Durante una delle solite passeggiate serali segnate dal precoce incedere del crepuscolo autunnale, dal rumoreggiare del mare e dal chiacchiericcio di frotte di giovani annoiati e senza meta, ripensai alla mia giovinezza e con stupore e insieme con fastidio mi resi conto che quasi nulla era cambiato nella condizione giovanile, qui a Nettuno, da più di 20 anni a questa parte. Stesse giornate grigie di ancor più grigi inverni, stessa noia e stesso senso di svuotamento che ti afferrano l'anima e la coscienza, cosi come nelle serate umide lo scirocco ti fiacca la volontà e le gambe.
Da un angolo della memoria, quasi per caso, mi si riaffacciò l'esperienza giovanile del Circolo del cinema "La Lanterna", maturata insieme ad altri amici - sul finire degli anni Sessanta - per combattere la monotonia e la condizione di assenza e di vuoto culturale che la nostra sete di conoscenza ci rendeva ancora più sconsolata. Fu quella un'esperienza feconda culturalmente non solo per i miei amici e per me, ma credo per l'intera cittadinanza che per tre anni di seguito, durante i mesi di febbraio-marzo, volle e seppe mobilitarsi intorno al Circolo del cinema "La Lanterna". Quel fermento di idee che scaturiva dai dibattiti animati da critici cinematografici della competenza di Lino Miccichè e Bruno Torri fu il giusto e insperato compenso alle nostre fatiche.
Cosi se i politici locali si erano dimostrati insensibili di fronte alla sete di cultura dei giovani, i giovani da soli seppero soddisfare tale esigenza. Fu in questo flash-back della memoria che, appunto in una sera d'autunno del 1990, feci con me stesso una scommessa: riproporre dopo più di 20 anni, un qualcosa di simile al Circolo del cinema che potesse, da un lato, soddisfare l'interesse verso la cultura che recentemente e in diverse occasioni una parte dei cittadini aveva dimostrato di avere, e, dall'altro, sconfiggere l'atteggiamento tiepido, per non dire "sonnacchioso" che tanti, troppi hanno nei confronti di tutte quelle manifestazioni culturali che si allontanano dai cliché consueti dei mega-concerti, delle kermesse canzonettistiche o pallonare o dei serials televisivi, e via dicendo. In tal senso, pensai di organizzare, anche provocatoriamente, questi Incontri sulla letteratura italiana, servendomi del contributo dì alcuni fra i più prestigiosi studiosi della materia quali Alberto Asor Rosa, Giuliano Manacorda, Riccardo Merolla, Walter Pedullà, Mario Scotti, Francesca Bernardini, Armando Gnisci, Giorgio Patrizi, ai quali va il mio più sentito grazie per la disponibilità mostratami.
Tralascio di parlare di tutti quei problemi che ho dovuto affrontare per assemblare il programma che tutti voi avete sotto gli occhi, come pure evito di soffermarmi sull'aiuto economico che l'Assessore alla Cultura del Comune dì Nettuno, Carlo Eufemi, tramite il Presidente della Regione Lazio Bruno Landi, mi ha fornito e che sotto questo aspetto ha facilitato e reso possibile l'attuazione degli Incontri - questi sono motivi si importanti, ma di ordine per cosi dire estrinseco alla materia, in quanto stanno al suoi margini - per soffermarmi piuttosto su altri motivi per cosi dire intrinseci. Motivi, direi, non solo di ordine culturale-epocale, ma anche di ordine storico-contingente. Mi spiego.
Da anni, ormai, lo sviluppo tecnologico, applicato ai mass-media segna un processo di livellamento, di massificazione, di standardizzazione della vita e quindi anche della cultura, e apre di fatto un varco sul futuro annunciandoci un'epoca prossima a venire in cui l'espressione e la comunicazione subiranno un tale e cosi radicale cambiamento da far ipotizzare ad alcuni dei più attenti studiosi persino la morte dell'arte, come dal 1982 va sostenendo Argan, il quale riproponendo un concetto già a suo tempo formulato da Hegel, lo invera e lo suffraga delle analisi di Husserl a proposito della crisi delle scienze europee, e di quelle dei filosofi della crisi, quali Jaspers e Adorno, che, dopo la 2a guerra mondiale, avevano escluso che la creatività dell'arte potesse prodursi in un mondo che con la bomba atomica aveva scelto la distruzione.
"L'arte - scrive Argan per argomentare la sua tesi - è un'attività culturale che ha le sue strutture concettuali e le sue tecniche. Nel passato, è sempre stata integrata nel sistema globale della cultura: per lo più come modello ideale del lavoro e della produzione. Così è stato finché lavoro e produzione erano artigianali. Oggi il sistema produttivo è cambiato: il modello ideale dell'industria è la scienza, non l'arte. Quello che Alain chiamava sistema tecnico delle arti sta finendo: ha perduto la sua funzione, non partecipa più se non marginalmente del sistema culturale in atto". "Di morte dell'arte -prosegue Argan - si parla per metafora [...]: il problema non è tanto la raggiunta scadenza storica dell'arte quanto il senso o valore di una cultura che abbia eliminato - come l'industrialismo va eliminando - la 'componente arte'". Cosi se l'arte determinava valori che le culture del passato consideravano essenziali al punto che li mettevano in rapporto col pensiero religioso o il senso del sacro, la cultura di massa - si chiede l'illustre studioso - riuscirà a sostituire i valori della vecchia cultura? E se riuscirà, i nuovi valori potranno ancora dirsi artistici?1. E dopo aver affermato che la tendenza critica oggi più penetrante, l'iconologia, potrebbe chiamarsi escatologia dell'immagine morta e che nessuno vi è tanto vicino quanto uno storico dell'arte come Maurizio Calvesi, conclude il suo intervento celebrando il de profundis dell'arte contemporanea: e soprattutto della transavanguardia e del postmoderno che, a suo parere, lungi dall'essere tendenze miranti a rifondare l'arte, sono solamente patenti, plateali fenomeni il cui unico merito è quello di riconoscere brutalmente che l'arte è morta. Certo, tale posizione non ammette equivoci interpretativi. Argan è radicale nelle sue conclusioni. Egli è il medico e insieme il becchino dell'arte. Dopo averne constatata la morte, la seppellisce definitivamente. Con tutto il rispetto per le analisi cosi penetranti e così argomentate di Argan, mi sembra di non poter condividere l'affermazione di morte dell'arte di cui l'illustre critico parla, perché se è vero che l'arte oggi è morta nelle sue forme tradizionali, è poi vero che essa ne va assumendo altre in base ai nuovi valori prodotti dalla stessa cultura di massa e, quindi, in base a un nuovo concetto di artisticità che tale cultura produce. Che è poi voler riproporre con altre parole quello che sostenevano nella seconda metà dell'Ottocento da un lato De Sanctis, secondo il quale l'arte - la Forma - non muore, perché a morire sono le forme, e, dall'altro, Capuana, secondo il quale lo stato di agonia in cui versava l'arte era dato dal travaglio del passaggio dalle forme liriche quarantottesche a quelle nuove affermatesi con il romanzo sperimentale naturalista in Francia e verista in Italia. Certo, la situazione che cosi lucidamente e insieme allarmisticamente Argan fotografava nel 1982 si ripropone oggi, a dieci anni di distanza, con più forza soprattutto perché sembra ormai giunto a compimento quel processo di massificazione, di livellamento, di standardizzazione della vita e della cultura cui abbiamo già accennato.
L'uomo, massificato dal globale processo di livellamento e dall'appiattimento dei modelli di esistenza operati "dal potere laico e inindividuabile della tecnologia - industria, stato, capitale - e della retorica - ideologia, politica, cultura - che muove e guida i sottosistemi della pubblicità, della moda, del consumo, delle istituzioni, dello spettacolo" (Gnisci), non sembra sfuggire alle fauci di questo Molock totalizzante e totalitario costruito ovunque dalle civiltà tecnologiche: il parto mostruoso del Noi quale coscienza collettiva del nuovo mondo reale immaginario che ha finito per ingoiare, facendolo sparire dalla faccia della terra non solo l'altro come antico, selvaggio, primitivo, sconosciuto, diverso e come altro metafisico - dio, il sacro, l'utopia - (Gnisci), ma anche l'Io, il soggetto, l'individuo. A questo Noi che va sempre più connotandosi come super-Noi, sorta di trascendenza laica fagocitante, castrante per sempre e senza appello, livellamento e appiattimento delle coscienze, dei costumi, della morale, del sapere, a questo Noi, dicevo, bisogna sapersi opporre. Alla standardizzazione della cultura bisogna opporre la vigilanza morale e critica dell'intelligenza. Alla fiducia e all'ottimismo di tipo razionale illuministico - che al primo determinarsi del fenomeno, aveva visto nella nostra epoca la possibilità di un progressivo, auspicabile unificarsi del mondo sotto l'egida di un'unica letteratura e persino di un'unica lingua, tant'è che ad alcuni studiosi era sembrato vicino il realizzarsi del sogno romantico goethiano di Weltliteratur - bisogna saper opporre un atteggiamento critico. Tanto necessario se solo si pensi come l'auspicata unificazione culturale, complici i mass-media, non solo si è attuata in base a uno standard medio-basso i cui valori sono l'edonismo, 1'effimero, il consumismo, l'apparire e non l'essere, il vuoto e il nulla del culto dell'immagine, il successo subito e ad ogni costo, ma ha finito per determinare anche altri guasti: la scomparsa dell'altro antropologico-sociologico, l'emarginazione e la messa a latere delle minoranze etnico-linguistiche nazionali ed extranazionali. E soprattutto la standardizzazione della letteratura che, nel suo totalitarismo egocentrico, ha relegato in una estrema solitudine testi letterari che non corrispondono a quello che l'estetica della ricezione di Costanza (Jauss, Iser) definisce orizzonte d'attesa di un'epoca - in ordine ai problemi di gusto, di poetiche, di estetiche, di morale, di etica, ecc., vale a dire in ordine all'orizzonte d'attesa che oggi il potere politico-culturale dei mass-media ha contribuito a determinare. Cosi, se lo standard garantisce, da un lato, un criterio selettivo di giudizio per riconoscere la validità o meno di un testo letterario, poi, . dall'altro, tale criterio si rivela non del tutto attendibile, in quanto, essendo l'espressione di un gusto medio affermatosi - vale a dire rappresentativo della media generale - finisce con l'essere un criterio che sancisce il conformismo e la moda; e non la reale validità artistica di un testo letterario che, per sua natura, è sempre e comunque altro, sia rispetto a un singolo testo, sia rispetto allo standard, perché, come scrive Binni, l'arte, pur essendo parte di storia, interviene nella storia con una sua forza autentica e non come illustrazione e documento, in quanto commuta forze ed esperienze vitali e storiche in tensione artistica e quindi in opere artistiche. Se oggi, dunque, anche la letteratura non sfugge al processo di livellamento in atto, è pur vero, però, che essa offre il terreno più fertile su cui può muoversi chi vuole opporsi, o meglio contrapporsi, al senso gelido e marmoreo della estrema solitudine in cui è stato relegato e ricacciato dal super-Noi, trascendenza laica senza appello e dal volto sfuggente e inclassificabile dell'atopos e dal desiderio glaciale del pàthos. Su questo terreno egli diviene l'himeros, il desiderio ardente di voler essere presente, la forza di una affermazione e insieme la collocazione della parola con cui abbatte l'estrema solitudine, dandole voce e senso e asservendola al grande Altro letterario. Su tale terreno avrà campo e spazio chi vuole esercitare il suo pronunciamento, che si sostanzia del desiderio di colmare una mancanza, quella appunto dell'Altro letterario, e nasce dalla domanda che questo Altro gli rivolge per essere conosciuto. A questa chiamata occorre prestare ascolto, prima che si realizzi pienamente quell'epoca oggi annunciataci dallo sviluppo tecnologico in cui, appunto, l'espressione e la comunicazione subiranno un radicale e totale rivoluzionamento. Al tradizionale processo scrittura-libro-lettura che attualmente ancora regola i sistemi della produzione-fruizione si sostituirà definitivamente quello di immagine-visione-ascolto, le cui conseguenze investiranno un piano di ordine umano-esistenziale e, quindi di riflesso, di ordine artistico-estetico, nonché critico-metodologico, ovvero di lettura del testo: di un testo, beninteso, visivo.
Il destino dell'uomo verrà letto al di fuori della categoria di tempo, quindi al di fuori della prospettiva storica, proprio perché si perderanno i tempi del passato e dei futuro a favore di un continuo presente, in cui gli accadimenti umani non saranno più tenuti, percepiti e vissuti anche come memoria, ma solamente come cronaca immediata di ciò che accade, colto mentre accade e comunicato in direzione multimediale mentre accade. L'immagine-palinsesto, contenitore per eccellenza del continuo presente proiettato in prospettiva spaziale, si sostituirà alla scrittura-libro, contenitore per eccellenza della memoria del passato, aperto temporalmente verso il presente e il futuro. La mancanza di passato e futuro accentuerà nell'uomo la consapevolezza che a morire, come scrive Nietzsche, è uno solo, l'uomo stesso, nonostante la condizione di continuo presente lo illuda del contrario; dei suoi accadimenti non gli sopravviverà nulla; sopravviverà e gli sopravviverà, invece, il robot-computer, sua spersonalizzata creatura, da lui autonoma e altra sin dal momento del primo input. Inoltre il mutato processo tricotomico che regolerà i sistemi della produzione-fruizione porterà gradualmente ma inevitabilmente alla morte della scrittura e di conseguenza alla nascita di nuove forme di arte. La parola avrà come suo destino quello dell'atopos e del pàthos e, ricondotta alla condizione di assenza e silenzio (fondamenti della negatività del linguaggio) di vuoto primario e di non senso, parlerà "unicamente e costantemente nel modo del silenzio" (Heidegger) e si caratterizzerà, come scrive Blanchot riprendendo Hegel, come "morte portata fin dentro la vita", fino a perdere la sua condizione di "puro voler dire" propria del concetto agambeniano di Voce. Essa, insomma, non più collocata nel discorso, non più asservita al grande Altro narrativo, perderà la sua attuale forza espressivo-comunicativa, in quanto, collocata nell'immagine, sarà asservita a quell'Altro narrativo prodottosi al di fuori della scrittura (cinematografìa, spot, video-clip, video-teatro, telenovelas ecc.) a quelle nuove forme d'arte, cioè, che si produrranno dal linguaggio e/o dai linguaggi elaborati dalle tecnologie, e per cui il tempo della narrazione non coinciderà mai con quello della lettura, cosi come avviene nelle telenovelas. L'arte, cosi, materializzata, tecnologizzata, economicizzata perderà la sua aura di sacralità, di mistero, di magia e di cultualità e sarà irrimediabilmente strappata all'Altro luogo, l'Abisso dell'alto e l'Abisso di quaggiù di Starobinski e/o il doloroso Nessun luogo di Rilke, sua condizione privilegiata di oggi e di sempre. Ma, prima che ciò avvenga, prima che sulla parola cada la fredda notte del silenzio occorre prestare ascolto alla chiamata che ci proviene dall'Altro luogo. E a chiamarci è la parola. Essa ci chiama e ci parla perché è ancora parola-essenziale, parola-senso che da Voce allo scrittore, al poeta. Nel chiamarci ci rivolge un invito: l'invito a oltrepassare - similmente al dio Kermes trismegisto, oppure similmente al nocchiero della barca dell'Insultoten (l'Isola dei morti) - le frontiere proibite di un bosco sacro, dell'Altro luogo, per addentrarci nei regni magici e misteriosi della scrittura, in cui si rifugia "in un rifugio - come scrive Blanchot - contro cui non c'è rifugio" lo scrittore, il poeta, e dove la parola diviene il desiderio ardente di voler essere presente, la forza di una affermazione, l'affermazione di sé. E questo perché, collocata nel discorso e asservita al grande Altro narrativo, la parola è la Voce-pensiero dello scrittore, del poeta, il quale mediante essa, vuole essere ascoltato non solo per comunicare a noi la sua opera, ma anche per ricevere da noi essenzialità alla, sua opera. Ma affinché ciò avvenga, è necessario oggi che l'uomo eserciti innanzi tutto il suo pronunciamento, è necessario cioè - come scrive Perniola riprendendo Benjamin - che l'uomo oggi più che mai si pronunci senza riserva nei confronti di questa epoca. Si pronunci nei confronti della standardizzazione, del livellamento e dell'appiattimento al fine di superarli. Difatti il pronunciamento è la strada maestra di un'affermazione: del sé e insieme dell'altro. Nel pronunciamento l'uomo non solo conosce l'altro, ma afferma il sé come altro, in quanto per pronunciarsi deve conoscere e interpretar e-valutare; e non può conoscere se non è impegnato direttamente nella propria epoca, e non può valutare-interpretare se non è libero. Il pronunciamento è dunque l'affermazione dell'umanesimo, quale pensiero problematico e del dubbio, il solo che sappia opporre una resistenza all'odierno automatismo - cosi come avevano fatto all'inizio del secolo Bergson, Blondel, Brunschvicg, Husserl, ecc. È il solo che sappia ricondurre l'uomo massificato alla sua dignità dì uomo, di soggetto-critico, cioè, che possa e sappia riappropriarsi del suo destino, l'unico in grado di opporsi all'esistente. Egli, in quanto impegnato, conosce l'esistente; in quanto fornito dì un'arte dell'interpretazione, lo interpreta e Io valuta; e infine, in quanto libero, pensando costantemente nell'opposizione, opponen-dovisi lo supera. Da Gramsci, Sartre e Camus ha indicata la strada dell'organicità, dell'impegno e della libertà, che ritraduce in organicità, impegno e libertà epocali. Da Marx, Nietzsche e Freud "quali maestri del sospetto e della distruzione" mutua un'arte dell'interpretazione che - come scrive Ricoeur -libera e apre un orizzonte per una parola più autentica, per il nuovo regno della libertà. Dal soggetto della forza di cui parla Gnisci assume la sua natura di "rivale estremo" che "parla in opposizione alla ideologia" e che pensa "costantemente nell'opposizione", vale a dire nella "pura forza del pensiero radicale [...] vettore della forza". E questo soggetto-critico trova un fertile terreno d'esercizio proprio nella letteratura. Difatti qui esercita il suo pronunciamento. Qui non solo riconosce se stesso e l'altro, l'altro estetico-letterario, ma capisce che la vera originalità della sua conoscenza sta nella relazione che lo unisce all'altro, che è inizialmente relazione d'amore -incontro del desiderio di amare (il testo letterario) e della domanda d'amore {che da tale testo proviene) - e poi, in secondo luogo, nell'atto critico-conoscitivo mediante il quale l'opera, il testo, diventa - come scrive Sartre -essenziale, con un processo che partendo dal campo del lettore (dalla sua poetica di critico), passando attraverso quello del testo (la poetica di quel particolare testo) dove si realizza il connubio tra opera e lettore che Costanze chiama "poetica del duale", giunge sino all'orizzonte d'attesa. In questo processo il testo è prima ricostruito e spiegato con una prassi critica caratterizzata dallo Streben (la tensione, il tendere) indirizzato a un punto, volto verso un termine a, oppure teso fra due poli, con un fra (tensione alla poetica, tensione tra poetica e poesia di cui parla Binni); ma, una volta che si è attivata la dialettica tra la poetica del critico e quella del testo (la poetica del duale), viene interpretato alla luce della ermeneutica del fraintendimento, dell'intendere fra, che, attivando quel "pensare insieme al testo" propugnato da Gnisci, conferisce al testo la sua essenzialità (un proprio "in sé") e che per ciò, riaffermando il concetto di letteratura come forza, energia, movimento, sviluppo e continuo fieri, ne ribadisce non solo e soprattutto la sua natura estetica, ma anche la sua funzione sociale e la sua efficacia storica. Solo ora il soggetto-critico vince l'estrema solitudine sua e dell'altro letterario in cui li ha relegati il super-Noi, sorta di trascendenza laica, totalizzante e inglobante.
Cosi il lettore che conosce i testi letterari, lo scrittore che si trasforma a sua volta in produttore e il critico che vi ragiona su, fanno si che la letteratura sfugga al suo destino di morte, anche se, paradossalmente, proprio dal bisogno del lettore dì afferrare il senso dell'opera deriva oggi quell'idea cardine dell'incontro in assenza di cui parla Blanchot e che nella sua ulteriore determinazione di poetica dell'assenza è certamente una delle acquisizioni euristico-interpretati ve più significative e originali della moderna critica letteraria. Tale poetica, del resto, fondandosi sull'idea cardine dell'incontro in assenza, cioè sull'incontro tra l'universo linguistico-espressivo dell'autore e quello del lettore, trova in Blanchot le spinte teorico-metodologiche per configurarsi come critica senza autore e insieme, paradossalmente, per mezzo del lettore, anche senza lettore, e, quindi, come critica attenta soprattutto al libro, all'opera, quale cosa aldilà dell'autore e del lettore. "Il lettore non si aggiunge al libro - scrive Blanchot - ma tende prima di tutto a liberarlo da un qualsiasi autore. [...] Senza saperlo il lettore è impegnato in una lotta profonda con l'autore". E ancora: "il libro ha in un certo senso bisogno del lettore; [...] la lettura fa soltanto in modo che il libro, l'opera, divenga -diviene - opera aldilà dell'uomo che l'ha prodotta"; e, infine, "il libro ha bisogno del lettore per affermarsi quale cosa senza autore e anche senza lettore", ovvero - aggiungo - per affermarsi nell'assenza e come assenza.
Ecco allora chiarito, accanto agli altri, il fine ultimo di questi Incontri che è contenuto in una metafora, se non la più astrusa, certo la più ardita: riuscire a pensare la letteratura nell'assenza e come assenza.
Tutto ciò al fine di vincere e sconfiggere i segnali di guerra che minacciosamente dai cieli del medio-oriente incombono sul destino dell'intera umanità. E non solo ho l'ardire di sperare che questi nostri Incontri non siano gli ultimi sussulti dell'arte della seconda metà del nostro secolo nata a Hiroshima da una deflagrazione atomica, e chiusa (per sempre?) da quella ora temuta a Bagdad, ma anche ho l'ardire di sperare che essi possano essere ristoro e rifugio per i nostri animi in un momento drammatico per le sorti del mondo, di questo nostro mondo sempre più muto di valori, cosi come tanti anni fa, in seguito alla barbarie del 1° conflitto mondiale, aveva fatto Arturo Farinelli, chiuso nel dolore e nell'angoscia della propria anima, lui che aveva sperato e operato per l'attuazione del grande sogno romantico della Weltliteratur.
NOTE
1 - Cfr. G.C. ARGAN, Risposta a due lettere, in "Espresso", n.51, annoXXVIII, 26 dicembre 1982, pp. 143445, e ID., Poche storie, l'arte è morta, in "Espresso", n.44, anno XXVIII, 7 novembre 1982, p.127. |