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NEPTUNIA
di G. BROVELLI SOFFREDINI

a cura di
OSCAR RAMPONE

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4 - MEDIO EVO - TEMPI MODERNI


Il Romano Impero, dall'apogeo della gloria e della potenza, crollando travolge nell'imo dell'inerzia e della debolezza l'Italia. Tuttavia, se essa apparve men grande e men forte, rimase sempre bella ed invidiata per la feracità del suolo per la mitezza del clima, per la luminosità dell'orizzonte e per la fertilità dei suoi geni creatori. Se i barbari, nel periodo secolare avvolto in oscure tenebre, la percossero, la saccheggiarono e la vilipesero senza tregua, il suolo Italico conservò sempre traccie indelebili di superiore maestà e potenza.
L'oriente che, troppo da lungi, governava l'Italia, era travagliato da discordie. Le dissidenze etniche e religiose aprirono il varco all'Impero d'Occidente, rappresentato dalla dinastia di Carlomagno e dei Carolingi.

49) I SARACENI

Carlomagno, tra le superstizioni deflaganti, seppe frenare gli abusi del clero. I Pontefici erano già padroni delle provincie bagnate dal mare e, trovatele deserte e devastate, cercavano ricostruirle, fabbricando, sopra antichi e diruti edifici, torri e muraglie di difesa. Da tutti i lidi e, specialmente da quelli Tirreni, si dovevano fornire uomini e navi agli ordini dì Carlomagno; e questa riviera d'Anzio e Nettuno, quagi spopolata e deserta, fu costretta a sottostare alle vicende dei tempi ed alle requisizioni,
II Pontefice Leone II scriveva a Carlomagno dimostrando la necessità delle difese e presidi marini, per arginare le scorrerie Saracene, sempre più baldanzose,
I Saraceni furono popoli oriundi dell'Arabia Petrea e si estesero poi fino all'Arabia Felice; professavano idee religiose analoghe al culto Maomettano dei Turchi, pur essendo da questi differenti nell'origine.
Finché visse, Carlomagno seppe contenere, con la sua temuta potenza, gli eccessi di quelle orde. Questo nuovo Imperatore d'Occidente, estendendo le sue conquiste sopra le rovine della dominazione Romana, mantenne l'ordine. Col suo sguardo acuto e la fermezza vigile, non permetteva che si turbasse la tranquillità dell'Impero. Ma, dopo la sua morte, avvenuta nell' 814, i Saraceni non ebbero più freno. L'Impero d'Occidente, anch'esso in dissolvimento, sotto i successori di Carlomagno, aprì la strada al regime e agli abusi feudali. L'Italia proseguiva la sua Storia tra genti barbare, tra nefandi costumi e selvagge devastazioni.
I Saraceni presero a correre il mare, invadendo la Corsica, la Sardegna e la Sicilia, e facendo strage di Cristiani. Ad essi, Clemente IV oppose armate Veneziane e Pisane.
Sopraggiunte alle coste Tirrene, entrati a Civitavecchia, assaltandola, col ferro e col fuoco, la distrassero; e gli abitanti fuggirono sui monti appennini. Sorte simile toccò alla gente rivierasca di Nettuno e d'Anzio.
I barbari sterminatori, erano talmente numerosi che le loro orde furono paragonate alle spighe del grano agitate dal vento e a nugoli di cavallette, Si spinsero nella campagna Romana consumando eccidi, e profanando chiese, i cui altari vennero adibiti a mangiatoie per cavalli. Perirono, così, insigni monumenti e ricchezze ingentissime. (Guglielmotti - Storia della Marina).
Tutta la Maremma, distrutta e deserta, si rendeva, inospitale per la malaria dilagante.
Nell'anno845, i Saraceni, impadronì tisi del Miceno e assalita l'Isola di Ponza, irruppero contro questo lido marino. Nel mese di Luglio, un'armata di settantatre bastimenti d'ogni grandezza, carichi di undicimila fanti e cinquecento cavalli, si accostò alle sponde Tirrene. L'improvvisa, comparsa dei nemici sbarcati fece fuggire gli abitatori, lasciando liberi, i barbari, di consumare impunemente le loro funeste imprese. Un'altro contingente di cinquanta navi con tremila uomini a bordo, si aggiunse al primo,
formidabile scaglione invasore, vittorioso.
Tutta la costa, da Civitavecchia al Miceno, era invasa dalle milizie Saracene di terra e di mare; di conseguenza, questo lido soggiacque all'ira delle belve umane che, a ferro e fuoco, resero desolata anche la riviera di Anzio e Nettuno. Gli abitatori scampati dalla, strage, non trovando sicuro rifugio, correvano ai monti e alle foreste in cerca disperata di scampo. La fuga agevolò le gesta bestiali
degl'invasori.
Deserto il lido, la natura mutò aspetto all'amena contrada, ricoprendo d'arena il porto, le sponde, e i prossimi edifici antichi.

50) DISFATTA DEI SARACENI

e, però, la strage, lo squallore e l'abbandono fecero deserta e incolta questa riviera, essa rimase sempre quale solatìa ,terra di bellezze; cangiò le ricche vesti in gramaglie; ma le sue forme leggiadre restarono imperiture. Pur tuttavia.nulla è eterno sulla terra: neppur la sventura: cosicché, questi lidi, dopo tante barbarie, ebbero bene a risorgere, dalle mine.
Nell' 849 i Saraceni piombarono di nuovo verso Roma ove fecero prigionieri. Seguì una tregua; dopo questa, il Pontefice Giovanni X, tornato dalla Francia, si decise a combattere tanta letale ferocia, che non aveva neppur risparmiato il Monastero di Montecassino.
In prossimità del fiume Uri - chiamato, fin dai bassi tempi, Garigliano, e che si getta in prossimità del golfo di Gaeta avvenne la terribile disfatta dei Saraceni. Presso l'antichissima città di Minturno, Docibile aveva stabilito un covo, costruendovi un castello fin dall' 815. Giovanni X, eletto Papa nel 914, deliberò di non dar tregua finché non fossero stati snidati i barbari dall1 Italia.
Dal Campidoglio suonai! grido di guerra, che fece eco sulle rive del tirreno. Le truppe pontificie raccolte in Roma, nel Lazio e Sabina, sotto il duce Alberigo, che seco aveva i prodi di Romagna, Umbria, Spoleto e Camerino, si avviano alla caccia dei Saraceni presso il Garigliano. Si unirono Regnicoli, Marsi, Ernici e Vehterni, i quali formarono un ampio cerchio alla lizza, sotto i comandi cu Landolfo di Benevento, Quaimaro di Salerno, Atenolfo di Capua, Gregorio dì Napoli e Giovanni di Gaeta.
Tutte le navi d' Oriente e d' Occidente agglomerate nel mare, avevano chiuso l'ampio golfo, formando blocco per impedire la fuga dei Saraceni. Il Pontefice inizia la battaglia, sotto l'invocazione di Dio; e il 14 Giugno le milizie investono la piazza, aprono la trincea con linee di circonvallazione al di là e al di qua del fiume.
L' armata navale chiuse gli sbocchi e serrò il nemico.
I Saraceni vennero assediati per tre mesi consecutivi. Privi di soccorso, affamali ed abbattuti, cercarono aprirsi una strada attraverso i monti, mentre i Cristiani assalivano, a viva forza, i parapetti. Gì' infedeli, riusciti ad evadere, combattendo ferocemente e calpestando nella rotta i morti, presero la campagna. La loro fuga, però fu disastrosa. Colpiti da ogni lato decimati e sanguinanti, giunsero al rifugio sopra i monti vicini, lasciando la via seminata di cadaveri, e il Castello abbandonato ai vincitori; i quali, pervasi da bellico ardore, attaccavano i fuggiaschi da ogni parte, come tigri, in modo che nessuno dei nemici rimase se non morto o prigioniero (Guglielmotti).
Le milizie Romane occuparono la Rocca, formandone una fortezza, che mantenne il presidio fino al 1021 con un governatore delle armi al Garigliano, mandato dal Pontefice Benedetto Vili.
Proseguivano, però, in Sardegnale barbarie e le devastazioni dei Saraceni. Fu allora che il suddetto Pontefice, raccolse le milizie, mosse ancora guerra contro i barbari, e, nel 1016, con una poderosa flotta, cacciatili completamente dall' Italia, trionfava a pieno.

51) IL TERRITORIO D'ANZIO E NETTUNO

II territorio dell' antica Anzio e Nettunia ove le lotte più accanite contro Roma , fecero rifulgere il valore dei Volsci e dei Latini, ove Roma imperiale ospitò ed eresse ricche e sontuose costruzioni rimaneva deserto e incolto, del sec. XII il Porto Neroniano, l'antica città di Anzio, tutti gli edifici e ville, da Nettunia ad Astura, non esistevano più. Un documento del sec. XI ricorda soltanto il promontorio Anziate, che, fino al secolo XVIII, si chiamò " Capo d' Anzio ".
Agli occhi ed alla fantasia sì presenta- il lugubre fantasma della caduta, impietrita grandezza di questo lido, che fu culla delle delizie dei Romani e dei tumultuosi loro piaceri. L'avido, crudele spirito barbaro, rese funereo il suolo: dei monumenti, memori di avite gloria, soggetti all' occulto potere della natura non rimanevano che ammassi di rovine; qualche muro cadente ricoperto di sterpi e ceppaie, mostrava avanzi marmorei, che, abbruciacchiati, giacevano al suolo. Qualche colonna dei sontuosi portici ancora si erigeva, a testimonianza dell' insano furore vandalico. Le onde del mare avevano già travolte nell' arena le mura abbattute del porto e dei magnifici templi. Silenziosi, informi cumuli sabbiosi erano davanti il Circo e il Teatro, dove avevano echeggiato i frenetici applausi ai vincitori delle vorticose corse dei cocchi e delle bighe; ove s' era udito il suono delle cetre dei poeti e degli eroi e il delirio dei maghi, degl' istrioni e pantomimi, insieme col crosciar delle rìsa e degli applausi; ove avevano cozzato i brandi dei gladiatori, che facevano trepidare la crudele ansia degli astanti !
Sullo sfondo del ciclo luminoso, apparivano lugubri quadri dei minati templi e sacrali, orbi dei sibillini libri. Non più, in essi, s'aggirava lo stuolo degli auguri, che solevano interrogare le nubi, il volo degli uccelli e le fumide viscere dei buoi mugghianti come a implorar la vita; non più echeggiava la sonora voce del sommo sacerdote, che emanava il lieto o nefasto vaticinio. Gli ultimi raggi del sole indoravano le tremule onde del mare, che, con leggero mormorio, lambendo i ruderi scheletrici, parevan palpitare sull' immane rovina. Ombre sperdute e raminghe, si vedevano vagare, a guisa di spettri, per l'immenso suolo devastato. Erano le donne saracene, con i loro bambini, che, abbandonate e invase dal terrore per la precipitosa fuga dei barbari, erravano per l'immani rovine, tra le salmerie abbandonate.

52) IL CASTELLO DI NETTUNO

Quei pochi abitatori, che poterono scampare dall' inizio della strage Saracena, si erano rifugiati lungi, nelle folte boscaglie, dalle quali trapelava, per qualche spiraglio, ai loro sguardi, la lugubre memoria della patria distrutta. Il pensiero nostalgico non si distruggeva nelle loro menti; il desiderio e l'amore ai loro domestici luoghi li spronava a tornare alle rovine della deliziosa terra natale. Sospinti da tale sentimento, attraverso i boschi e per i campi devastati, tornarono al delizioso mare, oVe ancora ergevasi, non totalmente distrutto, il gran Tempio del dio Nettuno. Trovato questo luogo adatto per rifugio, sulle sacre rovine edificarono il Castello; s'annidarono in esso, e si unirono con le donne saracene dimenticando la fatale sciagura.
Sopravvenendo nuove scorrerie di pirati, fortificarono il Castello, costruendo torri con bastioni che, tuttora irte e silenziose, si ergono sfidando i secoli (Atanasio il Bibliotecario, Guglielmotti Piazza ed altri).
Giova riportare un' opinione dello storico Alessandro Andrea (sec. XVI), a prova di quanto sopra si è detto. Descrivendo Nettuno, dice:

" È questo luogo (Nettuno) due miglia discosto da Anzio così celebrato dagli antichi, et ora la città et il porto del tutto disfatto, dalle cui rovine si fondò Nettuno, pochi anni prima abitato dai Mori (Saraceni) ove oggi, fuor che ,nella religione, non sono del tutto dissomiglianti quei terrazzani da quella generazione nell' abito, negli ornamenti delle case et nel vivere famigliare. "

Per eguai ragione credo opportuno riportare quanto scrisse Bartolomeo Soffredini nel 1772, desumendola da antica traduzione:

" In quelli infelici tempi fu talmente Nettuno, come tutta la costiera esposto alle frequenti depredazioni dei Saraceni, che gran parte degli abitanti fu condotta in schiavitù. Quei pochi, che ricoverarono nel vicino Regno di Napoli, tentarono di rislabilirvisi, finché ai Cristiani, superiori di numero, riuscì di scacciare i barbari, ad eccettuazione delle donne e fanciulli. Quindi è, che si vedono negli odierni abitanti di Nettuno, derivati da queste donne Saracene, certi costumi, usi e vestiari propri di quella nazione ".

È anche importante quanto osserva lo storico Leandro Alberti, già da me nominato:
" Ora di questa antica città (Anzio) poche vestigia si vedono. Ben è vero, che fra i folti boschi circa il lido del mare (come dice Biondo) appaiono meravigliose rovine di edifici, per le quali facilmente si può dar giudicio della grandezza di essa. Per le cui rovine, appresso il mare, fu edificato il Castello di Nettunio, anzi ristorato dalla nobile famiglia, de' Colonnesi, il quale già fu termine d' Italia da questo lato, cominciando da Tarante, secondo Dionisio d' Alicarnasso nel primo libro (come già dedussi) da lui Nettunia detto. Et essendo poi ristorato per le rovine d'Anzio fu detto Nettunium. Molto si travaglia il popolo di questo Castello nell'uccellare et pescare. " Benché abbia buon territorio, da cui traggono grano et vino abondantemente, non dimeno havendo tanta agevolezza da uccellare et pescare permaggior parte si esercitano in queste cose egli è questo paese, dal lido del mare, per 18 miglia, infino a Lavinio, tutto pieno di alberi di selve e di cespugli, luoghi tutti adagiati per cacciar animali selvaggi come caprioli, lepri et cinghiali de quali n' è gran moltitudine per gli alberi et cespugli a proposito per uccellare. Pigliano assai palumbi et quaglie nei tempi opportuni. Eziandio hanno il mare ghiaroso ove si pigliano boni et saporiti pesci".

Gli abitatori del Castello di Nettuno, fortificato, divennero i naturali padroni e legittimi possessori dell' immenso territorio, che, a dir dell' Alberti, era di 18 miglia dal mare a Lavinio, e comprendeva, quello dell' antica Anzio, di Nettunia, di Sadico (Conca e Campomorto) e di Astura. Data la materiale, vasta consistenza di esso, ridotto, però, spoglio, e privo di coltivazione, non poteva trarsene altro utile che dalla caccia e dalla pastorizia; e si poteva considerare un'immensa selva con radi pascoli. Prima che il lento lavorio di civiltà trasformasse un territorio incolto in territorio coltivato è impossibile non ammettere che gli abitatori di esso ne fossero in possesso comune col pascolo e con l'utile dei boschi.

53) IL CASTELLO FORTIFICATO

Gli abitanti reduci, per difendere la legittima proprietà e per la sicurezza del loro rifugio, avevano come unica rocca di difesa, il Castello.
Il Muratori, nelle sue dissertazioni dice che, fin dai secoli barbarici, si usò cingere le castella di buone ed alte mura, e vi si aggiungevano torri con determinato ordine, ad intervallo inserte nelle mura, per battere alla fronte e ai fianchi il nemico che osasse dare scalata. Egualmente erano fortificate, dalla parte del mare, qualora da esso fossero bagnate.
Dalla parte di terra, le mura erano circondate da una profonda e larga fossa. Se in questa s'immettesse l'acqua, è cosa incerta. (Muratori).
Sta in fatto, che le primitive fortificazioni di Nettuno, nel sec. XI d. a. consistevano: nell'alto del Castello torri e bastioni con porte, posterie (piccole porte) e cataratte o saracinesche, le quali si innalzavano e si abbassavano. Tra il bastione di levante e quello centrale, a nord dalla parte di terra, eranvi tre torri; tra il detto bastione di terra e quello di ponente ve ne erano altre due; più ancora una sul detto bastione occidentale Dai primitivi secoli, tali costruzioni caratteristiche non cambiarono la loro forma e consistenza, e si mantennero eguali dal sec. XVI al sec. XVII. Dopo tale epoca, in oltraggio all'arte e alla storia, subirono trasformazioni; talché, attualmente, sono irriconoscibili, conservando appena la primiera forma rotonda. Per difendere e coprire le mura maestre, affinchè esse non fossero soggette ai colpi di ariete e di altre macchine belliche, si alzarono gli " antimurali " o " barbacani ", i quali formavano la cinta inferiore ed impedivano di accostarsi alle porte, e alle mura superiori. Tali manufatti, apprestati in andamento tortuoso, formavano una corona di basso muro, che girava intorno al Castello. Le loro basi erano cerchiate dal fosso, chiamato " carbonaria ", che poteva riempirsi d'acqua ed aveva principio con un emissario, alla parte di levante, sotto il bastione; proseguiva attorno al Castello, e, passando sotto il ponte levatoio, giungeva fin sotto il bastione di ponente, ove formavasi l'altro emissario per le acque che venivano immesse nel fossato.
Perché questa narrazione segua l'ordine cronologico, parlerò ancora di tali fortificazioni e funzionamento perla difesa, dal sec. XVI in poi.

54) IL FEUDALISMO

Gli abitatori di Nettuno, nel pacifico loro possesso, vennero sopraffatti dalla tirannide. Il dispotismo avanzava nella forma più bieca. Il sistema feudale, secondo storici ed eruditi, è provenuto dai popoli germanici. Bisognava esser sovrani per esser liberi. E su tali concetti s'imperniava la feudalità. Il padrone teneva a dare più terra che poteva ai vassalli, i quali dovevano servirlo col corpo, con le anni e con le loro sostanze. In tale asservimento, sì formarono le bande dei masnadieri. Le plebi, in seguito, si emanciparono, coltivando la terra per le loro famiglie; ma erano schiavi della gleba, e dovevano corrispondere sempre la maggior parte del frutto dei loro sudori. al Contestabile. I signorotti richiedevano dai sudditi, soldati e denaro per i loro bisogni; e i vassalli più facoltosi cercarono di contrarre alleanza con qualche principe, che incuteva loro soggezione. L'arbitrio decideva di tutti i diritti, e ogni signore considerò il proprio giudizio sovrano e inappellabile. Il tenitore di un feudo dipendeva dal padrone immediato e appellavasi vassallo. La fede e l'omaggio era il vincolo che riuniva il corpo sociale.
I pochi indigeni Nettunesi, avuto un despota divennero schiavi e vestirono la divisa della schiavitù più vile e abbietta. Sorte le prime Chiese e Monasteri, per una soverchia scrupolosità religiosa e per l'immunità concessa, i poveri terrazzani, intimoriti, cercarono protezione, come servi professi.
Sul concetto dei beni allodiali o patrimoniali, che comprendevano terre e Castella, si creò il Feudo. Tanto gli uomini addetti alla gleba, quanto le persone colte e facoltose divennero vassalli dei feudatari; e il servigio che si prestava al contestabile, sotto ogni riguardo, in buona fede, e, specialmente con le armi e con gli omaggi, si diceva " darsi in commenda al Vassallaggio ". Il servizio delle armi era per tutto il feudo, disciplinato dal Contestabile.

55) PRIMI FEUDATARI

Dato un breve cenno sul feudalismo, passo a far menzione dei primi feudatari di Nettuno.
Gli Abbati delle Comunità mona-stiche potevano essere padroni d'un Feudo. Sul principio del secolo XII s'installava un cenobio di Monaci Basiliani nel fabbricato S. Nicola, prossimo a Nettuno, a nord del Castello. La chiesa costruita in quell'epoca, con chi, che ritraevano immagini e decorazioni giottesche, e oggi, completamente trasformata per altro uso e distrutta.
In detta località si stabilì la sfera d'influenza dei Monaci Basiliani, appartenenti al Monastero di S. Maria di Grottaferrata. Nei primi tempi del sec. XII prevaleva la più abbominevole simonia. Correva l'anno 1042, quando venne eletto Pontefice Benedetto IX della famiglia dei Conti Tuscolani, il cui dominio simoniaco lasciò nella storia turpi memorie.
Il Muratori (Annali d'Italia) dice: " Continuando nelle sue iniquità, Benedetto, e scorgendo più che mai irritato contro di lui il popolo, rinunziò il pontificato con venderlo simoniacamente". Benedetto IX stanco della propria condotta, rinunziando al Papato, si fece monaco del Monastero di Grottaferrata. In altro passo l'autore prosegue:

" ma essersi trovato a di nostri chi con antichi documenti fa vedere che esso Benedetto IX a persuasione di S. Bartolomeo Abbate di Grottaferrata, rinunziò il Ponteficato ed avendo vestito l'abito monastico in quel Monastero attese a fare penitenza dei suoi falli. "

I terrazzani di Nettuno, per sfuggire la prepotenza di dispotismi abbominevoli, data l'invadente corruzione dei tempi e per la malvagità dei despoti, si diedero in commenda ai Monaci di Grottaferrata, che furono i primi feudatari del vasto territorio e del Castello di Nettuno. Tolomeo I, conte Tuscolano, nel 1140, violen-temente tolse ai religiosi suddetti Nettuno e il suo territorio. Fa fede su ciò un ricorso dei Monaci al Pontefice Innocenze II (Soffredini, appendice della storia 1879). Questo conte,dal quale, secondo il Muratori, provenne la nobile famiglia dei Colonna, dominò Nettuno fino al 1191, epoca nella quale, distrutto il Tuscolo, ebbero fine i Conti Tuscolani. I monaci, peraltro, conservarono il benefizio di avere la Chiesa di S. Nicola, e alcuni fondi rustici ed urbani loro concessi dal Pontefice Innocenze III, siccome risulta da un registro del Cardinale Bessarione del Monastero di Grottaferrata. In seguito, nel 1668, alcuni dei detti fondi furono assegnati all'ospedale di Nettuno dal Pontefice Innocenze XII (Breve 27 ' giugno 1698).
A causa del sistema feudale, le volontà dissidenti diedero origine a un cambiamento sociale. I grandi possessori non arrivavano a poter difendere tutti i loro vasti terreni, i quali in conseguenza, vennero sistematicamente usurpati, dai vicini baroni o da avventurieri. Il cospicuo territorio di Nettuno divenuto feudo, d'allora venne ripartito sotto varie giurisdizioni di principi e signori che trascesero in abusi e tirannie contro gli schiavi della gleba, i quali, un tempo, furono i legittimi possessori d'un territorio avito.

56) GLI ORSINI

L'utile dominio d'un paese diviso fra più padroni costringeva costoro (considerati siccome sovrani nelle lor terre), ad avere un quartiere separato, fornito di una rocca di difesa, d'una gabella speciale, e di una Corte per le controversie trai dipendenti. Avevano i loro Vicari Massimi, i Camerlenghi, appartenenti alla Comunità, gli Auditori presso il Contestabile, che formavano la giurisdizione locale. Tutti i possessori obbedivano ad-un Capo, costituendosi, pertanto, un' unica podestà. La prima e formale giurisdizione feudataria in Nettuno $' iniziò sul finire del sec. XI. Nell' epoca, ebbe a riputarsi primo signore di Nettuno Giovanni Gaetano Orsini. La famiglia era guelfa, più antica dei Colonna, (ch'erano ghibellini) e possedeva molti e vasti domini nello Stato Ecclesiastico. Tra le due nobili casate avvennero frequenti ed accanite lotte, che generarono funeste conseguenze. I potenti gareggiavano a disputarsi possedimenti territoriali, speculando sulle passionali contese del popolo e dei nobili, che sì assembravano sotto opposti vessilli.
Nell' ombra di una tale giurisdizione, Nettuno non può ricordare lusinghevoli eventi. Un apposito documento lo prova, rilevando cose tristi e violenti, che solo un dominio feudale arbitro e rapace, poteva permettere, usandosi la corruzione più ignobile e venale, camuffata in mentite vesti di diritto.
Giovanni Gaetano Orsini, il 13 aprile 1232 - siccome riferisce il Soffredini (appendice alla storia 1879) - fece testamento, nel quale confessando e ammettendo i suoi falli, stimò ripararvi, lasciando provvigioni ai suoi vassalli e sudditi. E ciò si desume dal testo latino dell' atto, di cui traduco l'ultimo passo:

"... comando di soddisfare a tutti del detto Castello di Nettuno tutto quello che ingiustamente ricevetti e qualunque cosa ingiustamente tolsi, non avendo a ciò soddisfatto; e, se del detto residuo ne avanzerà ancora, sia speso a favore dei poveri dello stesso Castello ".

57) TENUTA DI CONCA - ASTURA

Continuando la giurisdizione Orsini, alcune località del vasto territorio di Nettuno passarono ad altri potenti baroni e signori.
Nel 1205 Conca (Satrico) era di proprietà di Pietro e Gregorio Malabranca; nel 1233 appartenne ai Monaci di Grottaferrata, che la diedero in enfiteusi ai Gaetani. Questi la tennero fino al 1745 come risulterebbe da una pergamena di famiglia; del che, però, si dubita, in quanto, nel 1500, il territorio era già in proprietà del S. Offizìo.
Astura, nel sec. XI, fu posseduta dai Monaci di S. Alessio all'Aventino, Tolomeo I, Conte Tuscolano, nel 1141 cercò toglierla loro. Se non che, intromessosi il Pontefice Innocenze II, i monaci stessi poterono darla in enfiteusi a Gionata, Conte Tuscolano.
Da un' istrumento del Nerini, a tal riguardo, risulterebbe che in Astura, in quel tempo, esistesse ancora il porto.
I monaci di S. Alessio proseguirono ad avere il diretto dominio fino al sec. XIII; nel contempo, secondo un' istrumento del 14 aprile 1193 quel feudo si riteneva da Leone Francipane. Da questa famiglia scrive il Tomasseo ebbero origine gli avi di Dante Alighieri, nato nel 1265.
È d'uopo, ora, accennare al più bello e conservato esemplare di torre pentagonale di fortificazione in Astura, su disegno e creazione di Mariano di Giacomo, detto il Tàccola.
Questo edifìcio, costruito fin dal 1193, dai primi possessori Malabranca e Francipane, ebbe sempre - come tuttora vedesi - l'aspetto di un pentagono (Nibby - Volpi - Nerini).
La torre dominatrice dell' edificio, è differente dalla generalità di quelle del Castello di Nettuno, che hanno forma rotonda. Alta venti metri, le sue solide mura furono costruite con materiale sceltissimo. Era fornita di merli, e, nel coronamento aveva i piom-batoi, dai quali i difensori facevano cadere pietre, saette, olio bollente sopra il nemico.
In seguito la Fortezza subì modificazioni, come si vedrà nelT epoca dei Colonna.
Il feudo di Nettuno proseguiva ad essere proprietà degli Orsini. Con istromento del 31 luglio 1267Rainaldo, figlio di Matteo Rubeo Orsini, cedette gratuitamente al proprio germano, Cardinal Giovanni, ogni diritto e proprietà in pertinenza alla Rocca, e a tutto il borgo territorio e Castello di Nettuno, e suoi vassalli.
Il detto Cardinale divenne, poi, il Pontefice Nicolo III, che il Muratori, qualifica assai diligente nell' airicchire il parentato.

58) CORRADINO DI SVEVIA

Nel 1268 l'adolescente Corradino di Svevia, orfano del Duca Corrado e nipote di Federico II, discese dalla Germania con un poderoso esercito, per rivendicare il possesso del regno di Napoli. Ma, sconfitto nella pianura dì Tagliacozzo dalle truppe del suo oppositore, Carlo d'Angiò, non gli rimase altro scampo che la fusa: riuscì momenteneamente a salvarsi col suo giovane cugino Federico d'Austria e coi conti Galvano Lancia e Gherardo Dono-rauco di Pisa.
Ramingando attraverso la montagna, affamati e laceri, i fuggiaschi giunsero al villaggio di Astura, di cui era signore in quel tempo Giovanni Francipane. Essi speravano con una barca raggiungere laflotta Pisana; ma un triste fato li attendeva al castello.

perché una sera... a consumare un'opera di sangue, in sembianza di blando ospite stette il tradimento.

ALEARDI

È pane di tradimento era quello che, infrangendo le leggi sacre dell' ospitalità, il Barone offriva al giovinetto Svevo: infatti, avuta il Francipane rivelazione del vero essere del fuggiasco, sotto la spinta di promesse e minaccie angioine, dimenticando i benefici elargiti ai suoi avi dalla casa, Hohenstaufen consegnò i profughi ali' ammiraglio Roberto Laoceno, emissario di Carlo d' Angiò.
Corradino - condotto e Napoli prigioniero venne sottoposto a un giudizio di baroni e sindaci. Ipocrita formalità fu questa; poiché, sebbene un solo voto di morte fosse stato emesso contro di lui, fu ugualmente condannato al patibolo.
Ascoltata l'ingiusta sentenza, Corradino invocò pietosamente il nome della madre lontana. Elisabetta di Baviera giunse troppo tardi per invocare pietà dal vincitore: poiché, già da tempo, sotto la scure del carnefice, era ruzzolata la bionda testa del principe sedicenne.
Con esso erano periti gli altri suoi compagni di sventura, Gherardo e Galvano. Questo, prima di essere giustiziato, dovette assistere alla decapitazione del figlio.

Corradino fu l'ultimo degli Hohenstaufen, che avevano signoreggiato in Europa per oltre un secolo. Con Federico si estinse 1' ultimo duca d'Austria.
Il tradimento fu vendicato da Bernardo da Sarriano, che, mandato da Federico Re di Sicilia con dodici galee, il 4 Settembre 1286, assaltò il castello di Astura e, saccheggiatolo, l'incendiò. Nella mischia venne ucciso il figlio di Giovanni Francipane.
In appresso si ebbero i Vespri Siciliani, in occasione dei quali i Francesi vennero scacciati a furor di popolo, ponendosi così fine, in Italia, al regno degli Angioini.

59) AGRICOLTURA

Dominando gli Orsini, eravi una sola giurisdizione nel Castello e territorio di Nettuno unito a quello dell'antica Anzio distrutta, a Conca, Campomorto ed
Astura. Sebbene tale corpo di superficie fosse posseduto sporadicamente da ricchi vassalli e baroni, data l'ingordigia dei tempi privi di garanzie e di retti ordinamenti giuridici, il possessore del feudo non rimetteva ad altri la propria sovranità.
Dal 1140 al 1163 mancano notizie riguardo alle industrie del popolo di Nettuno, conoscendosi, però, da un'istromento dell' 11 Febbraio 1163 del Nerini (Soffredini - appendice alla storia 1879), che, sotto il dominio Orsini, l'agricoltura e il commercio fiorivano. Desumesi dall'istromento che i pagamenti in grano si effettuavano con una misura locale " admodium Neptuni " e detta unità di misura venne adottata per tutto il Lazio, data l'importanza e la produttività dal territorio di Nettuno. I prodotti frumentari non potevano derivare certamente dalle immense selve, di cui Nettuno era ricchissimo; essi provenivano, invece, dalle Valli di Conca e Campomorto, adatte per la semina e anche per il pascolo.
Lo storico Alessandro Andrea (1560), parlando della Guerra di campagna di Roma, conferma la produzione granaria in Nettuno.

" Questi luoghi furono a nostri di gran comodità, perciò ch'ad Ardea si condusse gran quantità di farine da Marino et da Nettuno, et in Porcigliano si fabbricarono molti forni et vi si faceva il pane per l'esercito . In altro passo descrive; Il pane si " faceva in Porcigliano, ove l'antiveder di Mardones (mastro di Campo Spagnuolo) aveva fatto ragunare gran quantità di farine da Gaeta, da Nettuno e da Tagliacozzo ".

Il Nerini chiamò Nettuno il granaio del Lazio per le vaste sue semine, dalle quali i feudatari, avidi come erano, potevano trame ingenti profitti, imponendo balzelli, ed esercitando angherie d'ogni sorta.

60) PASSAGGI DI POSSESSO

E numero ora le singole località del territorio di Nettuno e le rispettive appartenenze.
Del 1903,il possesso di Astura passò al nipote del Pontefice Bonifacio Vili, Pietro Gaetani. Nel 1328, durante l'occupazione dei Malabranca, una flotta sicula, assalito il Castello, l'incendia. Nel 1329 per volere di Papa Giovanni XXII, la metà del Castello fu trasferitain proprietà aMargherita Colonna, figlia di Stefano, l'ai tra porzione rimanendo ai Malabranca. La me tà posseduta da Margherita, il 18 Giugno 1355 fu, dalla medesima, dotata all'Ospedale di S. Spirito in Sassia, come risulta da una pergamena dell'epoca in testo latino.
" La metà del Castello et rocca et vassalli di Astura posta in Marittima Romana, da un lato il tenimento del Castello di Nettuno e dall'altro il tenimento del Castello di Conca, dall'altro il tenimento di S. Pietro (Campomorto) ".
Circa l'anno 1372 la signoria di Nettuno era tenuta daNicola Orsini. Ne da prova una scritta posta sulla torre del Palazzo Baronale, la quale termina con le seguenti parole: " Domini castri Neptuni ". La detta lapide trovasi posta al sommo della Rocca baronale a nord; e non è, quindi, leggibile dal basso dell'angusta via sottostante. Si compone di due parti: la superiore porta incìsa, in puro carattere trecentesco, la seguente iscrizione latina, che così traducesi:
"Rocca dell'Eccellentissimo Signore Nicola di Orsini Nolano in Tuscia Palatino e sollecito compagno e Signore del Castello di Nettuno ".
Nella parte inferiore della lapide è scolpito il blasone degli Orsini e della famiglia Balzo e di Manfort, avendo sposato il detto Orsini una signora Napoletana di quella casata. Le sbarre riprodotte sull'arma gentilizia, appartengono agli Orsini; i leoni, altri emblemi e geroglifici ai Balzo. Un'atto di procura dello stesso anno decanta Nicola Orsini " Milite Nolano, Socio Palatino e Signore del Castello

Un' altra brevissima iscrizione riscontrasi in uno stemma con su raffigurato un suino, e che trovasi nei pressi della Fontana Vecchia sopra la porta gotica di una casa trecentesca, la quale conserva ancora una leggiadrissima bifora, simile ad altre due, che si ammirano al vicolo del Quartiere e in via di S. Giovanni. La casa dovette probabilmente appartenere ad un tale Andrea del Nobiluomo Giovanni De Pocellini di Ravenna, come si desume dall'iscrizione, che è conservatissima, meno la prima parola che pare voglia significare " Andrea ".
Non si comprende, poi, sotto quale pretesto si voglia riferire un nesso di pertinenza tra la casa trecentesca descritta e Stefano Porcari (il quale visse in epoca assai posteriore, cioè nel 1453, sotto Nicolo V).
Da pochi anni " ad memoriam " di questo personaggio storico, venne intitolato un vicolo nei pressi della Fontana Vecchia; ma da ciò non può certo arguirsi che egli sia stato proprietario od ospite della casa sunnominata, poiché non consta affatto che il Porcari abbia dimorato in Nettuno.
Tornando agli Orsini, il Luta (illustratore di detta casata), riferisce

" Nato (Nicola Orsini) il 27 Agosto 1331, fu senatore insieme a Pietro Colonna nel 1356 in Roma, nel 1365 confaloniere di Santa Chiesa in stretta relazione con S, Brigida! Signore di Noia del Regno di Napoli. Questi deve essere il conte di Noia che nel 1390 il Pontefice Bonifacio IX assolse da qualunque infamia. Quali misfatti abbiano dato luogo a questo perdono, l'ignoro. Era uno dei più potenti Signori d'Italia, ricco di terre nella Toscana, Stato Pontifìcio e Regno di Napoli. Possedeva Nettuno nello Stato di Roma e la contea di Noia molto estesa in quello di Napoli. Testò nel 1399, 21 Febbraio e moriva poco dopo ".

Lo stesso Litta prosegue a riferire quali Signorie si succedettero nel feudo di Nettuno:

" Pirro nipote di Nicola, spogliato dello Stato di Noia dal Re Ladislao se ne andò nella sua terra di Nettuno in campagna di Roma. Morì probabilmente in Nettuno nel 1420. Raimondo figlio di Pirro ricuperò Noia nel 1418. L'anno 1426 ebbe anche Sarno e Palma, ma a condizione che cedesse Nettuno ed Astura in campagna di Roma, ai Colonna, e fu Martino Velie fece superare alla Regina Giovanna le difficoltà di spogliare con vaghe ragioni i legittimi padroni di quei luoghi, che Raimondo aggregò alLa contea di Nola ".

Camillo Porzio nel suo libro " La congiura dei baroni ", parlando dei paesi Laziali, dice:

" Poco men che tutte le Castella e terre che son rinchiuse dentro di questo paese e le poste all'intorno, obbediscono a Baroni Romani; ma più degli altri i Colonnesi e gli Orsini ne posseggono, capi delle fazioni, ove per li tempi addietro molte volte arrabbitamente la loro ambizione hanno sfogata. "

61) I COLONNA

In tale epoca la Signoria di Nettuno, dagli Orsini passò ai Colonna. Il Muratori nei suoi Annali chiaramente lo manifesta:
" Quiete si gode in questo " anno nel Regno di Napoli, se non che la Regina Giovanna con dei pretesti mandò il campo addosso al Conte di Sarno e gli tolse Samo, Palma ed altri luoghi; tutto ciò per compiacere il Papa che desiderava di accomodare di quelle terre Alberto conte di Noia di casa Orsini, acciocché egli rilasciasse Nettuno ed Astura ad Antonio Colonna suo nipote principe di Salerno siccome avvenne. "
Difatti Martino V (Colonna), con atto del 1. febbraio 1427 concesse ogni diritto e pertinenze di Nettuno, nonché Astura, ad Antonio, suo nipote, il quale, nel 1430, dava facoltà alla Chiesa di Nettuno di percepire le decime sulle semine del grano. Nel 1494 il Castello di Nettuno, munito di solide fortificazioni, poteva dichiararsi una piazza forte di seconda classe. Le sue mura a scarpa avevano, sopra il parapetto, ambrasure, merli e fuciliere, come risulta da una pianta originale dell'epoca. In quell'anno, i Nettunesi, unendosi in difensiva ai guerrieri dei Colonna, sostennero un assedio, durante una terribile lotta tra i feudatari detti e gli Orsini, comandanti le truppe nemiche.

62) ASSEDIO DI NETTUNO

Carlo VIII d'Angiò, monarca francese, volendo rivendicare i diritti angioini nel Regno di Napoli, venne in Italia col pretesto di combattere il Turco (Muratori). Alessandro VI, nel terzo anno del suo pontificato, contratta parentela con Alfonso II, successore di Ferdinando d'Aragona, unì alle truppe di esso, i suoi militi, capitanati da Virgilio Orsini.
Le schiere papaline erano superiori ai mille fanti e duecento uomini d'arme, che componevano quelle dei Colonnesi, ligi alla casa d'Angiò. Ciò stante, re Carlo inviò in loro aiuto un contingente armato.
Il Pontefice diede ordine d'invadere le terre dei Colonna, e, temendo che il soccorso angioino giungesse al Castello di Nettuno, comandò ad Alfonso di aggregare ai suoi la soldatesca raccolta in Terracina, per espugnare, senza indugio, Nettuno. Nel contempo, però giungevano gli Angioini a dar man forte alle falangi assediate; e così fu dato inizio alla battaglia. Il castello era ben munito; gli uomini d'arme Nettunesi si difendevano strenuamente, mentre, da terra, le schiere Francesi incalzavano vigorosamente gli assalitori. Alfonso d'Aragona col suo esercito, datosi a precipitosa fuga, si ritirò presso Terracina; e il Pontefice Alessandro VI ordinò all'Orsini di ritirare le truppe in Roma. Lo storico Giovio, nel suo testo latino, dice: "Secolo XV, Nettuno fu invano espugnato da Alfonso d'Aragona ". Alcuni nomi di Nettunesi, che presero parte al combattimento si leggevano sopra lapidi poste nella Chiesa attualmente dedicata a S. Francesco. A causa di restauri, però, tali memorie andarono disperse.
Il sacro edificio suddetto, con relativo cenobio, venne fondato dal " poverel d'Assisi " nel secolo XIII, allorché Esso, recandosi a Gaeta, ospitò in Nettuno. Il Theuli, frate francescano, (1648), riferisce che, a suoi tempi, si conservava un originale, con firma autentica del Santo protettore dell'Ordine, a riguardo della chiesa descritta, che assunse in allora il titolo di S. Bartolomeo; ed era di forma gotica, con pitture giottesche, alcune delle quali tuttora esistenti.

63) ALESSANDRO VI E CESARE BORGIA

Siccome attesta la bolla pontificia del 20 agosto 101, Alessandro VI per vendicarsi della disfatta sofferta, confiscò tutti i beni dei Colonna. A questi ed ai Savelli, venne, pertanto, fatta accusa di aver operato pertinacemente ai danni della Chiesa e dello Stato ed inflìggendo, così, loro la scomunica maggiore, previa declarazione di lesa maestà. Privò dei loro possedimenti dieci persone di casa Colonna, compreso Pompeo (che fu poi Cardinale) e dieci persone di casa Savelli. Anche il Cardinale Giovanni Colonna soggiacque a tale confisca, perché era desiderio di Alessandro VI distruggere del tutto la casata ostile. Tutti i beni confiscati, terre e castella, furono divisi tra i suoi figli e nepoti; Roderigo, figlio di Lucrezia Borgia e di Alfonso d'Aragona, ebbe ventotto città e castella; fra queste,
Nettuno.
Alessandro VI, sicuro della protezione Francese, dopo la sentenza di fellonia emanata contro i colonna e i Savelli, infierendo nuovamente contro di loro, armò suo figlio Cesare, che, come principale rappresentante della famiglia, fu il vero padrone di Nettuno, di cui era nominalmente investito Roderigo, fanciullo di appena tre anni.
Il Pontefice ordinò al Duca Valentino di far costruire la Fortezza, che tuttora esiste; e ciò per assicurarsi vieppiù il ricco dominio. (Nibby).

64) LA FORTEZZA DI NETTUNO

La Fortezza fu iniziata nel 1501, come da bolla pontificia dello stesso anno e fu compiuta nel 1503. Venne inaugurata alla presenza di Alessandro VI e del Duca Valentino (Cesare Borgia); per il collaudo vi furono anche Antonio e Giuliano Giamberti, da San Gallo, i quali, a testimonianza del Buonarroti illustrarono la Storia della marina con monumenti di classica scuola.
Una lettera scritta dall 'ambasciatore Giustiniani, da Roma a Venezia, in data 11 Maggio 1503, dice:
" Questa mattina avanti zomo, el Pontefice col Duca sono montati a cavallo et andati verso Nettuno, terra dei Colonnesi e saranno fora sino a Marti proximo per quanto Mosimpo suo segreto cameriere mi fece intendere per parte di sua Santità ".
Il disegno fu eseguito da Giuliano e la costruzione da Antonio suo fratello. Complessivamente, l'opera fa fede del progresso dell'arte nuova, a decorrere dal 1501.1 concetti informativi, riguardo ai quadrilateri bastionali, s'ispirano all'idea di dominare sulle acque e possibilmente ìntrodurle nel fossato interno per ricovero di barche. L'architetto, adocchiato il greppo più alto di Nettuno, trovatelo di pietradura. apiombo sul lido, lo credette atto aformare una fortezza. Isolatelo da terra, vi scavò il fosso ali intorno; poscia, squadrato alla grossa il masso, e formatone una piramide tronca a base quadrata di quaranta metri per lato, costruì attorno ad essa la muraglia di cortina e quattro baluardi di perfettissima forma.
Il quadrilatero si sviluppa in trecentoventi metri di muraglia e dai singoli punti era in grado di scoprire il nemico. Otto difensori, in appostamento sui fianchi ritirati e sugli orecchioni,erano sufficienti a battere il nemico per ogni verso, con fuochi incrociati. Nei fianchi ritirati indietro e nelle basse troniere si collocavano i pezzi di artiglieria chiamati " traditori ", perché, senza essere scorti dall'esterno, colpivano improvvisamente alle spalle gli attaccanti, che entrassero nel fosso o che si avvicinassero all'ingresso della Fortezza per aprir breccia e dare l'assalto.
Giuliano Giamberti da San Gallo lasciò i suoi preziosi taccuini al Comune di Siena, ove risultano tutti i disegni dei forti da lui creati a Torino, a Pisa, in Roma e in Nettuno. Questi piani grafici e relative innovazioni hanno considerevole pregio artistico e monumentale.
È assai ammirevole, nella fortezza di Nettuno, la cornice, al presente, purtroppo, quasi completamente rovinata, composta del cordone, fascia e dentelli, di fine eleganza accuratissima, che abbellisca in modo incomparabile, la costruzione nelle sue linee maggiori e minori: tanto che a molti venne il desiderio di riprodur-la.
I laterizi,di cui è composta, sono di speciale fabbricazione. Ogni singolo pezzo d'artiglieria venne appositamente forgiato per piazzarlo nei convenienti posti, non esclusi quelli che girano intorno aì fianchi ritirati.
All'interno del forte, nel mastio, sono gli stemmi di papa Alessandro VI, tutti scalpellati, però, dai nemici di quella casata. In essi è soltanto rimasto l'emblema pontificio, e in qualcuno è appena percettibile l'insegna gentilizia dei Borgia, e, cioè, lo scudo a sette punte, bipartito nel mezzo, eil toro, di cui si scorgono a stento le traccie. Tali segni confermano indubbiamente l'epoca e il nome di chi fece costruire il maestoso edificio in questo privilegiato punto costiero.
All'interno, sulla parte superiore del grosso parapetto merlato, a coda di rondine, e munito di piombatoi, giravano i randelli per le guardie e archibugieri, e le piazze dei quattro baluardi per la grossa artiglieria.
II mastio torreggiava nel mezzo verso mare; aveva scale segrete per le casematte, per i corridoi e per la porta di soccorso. L'ingresso, di puro stile sangallesco, veniva isolato da un ponte levatoio. Sul frontale vi è lo stemma, anch'esso scalpellato. In cima al mastio vi era il ballatoio, donde il Castellano spaziava con lo sguardo sulla campagna e il mare. Il mastio, in epoche posteriori, subì trasformazioni, sopraelevandosi, in esso, camere sotto tetto per alloggio di militari; ma la parte bassa, esternamente, ha conservato il puro carattere originario.
Nella fortezza esistono tuttora due ingressi: uno principale, dalla parte di terra, con ponte militare, che l'univa alla campagna e munito di ponte levatoio e saracinesca; l'altro, di soccorso, dalla parte di mare, donde scendeva una scala fra i due baluardi. Che tali ingressi, specialmente il primo, siano stati i primitivi stabiliti dai Sangallo, cosa dubbia.

65) VESTIGIA DEL NERONIANO
AGRICOLTURA E IND. DEL BESTIAME

Nell'epoca di Alessandro VI sembrerebbe che l'antico porto Neroniano avesse subito una quasi completa distruzione. L'Eschinardi dice che al suo tempo si vedevano " poche vestigia del porto " antico perché fatto riempire da Alessandro VI cacciò i Turchi " non se ne servissero ". Un manoscritto della biblioteca Chigiana attribuisce la distruzione al Pontefice Sisto V, indottovi dal timore di un'aggressione da parte di Elisabetta, regina d'Inghilterra. In alcuni atti baronali dal 1560-1568, che devono essere nell'archivio Comunale di Nettuno, sono descritti alcuni balzelli, imposti dai Colonna per le barche che approdavano al diruto porto. In quel tempo, dal Comune di Nettuno, si rilasciavano patenti sanitarie, in testo latino, ai bastimenti che da la si partivano:

"Comunità della Terra di Nettuno..... a tutti testiamo; si parte da questa terra e molo d'Anzo...... che perciò dove capiteranno se gli può dare libera e sicura pratica alla qua! cosa per testimonianza tanto comandiamo di fare e del solito grande sigillo di questa Terra lo muniamo Nettuno il giorno ... ".

Nel 1602 il porto diruto era nominato (Crescenzi) " Capo d'Anzo con stanza di barche " Cosimo III vi sbarcò con un battello, e la flottiglia restò ancorata al largo. L'immenso territorio di Nettuno, sottoposto al dominio Colonnese, quantunque oppresso, nel modo più aspro, dalle angherie feudali, tuttavia, nella magnifìcenza del suo soggiorno, per la fertilità del suolo e per l'imponenza delle selve e dei campi, solatii, trionfava all'apice della sua produzione agricola e del commercio attivissimi. Era la terra promessa che la natura donò ai suoi abitatori; l'amor di patria tenevali animati al natìo ostello, se pure vessati da soprusi e balzelli. Erano uomini forti, che comprendevano il prezioso dono a loro elargito. Attratti dall'incanto e dal fulgore dell'orizzonte, con assiduo lavoro, cercarono di rendere la loro patria utile a loro stessi e all'umanità.
Sottoposti alla giurisdizione feudale, godevano del vasto territorio, a seconda dei mezzi di sussistenza che poteva offrir ad essi e alle loro industrie; ma erano colpiti da enormi corrisposte al Contestabile e alla sua Corte. Come legittimi possessori di sì vasto suolo, lo resero fruttifero con i loro sudori ed infaticabili opere. Derivarono così, e si stabilirono gli usi civici e i sacri diritti dei Nettunesi di pascere, seminare, legnare e pescare nei laghi e nei corsi d'acqua.
Fiorirono, in tale epoca, industrie e ricchezze. Moltiplicavasi, in grande quantità, il bestiame vaccino, bovino, cavallino, bufalino e suino; capre, pecore, asini e muli. L'agricoltura emergeva con immense semine di grano, orzo, avena, lino ed altri cereali; ed era considerevole la produzione della seta e del vino. In un catasto, dal 1540 al 1543, in soli tre anni si è potuto constatare che, nel territorio di Nettuno, esistettero oltre duemilaottocentottanta capi di bestiame vaccino: a quantitativo questo,veramente enorme in confronto all'esigua popolazione, che era, nel tempo, inferiore a 3000 abitanti.
Il bestiame si costumava allibrarlo nel catasto, cioè importandosi una misura varia di libbre (dieci o cinque a capo) a seconda dell'entità delle mandrie. Secondo tale censimento si pagavano le gabelle alla Corte. Tra due o tre cittadini, in media, si possedevano circa 100 capi di bestiame domato, non computandosi il rimanente indomito Eravi qualcuno che arrivava a possedere oltre 9000 scudi romani di solo bestiame. L'industria dei suini era enorme; un solo cittadino, in un anno, era capace di venderne al mercato in Roma settecentocinquanta; i meno abbienti ne vendevano circa cinquanta.
Si comandava che tutti gli animali da macello del vasto territorio si mattassero in Nettuno, sottostando ai Capitolati della Comunità; e tale imposizione durò fino al secolo XIX. Il gabelliere di Nettuno ricavava, perciò, lauti profitti. Alla Corte doveva rilasciarsi un suino per ogni dieci macellati; e inoltre ad essa spettavano indistintamente tutte le lingue nonché il quarto di dietro (prosciutto) di quei suini, che avessero superato l'età di un anno. V'erano poi appositi capitoli delle regalie e delle gabelle, comprese quelle sul vino, che si dovevano corrispondere alla Corte (Soffredini -Appendice storia 1879).
Per avere un'idea dell'estensione territoriale di Nettuno, servirà di prova quanto proseguo a dire.

66) LE DIFESE

Per decreto dei Colonna, nel territorio di Nettuno, si formarono le così "Difese ", ossia campi concentrati per il solo bestiame dei cittadini e della Comunità. In esse poteva entrare anche il bestiame forestiero, previo permesso della comunità e della Corte. Le difese servivano a salvaguardare i terreni dei privati e della Corte dai danni che potevano cagionare gli animali, e s'imponeva, ai proprie-tari di essi, di tenerli così custoditi, sotto minaccia di sanzioni severe. Dato il considerevole numero dei capi di bestiame, le difese dovevano essere vastissime, e risultavano, secondo un editto del 1560, sulla strada di Roma, nella località chiamata " Valli ", ov'era anche la " Fontana dell'Olmo ", vicino alla Mascarina. Veniva concessa agli affittuari facoltà di restringerle o ampliarle; e i regolamenti per tali operazioni dovevano essere rispettati rigorosamente, sotto la responsabilità del Vicario di Nettuno. I termini venivano designati dal Camerlengo e dalla Comunità; e si segnavano in rosso gli alberi di confine, secondo l'ordine baronale. Coloro che l'oltrepassavano incorrevano in disgrazia del contestabile e sottoposti alle pene riserbate al di lui arbitrio.
Si escludevano dalle difese i terreni particolari, le tenute di Valmontoro e di S. Anastasio, perché riservate al Contestabile e come dice un documento " essendo il rimanente del terreno per i " Nettunesi tanto grande ". Le zone lasciate per la semina del grano, erano di superficie assai estesa. In prova di ciò lo storico Alessandro Andrea ( 1500 ) dice " che tutto il grano occorrente per "le armate dei colonna proveniva dal territorio di Nettuno"

67) POMPEO ED ASCANIO COLONNA

Morto Alessandro VI il 18 Agosto 1503, e trascorsi i ventisei giorni di Pontificato di Pio III, a questi successe Giulio II, (Della Rovere), famoso nella storia per la sua indole battagliera, e, secondo Giovio, amicissimo dei Colonna. Dopo aver vinto e catturato Cesare Borgia e consegnatoio agli Spagnoli, restituì ai Colonna tutti i loro feudi, compreso quello di Nettuno. Inviò Pompeo Colonna a prenderne possesso, e questi ben fu lieto di poter signoreggiare sulla fortezza fabbricata da Alessandro VI. Per distruggere poi, la memoria di quest'ultimo fece scalpellare i di lui stemmi, onde fregiavasi l'edificio.
Giulio II, d'intesa con i Colonna, ordinò di esplorare il territorio Nettunese, asportando immensi tesori di arte; quali: la statua di Apollo detta del Belvedere, ora nel museo Vaticano; il gladiatore combattente che portava scolpito il nome dello scultore Agasia; Dositheo da Efeso, che trovasi nel museo del Louvre, a Parigi; il gladiatore moribondo, che si ammira al museo Capitolino; Nettuno, ora al museo Laterano; Cibele, nella villa Pamfili al Gianicolo, ed altre opere d'arte pregevolissime.
Pompeo Colonna, creato Cardinale dal Pontefice Leone, lasciò la Signoria di Nettuno ad Ascanio suo fratello. Insieme con Ugo Moncada, Ascanio, Vespasiano ed altri Colonnesi, la notte del 19 settembre 1526, invase Roma, saccheggiandola. La storia si diffonde lungamente sui particolari del terribile sacco, nonché della fuga di Clemente VII dal Castel S. Angelo, donde fu costretto venire a patti coll' Imperatore, per ottenere che i Colonna lasciassero la città Pompeo Colonna, dichiarato reo dì ribellione e nemico della Sede Apostolica, nel 1527, con gli Imperiali capitanati da lui, e dai suddetti parenti, nuovamente saccheggiò Roma, incendiandola sotto gli occhi del Papa, che ancora una volta erasi rifugiato a Castel S. Angelo. Infine, Pompeo pentito, si fece mediatore per la capitolazione e riscatto del Pontefice.
Mentre Ascanio Colonna godeva il feudo di Nettuno, essendo venuto a contrasto col Papa Paolo III, fu, da questo, privato dell'investitura. In sua sostituzione, venne inviato colà un Governatore. Dopo la morte di Paolo III, vacante la sede pontificia, Ascanio tornò con le armi a conquistare Nettuno. Incorso in nuovi reati e danni verso i sudditi, mentre veniva privato del feudo, sopraggiunse Marco Antonio Colonna, che oppose invano resistenza con ciò, i Colonna furono spodestati. Vari baroni, invece di aiutare il Pontefice come loro sovrano, difendevano la causa di Filippo II, parteg-giando pel Duca d'Alba Perciò, nel 1556-57, dalla Curia criminale pontifìcia si compilò un volume con 28 processi, esistente nell'archivio di stato e intitolato " Processi contro molti magnati " tra j quali Filippo II ed alcuni dei Colonna.
Riporto, ora, alcuni articoli di un bando, e darò notizia di alcune modificazioni, che furono fatte al Pentagono d'Astura.

" Art. 13 Item si notifica et comanda che nessuna persona di qualsivoglia grado et conditione si sia, tanto fidati quanto non fidati (fida del bestiame) et altre persone ardisca né presuma in modo alcuno, né sotto qualsivoglia quesito, colore, portare archibugi né grandi né piccoli, né a foco né a rota per il territorio di Nettuno né ad uso di caccia né ad altro " uso senza espressa licenza di S. Eccenza, sotto pena di venticinque scudi da applicarsi alla Corte et Camera di S. Eccenza per prima, et di tre tratti di corda da darseli di fatto senza remissione alcuna et perdita dell'archibugio ".

" Art. 14 Item si notifica et comanda che nessuna persona ardisca in modo alcuno battere l'albori della ghianda né farla cadere né raccogliere né in poco né in quantità sotto pene di dieci scudi per ciascheduna persona et ciaschuna volta sarà trovato avvertendoli che se ne darà fede alii guardiani della selva et si applicherà questa pena la quarta all'accusatore il resto alla Corte prefata di S. Ecc.za et ognuno se ne guardi dalla mala ventura, il quale bando in dodici capitoli et in fine. Questa data in Nettuno questo di 20 di Settembre 1562. Item tutte le pene pecuniarie s'intendine applicate alla Camera di S. Ecc.za Marcoantonio Colonna. ".Quest'ultimo, possessore del pentagono di Astura, ampliò e restaurò il forte stesso, ponendovi guardie contro le incursioni dei pirati Turchi Nel 1560, i ministri papali e i ladroni romani s'ingerivano intorno alle fortificazioni dei litorali, riducendo i recinti a forme moderne. Il fortilizio d'Astura subì, anch'esso trasformazioni. Lasciato il pentagono primitivo con maschio e il recinto medioevale merlato, Colonna vi aggiunse un'altra cinta bastionata con muraglia a scarpa e troniere d'artiglieria, secondo lo stile del cinquecento. Astura fu uno dei cinque punti fortificati in potere di Marcantonio il quale molte cure vi dedicò, lodevolmente conservando le storiche costruzioni; ed il suo operato suona a maggior biasimo di coloro che, in epoche posteriori, le lasciarono in abbandono o le deturparono con pessime trasformazioni.

68) I CARAFA VITTORIA DEI NETTUNESI

Tolto il dominio ai Colonna, Net-tuno passò in possesso ai Carafa. Il Pontefice Paolo IV (Carafa), per togliere al Re Filippo II di Spagna il Regno di Napoli,
1------------ die principio alla celebre guerra della Campagna di Roma, descritta minutamente, in tutti i suoi particolari, dallo storico Alessandro Andrea, contemporaneo agli'eventi. I principali attori della tragedia furono i membri della napoletana famiglia dei Carafa. Paolo TV costituì lega tra lui e la Francia, apponendosi al trattato in parola la regia firma del cristianissimo Enrico II Re dì Francia, nel 1556. La convenzione era molto proficua, non solo agli interessi dei Carafa, ma ancora alla S. Sede e alla città di Roma, che già si designava come capitale d'Italia.
La Santa Sede sosteneva che il regno di Napoli doveva tornare al Pontefice; il che importava il possesso di una delle primarie fortezze, cioè Gaeta. Iniziate le ostilità, vennero specialmente osservate le fortificazioni dei diversi feudi: quello di Nettuno presentava scarsa sicurezza per la difensiva. Giovanni Carafa, duca di Paliano e generale, scrisse al Duca di Somma in Velletri, perché facesse distruggere le fortificazioni di Nettuno deficienti nella difesa. Il Duca si oppose, rispondendo in tal modo; "V. Ecc.za viene ad avere guasta la miglior Terra che ha:
" perde sei mila scudi d'entrata et rovina mezzo questa marittima: perché non essendovi Fortezza, Nettuno si disabita. Disabitatosi Nettuno, li Massari di marittima saranno preda ai corsali, sicché viene a fare un gran danno per nulla inutile."
Il castellodìPaliano,proprietà del Duca Giovanni Carafa, per una capitolazione segreta sarebbe ritornato a Marcantonio Colonna, se Paolo IV non si fosse opposto. I nepoti del Pontefice, Giovanni e Carlo, cardinali, furono condannati all'esilio. Invano la loro madre supplicò per essi Paolo IV, licenziandola, le disse: "Maledetto il tuo ventre che ha prodotto uomini così tristi " scellerati" (Caracciolo- Vita dei Carafa).
Giovanni Carafa dopo la lettera del Duca di Somma, insisteva che ancora si demolissero le fortificazioni di Nettuno; ma i Nettunesi protestarono energicamente, e, discacciato il presidio francese, capitanato dallo Strozzi, serrarono l'ingresso ed inviarono le chiavi del castello Marcantonio Colonna II che era al campo del Duca d'Alva, viceré di Napoli. Questi inviò subito in Nettuno il Capitano Moretto, Calabrese, con un'armata. S'iniziò un combattimento, in cui ebbero la peggio le truppe ponteficie, che da Velletri marciavano a sedare la ribellione dei Nettunesi, ostili alla demolizione delle loro fortificazioni. A Marcantonio Colonna era a cuore Nettuno perché da esso traeva tutto il grano e vettovaglie per le sue armate.
Il nemico, per tagliare il passo ai rifornimenti, partì da Civitavecchia con dodici galee francesi. Sul mare vi erano soltanto quattro fregate per la difesa, le quali, non potendo resistere all'urto delle galee, diedero campo agli invasori di sbarcare e cominciare a battere le mura di fortificazioni. Ma l'eroica resistenza e difesa dei Nettunesi con alla testa il capitano Moretto, frenò l'assalto al castello, mentre le galee francesi, per l'offensiva delle quattro fregate e per una forte mareggiata furono costrette a prendere il largo e tornare al loro porto.
La resistenza da terra e la fuga delle navi salvò il Castello di Nettuno dall'invasione e distruzione nemica. Lo storico Giovio, nel suo testo latino, accenna a tale vittoria:
" Nettuno distrusse ed allontanò l'impeto di dodici lunghe navi" Alessandro Andrea, storico contemporaneo di tale avvenimento, dice:
" I terrazzani Nettunesi con grande animo et ostinazione si mostrarono a difendere le robe et famiglie loro. Quei della Rocca lo facevano ancora valorosamente, tutto che non avessero più che due pezzotti di Artiglieria, all'uno dei quali sì ruppe una ruota al primo tiro. Or avendo le galee fatta buona batteria et tentando i soldati l'assalto, s'avvidero che era difficile il rimettere per la spiaggia che vi è, et vedendo quanto arditi et valorosamente stavano alla difesa quei di dentro (il Castello) e già turbandosi loro il tempo fatta vela, se ne ritornarono in porto. Mentre Nettuno si batteva, ne fu il Duca avvisato in Tivoli. Dai luoghi vicini, che l'udivano, et egli per mandarvi il più veloce soccorso che potesse, ordinò che Marcantonio Colonna con le genti d'arme, il Conte di Popoli coi cavai leggeri et Ascanio della Corgna con quei fanti spagnoli, che aveano cavai leggeri, per diverse strade si unissero in Marino et indi a soccorrere Nettuno.... Et avendo nuova per strada della partenza delle galee, et che Nettuno non havea più bisogno di soccorso sene andò ciascuno al luogo, a che se gli assegnò per suo alloggiamento. "

69) M. COLONNA II E I TURCHI PIRATI

Tale vittoria portò con sé il dominio del Castello di Nettuno Marcantonio Colonna II, figlio di Ascanio e di Giovanna d'Aragona.
Questo prode guerriero, venuto a conoscenza che la flotta Turca aveva distrutto l'armata navale di Francesco II Re di Francia, nelle coste della Libia e Tunisia, temendo che il Turco potesse giungere ad assalire il lido Nettunese spedì una lettera a tutti i suoi dipendenti e ai Massari di Nettuno loro accennando l'invasione Turca:
" Alli magnifici Massari di Nettuno nostri carissimi: Dovete sapere come l'armata del Turco ha rotto l'armata del Re nostro in Barberia, et hanno già preso circa ventotto galee et molte navi: per il che facilmente potrebbe accapitare da coste bande. Per tanto vi ordiniamo che dobbiate subito fare sgombrare tutte le vostre robbe, donne et putti da Nettuno, et li manderete dove meglio vi parerà. Et farete fare le guardie a quelli che vi resteranno, con quella diligenza che vi conviene: acciò venendo (il che Dio non permetta) vi possiate salvare tutti. Et medesimamente farete stare vigilante la guardia di Astura e della Torre di Anzo. State sani. Di Roma il 20 Maggio 1560. P. S. Di questo noi ne havemo parlato con sua santità (Pio IV) la quale è di parere che facciate quanto vi scrivemo. Il Com.te Marcoantonio Colonna. "
Questa lettera fu scritta dicci giorni dopo la disfatta delle Gerbe in Tunisia e dieci anni prima della battaglia di Lepanto.
Nell'anno 1561 cresceva di giorno in giorno la baldanza mussulmana; era di necessità stabilire una catena difensiva lungo le coste marittime. I Turchi, dopo la vittoria delle Gerbe, scesero sulle rive del Tirreno, facendo schiavi molti cristiani. Tale sciagura indusse Pio IV a fortificare la città di Roma, creando generale Federico Borromeo suo nipote, perché fosse pronto alla difesa contro i corsari Turchi, divenuti orgogliosi delle loro barbarie (Muratori). Per tale motivo M. A. Colonna si adoperò a mettere in guardia la marina di Nettuno; armò il Forte del Sangallo e lo consolidò maggiormente, munendolo di nuove muraglie, pure avendo già data maggiore ampiezza alla cinta bastionata delle fortificazioni del Castello, senza, per altro, demolire le già esistenti.
Questa nuova cinta bastionata, riprodotta fedelmente una carta topografica di Nettuno del 1538, epoca degl'Imperiali, cominciava con un baluardo a levante, proseguendo con altri due, a greco e tramontana, e terminava col quarto baluardo arrotondato verso il Forte del Sangallo. Chiudeva il borgo di Nettuno (oggi Piazza Umberto I) ed aveva due porte: una verso Roma ed una verso Napoli. Di questa cinta di fortificazione, oggi, non se ne ha più il minimo indizio o memoria ! La riviera Nettunese soggiacque a qualche non grave incursione da parte degli infedeli, ma il Castello ne fu esente, data la solida fortificazione ad opera di M. A. Colonna, siccome viene attestato nella lapide apposta sulla torre del vecchio orologio nel Palazzo Baronale. In essa è anche accennata la miniera di zolfo e vetriolo scoperta in prossimità delle Caldane, oggi solfatara, dalla quale, fino a tutto il secolo XVIII si estraeva lo zolfo ed era una delle industrie di lucro per Nettuno. (Bartolomeo Soffredini-1772).
Dal 1555 in poi, M. A. Colonna, oltre alle accennate opere, risarciva le mura Castellane, le torri e bastioni; nel 1568 edificava, a Campoleone, un fabbricato per forno fusorio, ove sì colavano vene di ferro, riducendole in verghe o ad al tre forme. Un documento dell'epoca conferma tale costruzione, riferendo: "Nel suo Stato di Nettuno per profitto dei suoi vassalli ". Il terreno usufruito a tale industria era di rubbia 6 e posto nel quarto detto " di levante ".

70) BATTAGLIA DI LEPANTO

Devo qui ricordare la grandiosa vittoria sulle acque di Lepanto, che rievoca gli antichi trionfi romani. In essa ebbero parte i Nettunesi, agli ordini di quella maschia ed austera figura di uomo e di energico condottiero che fu M. A. Colonna, trionfatore magnifico e terrore della mezzaluna di Selim II.
Questo glorioso episodio culminante ricorda il valore veneziano e quello delle dodici galee pontificie comandate da M. A. Colonna, insieme col grande Sebastiano Vernerò.
La tracotanza Turcat dal 1453 continuava a imperversare lungo le coste marittime. Dopo la metà del sec. XVI divenne oltremodo minacciosa, e perciò M. A. Colonna si preparò degnamente alla grande impresa del trionfo supremo della civiltà contro la invadente barbarie. Sebbene la vittoria delle armi Italiane sia stata attribuita ai prodi della Repubblica Veneta, tuttavia è doveroso ricordare che M, A. Colonna, nell'equipaggio delle sue dodici galee, aveva sicuramente aggregato uomini dei suoi feudi, di già provato valore. Non è quindi a dubitarsi che tra gli eroici combattenti di Lepanto vi furono anche Nettunesi. L'accennata lettera ai carissimi Massari chiaramente dimostra come la milizia Nettunese del Castello fosse soggetta agli ordini di Marcantonio; e i nomi dei valorosi erano segnati in alcune lapidi sepolcrali, che, per insipienza o malvagità furono distrutte.
Con sforzo mirabile di denaro e di opere, con sacrifìcio ed abnegazione di tutti i suoi figli, la Repubblica Veneta preparò, in quaranta giorni, quarantuno galee sotto il comando di Gerolamo Zane; raccolse soldati, ed armati tutti i cittadini, li offrì al supremo cimento per la Patria. La Repubblica era riuscita a stringere, col Pontefice Pio Ve con Filippo II, una convinzione per la quale le navi Romane,comandate da M. A. Colonna, e l'armata Spagnola, comandata da Giovandrea D'Oria, dovevano unirsi, alle galee e all'audacia Veneziana per la di fesa della Cristianità. Dopo tale convenzione, s'ebbe il concorso di altro contingente numeroso di uomini e navi, sotto il comando di un giovane ardito e desideroso di gloria; Don Giovanni d'Austria, fratello di Filippo II. li luogo fissato per la riunione fu Messina. Giunse primo M. A. Colonna con le navi Romane; poi il Veniero, indi Don Giovanni e il D'Oria.
I Veneziani fremevano per l'indugio; e, allorché giunsero, attraversando le insidie turche, altre loro galee, che resero la flotta potenrissima, non fu più possibile ritardare la fiera mischia.
Conosciuto che le navi turche erano a Lepanto, la grande armata colà si diresse. Intanto giungeva la dolorosa notizia della strage di Famagosta, ove Marcantonio Bragadin, mutilato del naso e degli orecchi, dovette assistere al supplizio dei compagni, strozzati e impiccati .Undici giorni la vittima fu trascinata, a ludibrio per la città. Legato ad una pertica bilanciata, gli fecero far l'altalena col tuffo a mare; poi, dopo il sofferto scherno, fu costretto a portar terra pei bastioni.
Finalmente, fra le sataniche risa dei turchi, il martire venne scorticato vivo avanti a Mustafà, mentre le sue labbra contratte nello spasimo atroce, pronunciavano sommessamente il Miserere.
La grande armata giunse a Lepanto; fatesi giorno, scorte le navi avversarie, venne l'ordine di Veniero: "era necessità combattere et non si poteva far di manco ".
Allora le galee cristiane avanzarono: si ammainarono le bandiere e, sulla Reale, venne issato il gonfalone della Lega. I guerrieri si inginocchiarono e, fatta la confessione generale, ebbero l'assoluzione; quindi, incitati all'assalto, venne la mischia fra ottantamila cristiani e ottantamila turchi. Il cozzo fu così tremendo e spaventevole che i numerosi alti turbanti dei seguaci del Profeta sembravano uno solo.
"Fu la battaglia tant'horribile et spaventosa che il mare fatto rosso per il molto sangue sparsosi et coperto di frammenti dei fracassati legni et di molte miglia dì corpi morti rendea una vista formidabile ai riguardanti. ,

71) ANTONIO ONGARO POETA DI NETTUNO

Mentre gli egoismi, le prepotenze, le rivalità, provocando il tumulto delle armi tra una città e l'altra, tra l'uno e l'altro deposta, costringevano i vassalli a curvare a terra la fronte sotto il peso della tirannide feudale; mentre la pompa delle Corti profondeva tesori per assoldar truppe e i dolori e i trionfi non erano capaci di nuocere il cuore dei vari dominatori; quando lo sconforto o le violenti emozioni travagliavano atrocemente gli animi, in tal torbidi tempi, la letteratura assurgeva ad alti segni di gloria, inducendo Principi e Corti a favorire le muse.
I Colonna, condottieri d'armate, furono anche mecenati delle Arti belle, e non disdegnarono di udire i Poeti e di considerarne le loro ispirate creazioni. Ai rudi studi bellici, essi accoppiarono l'interessamento per ogni opera geniale, i cui autori trovarono così protezione, ricompense ed onore.
II secolo XVI, secolo d'oro, per le arti e le scienze, tramandò alla storia un chiaro esempio, purtroppo dimenticato e trascurato in appresso.
Questa incantevole terra di bellezza, fece sorgere un'animo nobile, pieno di sacro amor patrio, in Antonio Ongaro, gloria letteraria fulgidissima di Nettuno.
Ancor giovanissimo, studiò giurisprudenza; e insieme dedi-cavasi all'arte sublime della poesia. Il plauso fatto all'Armata dell'immortale Torquato risvegliò, nel poeta Nettunese, l'ardore ad imitarlo. Studiando, col Tasso, suo contemporaneo, a Padova, compose la sua favola Pescatoria " Alceo ", che meritò di essere annoverata nella classica letteratura. Conobbe e intese profondamente la segreta anima fascinatrice del lido che lo fece nascere poeta; l'illustrò in mille aspetti, nella sua bellezza ammaliatrice, nella sua luminosità sfolgorante, nei suoi aviti ricordi, nel soggiorno d'amore e d'incanti.
Antonio Ongaro fu molto accètto alle famiglie dei Farnesi, e dei Colonna. Nel 1580 esordì in Nettuno con " Alceo " da lui recitato nella sala dell'antico Palazzo Baronale, alla presenza della Corte Colonnese. Il pregio e l'eleganza del verso sono degni di ammirazione, ed il poema, per i suoi chiarissimi pregi, può annoverarsi fra le cose preziose, che ornano la poesia Italiana. Ongaro vi espresse i sogni, le sue speranze fervide, gli amori giovanili, la sua terra natale. È un quadro smagliante nei suoi minimi dettagli, che illustra l'orizzonte di Nettuno sua patria, e che il Crescimbeni storico letterario, conferma accennando ai primi, versi del poema:

Alceo prima gloria ed ornamenta
Di questo mar, che nacque nel Castello
Che dal gran Dio dell'onde ha preso il nome,,

72) INDUSTRIA DELLA PESCA

Proseguendo la dominazione dei Colonna, i Nettunesi si dedicavano intensamente alla pesca, come è scritto nei catasti comunali, ove risultano notate le singole barche adibite a tale industria. Dalla Corte, però, si proclamavano bandi ed editti, i quali, oltre ad opprimere la Comunità, impedivano, in parte, tale diritto, da tempo usufruito; come pure ostacolavano la cacciagione, gravando la popolazione dì numerosi balzelli e divieti. I massari, gli affittuari e le persone di Corte erano più temibili dello stesso Feudatario o Contestabile. A scopo di lucro, impedivano che ogni indulgente disposizione potesse, alle volte, giungere da parte del locale signore e, chiudevano i bandi, con la clausola " sotto pena del nostro arbitrio ".
Il vincitore di Lepanto curò di fortificare sempre meglio il castello di Nettuno, costruendo torri di difesa ausiliari, lungo il litorale. Promosse la coltura intellettuale; migliorò il territorio ed abbellì edifici. Tale lodevole incremento richiamava in Nettuno visite di grandi personaggi e di ammiratori. Una testimonianza vien data da un prezioso documento rinvenuto trale carte della famiglia Strozzi, fiorentina, e, custodito nell' archivio di Stato di Firenze (Ademollo - Lettera di donna). E una lettera, scritta indubbiamente nel secolo decimosesto, da una gentildonna Fiorentina, la quale fa una sommaria e dettagliata descrizione di una gita fatta in Nettuno, in lieta brigata di parenti ed amici di famiglia, di dame, cavalieri ed alti personaggi Romani. A quel tempo ospitavano in Nettuno distinte famiglie provenienti dalla Toscana, e tra esse, gli Aldobrandini e i Corsini. È probabile che la comitiva, per rivedere qualche amico o parente, scelse Nettuno per una dilettevole gita.
Il successo del Poeta Ongaro con la recita dell' " Alceo ", in Nettuno vi attirò personaggi colti e distinti, che da diverse strade vi affluivano per diporto o in cerca di dimora. Ai Colonna era oltremodo prediletto il lido, ove si addestravano nei 'rudimenti dell' arte marinaresca, e tale passione fece sprizzare la prima scintilla che doveva accendere il genio di Marcantonio e Fabrizio Colonna, celebri capitani del secolo decimosesto (Guglielmotti -Storia).
Tornando alla sopraddetta lettera della gentildonna fiorentina, trascrivo di essa alcuni brani che più interessano allo scopo. La scrivente, dopo le dovute scuse per il ritardo a scrivere, inizia il suo racconto:

"...per essere stata io occupata in quel viaggio, che udirete, il quale per essere pieno di varii piaceri et altri accidenti ho deliberato di narrarvelo puntualmente, come che io fossi tema di no' farvene sentire quel piacere che io sento par me medesima, mentre alle cose passate ripensando quelle ascrivervi mi conduco. Dico adunque che doppo 1' havere noi più tempo pensato di fare la gita di Nettuno, si destinò finalmente il giorn he ci avevamo da partire, al qua! pensiero si mostrò la fortuna sì nimica,che il tempo ches serenissimo erasi converte subitamente in una minutissima et noiosa pioggia...
II cocchio che me portava et Bastianino co' le matrone era tirato da duoi cavalli che per essere alquanto infingardissimi et restii, bene spesso a qualche salita stornavano... Così seguirne il nostro cammino co' quest' augurio a un' bora di notte arrivando all' hosteria di Civita dove speravamo trovar qualche ristoro che a noi che bagnati et fracassati eravamo faceva di bisogno. Dopo lungo chiamar che lume ci fusse recato finalmente comparse uno sguaiato servitore co una granata accesa che bene spesso del vento si spegneva quella porta per la quale entrando vedemo che il luogo coperto che domandavano hosteria era una capanna et forse quella dell'orco...
Da questo alloggiamento partimo vedendo cho il tempo mutava faccia et con assai buon cammino a Nettuno ci conducemo, trovando il nostro alloggiamento nel palazzo comodo et piacevole molto, massime per una soggetta a canto la mia camera che sopra la marina riguardava, le quali acque perché più nò ne havevo viste mi recarono infinita consolatione che per essere tranquillissime ne mostravano ben più lontano più isole che dalle genti del paese sono chiamate pontio palma, parmarolo,et ventutene ne altro facemo quella sera che alcuni ragionamenti appresso a quali desiderosi di levarci la mattina per tempo per vedere il paese con la speranza del buon tempo cen andamo a riposare, ma la mattina seguente ci trovamo ingannati perché il tempo finalmente divenne tristo per modo che ci fu forza di stare in casa dove doppo desinare ci vennero a visitare alcune donne della terra assai piacevoli,et belle in abito molto diverso da ogni altro italico et secondo che esse raccontano molto al moresco somigliante all' occhio molto piacevole come noi possiamo haver veduto anco qua Roma nel tempo della quaresima. Doppo le solite accoglienze et salutevoli parole elle si misero a cantare alcune ballatette, co granosissime voci con la qual compagnia feste volmente tutto quel giorno trapassai. Et ecco venir di Roma bracchi et levieri che molto a proposito vennero per i futuri sollazzi.
Perché la mattina seguente fattosi il tempo sereno, doppo haver li soliti tributi a nostri stomachi dati assai di buon bora montati a cavallo ci discostemo forse duemila passi sopra le rovine d'Antio, antica nobile Città, et per quelle reliquie che hoggi se ne vede di ragionevol grandezza. Ma per essere ogni cosa a piano non se ne può dire alcuno pertuculare se non che ancora vi si trovano pozzi d'acque limpidissime, di lunghissimi tempi conservate. Vedevisi un porto di già circuito, forse già mirabile a riguardar pè i grandi edifici l'orme de quali nò sono ancora ricoperte perché v'appariscono ancora aplissime logge: assai fagiani nonsenzadiletto trovamo quivi de quali ninno ne potemo pigliare per esservi le macchie grandissime... Così quel giorno co questi piaceri quali avete udito, si terminò, il seguente allegrissi-mo et come donato venne senza alcun nugolo; onde levatici a grandissima hora per una piacevole strada chiusa da due verdis-sime siepi, ci diportiamo... Così per quella amenissima contrada arrivamo a una chiesetta nel mezzo di un bosco riposta. Donde udito il divino offìtio col medesimo piacer che nell'andare havemo ce ne toniamo alle nostre case, et quivi co buò cibi et ottimi vini recreati tutto il rimanente del giorno ci stemo a passar tempo giucando, et verso sera ce né andamo di bella brigata ad un giardino, dove d'erbe ottime et vari fiori si colse una insalata et davanti la porta ci fermamo a vedere forse ben dodici giovane, che dentro un chiarissimo ruscelletto stavano co panni forte alzati et co le braccia nude cantando sempre lietissime lavavono loro bucato: La notte sino che l'hora del cenare venne, passammo con alcuni giucchi li quali anche dopo cena non dispiacendo ne furono da alcuni giovani fatti certi carnovaleschi et una comedietta all'improvviso si recito nò senza infinito difetto de circumstanti... Ma già cominciandosi il sole a farsi giallo cen tornamo alle stanze che nò molto lontane erano, dove giunti prestamente si mise in assetto la cena per poter fare una veglia che tra alcune donne et giovani della terra era stata ordinata le quali et i quali comparendo fecero danze et giuochi dilettevoli, ma per essere stracca la nostra brigata troppo di più tosto finirono che essi non havrebber voluto perché andato ciascuno alla sua camera la mattina seguente assai per tempo levamo, ma trovamo il ciclo si coperto di nugoli, che non ci parse da fare altre gita che alla Chiesa dalla quale tornati, et destinato havendo perché la pioggia impediva ogni altro disegno cominciando a passar il ; tempo parte co leggere alcune rime, parte col fare alcuni giuochi : proposti dal piacevole rodomonte che sempre sopra di lui
finivano; Giuocamo ancora non so che giuochi di carte a quali sterno si intenti che passò il giorno, et parte della notte ancora senza pensiero alcuno del tristo tempo et nonostante chi più nostra voglia fusse che speranza, che racconciar si dovesse nò mancamo però doppo cena di dare ordine alla Caccia per la seguente giornata... Indi arrivati a una stretta et profonda riviera detta stura (Astura) vi trovammo una barca assai comoda sopra la quale salita ne n 'andai co cinque della compagnia per quella, che bellissima era si per l'acque chiarissime che con piacevole lentezza procedevano si ancora per le sponde che uguali erano et si piene d'allori et altri alberi che per strettezza di quella s'intrecciano di tal sorta i rami loro et talmente la cuoprono che in sul mezzo giorno di luglio il sole non vi potrebbe penetrare; i pesci innumerevoli per la chiarezza d'erbe nò ragiono ne della vaghezza de fiori ne delle (ante inadell'uccelli. Il seguente giorno ce n'andammo a vedere una sorte di caccia che io mai più veduto si haveva: di questo tempo che le palombelle sono di passaggio la gente del paese ha fatto diradare un bosco a canto alla marina dove fra alcuni alberi che vi hanno lasciati fanno tender lunghissime ragne senza armadura quivi stanno alcune " guardie dalla banda di ponente donde vengono detti uccelli et quando sono sopra loro gridando con una scaglia tirano una pietra bianca la quale veggendo et temendo gli uccelli per loro natura s'abbassano et paurosi friggono verso l'altra guardia la quale il medesimo facendo gli fa dare nelle reti le quali sono laciate andare in terra gli uccellatori che per potere essere presi non tengono le funi legate. In così fatta maniera non senza maraviglia et piacere ne vedemo pigliare gran quantità... Et già essendo notte alla terra pervenuti trovammo tutta la compagnia disposta a fare giuochi et burle che sino all'aera della cena durarono con grande piacere. Et nel tornarcene poi da Neptuno verso Roma facesi un 'altra caccia dove si levorno certi porci nella quale due imberciateli ad un passo riscontrandosi furono causa che un porco nò fusse ferito, il quale non si poteva investire senza pericolo del ferirsi fra loro... Et co questi trattenimenti sani e salvi a Roma ne ritornamo ".
Ademollo - Lettera di donna del Sec. " XVI). L'interessante documento, oltre alla descrizione dell'ameno lido con tuttii scuoi caratteristici costumi e memorie, da contezza de' piacevoli passatempi in uso presso la Corte, quali vennero goduti da una lieta comitiva di ragguardevoli personaggi, cordialmente ospitati.

73) IL COSTUME DELLE DONNE NETTUNESI

Nell'anno 1575 il Pontefice Gregorio XIII fece invito alla Cristianità di partecipare al Giubileo Romano. Tre-centomila persone si recarono in Roma all'apertura della Porta santa e il concorso di gente durò tutto l'anno; si contarono circa centomila forestieri, venuti da tutte le parti d' Europa e specialmente dalla Provincia (Muratori).
Fu di conseguenza che il popolo di Nettano prendesse parte a tale solennità; famiglie intere partirono: le donne erano vestite nel caratteristico costume, del quale i Nettunesi erano scrupolosi e gelosi osservanti.
Questa foggia di abito, di antichissima origine, era prettamente orientale. Le donne saracene, unitesi coi primi abitatori del Castello, malgrado che avessero abbracciato la religione cristiana, fedeli, per quanto potevano, alle avite usanze, mantennero tale acconciatura importata dalle regioni Arabe, e proseguirono ad indossarla, trasmettendola alle loro discendenti.

74) L'ANTICO COSTUME

L'antico costume, di scarlatto molto vivo e di finissima lana, si componeva di un abito senza maniche, che, dalle spalle, scendeva poco sotto il ginocchio; era aperto sul petto e stretto ai fianchi con una cintura d'oro o di argento, dalla quale pendevano piccoli sonagli degli stessi metalli. Tale cintura stringeva la gonna formando pieghe naturali, le cui estremità erano ornate con trina d'oro o di argento. Sopra la veste e sul dosso si applicava un "corsaletto " a vita come usavano le donne di Barberia, anch'esso scollato e chiuso sotto il seno con una fascia di drappo ricamato in oro con arabeschi; il corsaletto, al pari della sottana, era, alle sue estremità, decorato con trina d'oro o di argento.
La veste assai corta lasciava vedere l'elegante calzatura dei " borzacchini " o stivaletti alla moresca. Il capo della donna era
coperto da un drappo variopinto avvolto, a guisa di turbante, che ornavai capelli, scendenti graziosamente sugli omeri, ed intrecciati (secondo la costumanza araba) con nastri colorati. Questi erano rossi, per le maritate verdi, per le nubili, e paonazzi, per le vedove. Tutti gli ornamenti, orecchini, collane ed altro erano di ricchissimo stile orientale.
Le donne Nettunesi, così vestite, si recarono in Roma. Laloro presenza attirò lo sguardo dei Romani e dei forestieri per l'avvenenza dei modelli, per la bella carnagione colorita e per la veste succinta. II vestiario fu classificato unico e straordinario in Italia; cosicché, in seguito, venne usato dai Romani come abito da maschera. Ma la curiosità, troppo spinta del popolo die motivo all'intervento ecclesiastico, che censurò l'abbigliamento delle Nettunesi. Senza apprezzare il valore artistico di esso, persoverchio scrupolo non giustificato, venne indotto il Pontefice Gregorio XIII ad ordinare la riforma, aggiungendo che il vestiario, oltre a provocare scandalo, uguagliava, per ricchezza di ornamenti, quello degli Imperatori, dei Papi e dei Vescovi. Venne, così, fatto precetto alle donne di Nettuno di allungare la veste fino al collo del piede e modificare la ricca cintura detta " antricella "; e, perché si osservasse la detta riforma, furono promessi regali. Ma le belle recalcitranti, di vero sangue saraceno, ricusarono di attenersi agli ordini Papali. Né fu facile convincerle; tanto che, laCameraApostolicafu costretta ad apprestare, a sue spese, nuovi abiti modificati e obbligando le Nettunesi a indossarli. II severo ordine si eseguì e diede principio a trasformazioni non belle, e aliene dal primitivo carattere artistico e storico.
Questa deliziosa terra e sue adiacenze fu sempre ricca di attrattive, degne di osservazioni. Il Poeta Tassoni ne da una prova con la sua " Secchia rapita " nel canto in cui racconta il viaggio che " il mirabil legnetto " fa per Nalpoli, descrivendo tutto il litorale fra Ostia e Gaeta Navigando nel mare dì Nettuno accenna al distrutto Anzio:

Già s'ascondeva d'Ostia il lilo basso E il Porto d'Anzio di lontan sorgete

Gìunto alla riva, fu assai ammirato delle belle Nettunesi e del loro vestiario:

Le donne di Nettun vede sul lido
In gonna rossa e col turbante in testa.
Rade il Porto d'Astura ove tradito
Fu Corradin nella sua foga mesta.

75) COSTUME MODERNO

II vestiario, dopo gli ordini papali, subì la voluta trasformazione. Il colore vivo di scarlatto rimase fino alla metà del secolo XIX, come vedesi in una stampa a colori pubblicata, in tale epoca, tra i costumi carnevaleschi di Roma. La gonna si allunga sino alla caviglia, e prese il nome di "guarnaccia" . In seguito, la stoffa si cambiò in seta di colore carminiato oscuro, con numerosissime pieghe pressate, simili a un ventaglio semiaperto. Affinchè tali pieghe non avessero a sciuparsi col riporre la sottana nell'armadio, questa veniva sistemata a guisa di un ventaglio strettamente chiuso.
Con pregiudizio della linea estetica, venne abolita (sostituendola con una guaina che stringeva la veste) la cintura " antricella ", e in sua vece fu posto un nastro bianco, con relativo ficco.
Rimase ancora alla balze della sottana e all'estremità, l'ornamento di trina d'oro o d'argento e fu conservato il " corsaletto " però alquanto più grande del primitivo e di color carminiato oscuro, come la " guarnaccia ".
La scollatura differiva dall'antica poiché un merletto (chiamato " capezze ") velava, quasi completamente, le nudità del petto, che, a metà del seno, era coperto dal drappo ricamato in oro.
Da un lato del " corsaletto " si applicò un nastro bianco, simile a quello soprapposto alla guaina.
La veste fu lunghissima fin quasi a nascondere i piedi, che erano calzati con pianelle di velluto rosso, oniate di lamine di oro o di argento, le quali furono sostituite con calzature comuni.
Il capo, invece del turbante, era coperto da una " mantricella " a foggia di mantile ricadente, e tesa indietro e in avanti, ornata di oro, di arabeschi su fondo bianco, imitando la candida tovaglia usata dalle donne della Campania. I capelli s'intrecciavano con un nastro rosso, che terminava con due svolazzi, lateralmente ricadenti cui capo. Conservarono il nastro-verde, le zitelle, e pavonazzo, le vedove, fino alla metà del secolo XIX. Le treccie, così ornate, non scendevano più sugli omeri, ma, arrotolate intorno al capo, lasciavano il collo nudo o semi coperto dal capezzo; sopra questo portavano collane d'oro e un vezzo di perle costosissimo intorno alla gola. Gli orecchini, a foggia orientale, furono sostituiti con quelli a pendolo.
Il costume degli uomini Nettunesi, fino al secolo XIX, armonizzava con quello delle donne. Essi portavano abito oscuro, berretto e calzoni rossi, chiusi sotto il ginocchio; calze gialle, rosse o pavonazze e, ai piedi, la calzatura dell'epoca.

76) ABBANDONO DEL TRADIZIONALE COSTUME

L'abbigliamento caratteristico e pittoresco delle donne Nettunesi, è, al presente, del tutto scomparso.
Cambiati i tempi e gli usi, per un malinteso rispetto umano e per uniformarsi alfa moda comune, il sesso femminile ha abbandonato il tradizionale costume. Fino alla metà del secolo XIX vi fu un cittadino, che molti conobbero, custode fé-delissimo dei patri ricordi, il quale cercò, con ogni maniera e rimunerazione, che il costume si mantenesse; ma esso era destinato a sparire. Le antiche usanze sono ormai tramontate, e, con esse è cessata l'osservanza che le donne Nettunesi avevano per il loro ricco vestiario, già orgogliosamente indossato nelle religiose funzioni, nelle devote processioni, nei conviti, nelle nozze e al passeggio.
In quel vestiario smagliante riflettevansi un superbo bagliore, e storiche ricordanze. Ammiravasi insieme la dovizia delle stoffe e degli ori, unitamente all'avvenenza delle donne di bel sangue Nettunese. Assai suggestiva, nella voluta significazione, era, poi, la diversità nella forma e nei colori per le maritate, per le zitelle e per le vedove; e ben rispondeva il grave portamento delle prime, l'ingenuo sorriso delle seconde, e la composta austerità delle ultime. Nelle ricorrenze festive, a sera, prima del tramonto, le donne andavano a diporto con i loro famigliari, fino allo storico tempietto della Madonna di S. Rocco.
Qualche attempata comare di Nettuno, qualche figliuola incor memore degli antichi, domestici ricordi, conservano, chiuso
nell'armadio il caratteristico abito. Solo, però, nell'annuale solenne processione della Madonna di S. Rocco è dato ammirare il postume descritto, indossato da tre giovanette di sangue più o meno baracene, che, nella loro veste fiammante, con la bizzarra tovaglia sul capo e la candela in mano, precedono lentamente, con dignità disinvolta, la sacra Statua.
Ai ricordi spariti da questo ameno lido si deve aggiungere l'antica foggia della donna Nettunese

77) IL TEMPIETTO DELLA MADONNA DI S. ROCCO

Nel secolo decimosesto lo scisma di Enrico Vili in Inghilterra creò la setta degli iconoclasti, i quali attentavano al :ulto delle Sante immagini, spogliando le dei preziosi oggetti donati dai fedeli.
Di conseguenza, molti cattolici trafugavano le sacre effigi,
portandole al sicuro in Roma. È tradizione che, nel 1550, un naviglio partito dall'Inghilterra avendo a bordo tre statue in legno, raffiguranti una Madonna col Bambino, assisa tra i SS. Rocco e Sebastiano, naufragò, per una tempesta, nel lido prossimo al Loracina. I marinari, scampati da morte, collocarono, in voto, le tre ^Immagini nel luogo sacro, già da tempo costruito nei pressi. Da oltre il secolo decimosesto esisteva, infatti, il tempietto votivo, nominato dalla gentil donna Fiorentina-siccome innanzi riportai - " nel mezzo di un bosco riposto " e prossimo allo storico fiume Loracina.
Da quel santuario si evolvette quel rito principale paesano, che tuttora si manifesta nell'accennata processione, la quale (in pittoresco imponente corteo, ove sfoggia in bellezza la migliore gioventù di Nettuno) racchiude un colto e vivo significato di poesia e un carattere tradizionale di notevole importanza.

78) CONCA

roseguiva ancora la dinastia dei Colonna in Nettano, e nel loro dominio comprendevansi le tenute di Conca e di Campomorto, sebbene alla metà del Sec. XVI la prima appartenesse al S. Offizio e la seconda, sul principio del Sec. XV, al Capitolo di S Pietro.
Conca (antica Satrico) acquistata dal Pontefice Pio V, fu, da questi, donata al S. Offizio nel 1556.
E distante da Roma circa quaranta chilometri e appena dodici da Nettuno. La giurisdizione, nella tenuta di Conca, era presieduta da un Monsignore assessore e giudice ordinario, dal quale dipendevano i Potentati. Di questi, alcuni risiedevano in Conca, ed altri in Nettuno; ed erano sottoposti all'Inquisitore locale, che risiedeva in Nettuno o in Roma, ed in costante relazione con esso, che rivedeva le sentenze emanate.
L'Inquisitore assumeva anche il nome di Monsignor Tesoriere. Tanto per il S. Offizio come pure per il Capitolo di S. Pietro, risiedevano, in Nettuno, il cancelliere, il governatore ed altri ministri.
La tenuta estesissima, confinante con Nettuno e Campomorto, comprendeva molti pascoli. Eravi la grande ferriera con forno fusorio; e il congegno delle macchine veniva messo in moto dalle acque del fiume di Astura (che si chiamò anche fiume di Conca) ove, nel 417 di Roma, avvenne la sconfitta dei latini. La ferriera si riteneva dall'affittuario camerale del feudo di Nettuno insieme con quella di Campoleone (Manoscritto 1772).
Nel Castello di Conca vigeva il privilegio d'asilo per i delinquenti, fino al principio del secolo XIX, come sì rileva da un' indice di Editti, circolari e notificazioni della Comunità di Nettuno di quel tempo. In esso trovasi scritto: " Reintegrazione del privilegio di asilo " in Conca - Editto sulla disposizione per la giurisdizione ed asilo " nella tenuta di Conca ". L'indice suddetto comprende anche molte lettere scritte e registrate in Nettuno.
Il Castello di Conca si costruì sulle rovine di Satrico, che, anticamente - siccome fu detto - ebbe due Templi: quello della Dea Matuta ed un'altro votato a Giove, del quale, però, non esistono vestigia. Presso il Casale, fra due fiumicelli, sorgeva un colle di tufo, che, nel 1200, venne apprestato a difesa quasi contemporaneamente alle primitive fortificazioni di Nettuno.

79) CAMPOMORTO

La tenuta di Campomorto è distante da Roma quarantacinque chilometri e da Nettuno, circa quindici. Era estesissima ed aveva la Chiesa e il Castello, che appartenne ai Monaci di S. Alessio al-
l'Aventino, i quali, nel 1224, lo diedero in enfiteusi a Pietro Frangipane, come attesta il Nerini.
Nel 1358 passò ad un tal Giovanni Annibaldi e da questo ai Savelli, affittuari anche della Camera Apostolica in Nettuno e sostenitori dei diritti baronali.
In seguito, i Savelli combatterono contro Eugenio IV. Questo Pontefice fece demolire il Castello e, nel 1431, assegnò la tenuta ad un Castellano di S. Angelo che, nel 1447, sotto Niccolo V, pensò di venderla al Capitolo di S. Pietro per 9000 ducati in oro. Dopo tale vendita la tenuta prese il nome di Castello di S. Pietro in Formis ". I nominati Savellì, affittuari del feudo di Nettuno, nel 1598 costrinsero i vassalli a reclamare presso la Camera Apostolica proprietaria, per angherie ed aggressioni.
Nel 1494, in Campomorto avvenne la battaglia provocata da Ferdinando d'Aragona contro le truppe papali di Alessandro VI, di cui ho parlato nell'assedio di Nettuno. La vittoria rimase alle truppe Angioine, mentre l'esercito Napoletano capitanato da Alfonso di Calabria, fu sconfitto a Campomorto, riparando i superstiti in Nettuno. La mischia fu talmente cruenta che il terreno fu ricoperto di cadaveri, e per tal fatto la tenuta si nominò " Campomorto ".
Al pari dell'altra di Conca, godeva privilegio d'asilo; e l'indice, sopranominato, registrai! seguente Editto " Reintegrazione del " Capitolo Vaticano al godimento e privilegio di asilo in Campo-" morto " (Arch. Com. di Nettuno).
Gli Editti e Circolari inviati in Nettuno ed esistenti nella Comunità fin da qui tempo, sono prova di perfetta relazione fra la giurisdizione di Conca e Campomorto con quella di Nettuno.

80) MORTE DI M. COLONNA - LA CAMERA APOSTOLICA

l l.e Agosto 1584, il grande Marcantonio Colonna II, moriva a Medinaceli in Spagna. La sua fine subitanea die sospetto che egli perisse per veleno.
Con testamento da lui fatto il 16 Marzo dello stesso anno, lasciò erede il nipote Marcantonio Colonna III; figlio di Fabrizio, sposato ad una nepote di Sisto V; con patto, però, che egli stesse sotto la tutela di sua moglie, una Orsini. Per dieci anni consecutivi, questa donna, Felice Orsini, rimasta vedova del trionfatore di Lepanto, dominò in Nettuno. Non frenando l'avidità dei Vicari, rinnovava bandi e balzelli, tra i quali uno, che vietava ai cittadini di vendere il vino al minuto, riservando tale diritto al solo affittuario baronale.
Nell'Archivio Comunale di Nettuno si conservava una lettera della Felice Orsini, che fa menzione della coltivazione del lino nel territorio.

" Alli SSri. Mag.ci Car.mi la Comunità et uflìciali di Nettuno (nel testo) Magnifici Signori carissimi: Ho ordinato al nostro camerlengo di Nettuno che si compri da cento decine di lino per servizio di casa nostra con ordine, che lo paghi al prezzo che sarà giusto; et acciòche possa farci il servicio a soddisfazione, et havere il lino, che sia buono, ci è parso pregarvi con questa che vogliate aiutarlo con la diligenza et amorevolezza vostra alla quale noi saremo tenuti etstatesani Da Napoli 30di Settembre 1588-Vostraper giovarvi La sconsolatissima Felice Orsini ",

L'epiteto di " sconsolatissima " Felice Orsini aggiunse al suo nome, dopo la morte di suo marito.
A constatare la riprovevole condotta degli adepti di essa, giovar riferire un memoriale di sindacato e condanna, del 1594, contro un tal Mauro Falerio, vicario dei Colonna

: " Memoriale delle cose appartenente alla Comunità da trattarsi appresso con S. E, III.mo. Riferisce a S. E come il passato Vicario e stando al sindacato et havendo allegato li sindacatori suspettì per ordine di S. E. furon electi nuovi sindaci et di nuovo da quelli sindacato al cui sindacato si son truovatti presenti dui doctori de legi et venuto esso Vie. condennato, si vuoi appellare come s'è appellato et perché la Comunità si trova necessitata si per li gran pagamenti de taglioni et altri extraurdinarj che alla giornata accadeno. Et per rispetto di esso predetto Vie. ha fatto essa comunità molti dispendi li quali quando esso Vìe. havessi tenuto la billancia giusta si sariano schivate, pertanto supp.no S. E. si conceda che sia soddisfatta et paghi le sue condennagioni intieramente senza cercar de stracar conflitti la Comumità perché continuo è stato ; sollito che li Vìcari; hanno di tutto pagatto senza altra appellazione. Et questo sommamente si supplichi a S.

" crediamo che medianti li favori ch'esso Vic.fl ha et il braccio pensa straccarne conlitti perché non crediamo si muova peraltro rispetto havendo tenuto appresso il suo advocato. " E se pur S. E. sana contenta che se gli ametta la appellatione supplicarli ordene che esso vicario paghi prima le condenna zioni et spese,e interessi che la università per suo amore ha patito come le giustamente condennato accio con li nostri propri dannati non si muova lite contra ".

Seguono parole autografe di risposta in margine al memoriale con firma di Felice Orsini

"Ordiniamo al capitano nostro dì " Nettuno che mandi il processo et capì degl'aggravi] et condennationi a m. Remolo nos. aud.re intimate le parti et al med. aud. re ammettemo che visto il tutto summ.te etin una udienza spedisca la causa et faccia essegui la giust. Felice Orsini Scon. Roma ad. 17 Maggia 1594 (Arch. privato)."

Cessò ìl dominio dei Colonna sul feudo di Nettuno, allorché si effettuò la vendita di esso alla Camera Apostolica verso la quale Marcantonio II era debitore dopo il vittorioso successo di Lepanto. Il 13 Settembre 1594 Clemente Vili (Aldobrandini) e, per esso, la Camera Apostolica, comperava, da Marcantonio Colonna II e dalla Felice Orsini, il feudo di Nettuno insieme coi suoi uomini e vassalli, come se questi fossero armenti, mediante prezzo di scudi romani quattrocentomila.
Questo passaggio di dominio sottopose Nettuno ai voleri e all'arbitri di un Monsignore Tesoriere.
Non meno dolorose ed opprimenti furono, in seguito, le vicende del popolo di Nettuno, per colpa dei Signori Affittuari Camerali.





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