Per affrontare l'analisi complessiva di uno scrittore come Verga, è necessario non aggirare la difficoltà rappresentata da una serie di opere giovanili, che naturalmente precedono la composizione e la comparsa di una delle due opere più importanti dello scrittore e cioè I Malavoglia, che è del 1881. Ora, chiunque affronti l'analisi di uno scrittore come Verga s'imbatte, direi immediatamente, in un problema che è anche un po' il mistero della sua arte e della sua vocazione letteraria. Verga comincia scrivendo una serie di romanzi e di racconti, contraddistinti da una ambientazione borghese e da una serie di caratteristiche espressivo-stilistiche e anche psicologico-sentimentali, che potremmo definire tardo-romantiche. Se Verga avesse continuato per la strada che è segnata nella prima parte della sua produzione da opere come Una peccatrice, Eva, Tigre reale, o anche Storia di una capinera, che fra queste probabilmente è l'opera più riuscita, noi certamente non lo ricorderemmo come uno dei più grandi scrittori europei del secolo scorso, ma forse come un epigono tardo e provinciale di una esperienza maturata nei decenni precedenti e già esaurita complessivamente quando Verga comincia a scrivere. Verga è nato nel '40, quindi quando comincia a essere adulto e a porsi con grande energia la sua vocazione di scrittore, in un luogo appartato, molto periferico e provinciale come la Sicilia e Catania, alcune delle manifestazioni più importanti della letteratura italiana dell'800 si sono già compiute e realizzate: alle spalle ha il romanticismo italiano, l'esperienza di Manzoni, l'esperienza meno nota certamente, forse a lui ignota, di Nievo e si trova di fronte come ricerca letteraria contemporanea quei fenomeni appunto di tardo-romanticismo che in Italia sono noti con il nome di Scapigliatura, Scapigliatura lombarda o Scapigliatura milanese a seconda dei casi. Con questi fenomeni Verga ha un rapporto, come si sa, abbastanza precoce. Egli avverte la necessità di lasciare la natia Catania per entrare in un circuito di idee letterarie, di dibattito più intenso e più aggiornato. Sì trasferisce a Firenze, si trasferisce quindi a Milano, quella Milano cosi caratteristica, negli anni in cui gli scrittori giovani che cercano strade nuove sono appunto gli scrittori della Scapigliatura milanese o lombarda che dir si voglia. E in questa prima fase, per dirla molto sinteticamente, si potrebbe affermare che Verga cerca di fare o rifare a modo suo, usando anche tematiche siciliane o meridionali in modo molto particolare, l'esperienza di aggiornamento di una letteratura borghese e della crisi, come in fondo in una maniera tutta italiana e quindi non sempre compiuta tentava di fare la letteratura degli Scapigliati. Verga poi abbandona questa strada e, come si dice, ritorna o torna agli ambienti, alle tematiche, alle suggestioni degli ambienti siciliani, e più specificamente degli ambienti siciliani popolari. Mentre come scrittore borghese di avanguardia aveva realizzato risultati cosi deludenti, come scrittore che scopre o riscopre la realtà popolare siciliana e la rappresenta nei modi da lui stesso originalmente ritrovati si presenta veramente come un grande scrittore, a mio giudizio come uno dei grandi scrittori italiani, anzi europei dell'800.
C'è dunque un problema critico con cui misurarsi: siccome dobbiamo supporre che l'uomo sia maturato ma non cambiato, e che le sue capacità naturali non si siano granché modificate in questo passaggio di età e di esperienze, bisogna cercare di capire come mai e perché e in quali modi Verga, riallacciandosi a questa nuova materia, realizza risultati letterari, e sottolineo letterari, così sorprendentemente nuovi, innovativi e cosi straordinariamente diversi rispetto a quelli che aveva conseguito fino a qualche anno prima.
Anche se non ce ne sarà credo il tempo oggi, la storia di Verga ingloba un altro non meno rilevante problema critico e forse potremmo analogamente dire un altro mistero della sua storia, della sua personalità e cioè la comprensione del motivo per cui, cosi come straordinariamente rilevante è la differenza di orientamenti e di risultati tra il Verga maturo e il primo Verga, cosi dopo la realizzazione del Verga maturo, il Verga dei racconti siciliani e dei due romanzi siciliani, non ci sia stato un altro Verga, quella ricerca si sia interrotta fulmineamente direi, quasi altrettanto fulmineamente di come essa si era manifestata all'inizio, per dar luogo poi a dei tentativi altrettanto incerti di quelli precedenti la seconda fase, anche se di tipo diverso, ma altrettanto deludenti sul piano dei risultati letterari, stilistici ed espressivi. Fra questi due problemi o fra questi due misteri della personalità verghiana, la maniera sorprendentemente nativa e apparentemente poco razionalizzata con cui compie il passaggio dalla prima alla seconda fase e il silenzio fra questi due problemi critici o misteri della storia, della personalità e dell'opera di Verga, si dispiega questo nucleo creativo che sono appunto i racconti siciliani e i due grandi romanzi I Malavoglia e Mastro don Gesualdo, che invece evidentemente incarnano una felice e non più ripetuta corrispondenza tra le cose che lo scrittore pensava di voler dire e il modo come egli le ha effettivamente dette; cioè in questo spazio di tempo che dura non più di un quindicennio, o forse anche meno, c'è una corrispondenza felicissima fra il mondo intenzionale, la componente genetica dell'arte verghiana e i risultati espressivi e stilitistici che riesce a realizzare.
Come ho detto all'inizio, questa tesi potrebbe essere dimostrata sufficientemente soltanto se poi andassimo a vedere un'opera dietro l'altra, una pagina dopo l'altra; siccome non c'è il modo e il tempo di fare questo, io svilupperò quella tesi cercando di localizzare l'attenzione sull'originalità delle idee letterarie di Verga nel momento del passaggio tra la prima fase critico-romantico-borghese e la fase della produzione siciliana, in particolare della produzione popolare siciliana.
E un luogo comune, e come talvolta i luoghi comuni non del tutto infondato, che una leva potente a determinare questo passaggio sia stata operata in Verga dalla conoscenza dell'esperienza naturalista francese e dal tentativo di assimilare alcuni principi del naturalismo e di tradurli all'interno di un contesto pur molto diverso da quello in cui il naturalismo francese era maturato.
A fianco di questa ipotesi si può collocare l'altra che le è strettamente collegata, secondo cui Verga si riscatta dal suo primitivo idealismo romantico, assimilando cospicui elementi dell'ideologia positivistica contemporanea, anche di darwinismo spicciolo, non propriamente posseduto. A parte tutte le altre difficoltà che ho cercato di indicare, bisogna aggiungere ad esse anche la difficoltà rappresentata dal fatto che Verga non è uno scrittore colto, di grandi letture, e di grandi esperienze critiche: è uno scrittore che ha letto una serie di romanzi fondamentalmente contemporanei, da Balzac a Zola, ma non ha, diciamo, quel patrimonio critico o letterario che può avere da una parte Manzoni o, per citare un caso a lui molto vicino, L. Capuana, molto più colto e scaltrito di lui. Naturalismo e positivismo, non c'è dubbio che queste forze ideologiche e anche espressive contribuiscano ad aprire orizzonti di realtà che in Verga precedentemente erano chiusi o resi opachi dalla sua pretesa giovanile di essere uno scrittore mondano, a la page , direi, in sintonia con il tipo di ricerca e di cultura letteraria di cui davano prova quegli ambienti di avanguardia, o che per lo meno si dicevano tali, soprattutto della cultura milanese di quel tempo.
Come spesso accade, però, i luoghi comuni, oltre ad avere un elemento di verità, portano su direzioni e su strade che sono particolarmente inadeguate e insufficienti. La mia idea è che mentre questo rapporto con il naturalismo e con il positivismo francesi e anche italiani non si possa negare, e sia sbagliato sottovalutarne l'influenza, molto più importante nella creazione di questa ideologia letteraria tipicamente verghiana sia ciò che in Verga si presenta più come deviazione, come trasgressione rispetto ai canoni ortodossi del naturalismo e del positivismo che non come applicazione puntuale e fedele di quella sistematica. La parte più caratterizzante e più originale in Verga, dal punto di vista della formazione di un sistema letterario, non sarebbe dunque l'ortodossia naturalistica o positivistica, ma una serie di elementi che sono invece trasgressivi, devianti rispetto alla norma di quelle dottrine, che certi scrittori in Francia avevano invece applicato nelle loro esperienze con il rigore di un sistema scientifico.
Ciò che io vorrei offrirvi è la testimonianza di un insieme di queste deviazioni verghiane dalla norma veristica e positivistica, che, si intende, parte dal presupposto che Verga intende realizzare nel passaggio dalla sua ricerca passata a quella futura una esperienza di "letteratura di verità", riconoscendo da parte sua, ma solo fino a un certo punto, che l'esperienza letteraria sua precedente non poteva essere contraddistinta da questa connotazione. Dentro questa connotazione, che è molto importante ma anche molto generica, - una "operazione di verità", - Verga colloca una serie dì affermazioni che sono per l'appunto, come dicevo, la parte più caratteristica e più innovativa della sua posizione rispetto all'ortodossia positivistica e naturalistica.
I testi a cui faccio riferimento per svolgere questa tesi sono alcune delle lettere che Verga scrive a corrispondenti di varia natura nel periodo di cui stiamo parlando, prima dell'inizio degli anni '80; quella singolare novella, o, per usare un termine verghiano "cartone" (tornerò poi su questo concetto), che si intitola Fantasticheria; in parte l'Introduzione alla novella L'amante di Gramigna; e infine il più importante fra tutti al fine che mi propongo, la seconda e ultima Introduzione alla edizione in volume dei Malavoglia. Quindi siamo negli anni che vanno tra il 76 il 77 e poi nell'81, momento molto concentrato di ricerca e attenzione alle cose che lo scrittore va facendo.
In questo manipolo di lettere che sono indirizzate il più delle volte ad un amico che si chiama Salvatore Paola, un intellettuale catanese con cui lui era stato in stretti rapporti, all'intellettuale scapigliato di notevole livello anche critico che si chiamava Felice Cameroni e che rappresentava l'alternativa al suo modo di essere in quel momento e anche all'amico carissimo e di gran lunga il più vicino a lui, non solo in questa fase, Luigi Capuana, che gli fa da sponda teorica e concettuale, ma che spesso risulta secondo me nella sostanza più subordinato alle intuizioni verghiane, di quanto Verga non sia subordinato al suo ragionamento concettuale, ma su questo si potrebbe discutere.
Dividerò la riflessione in più punti per avere più sinteticamente e con maggiore chiarezza delle cose precise. Punto primo: la verità. È singolare come e quanto Verga si preoccupi in queste lettere di sostenere la sua non appartenenza a una scuola determinata e precisa ed è singolare e importante osservare quanto il suo concetto di verità si discosti da qualsiasi applicazione scientifica o par ascientifica di questa nozione.
In una lettera a questo Paola del 21 aprile 1878 Verga scrive:
II realismo io l'intendo cosi: come la schietta ed evidente manifestazione della osservazione coscienziosa.
Quindi, se non è esagerato usare un criterio di interpretazione di questo tipo, al posto della precisione scientifica della norma positivistico-naturalistica, Verga sarebbe portato a sostituire concetti di natura estetica da una parte, e, se non erro, di natura morale dall'altra. Il realismo, come si può vedere, lui lo intende come la schietta ed evidente manifestazione, quindi "schietta" ed "evidente" sono termini di ordine espressivo per non dire estetico, della "osservazione coscienziosa", dove, a mio modo di vedere, questa "coscienziosa" si riferisce invece proprio al "dovere" dello scrittore autentico di dare una resa della realtà che corrisponda ai suoi caratteri più intimi e profondi. Andando ben oltre, dunque, tutta la impalcatura idealistica, romantica e così via, ma insistendo, continuando a insistere sul problema costituito per lo scrittore contemporaneo dalla necessità di mettere in gioco sostanzialmente la sua coscienza dì scrittura più che le sue capacità di scienziato.
In una recensione probabilmente del 1878, non ho approfondito la cosa, dì Capuana a un romanzo francese contemporaneo, Capuana usa esattamente la stessa espressione; scrive Capuana:
L'arte - l'arte contemporanea s'intende - tende a ritemprarsi, a rinovellarsi per mezzo della osservazione diretta e coscienziosa.
È molto probabile che l'affermazione di Verga sia in questo caso una citazione di Capuana tradotta in linguaggio epistolare: "il realismo io l'intendo cosi" e cita, consapevolmente o inconsapevolmente, non lo sappiamo, Capuana. Ancor più probabile che questi fossero i termini e i concetti che i due amici in conversazione, pressoché quotidiana tra di loro durante questo periodo, si scambiavano per definire le caratteristiche e l'orientamento della loro ricerca in quegli anni. Anche Capuana in questi anni sta a Milano, questo è molto importante.
Qualche mese più tardi, - quindi vediamo le cose in sviluppo molto ravvicinato, - in una lettera a Felice Cameroni, Verga scrive:
Ho cercato sempre di essere vero senza essere né realista, né idealista, né romantico, né altro, e se ho sbagliato o non sono riuscito nuovo danno mio, ma ne ho avuto sempre l'intenzione, nell'Eva, nell'Eros, in Tigre reale.
Qui la cosa che dicevamo prima si precisa ancora: Verga rifiuta dì essere incasellato in una di queste categorie, ognuna delle quali corrisponde sostanzialmente a una scuola tra le molte che contraddistinguono la prima fase della ricerca letteraria nell'800: realismo, romanticismo, idealismo, né altro dice Verga, ma ha cercato sempre di essere vero anche quando, e qui è interessante capire il punto di vista di G. Verga, ai nostri occhi, se non ai suoi occhi, meno c'è riuscito, cioè in quei romanzi della decadenza borghese che qui vengono citati e che fanno parte della prima parte della sua produzione.
Dunque la verità soprattutto e l'osservazione diretta e coscienziosa che, in qualche modo, giustifica l'operazione di verità che egli ha voluto compiere e che, con più tenacia e con più intensità, andrà a compiere sui materiali popolari della sua infanzia, della sua esperienza siciliana.
Se questo ci fa capire meglio in che modo specialissimo e molto diverso dal contesto letterario europeo contemporaneo Verga intende questa ricerca di verità che accomuna gran parte degli scrittori europei di questi decenni, in quella novella intitolata Fantasticheria e che appare in rivista il 24 agosto del 1879, noi forse riusciamo a capire meglio che attraverso la lettura dì un racconto più antico, il bozzetto siciliano Nedda del 1874, perché Verga scopra in Sicilia, e non a Milano, tra i proletari siciliani, e non tra i borghesi fiorentini o milanesi, la materia più adeguata a esprimere in questa fase questo desiderio di verità che lo anima anche dal punto di vista etico oltre che estetico.
Questo racconto è definito dallo stesso Verga un "cartone" perché in realtà Verga vi prefigura sommariamente tutta una serie di elementi narrativi, tipi, personaggi, situazioni, che poi verranno ripresi e approfonditi ne I Malavoglia e svolge nella sua ricerca un po' la stessa funzione che il cartone svolge nella ricerca di un pittore che deve fare un affresco e disegno, e quindi sbozza i tratti elementari e fondamentali di una certa situazione per passare poi alla ricoloritura finale e infine al completamento del quadro. Questa invenzione, lo sbozzamento del quadro I Malavoglia in una anticipazione più elementare e più schematica, viene inserita significativamente all'interno di due caratteristiche assai importanti. La prima è quella data dallo stesso titolo: Fantasticheria, Verga vi riscopre il mondo siciliano popolare come attraverso una operazione di reinvenzione fantastica di quel mondo, più che di riscoperta anche in questo caso scientifica: è né più né meno che il senso dell'introduzione al bozzetto Nedda. Qui lo scrittore, che si rappresenta autobiograficamente in prima persona, è in una casa borghese milanese, guarda il fuoco ed è preso dalla reminiscenza nostalgica di una realtà lontana che è appunto quella di una masseria siciliana della sua fanciullezza.
Alla realtà siciliana dunque Verga ritorna attraverso lo strumento della "Fantasticheria"; in altri casi usa un termine ancora più caratteristico che è quello di "Fantasmagoria"; è la realtà popolare siciliana ma rivissuta attraverso un filtro fantastico.
Secondo punto: nel cartone Fantasticheria è del tutto chiaro, a mio giudizio, il motivo per cui Verga scopre in quella realtà ciò che vanamente aveva cercato nella realtà mondana borghese, cittadina, cioè scopre l'autenticità di una esperienza umana, che la moda, il costume hanno soffocato e che per giunta impediscono di conquistare attraverso lo strumento della scrittura e dello stile.
L'esperienza di Fantasticheria viene compiuta non casualmente da Verga in compagnia, come risulta dal racconto, di una bellissima signora borghese non siciliana, che si immagina capitata per caso insieme con lui sulle spiagge di un paesino siciliano che sarà molto probabilmente Aci Trezza, la quale guarda con enorme stupore i modi di vita di questa popolazione miserabile proletaria al punto di non riuscire neanche a capire come sia possibile vivere in una situazione come quella. E lo scrittore, che in questo racconto implicitamente dialoga con la bella signora ammirata e forse anche amata da lui, anche sul piano geografico fa partire la sua ricerca dal desiderio di riuscire a dimostrare anche all'esterno quanta autenticità umana e quanta capacità di sofferenza ci sia in quel mondo piuttosto che in quello raffinato della borghesia contemporanea. Per dirla in altro modo, cioè sul piano più storico e meno interpretativo, io sono persuaso che in Verga si maturi in questi anni un elemento di distacco profondo, per non dire di antagonismo, certamente di critica molto accentuata a quel mondo che egli aveva cercato di fare protagonista dei propri racconti e dei propri romanzi e da cui, da questo momento in poi, si sente sempre più estraneo. Esistono testimonianze scrittorie di questo atteggiamento per esempio nella Prefazione al romanzo Eva. Questo distacco psicologico e morale da un mondo inautentico produce la riconquista di una dimensione di autenticità umana, che per Verga si può ritrovare o che comunque lui riesce a ritrovare soltanto al livello dei più umili personaggi siciliani. Non torna dalla borghesia milanese alla borghesia catanese, fa un percorso all'indietro vertiginoso, se ci si pensa bene, dalla borghesia milanese alla più umile o ai più umili dei personaggi della terra: pastori, pescatori, proletari, lavoratori delle cave siciliane e cosi via.
Primo punto: la scoperta della necessità come legge di vita: la gentildonna non riesce a capire come si possa vivere in quelle condizioni; replica Verga:
basta non possedere centomilalire di entrata prima di tutto e in compenso patire un po' di tutti gli stenti fra quegli scogli giganteschi incastonati nell'azzurro che vi facevano battere le mani per l'ammirazione.
Quindi la scoperta del nesso, - basta aver letto una volta I Malavoglia per capire quanto questo sia importante nella struttura mentale di Verga e nella costruzione di quei personaggi - la scoperta del nesso tra necessità e autenticità umana. L'autenticità umana è legata alla necessità elementare della sopravvivenza.
Secondo punto: questa vita popolare è autentica. Questa autenticità è il predominio dietro la vita popolare dell'elemento caso, della assoluta casualità di queste esistenze. Scrive Verga:
Di tanto in tanto il tifo, il colera, la malannata, la burrasca, vengono a dare una buona spazzata in quel bulicame che si crederebbe non dovesse desiderar di ; meglio che non essere spazzato e scomparire.
Ora quello che Verga scopre, e lo scopre in antagonismo polemico con la sua gentile interlocutrice, è che né la necessità né il caso spengono in questo popolo così miserabile l'attaccamento alla vita e al luogo di nascita. Un tale attaccamento alla vita e al luogo di nascita, che lo scrittore, quasi seguendo il filo di un suo interno ragionamento e di una sua interiore maturazione, non riesce all'inizio a definire, se non ricorrendo a paragoni animali, come se anche a lui, nonostante non sia fatto della stessa pasta della gentile interlocutrice, non vengano in mente immagini e metafore di vita umana e di esistenza umana che giustifichino questa condizione che lui sta additando in qualche modo come esemplare. Rivolgendosi direttamente a questa signora Verga scrive:
Vi siete mai trovata dopo una pioggia di autunno a sbaragliare un esercito di formiche, tracciando sbadatamente il nome del vostro ultimo ballerino sulla sabbia del viale? Qualcuna di quelle povere bestioline sarà rimasta attaccata alla ghiera del vostro ombrellino torcendosi di spasimo, ma tutte le altre dopo cinque minuti di panico e di via vai, saranno tornate ad aggrapparsi disperatamente al loro monticello bruno.
Quindi questa vita, cosi tenace da sopravvivere alle sofferenze e alle necessità più costrittive con una tale tenacia che paragoni umani non riescono a spiegare e a definire, può essere nella mente dello scrittore, e forse dei suoi lettori, descritta e rappresentata soltanto con il paragone animale zoomorfo delle formiche, e per giunta di una animalità della specie inferiore: la formica, non il cane o un'altra specie superiore.
Il discorso procede perché la signora replica con l'aria di dire una cosa anche spiritosa, "insomma l'ideale dell'ostrica, direte voi"; replica Verga: proprio l'ideale dell'ostrica - continua Verga - "sotto questo aspetto vedrete che il dramma non manca d'interesse: per le ostriche l'argomento più interessante deve essere quello che tratta delle insidie del gambero o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio".
Mi interessa, prima dì arrivare ad una rapida lettura ed interpretazione dell'Introduzione a I Malavoglia, fissare due concetti: il primo è che Verga non sì mette a livello di queste creature popolari che gli restituiscono l'immagine delle formiche o delle ostriche. Non commette l'errore estetico di tentare una identificazione della propria condizione di scrittore borghese con quella dei suoi personaggi popolari, ma al tempo stesso, applicando fino in fondo il principio non naturalistico della "osservazione diretta e coscienziosa", esprime una altissima capacità estetica di capire e rappresentare la verità di questo mondo proletario siciliano.
Questa affermazione ha in Fantasticheria anche un enunciato di carattere estetico, perché, secondo Verga, per capire e rappresentare questa umana autenticità, che è dei personaggi più infelici tra gli uomini, bisogna fare un'operazione di ottica, bisogna compiere un processo di osservazione speciale. Dice Verga ìn questa stessa Fantasticheria:
Per poter comprendere siffatta caparbietà [la caparbietà della sopravvivenza e la caparbietà dell'attaccamento al luogo di nascita, caparbietà per certi aspetti eroica] - bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l'orizzonte tra due zolle e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori.
Questa secondo me è una affermazione di carattere estetico che contiene però anch'essa, come dicevo all'inizio, un principio etico. L'osservazione di carattere estetico è precisamente quella che consiste nel suggerire un determinato modo di guardare a questa realtà. Per guardarla opportunamente bisogna ridurre la sproporzione immensa che esiste tra l'osservatore e l'osservato; questa sproporzione immensa non si può ridurre sul piano della comunanza dei valori: l'osservatore disincantato, scettico, colto non potrà mai far propri i valori della pìccola gente osservata. Questa disuguaglianza impressionante sì può ridurre sotto il profilo dell'osservazione, quindi cercando di farci "piccini" anche noi e di guardare questi piccoli personaggi dalla loro medesima altezza. Questo principio estetico ne contiene anche uno etico, perché, per compiere questo percorso di carattere estetico, bisogna avere l'impulso morale che consiste nel concedere una caratteristica di eroismo ad atti e comportamenti che potrebbero invece, secondo una diversa ottica, apparire esclusivamente bestiali e inferiori. "La formica" e "l'ostrica" possono esprimere un contenuto eroico nei loro comportamenti soltanto se noi partiamo dal presupposto che la vita delle formiche e delle ostriche esprima anch'essa una logica autosufficiente riconoscibile come tale, in cui appunto, ripeto ancora una volta, c'è nella sua immediatezza e nella sua semplicità più autenticità che nella vita elaborata e molto spesso falsificata delle classi dominanti. Questo mi pare il percorso che Verga compie dall'interno per arrivare a cogliere la verità e l'autenticità della dimensione popolare e a darle tutti gli attributi di una condizione artisticamente rappresentabile senza per questo mettersi, come è accaduto ad altri scrittori italiani ottonovecenteschi, nella difficile, anzi impossibile, situazione di tentare di condividere anche i valori e i modi di vita del ceto subalterno, scelto come oggetto della propria rappresentazione.
L'insieme di queste idee trova una sua sistemazione pressoché definitiva nell'Introduzione all'edizione in volume de I Malavoglia che porta la data in calce del 19 gennaio 1881. Questa Introduzione ricchissima di spunti, e anche molto singolare come discorso, io la definirei una lotta teorica e concettuale che il Verga conduce con l'ideologia naturalistica e positivistica.
Una lotta in parte consapevole e in parte inconsapevole. Lotta che consiste nel recepire aspetti anche fondamentali della ideologia naturalistica e veristica e nello svilupparli di volta in volta verso direzioni che non sono né naturali stiche né positìvistiche e soprattutto non hanno niente a che fare con quella sorta di ottimismo progressista e della conoscenza che contraddistingue, al livello europeo, naturalismo e positivismo.
Verga parla in questa Introduzione non solo de I Malavoglia, quindi l'introduzione non è una introduzione a questo singolo romanzo nel senso stretto del termine, ma è l'introduzione al ciclo dei "Vinti", che avrebbe dovuto essere costituito da cinque romanzi (Verga ne ha scritti soltanto due, da qui il problema critico a cui accennerò in conclusione: di capire perché gli altri tre no); e da un certo punto di vista, questo ciclo dei "Vinti" è impostato secondo un'ottica che potremmo definire di tipo evoluzionistico: si comincia con i pescatori de I Malavoglia, si prosegue con il borghese recentemente arricchito che è il protagonista di Mastro Don Gesualdo, si sarebbe dovuto proseguire con l'ambientazione aristocratica de La duchessa di Leyra, quindi con l'ambizione politica nel romanzo intitolato L'onorevole Scipioni e infine con la rappresentazione di un antesignano di un eroe dannunziano vero e proprio che è L'uomo di lusso, probabilmente una figura di csteta, il quale riunisce, dice Verga, "tutte coteste bramosie", "tutte coteste vanità", "tutte coteste ambizioni", per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue e ne è consunto. Questa scalante dell'esperienza, che va, secondo quanto dice Verga, esplicitamente dal "più semplice" al "meno semplice"", dal meno complicato, al più complicato, dovrebbe secondo Verga rappresentare la scala della società contemporanea che parte dal basso, logicamente, per arrivare alla quintessenza della società contemporanea che è appunto l'esteta, l'uomo che vive soltanto per il sogno di un ideale estetico da realizzare. Ebbene, se questo è l'impianto concettuale, lo sviluppo dimostrativo che Verga da di questa impostazione nelle pagine successive è sorprendentemente rovesciato rispetto a questa impostazione. Con un passaggio cosi brusco fra la prima e la seconda parte del ragionamento da porci un problema di comprensione di una logica tutt'altro che lineare e progressiva nella mente dello stesso Verga, perché, dopo aver tracciato questo programma letterario che va dal "più semplice" al "meno semplice", dal meno complicato al più complicato, a un certo punto Verga inaugura un discorso di natura diversa; finora ha fatto un programma di descrizione anche sociologica della realtà contemporanea, potrebbe essere un ciclo zoliano quello che Verga ha finora descritto, ma per dare contenuto e specificazione a questo programma Verga cosi prosegue:
II cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l'umanità per raggiungere la conquista del progresso è grandioso nel suo risultato visto nell'insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l'accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l'egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l'immane lavoro, tutte le contraddizioni dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c'è di meschino negli interessi particolari che lo producono, li giustifica come mezzi necessari a stimolare l'attività dell'individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti. Ogni movente di cotesto lavorio universale, dalla ricerca del benessere materiale alle più elevate ambizioni, è legittimato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento incessante e quando si conosce dove vada questa immensa corrente dell'attività umana, non si domanda al certo come ci và. Solo l'osservatore travolto anch'esso dalla fiumana guardandosi attorno ha il diritto di interessare ai deboli che restano per via, ai fianchi che si lasciano sorpassare dall'onda per finire più presto ai vinti che levano le braccia disperate e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvenienti e vincitori di oggi affrettati anch'essi, avidi anch'essi d'arrivare e che saranno sorpassati domani.
Mi sembra un brano di grande lucidità nell'esplicitare le difficoltà logiche che esso presenta, oltre che di grande "pathos", perché qui Verga riassume in maniera intensissima la vera sua visione dell'esistenza umana. Dunque, qual è il ragionamento che Verga qui singolarmente espone? Il ragionamento è che l'umanità, vista nel suo complesso, potrebbe anche dirsi mossa da una sete di progresso, di conoscenza e di miglioramento, cioè potrebbe dirsi, per usare il linguaggio del positivismo contemporaneo, mossa da una logica evoluzionistica sostanzialmente positiva. Questa grande spinta in avanti nasconde tutto ciò che di meschino, di imperfetto, di ingiusto questa fiumana del progresso porta con sé (e "fiumana del progresso" badate bene è una definizione di apertura di questa introduzione verghiana: il movente dell'attività umana che produce la "fiumana del progresso", e dire "fiumana del progresso" è secondo me già una connotazione semantica molto particolare del concetto di progresso, rappresentato come qualche cosa di inarrestabile, ma che trascina con sé, come un fiume fangoso, tutto ciò che incontra nel suo cammino). Ma, ed ecco il punto, se, al di là di questa osservazione generale, puramente teorica, lo sguardo dell'osservatore si appunta sui moventi particolari di questo processo, a essere focalizzati tornano di nuovo i punti della sofferenza, dell'ingiustizia, della viltà, dell'oppressione, e cosi via. È assolutamente esplicito, direi, nel discorso verghiano, il fatto che in lui l'interesse vero, l'interesse umano e al tempo stesso l'interesse estetico è quello che consiste nell'andare a guardare, al di là della fiumana complessivamente considerata, ciò che accade nei gangli nervosi, nei momenti particolari, individuali, di questo gigantesco processo. Questo significa una cosa che si ricollega bene a quello che abbiamo cercato di dire a proposito di Fantasticheria: se l'osservatore si mette dall'alto e lontano, la vita dei pescatori di Aci Trezza è senza senso, non ha senso anche nel significato moderno del termine, bisogna avvicinare l'ottica, e la stessa operazione estetica, quella di cui Verga parla per riconquistare il senso delle esistenze individuali e al livello delle esistenze individuali, altro che progresso!, si perde il senso complessivo del processo, si riacquista il senso concreto e determinato della vita e questo senso è un senso di sofferenza, di dolore e di ingiustizia, sempre.
Un altro punto fondamentale è anche questo molto singolare: come si riesce ad andare al di là dello sguardo concettuale e non estetico che ci fa vedere l'insieme del processo e non i drammi particolari che esso nasconde? Per raggiungere questo risultato bisogna che l'osservatore, per raggiungere questo grado di consapevolezza, partecipi del dramma delle creature da lui osservate: solo l'osservatore, travolto anch'esso dalla fiumana, guardandosi attorno ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via; questo in campo naturalistico sarebbe una bestemmia perché è la negazione più esplicita, forse non del tutto consapevole teoricamente, ma è l'affermazione assolutamente esplicita del rifiuto della impersonalità. Verga dice infatti che per contemplare le sventure delle creature osservate, bisogna essere arrivati al punto di partecipare, sia pure in maniera diversa, delle loro sventure e della loro sconfitta, e solo se si è in questa condizione si scopre quella umanità autentica e sofferente che non riescono a scoprire quelli che guardano invece al senso complessivo, generale e generico, del processo.
Io credo che qui ci sia un elemento autobiografico foltissimo su cui si potrebbe parlare a lungo, ma qui non è il caso di farlo.
Nella parte conclusiva di questa Introduzione, e su questo anch'io concludo, c'è un ulteriore passaggio: nella prima parte il ciclo dei "Vinti" è la rappresentazione di una gerarchia sociale che potrebbe avere una traduzione letteraria anche in chiave naturalistica o sociologica; nell'ultima parte della Introduzione, dopo aver fatto questo passaggio che vi ho letto per intero, i personaggi protagonisti dei cinque romanzi, ricompaiono tutti ma ricompaiono tutti come "Vinti".
Il loro interesse, per il Verga scrittore, non è di essere di volta in volta rappresentativi del proletariato siciliano, rappresentativi della borghesia in ascesa, dell'aristocrazia decadente, ma il loro interesse, per il Verga scrittore, è di essere un campionario di "Vinti"; I Malavoglia, mastro Don Gesualdo, la duchessa di Leyra, l'onorevole Scipioni, l'uomo di lusso, sono altrettanti "Vinti" che la corrente ha deposto sulla riva dopo averli travolti e annegati, ecc. Quindi si entra in questo discorso per un canale di tipo sociologico, positivistico, e se ne esce con una ideologia o con un sistema letterario al cui centro stanno appunto queste figure di personaggi in quanto rappresentativi, in forme diverse, di questa legge generale della sconfitta che la "fiumana del progresso" al tempo stesso porta dentro di sé e cela.
Perché allora non possediamo il ciclo dei "Vinti" per intero? Qui naturalmente le ipotesi, quando si imperniano sopra ciò che non è stato, sono più rischiose ancora di quando si imperniano su ciò che è stato: ma credo che una ipotesi possa essere avanzata: se il ragionamento che ho fatto è stato abbastanza chiaro, se non del tutto persuasivo, allora risulterà abbastanza evidente che con questo sistema letterario e anche con questo sistema di idee nella testa, questo sistema letterario e questo sistema di idee veramente potevano trovare il loro corrispettivo oggettivo solo nel mondo che più intimamente nella realtà verificava la validità di questa impostazione teorica e culturale, mentre impresa disperata deve essere apparsa allo stesso Verga ripetere la stessa ricerca, quando i personaggi e gli ambienti con i quali doveva misurarsi tornavano a farsi più complicati e più raffinati di quelli che lui aveva rappresentato nei racconti siciliani. Dopo I Malavoglia e Mastro Don Gesualdo, cioè, torna a imbattersi, secondo me, e per andare incontro ad una definitiva sconfitta, con le stesse difficoltà con cui si era misurato quando aveva cercato di scrivere romanzi borghesi, decadenti nella fase precedente a quella della grande ricerca siciliana. È come se lui avesse cercato di adattare ad una materia ribelle un sistema che si adattava invece fisiologicamente, ossia in maniera pressoché perfetta, ai suoi pescatori, ai suoi cavatori di rena, ai suoi proletari. E forse è per questo che Verga smette di scrivere e lo fa anche con il senso disperato di una sconfitta che lo accompagna dal momento in cui finisce di essere uno scrittore e torna ad essere un rentier borghese, fino al momento della sua morte. Terminato il suo colloquio con questi personaggi "formiche" "ostriche", questo tipo di vena si esaurisce e torna in qualche modo il silenzio originario. |