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CRITICA STORICA
E STILISTICA NELL'ARTE
DI LAMBERTO CIAVATTA

a cura di

ARCANGELO JURILLI

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Conclusione

Così stanno le cose e i fatti. Il lettore mi do-manda: che cosa si può fare? Io: Niente. Lui: Ma non puoi parlarne in un congresso, in una tavola rotonda, discutere, indurre a... Io: Io? Mi copriranno di sputi. Lui: Pocomale, Cristo non fu coperto di... Io: Io Cristo? E' qui la società, e là la politica, laggiù la religione. Lui: Oh no, è impossibile rivolgersi a loro. Sai bene che queste rispettabili Signore hanno bisogno loro di sostegno. Senti, perché non prendiamo per le spalle la critica? Io: Che dici. Ma se essa fa da portavoce di scompensi psichici e linguistici senza mai... Lui: Ma allora... Io: Allora che vuoi da me. Io faccio ciò che la mia coscienza mi consiglia, poi vedremo. Lui: Che cosa vedremo? Io: Non lo so. C'è una dea chiusa in fondo alla notte intenta a filare e a disfilare. Lui: Perché non vai a parlarle? Io: Io? Solo l'Onnipotente... ma anche Lui... Lui: Hai ragione, sul mondo si è stesa una fitta rete di nebbia. Passerà. Io: Oppure... Lui: Oppure che cosa? Io: Niente, aspettiamo.
Si rifletta che da cinquant'anni circa l'artista continua a sottrarre sé da se stesso, il pensiero dall'espressione, la natura dal pensiero; e che la matematica visiva non fa che calcolare due meno due fanno quattro. E così, addizionando con la sottrazione, si può dedurre che dalla chiloidazione dell'oggetto dipinto, dal polimaterismo d'officina, per associazione indiretta, si compone nella niente la premessa della materia per strumenti adatti a scoppiare in basso e in alto. E non pare azzardato il sillogismo che il pragmatismo antiestetico e antimentale nordamericano, nello stile selvaggio d'un Pollok, d'un Kooning, d'un Kline..., abbia cooperato alla riduzione dell'uomo ad oggetto non solo da consumare ma anche da scagliare; e che la funzione di questa vasta corrente di artisti (magari senza volerlo) sia quella di spia automatica nel muro. Queste sono avanguardie autentiche. Impiegando la tecnica unidimensionale, l'arte, del nuovo realismo descrive ciò che è alla superficie, trascurando ciò che è dentro. Che cosa mai - si domanda l'empirico artista - vi può essere dentro la croma che non sia " coup de l'oleil? ". Così mostra di ignorare la costituzione della materia, che, com'è noto, non è inerte ma in perpetuo movimento di vita interna. Qui cade a proposito il dettato di Leibnitz duecentocinquant'anni prima del postulato della scienza nucleare: " Ogni porzione di materia - ha detto - può esser concepita come un giardino pieno di piante. Ma ogni ramo di pianta, ogni goccia dei suoi umori è ancora un simile giardino ". E questo una metafora che riconduce a tutto l'umanesimo della Rinascenza e al secondo impressionismo di Vlaminck, di Derain, di Dongen, di Chagall, di Redon, e soprattutto - ciò che a noi importa - a Ciavatta. Ma ci mantiene al largo dai " giardini " ora impiegati come luoghi di scarico di residui esterni ed interni.
II lettore può ravvisare da sé il rapporto dialettico della " scultura " del subumano mongoloide, della bombola spray nella tecnica pittorica, della ragnatela di parvenze umane nel disegno, della gallina, i topi, in luogo di quadri nelle mostre, col dommatismo delirante della mente, col disprezzo della ragione, col pensiero visivo illegibile, col paesaggio fosco dell'anima. Il lettore si dovrà domandare: questa afasia linguistica, questa debolezza di memoria del passato, questa nessuna apertura sul domani, questa cecità sul presente, questo mucchio di frammenti dì plexpsigas, perplex, polisterolo impiegati a piene mani nelle " composizioni ", quale edificazione culturale possono elevare nella mia coscienza? Chi ricompone le lacerazioni mie e della comunità? Dove cercare la mia verità che non sia nel cafè society della mediocrazia? Voglio capire chi sia il mio io, uscire dai recinti spinati per prigionieri dì pace. Vorrei sposarmi. Ma come posso congiungermi con una donna che ha due fontane dì seni colanti vino rosso invece di latte come nel quadro di non mi ricordo chi in una mostra? Penso di andare da Filippo Lippi a chiedergli la mano della sua " Verginella " nella Galleria Palatina a Venezia. Ha quattordici anni, non sa nulla del mondo, pensa con gli occhi fissi ad uno come me. E se Lippi mi fa un netto rifiuto perché dice che la ragazza è sua? Allora pregherò lo scrittore di fare da intermediario col Signor Ciavatta per avere una delle sue " Madri " così monastiche, così regine, nude, avvolte solo nel velo del ricordo, col bambino nudo sulle ginocchia avuto in una notte di preghiera. Va bene, andrò da Ciavatta e gli farò capire la tua disperazione. Ma se anche lui dice di no perché non si presta a profanazioni, io che posso dirgli di te? chi sei, come pensi, che cosa fai, se sei pulito dentro e fuori il casellario. Se anche lui dice di no, allora io, dannazione, gliela ruberò quella donna.
Nel critico excursus di queste ultime pagine, malgrado l'apparenza, non mi sono mai allontanato da Lamberto Ciavatta. Mi sono comportato come l'agricoltore del Sud assetato che, ispezionando i campi arsi, non cessa di tener sottocchio il ciclo che apra le sue dighe all'acqua. Come accennato avanti, le fonti d'acqua sono d'una nuova umanistica Rina-scenza da considerarsi come forza indistruttibile dello spirito che organizzi un nuovo sistema di vita. E già nell'opera di Ciavatta svolta fino ad ora c'è in luce la disposizione a tale apertura che poi, a quanto mi risulta, egli dovrà sviluppare dentro un sistema di contenuto e di stile. A me sembra che il rapporto tra anima e linguaggio nell'arte attuale, secondo la documentazione sopra riportata, abbia raggiunto il massimo punto di congelazione. Siamo ad una delle tante svolte della storia? Può sprigionarsi una reazione nel pensiero e nella forma? Per Ciavatta non si tratta di arbitrio e meno ancora di stramberia, dati i tempi in cui chi non fa del rococò in arte ad oltranza, non può dirsi originale. Ma questo artista è uno dei più genuini esempi di pienezza concettuale e linguistica capace di stabilire un rapporto diretto istante con l'uomo e la società. Egli mostra di sapere e valutare il valore della quarta dimensione nell'identità della vibrazione interna in ogni porzione di linea e colore. Quando la sua visione si addensa intorno all'idea di " Rinascita della vita ", il suo sistema di comunicazione ci fa auscultare le pulsazioni che ritma la crescita dell'immagine dalla materia elementare. Egli tratta la linea e la croma come il chirurgo tratta il viscere per sapere che cosa ci sia dentro di guasto, e poi quel viscere torna alla sanità. I sali semantici inariditi li muta in sali nutritizi agenti, e allora i rapporti sono impensati proprio perché sono stati intensamente pensati. Così è nell'antologia di " Sento il mio tempo " dove si scorge la maledizione dell'esistenza e lo spasimo del superamento. In quelle immagini par di sentire il rauco grido e si vede colare il sudore, la bava e il sangue.
Lo stile di Ciavatta si dispiega in segmenti e tocchi gammali estesi fino all'astrazione dell'idea pura. Ma la sua virtù dominante è quella di " voir ensemble a tout instant ". La struttura esterna delinea ciò che avviene nella struttura interna dell'uomo di questo secolo. Lo fanno intravedere le lacerazioni e gli strappi nella forma, ma anche, i palpiti e le levitazioni. La luce ora si spegne ed ora si accende, il magma ora irrompe ed ora si posa in squarci di natura. Nel processo ideo-linguistico il dramma non si scioglie in contemplazione atemporale, come nella pittura senese del trecento ripresa poi da Modigliani, nella quale il contemplatore si vede contemplato. Chi legge con gli occhi una sua lirica invece, riscontra una identità tra i patimenti della figura e i suoi, perché viene coinvolto nel circolo dall'etimo al simbolo, avendo la sensazione d'un viaggio fascinoso dall'ignoto al noto. E' una filologia ansante, è uno stile della ricerca luminescente. Il suo linguaggio visivo non si sbraccia in gesticolazioni, non fa bau bau da una staccionata, non scricchiola da un congegno, non traccheggia con una cinghia di trasmissione, non trabocca in gorgo di segni e colori vomitati, come troppo spesso ci accade di vedere. I tocchi sono invece percezioni sensorie, la linea patisce, la croma spera.
Certo questo artista, nel periodo dello sviluppo del suo pensare e operare quale si configura nei modelli in cui si è indagato, non avrebbe potuto fare un discorso rotondo come nella figurazione rinascimentale, dato il disorientamento attuale dell'uomo-massa. Quali sono i discorsi rotondi che fanno oggi le istituzioni, la politica, l'economia, la sociologia, la religione? C'è uno strato denso di zucchero sul pasticcio linguistico che ti presentano, e che cosa ci sia dentro, non sono gli occhi ma il naso a farcelo sapere. Anche lo stile di Ciavatta è tumultuoso e sconvolto, ma, tra i nessi correlativi di tagli, sincopi e cesure, una picchiettatura di segni e macchie, ha la virtù di promettere l'evento fruibile da noi. Egli - giova insistere - aspira ad una sintesi concettuale - storico-linguistica. La sintesi viene esercitata su molteplici piani tra i quali v'è quello della cultura. Infatti nel complesso della sua opera si alternano getti di spiritualismo, di mentalismo, d'idealismo, di realismo, di storicismo, fuori da quel nominalismo oggettuale che, sottraendo il contenuto dal contenente, è riuscito ad ottenere un vuoto nel bilancio. Si consideri inoltre che, mentre la scienza e l'arte sono state due componenti fissatori dello umanesimo storico, nell'età nostra scienza e arte sono completamente scisse; ma accade che l'arte, resasi libera dal pensiero, si è ridotta a mendicare bricciole d'esistenza. Ora il proposito di questo maestro dello stile è di ripristinare il potere congeniale dell'arte nella ricerca d'una ragione dell'uomo dandogli la più degna delle forme nel molteplice difforme. E' nella forma ciavattiana che la problematica si discioglie. L'uomo e la donna che ci passano davanti non sono quelli ricreati da lui, perché dal loro comportamento, mostrano una individualità antropologica completamente fìsiolocizzata dai loro nove buchi dei corpi e nulla più. L'uomo e la donna invece, rivivescenti sotto la sua mano, sono stati immessi in un bagno di estetica, e dopo hanno riavuto ciò che avevano perduto, la leggerezza pluridimensionale del proprio destino.
La sua operazione creativa ha due fasi: la carica emozionale e l'espressiva, ma quella viene irradiata da questa, e allora la concretezza fluisce in poesia, l'aria infetta del dramma umano viene purificata dal semantidismo sintattico, la coscienza dilaniata si acquieta nel pensiero idealistico. Da molte correnti d'arte attuale emerge la tendenza alla servitù che si sottomette al potere del materialismo industrializzato del questo e non altro, del questo e non oltre. Nell'arte di Ciavatta al contrario si produce l'urto per rompere la rete come l'uccello nella pania. E' una drammaturgia ad alto livello quale è stata rappresentata dai grandi maestri nella storia dell'arte. A voler ricercare e stabilire elementi analogici nell'uomo-eroe di Ciavatta con l'uomo-eroe delle tragedie classiche, qui riporto come esempio tre versi di Racine stralciati dalla " Fedra ":
" De son généreux sang la trace nous conduit: Les rochers en sont teints; les ronces dégouttantes porte! de ses cheveux les dépoulles sanglantes ". (" Ci conduce la traccia del suo generoso sangue: Ne sono tinte le rocce; i rovi repulsivi Portano dei suoi capelli i resti insanguinati ") Non vi sono rocce insanguinate sotto i cicli? Ciavatta ne ha trasposto i significati nella sua iconologia. Però la sua idea è sempre seminale anche se il seme cade sulla roccia e tra i rovi.
Per quanto attiene alla mia persona, non credo che Lamberto Ciavatta non abbia avuto qualcosa da me, mentre sono io che molto gli debbo: una più cruda esperienza della condizione umana, un proposito di virile elevazione, una sprezzante distanza dall'arte minimal. Ma io sono voi che leggete, e so che anche voi, assottigliando con la lima del giudizio la sua arte-verità, fate una simile esperienza. A questo punto non può mancare una spiegazione. Un Ciavatta è artista genuino, a tutte le stagioni erompe dal suo interno una germinazione spontanea, la studiata razionalità che possa concorrere a facilitargli la risoluzione dei problemi umani e meno ancora il problema Dio non gli è necessaria, come al contrario osava fare Van Gogh prima di dar di mano al pennello, e tuttavia al Dio profondo e assoluto il nostro artista presta uno stile. Qual'è il suo procedimento per la conoscenza della verità? Probabilmente egli ignora il pensiero di Enri Bergson che tanto influsso ha esercitato sul secondo impressionismo e sul cubismo della prima metà del secolo corrente (il premio Nobel gli venne conferito nel 1928 mentre insegnava filosofia moderna al Collegio di Francia). Il sistema bergsomano della conoscenza si basa sul dettato del nostro io interiore e solo su quello attraverso folgorazioni dell'intuizione. Da tale angolazione si perviene alla conoscenza della realtà non elaborata ma fulminea, verginale e totale. Ora questa natività dell'immagine e questo fluire di essa nello stile di Ciavatta conferma una volta di più l'insegnamento del maestro francese, perché il suo metodo del fare arte nasce e procede dall'intuizione e solo da quella, esattamente come nasceva e procedeva in Chagall e Vlamink dei quali si è parlato in un capitolo precedente. Ma occorre aggiungere che l'ammiratore della sua opera è anche lui nella stessa posizione psico-intellettiva e capisce il tutto per intuizione: la presa dei suoi occhi spinge in un solo bagliore il concetto alla comprensione. Solo il critico deve tormentare la pagina perché riferisca agli insaziabili tutto ciò che era rimasto nell'ombra. Ma c'è solidale aspettazione nella stanza dove la madre arte partorisce tra gemiti, sudore e sangue. Il contrario succede nell'arte e nella critica del nuovo realismo, dell'espressionismo e del surrealismo neo e post: qui artista, critico, osservatore, cultura, natura, linguaggio sono in perpetua rissa e hanno imparato la tecnica dello judo, dell'ajki-do, e anche del Karaté, che, come si sa, può uccidere, e infine, per farla finita con l'arte-progresso, la tecnica del tritolo a scoppio ritardato.
Torna alla mente un ideogramma delle antitesi della cultura orientale adattabile all'arte del nostro artista: " Alla terza vigilia (nel cuore della notte) si vede irraggiare una sfera bianca ". Una sfera di luce bianca per l'artista nella notte della civiltà.
I cultori del nuovo positivismo panamericano, del minoratismo veneziano, del perplessismo nazionale, dell'accumulo intrapolare di oggetti ne sorridono? E noi sorridiamo dei garzoni del pensiero, dei braccianti dello stile. Ma presto o tardi, da vivo o da morto, riconosceranno in Lamberto Ciavatta il maestro del rinnovamento umano e stilistico che avrà insegnato a costoro a leggere da capo il sillabario dell 'arte.




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