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SOTTO LA TORRE

Incontri sulla letteratura italiana
dell'Otto-Novecento

(Nettuno Gennaio-Aprile 1991)

di
ROCCO PATERNOSTRO

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07 - FRANCESCA BERNARDINI NAPOLETANO
Leonardo Sciascia: il potere della scrittura

1. Il rapporto con il realismo

Nell'acce star si all'opera di Sciascia, il primo e fondamentale problema critico da affrontare e risolvere, per avviare correttamente la lettura dei testi e una complessiva interpretazione, è quello del suo rapporto con il realismo: per ragioni cronologiche, perché l'autore comincia a scrivere alla fine degli anni Quaranta, nel clima dì trionfante neorealismo del dopoguerra e perché comincia ad imporsi all'attenzione della critica e del pubblico con Le parrocchie di Regalpetra (1956) (1), nel clima di trionfante realismo degli anni Cinquanta; ed ancor di più, perché la tensione civile e la sostanza polemica, di intervento sulla realtà, sono cosi vistose nella sua scrittura, da rischiare di essere fuorvianti e di mettere in ombra la sostanza letteraria del testo. Non meraviglia dunque che almeno fino a Il contesto (1971 )(2) Sciascia sia stato tout court "annesso" dalla cultura di sinistra alla poetica del realismo, s'intende socialista, e all'ideologia dell'impegno e letto in tale chiave, che è a dir poco riduttiva e parziale (basti citare il saggio di Carlo Salinari)(3). Senza dubbio i contenuti privilegiati da Sciascia e il suo impegno politico si prestavano ad una simile interpretazione; ma il suo modo di porsi di fronte alla scrittura e la sua concezione dell'intellettuale la contraddicono radicalmente. Non troviamo in Sciascia storicismo e prospettivismo, perché la sua attenzione alla storia si qualifica principalmente come ricerca della verità, testimonianza e denuncia e non si basa sulla concezione della storia come progresso, ma come perpetuarsi di violenza e menzogna; il suo impegno è interno alla scrittura e come intellettuale non può definirsi gramscianamente organico ad una classe, alla lotta di classe, bensì disorganico ad un sistema sociale e politico, in cui vede integrati anche i partiti della sinistra, rivoluzionari e non: cosi si spiega il suo relativismo politico, il suo porsi sempre all'opposizione.

Ai suoi esordi, Sciascia si misura con diversi generi letterari: la favola di ispirazione classica e settecentesca (Favole della dittatura)(4), la poesia (La Sicilia, il suo cuore, seguito nello stesso anno dall'antologia II fiore della poesia romanesca)(5), la saggistica (Pirandello e il pirandellismo)(6), infine la prosa, tra narrativa e documentaria, de Le parrocchie di Regalpetra. Già in queste prime opere, è possibile individuare il repertorio tematico al quale Sciascia resterà fondamentalmente sempre fedele: la Sicilia e la "sicilitudine"(7), la cultura siciliana ed in particolare Pirandello, che, con Verga, per dichiarazione di Sciascia, ha cosi ben definito ed analizzato il carattere e l'anima dei siciliani in termini antropologici, da costituire un punto di partenza e un termine di riferimento mai più posti in discussione (e in ciò già si rivela una visione della letteratura e della cultura come sedimentazione dì esperienza e conoscenza); il potere come violenza e sopraffazione, ma anche come "impostura", di cui il fascismo e l'Inquisizione sono assunti a metafora metastorica; infine la mafia, tema in cui forse convergono tutti gli altri, e a cui è stata legata la fama di Sciascia. E vengono altresì individuati i problemi critici, estetici, ideologici, che costituiscono la sostanza metaletteraria del discorso sciasciano: significato, modi e funzione della scrittura, la memoria, il rapporto tra testimonianza autobiografica ed invenzione, tra la realtà e la storia da una parte, la ricerca documentaria, la filologia, la letterarietà dall'altra.

Il problema si pone come fondamentale già per Le parrocchie di Regalpetra che furono lette ed apprezzate soprattutto per la loro portata sociologica e civile, di testimonianza e denuncia: ma già Pasolini acutamente segnalava la dimensione saggistica ed i debiti dello stile di Sciascia con il modello della prosa d'arte e del capitolo(8) e notava che "la ricerca documentaria e addirittura la denuncia si concretano in forme ipotattiche, sia pure semplici e lucide". Nel corsivo introduttivo alla narrazione, Sciascia sottolinea la relazione e l'integrazione dei due poli della questione: dalla memoria autobiografica e dall'esperienza personale è tratta la materia narrata in prima persona, strutturata con rigore da un punto di vista privilegiato e personale, secondo una linea cronologico-causale, cronachistica e storica; narrazione e commento traggono origine dalla passione e da una razionalità di stampo illuministico, dichiarate esplicitamente in apertura con un vero atto di fede:

[...] Credo nella ragione umana, e nella libertà e nella giustizia che dalla ragione scaturiscono; [...].

Ho tentato di raccontare qualcosa della vita di un paese che amo, e spero di aver dato il senso di quanto lontana sia questa vita dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione.

Ma l'impegno ad ordinare razionalmente la realtà e il materiale autobiografico, che possono sembrare di diretta ascendenza neorealistica e realistica, si accompagna alla "fede nella scrittura" e all'impegno nella scrittura, di matrice culturale, come indica l'abbondanza dì citazioni e di modelli letterari. Sciascia si distanzia dalla testimonianza e dall'autobiografismo non solo attraverso l'ironia e l'autoironia, percepibili già nel corsivo introduttivo, ma fin dal titolo: Racalmuto diventa Regalpetra, toponimo originato dalla fusione tra Regalmuto, nome che ricorre "nelle antiche carte" e la Petra di Nino Savarese, cioè dalla ricerca d'archivio e dalla letteratura. Anche il punto di vista del narratore, che appare cosi predominante, si arricchisce e si amplia in una dimensione corale, in una molteplicità diacronica di punti di vista: la memoria soggettiva ("Per quel che io ricordo, e più indietro i miei ricordi non vanno") viene integrata dalla memoria collettiva e storica con testimonianze orali, spesso provenienti dal basso ("ho conosciuto un vecchio che se ne ricordava", "se ne ricordava il nonno di un mio amico", "ho sentito raccontare da un vecchio contadino che"), oppure scritte, di anonimo o d'autore, e può trattarsi di antiche cronache consultate negli archivi e nelle biblioteche, oppure di delibere del Consiglio comunale o di testi letterari. Sciascia inserisce nei suoi testi citazioni spesso ampie tratte da documenti storici e cronachistici, con una tecnica che ricorda quella manzoniana (si pensi alle gride): la denuncia della violenza e dell'impostura perpetrate dal potere avviene sì attraverso i contenuti, ma ancor più efficacemente attraverso i documenti; ha insomma "una radice filologica", direbbe Gadda(9): anche Sciascia come Manzoni leva "talora l'edificio del giudizio sopra una sola frase o parola accattata sagacemente e poi diabolicamente inserita nel testo, a dileggio ed a confusione de' frodatori"; ed ha una radice storica: Sciascia ha puntigliosamente riscritto la storia, evidenziando le menzogne che la storiografia ufficiale ha accreditato, per manipolazione o per omissione. Sul modello della Storia della Colonna infame, Sciascia ricostruisce casi ed episodi di cui nelle cronache si fa appena cenno o che sono trascurati affatto, attraverso l'analisi attenta dei documenti e degli atti, nella convinzione che sia sempre possibile riportare alla luce la verità, anche quando l'estensore abbia usato la scrittura come strumento per la menzogna. La fiducia nella filologia coincide con la fiducia nel metodo e nella ragione, grazie ai quali la scrittura può convertirsi da mezzo servile dell'impostura e dell'ingiustizia in confutazione, narrazione della verità e denuncia: la storia minore o minima, trascurata o espunta dalla storiografia ufficiale, chiama in causa continuamente la Storia maggiore(10). Il racconto-saggio di ricostruzione storica è un genere che Sciascia ha frequentato per tutta la vita, alternandolo al romanzo e al quale sono da ascrivere alcuni capolavori: Morte dell'inquisiture(11), testo che l'autore ha giustamente prediletto per molti anni; La scomparsa di Majorana(12), che si distacca dagli altri testi perché, non potendosi trovare la soluzione al "mistero" nei documenti e per via razionale, se ne fornisce una tutta soggettiva, di origine ideologica e letteraria; La strega e il capitano(13), scritto per suggestione manzoniana (l'"atroce caso" viene citato nel capitolo XXXI de 1 promessi sposi) e come omaggio a Manzoni. A questo genere si può ascrivere anche L'affaire Moro(14), dove la ricerca della verità attraverso l'analisi linguistica e filologica dei documenti scritti (le lettere di Moro, confrontate con i discorsi ed il linguaggio del Presidente, prima del rapimento; Ì comunicati delle Brigate Rosse; gli articoli sui quotidiani, ecc. ) ed orali (le dichiarazioni e persino le telefonate) si applica ad un "caso" non lontano nel tempo, ma d'attualità, e certo non minore o minimo, ma destinato ad entrare nei libri di storia (quella ufficiale, con la esse maiuscola). Ed è nella ricostruzione di questo "caso" che emerge proprio dalla valenza euristica della scrittura anche la sua portata polemica, contestativa, di denuncia dell'impostura (l'occultamento e la manipolazione dei fatti) attuata dal Potere per mezzo della scrittura (paradossalmente, quella di Aldo Moro). Alla riflessione, basata sul metodo, si accompagna l'immedesimazione, esplicitamente rivendicata da Sciascia quale metodo d'indagine sulla scorta di Poe(15); ai documenti reali, la letteratura; alla ragione, la passione umana e civile; alla ricerca oggettiva, la testimonianza e la protesta: e tutto conduce all'interpretazione.

Gli zii di Sicilia uscì nel 1958 nei vittoriniani "Gettoni" presso Einaudi e in edizione definitiva nel 1960, arricchito da L'antimonio. I racconti sono ambientati in Sicilia, in diversi momenti dell'epoca fascista, della seconda guerra mondiale e dell'immediato dopoguerra; soltanto Il quarantotto arretra all'Ottocento: il narratore rievoca gli avvenimenti a partire dal 1847. A parte La morte di Stalin, che rientra nella misura del racconto, gli altri tre testi possono definirsi racconti lunghi o romanzi brevi e concorrono a formare un macrotesto, per la tematica comune, e soprattutto perché la loro successione non è determinata da un criterio cronologico, ma dalla progressione del discorso. Sono scritti in prima persona (ancora, fa eccezione La morte di Stalin), coerentemente con la scelta dell'argomento, che consiste principalmente nella rappresentazione del processo psicologico e morale attraverso cui il protagonista prende coscienza della realtà: il primo ed il terzo, cioè La zia d'America e Il quarantotto potrebbero essere definiti come brevi romanzi di formazione. Ne La zia d'America è avvertibile qualche inflessione neorealista, nell'uso del dialetto, del gergo che tuttavia assume evidente funzione parodistica nella registrazione dell'ibrido linguaggio degli italo-americani; così come viene sottoposto a demistificazione attraverso la satira e la parodia il mito dell'America, che tanta fortuna aveva avuto tra gli scrittori neorealisti degli anni Trenta e Quaranta. Se mai, qualche influenza ha avuto su questo racconto uno scrittore neorealista non ortodosso come Calvino: come il Pin de il sentiero dei nidi di ragno, anche il protagonista de La zia d'America è un ragazzo, che vede gli avvenimenti storici, siano essi la guerra o il referendum istituzionale, come un'avventura, ma con più gioia e spensieratezza, rispetto a Pin.

Più complessa è la struttura de Il quarantotto: la narrazione autobiografica si svolge su un duplice piano temporale; all'interno della rievocazione degli avvenimenti passati, che si conclude con l'evento che segna la svolta definitiva nella vita del protagonista e la sua presa di coscienza (l'incontro con Garibaldi nel giardino del barone Garziano), viene inserito il presente della scrittura: il narratore, vecchio e stanco, sconfitto dalla vita e dalla storia, commenta il passato ed indica nella letteratura (nella testimonianza scritta) l'unica possibilità di salvaguardare la verità e la residua via d'opposizione ad un potere perennemente identico a se stesso e vittorioso:

Questi ricordi scrivo mentre mi trovo, in solitudine, rifugiato in una casa di campagna nel territorio dì Campobello. Fedeli amici mi hanno offerto scampo all'arresto, a Castro mi cercano carabinieri e soldati; come allora i soldati e i gendarmi del Borbone, carabinieri e soldati del Regno d'Italia arrestano a Castro, e in ogni parte della Sicilia, gli uomini che lottano per l'umano avvenire. Sento rimorso per essermi sottratto all'arresto: ma la galera mi fa paura, sono vecchio e stanco. E scrivere mi pare un modo di trovare consolazione e riposo; un modo dì ritrovarmi, al dì fuori delle contraddizioni della vita, finalmente in un destino di verità.(16)

L'"eroe positivo" in Sciascia (e si veda anche il capitano Bellodi ne Il giorno detta civetta)(17) non può che registrare lo scacco, il fallimento dell'impegno politico e civile, dato che la storia appare non come un processo dialettico, a cui l'individuo e i popoli possano contribuire, o di cui si possano almeno progettare o prefigurare le direttrici, ma come un fluire apparente, metastorico, in cui rivolgimenti, mutamenti e rivoluzioni sono illusori e al cui interno si perpetua lo stesso Potere, basato sulla violenza, l'oppressione e l'impostura.

La morte di Stalin porta alle estreme conseguenze il ribaltamento e lo svuotamento della poetica del realismo, sul terreno della scrittura, e dell'ideologia legata alla scelta realistica, cioè il prospettivismo e la tendenzialità. Formalmente il racconto sembra costruito secondo i moduli realistici: il linguaggio, comunicativo e di tono basso, molto concede al parlato siciliano; la narrazione è svolta in terza persona, grazie ad un narratore extradiegetico; i personaggi si qualificano come tipi: il protagonista, Calogero Schirò, ciabattino e militante comunista, i compagni, il deputato del P.C.I. con i suoi discorsi stereotipati sul "partito della storia", l'arciprete, ecc. Il registro espressivo dominante è il comico-grottesco, funzionale all'intento demistificante e satirico nei confronti della fede acritica e fanatica, sia essa politica o religiosa, perseguito anche attraverso l'abbassamento e la deformazione dei contenuti: gli eventi tragici della storia recente, dalla guerra di Spagna alla morte di Stalin e alle rivelazioni del ventesimo Congresso del P.C.U.S., sono rievocati secondo il punto di vista del ciabattino, la sua ottica ristretta; cosi Stalin gli appare in sogno e parla "con un marcato accento napoletano", abbassato al rango di "zio di Sicilia"(18) e la dialettica diventa faticoso (ed esilarante) esercizio di una ragione degradata dall'ignoranza e dal fanatismo. Il narratore (ma fa spesso capolino l'autore) si accanisce sul personaggio, utilizzando tutte le gradazioni del comico, persino il freudiano "comico ingenuo" tipico dei bambini e degli ignoranti(19), e cosi forse esorcizzando il travaglio intellettuale, le delusioni e le dolorose crisi ideologiche della sua generazione. I primi due racconti de Gli zii di Sicilia (particolarmente il secondo), praticando la parodia del realismo, secondo Bachtin rientrano comunque ancora nell'orbita di questa categoria; mentre gli ultimi due racconti ne escono, per l'uso della prima persona, del punto di vista e della categoria temporale e per la riflessione sulla storia e la dimensione metaletteraria. Per questa strada Sciascia arriverà al superamento del realismo con Il giorno della civetta, grazie al variare del punto di vista e della tecnica narrativa (dalla terza persona al discorso indiretto libero alla prima persona del monologo interiore) e alla critica delle ideologie.

 

2. Il rapporto con la Sicilia

A proposito de Le parrocchie di Regalpetra, Claude Ambroise scrive(20) che la "stratificazione testuale" e "il piacere della scrittura e del narrare" conducono decisamente fuori dall'"ambito di una poetica che sembra quella di un generico e diffuso realismo"; non siamo di fronte ad "un astratto modello sociologico", né ad "una possibile esemplificazione della categoria del tipico lukàcsiano", non alla "rappresentazione di una realtà" ma alla "cristallizzazione di una esperienza concreta di quella realtà", in cui la letteratura riveste "una funzione di mediazione". Fin qui l'analisi di Ambroise mi trova sostanzialmente d'accordo; non lo sono più quando la mancanza di un'immediata "autenticità referenziale" e la dimensione letteraria distanziante (insom-ma, la non adesione al realismo) vengono interpretate come distacco e "fuga" dalla Sicilia(21), documentabili ancora nelle "battute finali" de L'antimonio e di Candido(22).

Il primo saggio de La corda pazza, scritto nel 1969, Sicilia e sicilitudine, si chiude con l'indicazione di "una chiave per capire la Sicilia": ed è "il tema dell'esilio" che accomuna scrittori siciliani come Salvatore Quasimodo e Ibn Hamdis a distanza di secoli e si coniuga con il rimpianto e la "memoria dei luoghi perduti". Nell'opera di Sciascia l'abbandono della propria terra si qualifica non come una fuga, ma un esilio storicamente imposto, nel quale si inscrive l'ansia di un ritorno reso possibile soltanto attraverso un progetto (spesso utopico) di cambiamento. Di testo in testo è possibile seguire lo sviluppo del tema, che segna la parabola psicologica ed ideologica di Sciascia, dall'analisi della realtà siciliana e dalla speranza, dall'impegno morale e civile, alla delusione e al pessimismo, che lo conducono a delegare ogni possibilità di riscatto e di impegno alla letteratura.

L'antimonio è scritto in prima persona e registra la presa di coscienza del protagonista, uno zolfataro che per sfuggire alla fame e all'incubo della probabile morte in miniera, si arruola come volontario per partecipare con i fascisti alla guerra di Spagna, perde una mano in battaglia e viene dunque rimpatriato e compensato, con denaro e con un posto di bidello, non nel suo paese, ma in una città vicina; con grande sorpresa del segretario del fascio, il giovane chiede di essere trasferito "in una città lontana: fuori della Sicilia, una città che sia grande" perché vuole "vedere cose nuove". Tra la partenza per la Spagna ed il ritorno, attraverso le atrocità della guerra e le esperienze in luoghi nuovi, lo zolfataro ha acquisito la coscienza della propria dignità di uomo e di conseguenza anche la coscienza storica e civile:

La guerra mi aveva segnato di condanna nel corpo. Ma quando un uomo ha capito di essere immagine di dignità, potete anche ridarlo come un ceppo, straziarlo da ogni parte: e sarà sempre la più grande cosa di Dio. [...] dalla guerra di Spagna, dal fuoco di quella guerra, a me pare di avere avuto davvero un battesimo: un segno di liberazione nel cuore; di conoscenza; di giustizia.(23)

La prima conoscenza che conquista dolorosamente è quella di essere inconsapevole strumento della oppressione su altri e su lui stesso, attuata dal Potere (il Fascismo): scopre infatti di combattere a fianco e a vantaggio dei suoi nemici atavici, i "galantuomini", la classe dei padroni che da sempre lo sfruttano, confinandolo nella miseria e nell'ignoranza, e contro la sua classe, quella della povera gente, che in Spagna ha intrapreso una rivoluzione impossibile in Sicilia. Dialogando con l'amico Ventura, scopre il significato di "classe" anche nelle sue implicazioni politiche: da una parte ci sono i fascisti, "il podestà il segretario del fascio don Giuseppe Catalanotto, che è il padrone della zolfara, e il principe di Castro, che è padrone del feudo", insomma i "galantuomini" alleati "coi preti coi carabinieri coi questurini", dall'altra contadini e zolfatari. Si sviluppa una prima, confusa coscienza di classe, che si accompagna all'esigenza di cambiamento, imprecisa nel protagonista, più chiara in Ventura nella nozione di rivoluzione: una rivoluzione che appare impossibile in Sicilia e votata alla sconfitta in Spagna, per ragioni storielle (il Nazismo e il Fascismo). Di qui la diserzione di Ventura, che insegue il suo personale mito dell'America, di un altrove dove la democrazia garantisca libertà e dignità; e parallelamente, alla fine del racconto, la scelta del protagonista di lasciare non tanto la Sicilia, quanto un mondo arcaico ed angusto, alla ricerca della propria maturità e di una piena coscienza attraverso nuove esperienze.

Anche Candido, deluso e in cerca di se stesso, lascia la Sicilia ed approda a Parigi. Qui ritrova fortunosamente la madre, che lo invita a trasferirsi in America, perché "In America c'è tutto"; Candido le risponde:

[...]- Una volta o l'altra [...] verremo. Ma di stare voglio stare qui... Qui si sente che qualcosa sta per finire e qualcosa sta per cominciare: mi piace veder finire quel che deve finire -.

A questa dichiarazione, il suo precettore don Antonio esclama:

[...] - Hai ragione, è vero: qui si sente che qualcosa sta per finire; ed è bello... Da noi non finisce niente, non finisce mai niente... -.

Ed ecco la conclusione del romanzo:

[...] Davanti alla statua di Voltaìre don Antonio si fermò, si afferrò al palo della segnaletica, chinò la testa. Pareva si fosse messo a pregare. - Questo è il nostro padre - gridò poi - questo è il nostro vero padre.

Dolcemente ma con forza Candido lo staccò dal palo, lo sorresse, lo trascinò. -

Non ricominciamo coi padri - disse. SÌ sentiva figlio della fortuna; e felice.

II problema è dunque che "da noi non finisce niente"; "da noi", cioè in Sicilia, e questo spiega il distacco dalla propria terra vissuto da Candido come da tanti altri personaggi, e che è da Sciascia indicato come una costante per il popolo siciliano, addirittura una chiave di lettura per la società siciliana; e spiega anche il significato del sottotitolo: il "sogno fatto in Sicilia" è quello appunto che "qualcosa cambi"; e se consideriamo che la Sicilia è una metafora estensibile all'Italia intera e all'Europa, il sogno acquista un valore ben più ampio.

La metafora del rapporto con i genitori accompagna in Sciascia la tematica siciliana, che sì precisa e trova una conclusione negli ultimi testi; in Candido la Sicilia si identifica con la figura materna, che abbandona e delude e che dunque a sua volta il figlio deve abbandonare, mentre la figura paterna, che deve essere superata dal figlio per raggiungere la piena maturità, mi sembra rappresenti quell'insieme di modelli culturali da ereditare e poi superare, se si vuole raggiungere l'originalità e il nuovo.

Il sentimento di amore-odio per la propria terra viene ben definito ne Il cavaliere e la morte(24): il ritorno è reso impossibile dalla verifica quotidiana che nulla cambia:

[...] E non che non amasse la terra dov'era nato: ma tutto quel che ne era i ogni giorno notizia, greve, tragica, gli dava una sorta di rancore. Non tornandovi da anni, al di là di quel che vi accadeva, la cercava nella memoria, nel sentimento di qualcosa che non c'era più. Illusione, mistificazione: da emigrante, da esule(25).

Con Una storia semplice(26) il cerchio si chiude, e non perché si tratta dell'ultimo romanzo scritto da Sciascia, ma perché inscrive, a conclusione di questa tematica e problematica, il ritorno: è probabile che tale conclusione sia programmatica, voluta dall'autore ormai in punto di morte, non tanto come riconciliazione con la propria terra, quanto come indicazione di una prospettiva di speranza. La vicenda è emblematica: Giorgio Roccella torna in Sicilia nella propria casa dopo tanti anni, per ritrovare e pubblicare lettere di Garibaldi e di Pirandello (cioè per riannodare e riaffermare il proprio rapporto con l'isola attraverso la cultura), e li viene ucciso. Il figlio, andato in Sicilia per la morte del padre, scopre di non essere figlio naturale di Giorgio e durante un drammatico confronto con la madre, la rinnega affermando che "le madri non si possono scegliere", mentre "i padri si scelgono"(27): in una prospettiva opposta a quella gaddiana28, si rifiuta il principio deterministico di appartenenza ad una terra, ad una cultura e ad un gruppo soltanto per nascita e si riafferma, ancora attraverso la metafora generazionale, il valore della tradizione culturale siciliana, al cui interno Sciascia si riconosce. Nel senso del riconoscimento e della libera scelta del proprio patrimonio genetico-culturale, mi sembra vada letta ed interpretata la citazione da Borges posta in epigrafe ad Occhio di capra:

Ho l'impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato.

 

3. Il rapporto con l'Illuminismo

Nel saggio Il secolo educatore(29), l'unico che Sciascia, nella sua vasta produzione saggistica, abbia dedicato al secolo dei lumi, viene accortamente delineato quell'insieme di valori che costituiscono l'eredità mai sconfessata dell'Illuminismo e paradossalmente, per un autore critico delle ideologie, il substrato ideologico portante della sua opera, di scrittore, di intellettuale, di politico. Si tratta di un saggio certamente non neutrale, non scientifico, non divulgativo, né, tanto meno, esaustivo, ma, fin dal titolo, tagliato faziosamente ("la letteratura - scrive Sciascia in Porte aperte(30)- non è mai [...] innocente. Nemmeno la più innocente") ed, avverte Fautore quasi all'inizio, la trattazione, persino dei termini cronologici del secolo, è "assolutamente soggettiva, assolutamente personale - ed escogitata più per lampeggiamento di sintesi che per estensione di analisi". Insomma, Sciascia ci parla del suo Illuminismo e ci offre una chiave di lettura complessiva per la sua opera.

Sciascia fa iniziare "effettualmente" il Settecento con Pierre Bayle ed azzarda una data - il 1681 -, quella della pubblicazione delle Pensées sur la comète. Ed è una chiara indicazione di metodo, esteso ai grandi del secolo ed a se stesso: è il metodo della "meditazione non sistematica e non ordinata". Sciascia sceglie il primo pensiero e cita:

Io non so che cosa sia la meditazione sistematica e ordinata su un argomento, e mi capita di smarrirmi facilmente, di uscire spesso dal seminato, di inoltrarmi in luoghi dove è ben difficile scorgere una strada;

e commenta: "(ma si intenda lo smarrirsi e il non vedere una strada come un cercarla e farsela)".

La negazione del sistema e dell'ordine "troverà sublimazione e apoteosi" nell'opera massima del Settecento, L'encyclopédie di Diderot e d'Alembert, in cui l'ordine alfabetico è in realtà "finzione d'ordine" e non fornisce una descrizione e una sistemazione della cultura, né un'immagine del mondo, dati staticamente, ma pone come valori, proprio in quanto finzione (forma, convenzione), l'ordine, la conoscenza, l'esercizio libero dell'intelligenza.

Trasferendo la non sistematicità della meditazione nella scrittura, il risultato che si ottiene è uno stile leggero e superficiale, nel senso dato a questo aggettivo da Savinio, altro modello per Sciascia e che non a caso ha scritto un testo come Nuova enciclopedia: "superficiale", chiosa Sciascia, "nel senso che la chiarezza dell'intelligenza fa trasparire e trasferisce in superficie le cose profonde". Dunque il nostro autore segue non la strada maestra del ragionamento logico e conseguente, basato su concetti rigorosi e profondi, da cui derivano le strutture care a tanto romanzo europeo dell'Ottocento, ma i sentieri che si biforcano e si intrecciano della divagazione; non persegue la rappresentazione verosimile e a tutto tondo di una realtà basata sulle categorie spazio-tempo e sul principio di causalità, ma dei fatti ricerca il senso, degli avvenimenti ripercorre il filo fino alla verità, procedendo a zig-zag tra i due livelli, per lui fusi ed interagenti perché altrettanto presenti e reali, dell'oggettività e della letteratura: tra la realtà del mondo, materiale e pesante, e la finzione letteraria non c'è soluzione di continuità; sicché la rappresentazione in Sciascia non è mai, o quasi mai, diretta, mimetica, immediata, ma allusiva, di secondo grado, mediata da situazioni e personaggi fantastici, letterari; all'interpretazione non sì giunge per mezzo di un ragionamento esplicito e rigoroso, ma per virtù della scrittura, che accumula e giustappone dati, documenti e suggestioni letterarie ed infine li fonde: e tutti gli elementi, pur eterogenei e talvolta apparentemente persino incongrui, trovano un ordine nella pagina e tendono necessariamente alla conclusione (alla persuasione del lettore), con la stessa implacabile evidenza di una dimostrazione.

Esemplare in questo senso è L'affaire Moro, che per un altro verso costituisce un'eccezione rispetto ai numerosi testi in cui Sciascia ricostruisce "casi" storici del passato: L'affaire Moro è invece scritto subito dopo la morte dello statista democristiano, e a questa tragica, lacerante contemporaneità si deve il coinvolgimento personale dell'autore, la grande carica umana ed emozionale, che tuttavia aggiungono "spessore, e non inficiano la chiarezza della ricostruzione e dell'argomentazione, con in più una vis polemica e di denuncia più tenue in altri pamphlets. La dimensione letteraria acquista qui una funzione dichiaratamente conoscitiva ed insieme distanziante dall'oggetto dell'indagine: la citazione da Elias Canetti, in epigrafe ("La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto al momento giusto"), orienta la lettura ed anticipa una linea interpretativa; mentre in apertura di testo, la notazione minima, autobiografica, della lucciola vista durante la passeggiata notturna e la conseguente memoria dell'infanzia, spostano il discorso sul piano della letteratura e costituiscono un artificio retorico per entrare in argomento, in un argomento poi cosi ingombrante, storicamente "greve" come gli anni di piombo, culminati nella tragedia di Moro; si tratta di una tecnica straniante, volta a contraddire l'attesa del lettore e a caricarla in un climax; e quando finalmente si entrerà in argomento, l'atto d'accusa contro tutta una classe politica e l'interpretazione del caso saranno già state completate, tutte le tessere del mosaico saranno implicitamente composte, di divagazione in divagazione, grazie alla letteratura, alle citazioni, al commento di luoghi letterari, dal famoso "articolo delle lucciole" di Pasolini, a Pirandello, Borges, Tommaseo, Savinio, Tolstoj, Poe, eccetera. L'analisi e la dimostrazione vengono dopo, e il disvelamento dell'impostura, come sempre in Sciascia, avviene per via filologica, dall'analisi linguistica dei documenti. Ed è questa un'eredità che gli proviene da Manzoni, di cui più volte Sciascia ha sottolineato la formazione illuminista.

Il modello di leggerezza insuperabile resta per lo scrittore di Racalmuto il Candide di Voltaire; se "Diderot è la chiave del secolo" [il Settecento] e "ha come inventato il secolo in quel che noi gli riconosciamo di più proprio, di più originale, di irripetibile"(31), nel saggio Il secolo educatore Sciascia indica i tre testi che più hanno segnato la sua formazione e che più ricorrono nella sua opera:

Al centro del secolo, come un sole allo zenit, stanno - 1759, 1763, 1764 - il Candide e il Tratte sur la tolérance di Voltaire, il Dei delitti e delle pene di Beccaria.(32)

Sciascia indica cosi chiaramente i referenti privilegiati della sua ricerca che si muove in tutte le sue opere fondendo i due livelli del racconto e del discorso; se il primo tra i libri citati rappresenta un modello di scrittura narrativa, il secondo e il terzo sono alla base dell'impegno civile e di tematiche quali l'Inquisizione, la tortura, la pena di morte, che hanno ispirato alcuni capolavori di Sciascia: basti citare Morte dell'inquisitore e Porte aperte; ne Il contesto, uno tra i testi più "romanzeschi" di Sciascia, complesso nella struttura, e programmaticamente oscuro e confuso nella trama e nell'intreccio, la denuncia e la rappresentazione dell'iniquità e della violenza del potere è affidata proprio alla discussione sul Traitè di Voltaire, nel lungo e discorsivo dialogo tra il protagonista Rogas e il Presidente della Corte Suprema. Su questa linea, al nome di Beccaria si salda il Manzoni soprattutto della Storia della Colonna infame e di alcuni luoghi de I promessi sposi, che hanno ispirato La strega e il capitano e una ricostruzione-riflessione sul linciaggio di Giuseppe Prina(33).

In Todo modo, don Gaetano dice al pittore protagonista, a conclusione di un dialogo che, ancora una volta, costituisce un nodo importante dell'intreccio e del discorso:

- E stato detto che il razionalismo di Voltaire ha uno sfondo teologico incommensurabile all'uomo quanto quello di Pascal. Io direi anche che il candore di Candide vale esattamente quanto lo spavento di Pascal, se non è addirittura la stessa cosa. Solo che Candide trovava finalmente un proprio giardino da j; coltivare... "Il faut cultiver notre jardìn"... Impossìbile: c'è stato un grande e definitivo esproprio. E forse si possono oggi riscrivere tutti i libri che sono stati o scritti; [...]. Tutti. Tranne Candide(34)

Nel 1977 Sciascia invece riscrive(35) il Candide, ma al titolo Candido aggiunge il sottotitolo esplicativo ed orientativo ovvero un sogno fatto in Sicilia, anch'esso preso in prestito da un altro libro, Un rève fait a Mantoue di Yves Bonnefoy. Nella Nota finale, Sciascia riprende il passo citato poco fa da Todo modo, a sancire il fallimento di un progetto impossibile, la riscrittura del testo voltairìano:

di quella formula [s'intende del Candide} ho tentato di servirmi. Ma mi pare di non avercela fatta, e che questo libro somigli agli altri miei. Quella velocità e leggerezza non è più possibile ritrovarle: neppure da me, che credo di non avere mai annoiato il lettore. Se non il risultato, valga dunque l'intenzione: ho cercato dì essere veloce, di essere leggero. Ma greve è il nostro tempo, assai greve.

II senso complessivo di tale esperimento non è dunque certamente quello di riproporre, in maniera inattuale ed ingenua, un modello inarrivabile ed il sistema dì valori dell'Illuminismo, ma di marcare in negativo la distanza da quell'epoca e la morte di quei valori nell'epoca presente. Se il Settecento consacra i principi dell'Enciclopedia di Diderot e quelli di Voltaire, che porteranno alla Rivoluzione francese, tutta la storia successiva fino alla contemporaneità non è per Sciascia che un progressivo, trionfale realizzarsi della Restaurazione, con la riaffermazione del disprezzo del Potere per il diritto che si fonda sulla ragione.

Il sogno della ragione genera mostri: ed infatti, il personaggio di Sciascia è per tutti, e soprattutto per sua madre, "un mostro". Nasce durante lo sbarco in Sicilia degli alleati, ed il suo candore produce catastrofi: secondo una lettura sorridente ed ironica, quanto letterale, di Freud, desidera la madre e per la sua sincerità, induce il padre al suicidio; applica alla lettera i valori illuministi della ragione, della giustizia, dell'uguaglianza, trasferiti ed attualizzati nell'ideologia comunista, ma raggiunge soltanto il ridicolo ed ottiene l'odio di quanti lo circondano e vengono da lui beneficati (la famiglia, i contadini, il partito che lo espelle). Se il sistema di valori resta valido per Sciascia, il suo Candido dichiara esplicitamente come impossibile l'attuazione di quei valori in una società civile e moderna: è il fallimento dell'utopia, cioè del passaggio dalla teoria alla prassi.

Le ultime pagine del romanzo testimoniano lo scacco della ragione ad opera della storia e il distacco da Voltaire, cioè dall'Illuminismo e la crisi dell'utopia, ma anche il protendersi verso un futuro non ancora definibile, nella dimensione della speranza, che segna la nascita di una nuova utopia, ancora imprecisata.

Il problema è, sartrianamente, quello del passaggio dalla teoria (dall'utopia) alla prassi e dunque quello della rivoluzione. L'unica vera rivoluzione è per Sciascia la Rivoluzione francese, che ha significato la diffusione dei nuovi ideali nati dall'Illuminismo in tutta Europa, grazie anche alle imprese napoleoniche e all'affacciarsi dei popoli sulla scena come protagonisti della Storia. E un valore, questo, riaffermato continuamente nonostante le delusioni storiche e i fallimenti: la Storia appare dominata dall'impostura e dalla menzogna, che si perpetuano nel Potere nonostante i mutamenti politici, sempre apparenti. Il discorso si carica di valenze metafisiche: il male coincide ontologicamente con Ìl Potere e con la Storia, su una linea manzoniana. Sciascia descrive le metamorfosi della classe dominante perché, nei momenti di trasformazione, come avverte Il Gattopardo, tutto deve cambiare perché tutto resti come prima. La rivoluzione non produce "una sostituzione di ceti", ma offre ogni volta alla classe dominante l'opportunità di riorganizzarsi e di rafforzarsi; fin dalle prime opere Sciascia mostra un "continuo sospetto verso i cambiamenti epocali"(36): ne Gli zii di Sicilia il tema ricorre più volte. Il barone Garziano, borbonico, ne Il quarantotto dichiara:

Domani, [... ] appena l'alba fa occhio, vado dal vescovo: voglio vederci chiaro in quello che succede, se rivoluzione dobbiamo fare la facciamo tutti, non vi pare?

E analogamente ne L'antimonio, la guerra di Spagna appare come la contrapposizione tra i "galantuomini" da una parte, etichetta che accomuna i nobili, il clero, le forze dell'ordine, storicamente rappresentati e difesi dal Nazi-Fascismo, e la povera gente (zolfatari e contadini) dall'altra. Ne Il cavaliere e la morte, un gruppo terroristico prende il nome di "ragazzi dell'ottantanove" in riferimento alla Rivoluzione francese, ma in realtà è originato proprio dalla classe dominante come strategia di rafforzamento del potere. E già Candido, pensando al maggio 1968 a Parigi si era chiesto: "-Erano i nostri nonni o i nostri nipoti?".

La posizione di Sciascia dì fronte alla storia è affidata al personaggio dell'avvocato Di Blasi ne Il Consiglio d'Egitto(37);

La menzogna è più forte della verità. Più forte della vita. Sta alle radici dell'essere, frondeggia al di là della vita. [...] E crediamo che la verità era prima della storia, e che la storia è menzogna. Invece è la storia che riscatta l'uomo dalla menzogna, lo porta alla verità: gli individui, i popoli... E a se stesso, con irrisione, con compatimento: 'Se hai creduto in Rousseau, è giusto che tu ne veda il contrappasso nell'abate Velia...' Ma ne ebbe smarrimento, come di una bestemmia scaturita da un inciampo improvviso, da un urto imprevedibile. Il fatto è che Voltaire ti serve di più, oggi... Ma forse Voltaire serve sempre di più...

Non quanto vorresti, però... Quel che vorresti è il loro pensiero, di Voltaire, di o Diderot, e anche di Rousseau, dentro la rivoluzione: e invece si è fermato sulla soglia, come la loro vita...

Dunque una visione assolutamente laica della storia, che sembra essere anche assolutamente pessimistica. DÌ fronte allo scacco inevitabile, resta soltanto la possibilità della testimonianza che riaffermi i valori della ragione, del diritto, della giustizia: è così per lo zolfataro de L'antimonio, per il capitano Bellodi de Il giorno della civetta, che sconfitto dalla saldatura tra potere mafioso e potere politico, alla fine del romanzo decide di tornare in Sicilia a riprendere la sua battaglia ed esclama: "Mi ci romperò la testa". Ma i personaggi più emblematici sono l'avvocato Di Blasi de Il Consiglio d'Egitto e l'eretico Diego La Matina di Morte dell'inquisitore, che tengono "alta la dignità dell'uomo" fino ad affrontare la tortura e la morte. Ed ancora vanno ricordati il giudice ed il contadino giurato in Porte aperte.

Rosario Contarino(38) definisce l'illuminismo di Sciascia "un illuminismo senza utopie e palingenesi"; e certamente in Sciascia non troviamo un disegno coerente o la prefigurazione di una società a venire basata sulla ragione e la giustizia; l'utopia è tuttavia il punto di riferimento costante, è implicita ed immanente nel presente, nella rilettura del passato nel "dare spazio", direbbe Calvino, a quei pochi elementi che nella realtà quotidiana possano indurre ad una speranza di rinnovamento. La dimensione della speranza è presente anche nei testi più amari di Sciascia, insieme con la convinzione che la resistenza e l'esempio anche soltanto di alcuni individui possano agire nella storia. Si legga il dialogo tra il giudice e il procuratore, con cui si chiude Porte aperte:

- E vero che in me la difesa del principio ha contato più della vita di quell'uomo. Ma è un problema, non un alibi. Io ho salvato la mia anima, i giurati hanno salvato la loro: il che può anche apparire molto comodo. Ma pensi se avvenisse, in concatenazione, che ogni giudice badasse a salvare la propria... -

- Non accadrà: e lei lo sa quanto me.

- Si, lo so: e questa è la controparte di spavento, di paura che io sento non soltanto riguardo a questo processo... Ma mi conforta questa fantasia: che se tutto questo, il mondo, la vita, noi stessi, altro non è, come è stato detto, che il sogno di qualcuno, questo dettaglio infinitesimo del suo sogno, questo caso di cui stiamo a discutere, l'agonia del condannato, la mia, la sua, può anche servire ad avvertirlo che sta sognando male, che si volti su altro fianco, che cerchi di aver sogni migliori. E che almeno faccia sogni senza la pena dì morte.

La testimonianza "a futura memoria"(39) è affidata alla letteratura, che ha sempre più nella produzione di Sciascia una funzione demiurgica: alla scrittura, per sua natura all'opposizione, viene affidata la ricerca e la comunicazione della verità, che si sedimenta nella coscienza collettiva: "nulla dì sé e del mondo sa la generalità degli uomini se la letteratura non glielo apprende."40

 

NOTE

1 - L. SCIASCIA, Le parrocchie di Regalpetra, Bari, Laterza, 1956. Le opere di Sciascia sono ora raccolte in ID., Opere, 3 voli., a cura di C. Ambroise, Milano, Bompiam, 19874989, da cui sono tratte le citazioni.

2 - L. SCIASCIA, 17 contesto, Torino, Einaudi, 1971, ora in ID., Opere cit., II.

3 - II saggio di C. Salinari è raccolto in ID., Preludio e fine del realismo in Italia, Napoli, Morano, 1967.

4 - L. SCIASCIA, Favole della dittatura, Roma, Bardi, 1950, ora in ID., Opere cit., II.

5 - - L. SCIASCIA, La Sicilia, Usuo cuore, con disegni di E. Greco, ivi, 1952, ora in ID., Opere cìt., III; II fiore della poesia romanesca, Premessa di P.P. Pasolini, Caltanissetta, S. Sciascia Ed., 1952.

6 - L. SCIASCIA, Pirandello e ilpirandellùmo, Caltanissetta, S. Sciascia ed., 1953, ora in ID., Opere cit., III.

7 - L. SCIASCIA, Sicilia e sicilitudine, [1969], in ID., La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, Torino, Einaudi, 1970, ora in ID., Opere cit., II.

8 - P.P. PASOLINI, La confusione degli stili, "Ulisse", 1957, poi raccolto in ID., Passione e ideologia, Milano, Garzanti, 1960, p. 343. Sciascia conferma questa indicazione di Pasolini nella Prefazione alla ristampa delle Parrocchie insieme con Morte dell'inquisitore per Laterza (Bari 1967), nella quale sottolinea l'importanza della "letterarietà" nelle sue opere: "debbo confessare che proprio sugli scrittori "rondisti" - Savarese, Cecchi, Barili! - ho imparato a scrivere. E per quanto i miei intendimenti siano maturati in tutt'altra dirczione, anche intimamente restano in me tracce di un tale esercizio." (ora in L. SCIASCIA, Opere cit., I, p. 4).

9 - C. E. GADDA, Meditazione breve circa il dire e il fare, [1936], in ID., I viaggi la morte, Milano, Garzanti, 1958, ma traggo la citazione dall'edizione 1970, collana "Saggi blu", p.31.

10 - Scrive Sciascia: "forse è a questa storia minima che io debbo l'attenzione che ho sempre avuto per la grande" (cfr. L. SCIASCIA, Occhio di capra, Torino, Einaudi, 1984, ora in ID., Opere cit., III, p- 12).

11 - L. SCIASCIA, Morte dell'ìnquisitore, Bari, Laterza, 1964, ora in ID., Opere cit., I.

12 - L. SCIASCIA, La scomparsa di Majorana, Torino, Einaudi, 1975, ora in ID., Opere cit., II.

13 - L. SCIASCIA, La strega e il capitano, Milano, Bompiani, 1986, ora in ID., Opere cit., III.

14 - L. SCIASCIA, L'affaire Moro, Palermo, Sellerie, 1978 e, con l'aggiunta della relazione dì minoranza, Palermo, Sellerie. 1983, ora in ID., Opere cit., II.

15 - Cfr. L. SCIASCIA, L'affaire Moro cit., p. 489 e ss.

16 - L. SCIASCIA, II quarantotto, in ID., Opere cit., I, pp. 271-272. Anche ne La zia d'America traspare la coscienza del narratore adulto (si veda per es. il riferimento a Rousseau, a p. 185).

17 - L. SCIASCIA, II giorno della civetta, Torino, Einaudi, 1961, ora in ID., Opere cit., I.

18 - Cfr. L. SCIASCIA, La morte di Stalin , in ID., Opere eh., pp. 240-241: "in Sicilia tutti i braccianti e gli zolfatari, tutti i poveri che aprivano speranza, dicevano "lu zi' Peppi" e una volta l'avevano detto per Garibaldi, chiamavano zii tutti gli uomini che portavano giustizia o vendetta, l'eroe e il capomafia, l'idea di giustizia sempre splende nella decantazione di vendicativi pensieri. Calogero aveva fatto il confino, al confino i compagni gli avevano insegnato dottrina; ma non sapeva pensare a Stalin se non come ad uno zio che sapesse armare vendette e fulminare con sentenze a baccagliu, cioè nel gergo di tutti gli zii di Sicilia, i nemici di Calogero Schirò."

19 - Cfr. S. FREUD, Il motto di spirito e la sua relazione con l'inconscio ., [1905], in ID., Opere, V, Torino, Bollati Boringhieri, 1989.

20 - Cfr. C. AMBROISE, Verità e scrittura, Introduzione a L. SCIASCIA, Opere cit., I, pp. XIX-XXII.

21 - Scrive C. Ambroise, p.XXII: "questa opera prima, più che una rappresentazione mimetica della realtà di Racalmuto, potrebbe essere la testimonianza di come Sciascia si stacchi dal paese natio. Trasformare la realtà del paese in testo, significa distanziarsi rispetto ad essa per ndurla, appunto, a testo. [...] Il sottotitolo di Candido è Un sogno fatto in Stalla. Lasciare la inalile possibile forse solo in sogno. E se quel sogno, l'unico che diventi realtà, perché attuabile m Sicilia, fosse la letteratura? La letteratura come possibilità di staccarsi dalla Sicilia, pur restando in Sicilia: l'esilio dall'interno."

22 - L. SCIASCIA, Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia, Torino, Einaudi, 1977, ora m ID., Opere cit., II.

23 - L. SCIASCIA, L'antimonio, in ID., Opere cit., I, p. 378

24 - L. SCIASCIA, II cavaliere e la morte, Milano, Adelphi, 1989, ora in ID-, Opere cit.,III

25 - Ivi, p. 436. Cfr. anche le pp. 432-433.

26 - L. SCIASCIA, Una storia semplice, Milano, Adelphi, 1989, ora in ID., Opere cit., III

27 - Ivi,p. 751

28 - "Noi non scegliamo mai i nostri padri e raramente i maestri. Dove il destino ci ha deposto nello spazio e nel tempo e nel costume, ivi principiamo a vagire." (C.E. GADDA, Intervista al microfono, [1950], in AA.VV. .Confessioni di scrittori (Interviste con se stessi), Prefazione di L. Piccioni, Torino, ERI, 1951, ora in C.E. GADDA, I viaggi la morte cìt., p. 96).

29 - L. SCIASCIA, II secolo educatore, in ID., Cruciverba., Torino, Einaudi, 1983, ora in Opere di., II.

30 - L. SCIASCIA, Porte aperte, Milano, Adelphi, 1987, ora in ID., Opere cit., III, p. 342.

31 - L. SCIASCIA, 11 secolo educatore cit., p. 1015.

32 - Ivi, p. 1012.

33 - L. SCIASCIA, La strega e il capitano cit. ; Il capitolo XIII. Manzoni e il linciaggio del Prina, [1985], in ID., Opere cit., III.

34 - L. SCIASCIA, Todo modo, Torino, Einaudi, 1974, ora in ID., Opere cit., II, pp. 187-188.

35 - "Del riscrivere io ho fatto, per cosi dire, la mia poetica", dichiara Sciascia a C. Ambroise nelle 14 domande a Leonardo Sciascia premesse al primo volume delle Opere (cit., p. VIII).

36 - Or. R. CONTARINO, Il Mezzogiorno e la Sicilia, in AA.VV., Letteratura italiana, a cura di A. Asor Rosa, Storta e geografia. L'età contemporanea, Torino, Einaudi 1989, pp. 780-782.

37 - L. SCIASCIA, II Consiglio d'Editto, Torino, Einaudi, 1963, ora in ID., Opere cit., I.

38 - R. CONTARINO, Opere cit., p. 781. Sul rapporto di Sciascia con l'Illuminismo cfr. S. ADDAMO, L'illuminismo di Leonardo Sciascia, in ID., Vittorini e la narrativa siciliana contemporanea, Caltanissetta-Roma, S. Sciascia Ed., 1962, pp. 139-162.

39 - A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Milano, Bompiani, 1989 (ora in L. SCIASCIA, Opere cit., III) s'intitola la raccolta di articoli giornalistici di Sciascia.

40 - L. SCIASCIA, La strega e il capitano cit., p. 207.







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