendermi conto della vera natura del romanzo o, per lo meno, di alcuni aspetti di esso.
Direi che è una confessione quasi strabiliante, di uno scrittore che dice: "ma, io ho scritto un romanzo, volevo fare una cosa, viene la critica e mi dice che ho fatto tutta un'altra cosa. Io non volevo fare della politica e mi dicono che ho fatto una cosa politica addirittura di livello storico, per così dire". Il fatto non è poi cosi strabiliante, anzi, secondo me, è un indice abbastanza ricorrente presso molti scrittori, tanto che può essere anche stato teorizzato sotto il nome lukàcsiano di "grande realismo"; cioè lo scrittore mette coscientemente nell'opera alcune cose, ma ce ne mette forse ancora tante di più di quanto non sia perfettamente cosciente; è compito del lettore e della critica riscoprirle, insegnarle quasi allo scrittore, il quale, quindi, in questa dialettica lettore-scrittore si arricchisce e, in fondo, finisce per conoscere se stesso. Quindi Moravia in quell'età di vent'anni, quanti ne aveva o anche meno, quando cominciò a scrivere Gli indifferenti, in realtà non conosceva Freud non conosceva Marx, non foss'altro perché non erano disponibili nelle biblioteche italiane, voleva scrivere un romanzo, soltanto un romanzo. Vedremo tra pochi istanti che in realtà non voleva scrivere nemmeno un romanzo. Voleva scrivere un'opera teatrale, e gliene venne fuori un romanzo. Ma di questo diremo tra poco.
Quello che mi interessa adesso vedere perché mi sembra che offra una circostanza molto precisa sulla presenza di Moravia, è che cosa volesse dire quella "accoglienza ostile di una parte della critica più ufficiale e delle autorità". Credo sia molto interessante citare anche qui alcune righe degli anni 1929 perché ci insegnano due cose: 1) attraverso quali difficoltà dovette passare il giovanissimo scrittore per giungere finalmente a chiarire a se stesso e al proprio pubblico quale fosse il senso della sua opera; 2) ma ancora più interessante perché ci da, direi in maniera quasi paradossale, il clima culturale e letterario dell'anno 1929, aggiungiamo VII dell'era fascista.
Su "II Bargello", giornale d'altra parte molto interessante, nonostante fosse l'organo della Federazione Fascista Fiorentina, foglio diretto da Alessandro Pavolini, Fernando Agnoletti scriveva testualmente queste parole:
L'ultima immondizia di cui mi accorgo sul mio pianerottolo è Gli indifferenti di Pincherle Moravia. Ignobile romanzaccio, tutto giudeo, la cui indecenza interiore trasuda fino sulla copertina postribolare, anch'essa disegnata da un giudeo. Se si pensa che queste pagine di finta prosa strofinata nella cocaina, sono andate a ruba, che critici dal cerebro stupefatto hanno osato lodarle, che le spedizioni punitive e i falò, per ragioni imperturbabili, non si vogliono più 'colà dove si puote', altro non rimane da fare, in odio ai libri schifosi, che occuparsi dei libri generosi e segnalarli ai fascisti.
E aggiungo, perché fa quasi non so se ridere o piangere, Agnoletti segnala un libro generoso, perché era di un combattente, un mutilato, tal Antonio Rossi, naturalmente non passato alla storia della nostra letteratura, il quale, fra l'altro, aveva il merito, sempre tra virgolette:
di scrivere in romagnolo. Idioma sonoro e profondo che tutti abbiamo il dovere di intendere dal momento che oggi l'italiano se lo accaparrano gli ebrei: Svevo, Loria, Moravia e compagni.
Il dovere degli italiani di imparare il romagnolo derivava dal fatto che Mussolini parlava in romagnolo. Questa era la critica letteraria che si faceva nell'anno VII. Ma vorrei aggiungere, proprio per confermare questa impressione, quello che era scritto sempre nel 1929 su un altro giornale "Antieuropa" ad opera di Aristide Campanile, che naturalmente non è Achille Campanile.
A proposito de Gli indifferenti scrive:
ci sono affermazioni indegne da ricacciare in gola a chi le pronuncia. 'Sciagurata figura del nostro tempo corrotto, dice in una certa pagina Moravia. DÌ quale tempo parla il Moravia? Del suo tempo, forse dei suoi giorni e delle sue ore, non del nostro tempo, che il nostro è così chiaro, luminoso, puro, che dal contrasto risulta palese la sua indegnità. Quanta bellezza da sette anni! Campi in rigoglio, officine sonanti, opere grandiose, canti e canti, Roma splende di luce meridiana, il genio oggi la guida. Povero giovinetto fa pietà! Compatirlo bisogna il povero Moravia. Egli è sordo e cieco, seppellito come è nel suo truogolo.
Questo - ripeto - è il modo di far critica letteraria nell'anno VII. Vi immaginate uno che oggi scrive una recensione magari sull'opera del nostro Paternostro e finisce con un inno a Cossiga o ad Andreotti? Questo per capire quale potesse essere la vera follia a cui si giungeva. In realtà, le critiche a Moravia gli vennero anche da altra parte. Citavo prima la Conciliazione e proprio come primo frutto della Conciliazione (11/2/1929) nel marzo del '29 nasce "II Frontespizio" che è una rivista cattolica di letteratura e cultura, fra l'altro molto importante perché è stata una delle culle dell'ermetismo. Ma rivista cattolica, e quindi a proposito de Gli indifferenti dice:
è certo che il [...] romanzo è cosa moralmente sporca. E basta. Non è solo l'impurità e lo sfacelo della carne, ma è l'impurità e lo sfacelo dell'anima che esala dalle sue pagine.
Potrei farvi altre citazioni, ma non voglio abusare. Credo che abbiate capito qual è il senso della difficoltà che Moravia dovette incontrare nello scrivere e nel pubblicare, e poi nel poter affermarsi. Fra l'altro pubblicò questo romanzo, come credo che molti di voi sappiate, a proprie spese presso una casa editrice milanese che si chiamava Alpes, della quale era pars, non so se magna, niente di meno che Arnaldo Mussolini (il fratello di Benito), il quale pur avendo pubblicato, o avendo contribuito a pubblicare, questo romanzo, definiva Moravia "negatore di ogni valore umano". Finalmente, dopo aver riportato giudizi per lo meno conturbanti, dovremmo anche domandarci perché un romanzo che settant'anni fa suscitò uno scandalo di questo genere, oggi si legga tranquillamente nelle Università italiane e si presenti tranquillamente a uomini e ragazze del nostro Paese.
E il problema della cosiddetta immoralità di Moravia, sulla quale torneremo naturalmente tra poco e sulla quale dovremo fare un certo discorso che forse comincia in un modo e potrebbe anche terminare in un altro. Ma torniamo finalmente al romanzo. Torniamo a questo romanzo che, secondo Moravia, è soltanto romanzo, è soltanto opera letteraria. Ma vi dicevo che, in realtà, nasce con una intenzione teatrale. E Moravia stesso a dircelo che voleva scrivere un'opera di teatro. Accade, poi, che ha scritto un romanzo, ma un romanzo nel quale la memoria dell'intenzione iniziale mi sembra sia evidentissima. Possiamo molto rapidamente citarne le ragioni. Intanto, è un'opera che, nonostante sia un romanzo, rispetta, e in modo quasi perfetto, le classiche unità di tempo, di luogo e di azione. Tutto si svolge all'interno di un appartamento, tutto si svolge entro 24 ore o poco più, e secondo un'azione che ci porta da Leo amico di Maria Grazia a Leo amico di Carla. Quindi, c'è una compendiosità tipicamente teatrale, nel senso classico della parola. Ma potremmo aggiungere anche la presenza assai limitata di personaggi: sono quattro, o cinque se vogliamo aggiungere anche Lisa, mentre manca una presenza corale al di fuori di questi personaggi. Questi personaggi si esprimono con un dialogato molto intenso, cosi come vuole, appunto, la tecnica teatrale; e perfino il modo con cui essi vengono presentati nel romanzo somiglia evidentissimamente alla didascalia che suole accompagnare i testi teatrali. Basterebbe prendere in mano, come voi potreste facilmente fare, la prima pagina de Gli indifferenti, dove si dice che Carla era vestita cosi e cosi, era fatta cosi e cosi, fino alle minuzie, fino a dirci che le calze le pendevano un po' lungo le gambe, ad indicare una certa sciatteria, evidentemente, del suo modo di vestire. Per non parlare, poi, delle luci che piovono sulla scena, come accade nei riflettori che illuminano il palcoscenico e quindi guidano lo sguardo dello spettatore. Allora, la tecnica è una tecnica teatrale, e stiamo ancora un momento sulla tecnica, prima di parlare di altri aspetti. È anche una tecnica che ci riporta al tipico romanzo ottocentesco.
Mi pare si possa dire con sufficiente verità che Moravia aveva di fronte a sé tre possibili modelli di scrittura e di prosa: il modello della letteratura più allora in voga, cioè quella che si chiamava la prosa d'arte, la prosa di origine prima vociana e poi rondista che aveva demolito, per cosi dire, la struttura romanzesca, aveva rifiutato il romanzo a tutto tondo e si era esercitata particolarmente sulla bella pagina, sull'elzeviro, sull'articolo breve, insomma quello che si chiama generalmente il capitolo o la prosa d'arte. La seconda ipotesi era quella delle avanguardie, cioè quella che dal Futurismo in poi aveva invaso non soltanto l'Italia, ma anche buona parte d'Europa. La terza ipotesi, forse la più vicina, era quella del romanzo novecentesco, cioè quello, per intenderci, che ha i suoi capisaldi in Joice, in Proust, in Musil, e, per quanto riguarda l'Italia, anche in un certo Pirandello, soprattutto in Svevo, certamente anche in Bontempelli. Bene, Moravia rifiuta tutti questi modelli che pure si trovava a disposizione molto da vicino. Direi che compie un certo passo indietro che lo riporta al romanzo ottocentesco con le sue caratteristiche più tipiche.
Dicevo romanzo novecentesco, adesso dico romanzo ottocentesco. Che cosa intendo dire? Il romanzo ottocentesco è quello in cui si svolge una vicenda che ha un inizio, uno svolgimento e una fine; che ha, quindi, una precisa parabola che passa attraverso certe tappe e si conclude con una catastrofe, che non sempre deve essere, evidentemente, catastrofica nel senso proprio del termine. Tutto si svolge, quindi, secondo coordinate assolutamente precise e accettate e sono quelle dello spazio, del tempo e del rapporto causale.
Tutto si svolge - se voi prendete qualunque romanzo ottocentesco - (non sto a citarvi dai Promessi sposi a tutti gli altri che voi conoscete) tutto si svolge in certi luoghi rintracciabili nella carta geografica, si svolge in certi anni o in certi giorni pur essi rintracciabili nel calendario, dove i rapporti sono sempre rapporti ben chiari, e determinati, per l'appunto, dalla causalità. Il romanzo novecentesco capovolge tutte queste strutture; cioè, dal punto di vista dell'oggettività del reale, rispettata e tradotta in forma romanzesca, si passa a una soggettività del romanzo. Prendiamo il caso, forse a voi più noto, de La coscienza di Zeno: è appunto un romanzo della coscienza di un individuo che evidentemente si confessa. Allora, dalla oggettività si passa alla soggettività, in cui tutte le coordinate spazio-temporali non hanno più quella precisione che potevano avere nel romanzo ottocentesco. Bene, Moravia torna al rispetto, come poco fa dicevo, e addirittura attraverso la tecnica classica delle tre unità, torna al rispetto della realtà oggettiva, vuole darci un quadro della realtà oggettiva. Ma ce lo vuole dare in quali termini? Ecco, qui ci avviciniamo al problema della moralità dì Moravia. Mi servirò ancora - se mi permettete - di una brevissima citazione di Moravia:
Gli indifferenti - secondo le parole di Moravia - è il dramma della ricerca di Michele di una ragione assoluta di azione e di vita. Ricerca che nelle condizioni, circostanze e ambiente in cui si trova Michele, logicamente, fallisce.
Allora, l'intento di Moravia non era quello di descrivere delle cose sporche; al contrario, era quello di descrivere il dramma di un personaggio che potremmo per il momento già definire positivo (poi lo vedremo meglio), di un personaggio che si vuole costruire una ragione assoluta di azione e di vita. Ma sono le circostanze, è l'ambiente, è la realtà, che inevitabilmente non lo mettono in condizione di poter attingere questo risultato. E allora, in che cosa potrebbe consistere non la immoralità., ma la moralità di Moravia?
Io credo - e qui naturalmente non mi servo soltanto delle mie idee, ma seguo anche delle intuizioni critiche che appartengono a studiosi di notevole statura - io credo che si possa essere non moralisti nel senso spiacevole del termine, ma si possa essere uomini morali in due modi: o, i più grandi forse, quelli che costruiscono un modello di comportamento morale; e poi gli altri, e sono i più, quelli che, viceversa, demoliscono i falsi modelli. Ora è chiaro che Moravia non propone una nuova moralità, ma nessuno più di lui ha demolito quella falsa moralità che si esprimeva - io non dico nemmeno nell'etica del Fascismo, perché voglio eliminare ogni aspetto strettamente e politicamente polemico - ma diciamo, perché il termine è inevitabile, nell'etica borghese. Ecco, se mi concedete certe abbreviazioni che debbo fare proprio perché il tempo fugge molto rapidamente: in fondo, quali sono i valori che più o meno confessatamente (oggi che ci si confessa di meno si ha un certo pudore a confessarli) vengono proclamati: sono la famosa triade Dio-Patria-Famiglia che rappresentavano i pilastri dell'etica della società occidentale, della società borghese, della società italiana. Moravia dimostra proprio a coloro i quali sbandieravano questi valori che, in realtà, gli autentici idoli del mondo borghese sono il sesso e il denaro. Si può sbandierare la Patria o la Famiglia, ma in realtà fra la famiglia Ardengo e la famiglia di Leo Merumeci non c'è possibilità di dubbio: i veri idoli secondo cui si comporta l'uomo borghese della società europea del secolo XX sono il sesso e il denaro. Ecco, quindi, in che cosa può consistere, in che cosa consiste forse, la moralità di Moravia. Ripeto, non come costruttore di un modello, ma come demolitore di un falso modello. Questo è il punto su cui Moravia si è battuto sin dal 1929 con il suo primo romanzo, e possiamo dire che tutta l'opera di Moravia sino alla fine o quasi non fa altro che ribadire questo fondamentale concetto. Fino a meritarsi l'accusa, che parzialmente potrebbe essere persino giustificata, di aver scritto sempre lo stesso libro. Ma siccome Moravia ne ha scritti cinquanta, dico cinquanta precisamente di libri, in realtà non è cosi. È verissimo che aveva delle costanti, fondate su questa filosofia del sesso e del denaro, cioè Freud e Marx studiati solo in un secondo momento ma che sono due figure egemoni nella cultura del secolo XX.
Ancora un momento restiamo con Gli indifferenti. Primo, per vedere da vicino come è costruito questo romanzo, e, poi, per vedere in che lingua è scritto.
La costruzione è abbastanza semplice, come mi pare già di avere implicitamente detto, cioè si tratta di un nucleo familiare in cui c'è la madre che è la rappresentante della banalità più ovvia, più sciocca e più annoiata di questa borghesia benestante che abita nei quartieri alti, come sì diceva una volta a Roma, dove, guarda caso, abitava anche lo stesso Moravia; possiamo anche dire a Via Donizetti, cioè vicino a P.zza Verdi.
Allora, c'è Maria Grazia che è la rappresentante della stupidità borghese, poi c'è Leo che è, viceversa, l'arrampicatore per cosi dire, quello che, non godendo più del piacere di Maria Grazia la quale ormai ha raggiunto una certa età, aspira alla figlia che evidentemente è più gradevole, perché è più giovane. Poi c'è Carla, appunto, che è la figlia, che è la vittima, per così dire, innocua e ingenua, di questa coppia che la circonda, e finalmente Michele. Michele è forse il tipico personaggio indifferente, perché è colui il quale vuole vendicare l'onore della famiglia e ripetutamente cerca di giungere a questa vendetta ma non ci riesce.
Ma non dimentichiamo che Moravia ha intitolato Gli indifferenti e non L'indifferente il suo romanzo, perché i quattro personaggi sono quattro fenomenizzazioni del medesimo vizio che appunto è l'indifferenza. Leo è indifferente alla vita, perché a lui va tutto bene.
Quindi Leo non professa valori, perché lui i valori già li possiede: ha il denaro, ha l'amica, sta cambiando l'amica, gli va tutto bene. Quindi è indifferente ai reali valori della vita. Maria Grazia è indifferente per stupidità, perché non ce la fa nemmeno a proporsi veri problemi, Carla, ve l'ho detto, è indifferente proprio perché è soltanto vittima della situazione e non riesce nemmeno a prendere una posizione. Ma particolarmente indifferente è appunto Michele. In questo senso l'indifferenza potrebbe essere, come più volte è stato detto, sinonimo di incomunicabilità. Cioè, Michele non riesce a comunicare e quindi a trasmettere, a realizzare ì valori in cui pure fortemente crede, e, quindi, è destinato a fallire. E proprio su questo fallimento che Moravia costruisce il suo romanzo.
Ci sono quattro fasi che rapidissimamente riassumo. Michele rinfaccia a Leo la sua viltà, la sua vigliaccheria, i suoi interessi, tutti i suoi vizi, e lo vuole insultare. Allora, ad un certo punto, gli da del mascalzone. Leo evidentemente se ne infischia di essere insultato da Michele, non si fa né in qua né in là, e la madre, viceversa, rimprovera Michele perché si è permesso di insultare Leo. Allora Michele fa un passo avanti e decide di schiaffeggiare Leo. Appena alza il braccio, Leo gli prende il braccio e quindi evita anche questa offesa. Allora architetta una cosa ancora migliore: prende un pesante posacenere e lo lancia contro Leo. Ma, guarda caso, molto freudianamente sbaglia e invece di prendere Leo prende la madre. C'è proprio uno spostamento, per cosi dire, un trasferimento del colpo da Leo alla madre. Finalmente la soluzione evidentemente è uccidere Leo. Nelle pagine più belle che non posso nemmeno lontanamente riassumere, Michele si avvia verso la casa di Leo con tutto il progetto in testa, quello che accadrà dopo che avrà ucciso Leo. Arriva a casa di Leo, Leo gli apre, alcune rapide battute, e poi Michele gli spara, ma la rivoltella fa clic perché s'era dimenticato di caricarla; ed è un fatto anche questo indubbiamente freudiano. Allora, questo è il fallimento di Michele.
Ultima cosa che vale per Gli indifferenti, ma vale veramente per tutta l'opera di Moravia: come scrive Moravia? Abbiamo già detto che egli rifiuta i modelli a disposizione e quindi torna a scrivere, in un certo senso, come si scriveva nel secolo XIX. Voi non troverete mai in Moravia nessuno sconvolgimento sintattico, tanto meno sconvolgimenti tipografici, nessuna risorsa novecentesca e moderna. La sua è una lingua chiara, precisa, disadorna, grigia se volete; è una scrittura senza sorprese, anzi non soltanto senza sorprese, ma una scrittura in cui si dice tutto, cioè Moravia non lascia, come pure fanno molti narratori, non lascia al lettore un ampio spazio di interpretazione, di scoperta: Moravia è uno che racconta tutto. Implacabile, vorrei dire, nella sua scrittura. Una scrittura tanto implacabile quanto però assolutamente efficace ai fini della rappresentazione. Se Moravia ha potuto scrivere cinquanta volumi e se i suoi volumi, secondo quanto ci dicevano le solite classifiche, erano, sono stati, sono ancora dei best-sellers, cioè se Moravia è ancora uno scrittore letto, lettissimo in Italia e fuori d'Italia, vuoi pur dire che evidentemente c'è nella sua opera una forza letteraria eccezionale. Questa forza letteraria è proprio la capacità rappresentativa di Moravia: proprio quella lingua che qualcuno ha detto certe volte rasenta addirittura la freddezza del teorema, perché assolutamente precisa, esatta e che non lascia spazio alla fantasia del lettore. Bene, proprio attraverso queste armi che possono talvolta rasentare la noia, in realtà Moravia ci descrive in maniera perfetta la cosa di cui ci vuole parlare.
Passiamo finalmente al di là de Gli indifferenti. Moravia vive una brevissima stagione surreale, surrealista, e sarebbe in contrasto con quello che dicevo, ma in realtà il surrealismo di Moravia è tutto liquidato in un volume di racconti, I sogni del pigro. Diciamo surrealismo perché Moravia, questa volta, non parla di cose legate alla cronaca della vita italiana, ma parla di alcuni modelli morali assoluti, ma in realtà della tecnica del surrealismo non c'é nulla: né l'onirismo né il discorso continuo; quindi è una fase che comunque viene rapidamente superata. Cito ancora un'altra opera, non le citerò tutte e cinquanta, state tranquilli, cito La mascherata, perché contiene una forte critica contro un regime nel quale si poteva facilmente riconoscere il Fascismo, per cui gli venne proibito di scrivere o di firmare, sicché Moravia, nel 1940, scrive sotto pseudonimo, ed è lo pseudonimo più ovvio: Pseudo. Quindi quando voi trovate qualche articolo di giornale o rivista con Pseudo quello è Moravia. Ma veniamo subito ai libri del dopoguerra. Ho saltato,, nel timore di citarli tutti, che nel 1935 aveva pubblicato un grosso romanzo: Le ambizioni sbagliate. Consideriamolo come un allargamento della tematica e dei modi de Gli indifferenti. Comunque, è un romanzo che non ebbe quasi nessuna risonanza. Credo di poter dire che mentre Gli indifferenti ebbe decine e decine di recensioni, Le ambizioni sbagliate, nonostante fosse un romanzo di quattrocento pagine, ebbe due sole recensioni, una su "La Fiera letteraria" e un'altra a Parigi. Quindi, venne totalmente ignorato. Ma stavamo arrivando adesso al Moravia del dopo-guerra. Vorrei citare perché è una rarità e generalmente non si cita e perciò è bene ricordarlo, un libriccino quasi prezioso ormai, perché non si trova più in circolazione, intitolato, siamo nel 1944, quindi in un momento particolarmente scottante della vita italiana ed europea, La speranza, con il sottotitolo Cristianesimo e comunismo. Non Cristianesimo o comunismo, Cristianesimo e comunismo che lui vede un po' come le due forze, l'una che subentra ormai all'altra. Moravia non è stato mai iscritto al P.C.I., ma è sempre stato molto vicino al Partito Comunista e vedeva appunto nelle teorie del socialismo in generale una sorta di neo-cristianesimo, preludio di una nuova comunità fra gli uomini. Ma veniamo ai titoli principali. Ne vorrei ricordare tre, perché si completano a vicenda e perché affrontano il tema fondamentale, cioè Agostino, La disubbidienza e La romana. Sono tre romanzi tutti e tre dell'immediato dopoguerra, dal '45 al '47, con cui Moravia, da una parte, soprattutto direi con Agostino (che credo, anche per giudizio comune, sia uno dei vertici della prosa moraviana), affronta ancora una volta il tema del sesso. Agostino è un giovane adolescente, è un tredicenne di buona e ricca famiglia il quale, però, vive in un ambiente di ragazzi di estrazione sociale, economica e culturale molto più bassa di lui. Lui vive un po' nell'idoleggiamento della madre, nella quale vede la realizzazione di una perfezione umana e sociale. Tutto il romanzo è l'iniziazione sessuale di Agostino come iniziazione alla vita. La scoperta del sesso è la scoperta della vita. È la scoperta del sesso che si doppia già qui, come vedremo ne La disubbidienza, con la scoperta del denaro. Come avviene questa? Quando Agostino scopre che, in fondo, la madre non è soltanto la mamma, ma è una donna.
È una donna che ha una relazione. Quindi subisce il trauma della scoperta dì una persona che prima idoleggiava come una figura assoluta, e ora vede come una figura di questo mondo. Quindi l'iniziazione, questo trauma sessuale sofferto attraverso la figura della madre, lo affranca dal predominio della madre, e lo rende maturo. Lo rende maturo, lo rende uomo; ma nel momento stesso si rende conto che la madre non è soltanto una donna, ma è anche una donna ricca. E quindi la presenza del denaro doppia e completa questa iniziazione alla vita. Il tema lo ritroviamo ne La disubbidienza dove c'è ancora un adolescente, questa volta si chiama Luca, che soffre di un complesso di inferiorità tale per cui rifiuta la vita.
Ma Moravia non dice rifiuto della vita, dice sciopero della vita. E non è una parola casuale, cioè Moravia usa nella lotta per la vita il termine che noi usiamo nella lotta per il lavoro. Direi che il doppiare il motivo del sesso e il motivo del denaro è addirittura esplicito nella terminologia moraviana; è con questo termine sciopero che collega evidentemente i due aspetti. Luca, dunque, rifiuta la vita, rifiuta il cibo, rifiuta soprattutto il denaro. Ha una specie di rivelazione quando scopre, attraverso ì discorsi in famiglia, che il denaro ha una virtù che solo esso possiede, quella di autoriprodursi. In termini molto banali, se noi mettiamo del denaro in banca questo denaro, per il solo passare del tempo, si moltiplica, aumenta. Quindi il denaro ha questa virtù incredibile di essere: di autoriprodursi. In questo caso, il rapporto di Luca con il sesso determina l'affrancamento da questa specie di orrore del denaro e quindi, ancora una volta, l'iniziazione alla vita.
Ancora sesso e denaro sono i temi de La romana. Anche qui mi appello a molte letture che qualcuno di voi forse avrà fatto. La romana, cioè Adriana, è una ragazza molto bella, la quale, proprio per la sua bellezza, viene avviata dalla madre alla prostituzione, e quindi fa la prostituta. Allora, qui abbiamo un rapporto sesso-denaro che sì dialettizza e si completa un termine con l'altro. Da una parte abbiamo il sesso che acquista il denaro, cioè la prostituzione: mediante l'uso del sesso Adriana si guadagna la vita. Dall'altra abbiamo l'opposto, cioè gli uomini che vanno con Adriana sono gli uomini che hanno il denaro e, mediante il denaro, acquistano il sesso. Quindi sesso che produce denaro, denaro che produce sesso: in una specie, ripeto, di dialettica ineliminabile che continua ad essere il tema centrale della narrativa di Moravia. Ma con una aggiunta che mi sembra molto importante: in questa doppia attività, da una parte del sesso, dall'altra del denaro, chi esce indenne, chi esce pulita è proprio la prostituta, è Adriana.
Adriana è una ragazza che ha una virtù naturale: è bella. È bella, e direi che quasi naturalmente sfrutta questa sua bellezza, ma se c'è un colpevole è più la madre che non la stessa Adriana.
Ma colpevoli sono soprattutto gli uomini che viceversa nella loro abiezione, nella loro sporcizia, insomma nel loro comportamento, riducono Adriana in questa condizione di succube, cioè di colei che viene comprata mediante il denaro. Ancora una volta in questa famosa doppia presenza di sesso e di denaro, il sesso, forse, si scopre più pulito che non il denaro.
C'è finalmente un altro tema (ormai a poco a poco stiamo entrando negli anni cinquanta) a cui accennavo molto rapidamente e ancor più rapidamente accennerò adesso perché vedo che già il tempo sta passando, cioè il tema del realismo di Moravia. Vi ho detto perfino Via Donizetti 1, li c'era la casa di Maria Grazia e compagni, cioè la città è Roma, la città è una città molto precisa e Moravia, come ognuno sa, ora scrive I racconti romani e poi scrive I nuovi racconti romani. Sono una serie di decine e decine, forse qualche centinaio, di racconti in cui Moravia però, non ci da il ritratto di tutta Roma, ma ne ritaglia una sua fetta particolare: è una Roma che discende, per cosi dire, dalla piccola borghesia sino al sottoproletariato. Cioè la società romana viene un po' ridimensionata soltanto entro questi termini. E per riprendere ancora un'espressione che è di Sanguineti, in fondo Moravia non è un marxista, non ha una chiara idea della dialettica delle classi, per lui le classi sono i ricchi e i poveri. Questa è la semplificazione della dialettica sociale in Moravia. E allora ne I racconti romani, direi che viene proprio messo in luce l'aspetto che va dalla miseria piccolo-borghese fino all'abiezione del sottoproletariato. Ma entro questi termini la Roma di Moravia è certamente una Roma fedele a quella che è la realtà. Sempre descritta, ancora una volta - ripeto - con quella incredibile capacità che ha Moravia di descrivere il mondo che ha a disposizione.
Veniamo ancora a un altro romanzo molto importante, se non altro per una ragione che diremo subito. Siamo alla fine degli anni cinquanta, nel '57, e Moravia pubblica La ciociara. È l'unico romanzo impegnato, se cosi vogliamo dire. Allora si parlava molto di letteratura impegnata, e, per le parole dello stesso Moravia, questo è il debito che egli ha pagato nei confronti della guerra e della Resistenza. Ma, guarda caso, nella copertina che probabilmente è stata suggerita, se non scritta, da Moravia stesso, il romanzo che racconta l'invasione dal Sud degli eserciti alleati, e in particolare dei marocchini che facevano parte dell'esercito francese, e che racconta lo stupro di una ragazza, nella copertina si dice: "L'Italia che subì uno stupro". Cioè, ancora una volta, Moravia usa un termine che appartiene alla realtà sessuale per parlare di una realtà di ordine politico, che riguarda la seconda guerra mondiale. Comunque, è la storia di Cesira (qualcuno l'avrà visto perché Sofia Loren che faceva Cesira nel film molti l'avranno certamente vista) la quale fugge da Roma, come allora molti facevano per sfuggire ai bombardamenti, viene verso il Sud, sui monti della Ciociaria, ma li arrivano gli alleati, arrivano i marocchini e la figlia viene stuprata da questi marocchini. Nel romanzo compare un Michele che è evidentemente, nel nome, la ripresa del Michele de Gli indifferenti. Ma questa volta Michele non è un fallito, non è uno che non sa comunicare come era il Michele de Gli indifferenti; Michele è l'unico vero eroe positivo di Moravia. Naturalmente è destinato a fallire? ma a fallire non come il Michele de Gli indifferenti, ma perché viene ucciso; quindi muore come un martire, muore come un eroe. Cioè è veramente il portatore della parola nuova. E ripeto è l'unica volta che Moravia ha portato nei suoi romanzi una figura di questo genere. Il romanzo successivo, e siamo nel 1960, è La noia che molti di voi avrete letto, che è una ripresa del motivo dell'indifferenza.
Ci sono diversi modi; il "disprezzo", 1'"attenzione", la "noia", l'"indifferenza", tutti più o meno sinonimi per esprimere questa condizione di incomunicabilità. Qui, fra l'altro, si rivela una tecnica narrativa molto tipica di Moravia, cioè un romanzo che comincia ex abruplo: a un certo punto Dino decide di non dipingere più, a un certo punto del disprezzo la moglie decide da un momento all'altro di non amare più il marito.
Luca - l'abbiamo visto - decide a un certo punto di non mangiare più; cioè i romanzi hanno sempre un taglio netto iniziale, per cosi dire, e cìa If parte una storia che va sino alla fine. E allora, anche per quanto riguarda Dino, si ha questa ricerca di un riaggancio, per cosi dire, alla vita che avviene naturalmente attraverso il rapporto sessuale. Ma c'è - e ancora una volta mi avvalgo di questo notissimo saggio di Sanguineti su Moravia - c'è un particolare: Dino è di famiglia ricca e quindi appartiene a quella borghesia che secondo l'ideologia di Moravia è quella che aliena il popolo, cioè agisce sul popolo, lo impoverisce e lo rende succube. Qui abbiamo - cito Sanguineti -"l'alienazione dell'alienante", cioè il ricco borghese, il pittore Dino, si accorge di essere anche lui un alienato; alienato, naturalmente nel senso filosofico e preciso del termine.
Bene, vorrei davvero adesso giungere rapidamente alla fine. Anche perché ora succede qualche cosa che già comprendevo in certe riserve fatte all'inizio del discorso. Partiamo dal 1971. Nel '71 Moravia pubblica Io e lui dopo di che, leggo i titoli perché non vorrei saltarne qualcuno, ne pubblica molti altri: La vita interiore, 1934, L'uomo che guarda, II viaggio a Roma, i racconti di La cosa, fino a La villa del venerdì che è uscito poche settimane prima della morte di Moravia. Quindi sono sette titoli. Sette titoli in cui l'inamovibile motivo del sesso ritorna nei romanzi di Moravia. Ecco, io oso dire che qui non riesco più a seguire l'uso che Moravia fa del sesso. È difficile dirlo, perché è facilissimo cadere nel moralismo bacchettone, ma fino a questo punto Moravia ha anche teoricamente giustificato la presenza macroscopica, certe volte, del motivo del sesso affiancato da quello del denaro nei suoi romanzi. Perché c'era una giustificazione filosofica, perché sotto c'era Freud, perché in realtà in Moravia non c'è mai nulla di morboso. Voi non potrete mai leggere, nemmeno in questi titoli, non potrete mai leggere qualcosa che abbia un sapore di volgarità. Io qui non voglio dire che questi ultimi titoli non dovrebbero andare in mano alle educande di qualche convitto di monache, io non li metterei nemmeno in mano a mia nipote, francamente non ne avrei il coraggio. Ma non tanto e non solo perché certe scene sono abbastanza ripugnanti, ma perché non ne vedo la redenzione, se cosi vogliamo chiamarla, la redenzione artistica. Cioè, c'è veramente da sospettare che Moravia - chiedo scusa della parola -fosse diventato un po' monomaniaco, cioè che nella sua ideologia ormai fosse giunto a un punto d'approdo dal quale non riusciva a liberarsi. Ma allora perché noi seguitiamo a parlarne? Io credo - e con questo veramente chiudo -per una ragione molto importante; a parte il fatto che Moravia prima dì scrivere questi ultimi sette libri ne aveva scritti altri quarantatre che sarebbero sufficienti a giustificare che si parli ancora oggi di lui; ma perché Moravia, proprio dagli anni '70 in poi, a mio modesto parere, non è più soltanto il bravissimo narratore, cioè quell'uomo che aveva questa capacità incredibile di rappresentare la realtà, era diventato una cosa diversa e forse una cosa maggiore. Intanto, era diventato un viaggiatore che ci ha dato sull'Africa, sull'India, sulla Cina, soprattutto sull'Africa, dei libri memorabili, dove non si parla più di sesso e denaro, ma si parla di certe tesi, anche quelle molto interessanti e molto chiare, di un mondo che è ben al di là dei confini della città di Roma. E poi Moravia è il critico cinematografico che per anni e decenni ha accompagnato la produzione cinematografica italiana e straniera. Ma Moravia era stato per gli ultimi vent'anni, qualcosa di più.
Era l'uomo che veniva interpellato, anche in televisione se volete, veniva interpellato perché ci desse la sua opinione, perché ci desse il suo parere sulle cose che accadevano in Italia e nel mondo. Starei per dire - senza tema di esagerare - una specie di voce della coscienza, che chi voleva poteva accettare e chi non voleva poteva anche non accettare, ma di cui si doveva ascoltare l'opinione. Sono pochissimi, io credo tre, forse, gli uomini che salivano in cattedra, se volete, e venivano invitati a salire in cattedra: Moravia, Calvino, Sciascia. Perché quando accadevano cose importanti nel mondo la loro parola ci dava un'indicazione. Oserei dire che, morti questi tre grandi scrittori, io non so chi oggi potrebbe venire a dirci qualche cosa anche su quello che sta accadendo in questi giorni. Beninteso, non perché Moravia fosse la bocca della verità, non perché avesse la verità pronta e avesse una sua ortodossia. Al contrario. Moravia è sempre stato uno spirito critico e quindi si guardava bene da atteggiarsi a maestro, però era un uomo di tale intelligenza sino ai suoi ottant'anni che il suo parere, la sua opinione, dovevano essere ascoltate. Quanto meno come una cosa da discutere, come una cosa da far nostra e poi da poter accettare o meno.
Quindi, al di là di questi ultimi titoli che io non ritengo siano parti-colarmente felici, i grandi romanzi sono Gli indifferenti, Agostino, forse La disubbidienza, La noia, I racconti romani. Questi sono i grandi titoli. Non certo lo e lui né L'uomo che guarda e nemmeno La villa del venerdì. Ma noi Moravia lo ricordiamo anche oggi non soltanto come il bravissimo narratore, ma come un uomo che ha fatto storia, nel senso più pieno, nel nostro Paese addirittura per sessantenni. |