Nell'aver accennato a una preistorica Nettunia, nulla di nuovo dissi, giacché la tradizione accennata è palese ai dotti. Essa fonte si manifesta attendibile; ma molti veli la circondano. I flutti del mare implacabilmente flagellano superstiti rovine, portando all'oblio ogni remota memoria. Un'apatia di fronte al passato pesa sulle generazioni odierne, agitate da cause febbrili, e sollecitate da una visione soverchiante materialistica dell'esistenza umana. Sull'azzurro, delizioso mare, lungo la pittoresca riviera di Neptunia, termine d'Italia, resta ancora qualche piccola zona inviolata; là, si volge fisso lo sguardo, vinto da nostalgico pensiero, di chi senta ancora un palpito con animo appassionato dalle antiche memorie; e si resta silenziosi, pensando quanto grande ed interessante sia la storia di questo meraviglioso litorale. È una profonda meditazione, che il mare - avvertendo con fragore le onde spumeggianti - non giunge a turbare; e il pensiero tenacemente, risale la città che fu e alle scomparse memorie di essa. Il vasto territorio, privo della memorabile città, rimaneva deserto; solo il suo tempio al dio delle onde, come eterna testimonianza, si erigeva ancora per ricordare i fasti della sua importanza e grandezza.
10) L'ANTICA ANZIO E IL NUOVO LAZIO
Le potenti e bellicose tribù di Oenotro occuparono il territorio di Nettunia, ricco di selve salubri, di terre feconde e di ubertosi pascoli. Esso divenne Volsco, come assunto dall'Etrusco (Osco-velenoso serpente). A tal voce, premettendovi " Voi " (antico), si ebbe a formare l'appellativo " Volsco ".
Ricordiamo che il nuovo Lazio estendevasi in lunghezza, dalla foce del Tevere, presso Ostia (Tirreno) seguitando per il lido del mare, sino al Garìgliano (ITRJ), in misura doppia, cioè, del vecchio Lazio. Molti popoli vi abitarono. Nei pressi del Circeo si stanziarono, però, i Volsci, i quali, in seguito, uniti ai Latini, feroci d'animo, guerreggiarono contro Roma.
Padroni della terra Nettunia diedero principio alla costruzione dell'antica Anzio, che Dionisio d'Alicarnasso chiama Volsca: " Anzio nobilissima, una volta città dei Volsci ".
L'etimologia del nome di Anzio si attribuisce a quello di Anteo, figlio di Ulisse e della maga Circe, che aveva la sua dimora in un' antro del Circeo. 11 nome proverrebbe così da origine mitica. I Volsci intrapresero la costruzione di Anzio con vari edifici; ma la maggior grandezza ed estensione della città si ebbe in seguito. Lo storico Giulio Solino la vuole edificata da Ascanio figlio di Enea così esprimendo: " Dipoi furono costruite, da " Ascanio Alba, Fidene, Anzio ,). Plinio la chiama città dei Latini, discosta da Ostia 260 stadi.
Questa nobile ed importante città fu dominatrice della preistorica terra Neptunia. Si estendeva sul ripiano dei dirupi che dominano la costa a partire dal luogo denominato " Vignacce "; proseguiva con edifici, templi e terme verso l'odierna Villa " Bell'aspetto " ove era l'acropoli Volsca; indi a Nettano (Castello), e così, fino ad Astura.
Stava sul mare, ma a piccola distanza da esso, in luogo facile a difendersi. (Nibby)
Nel luogo nominato Caldane (antiche terme Anziate) cominciavano le ville, che proseguivano fino alla città. Ove ora trovasi il castello di Nettano eravi il tempio al dio del mare; a levante di esso, nel basso, stava il celebre porto Cenone (Coeno) confinante, con lo storico fiume Loracina nominato da Livio; veniva poi la città di Satrico (Conca) e Astura; luoghi che in seguito illustrerò.
Ai Volsci, dominatori di sì vasta zona, saliti ad una opulenza e grandezza per la navigazione e commercio, e ad imitazione degli Etruschi, divenuti anche pirati, ricchi di navi da guerra e di conquiste, sorse nell'animo lo spirito di indipendenza e fierezza, che non degenerò mai in servitù. Orgogliosi del loro dominio opposero salde resistenze agl'invasori.
Tarquinio il Superbo, sbalzato dal trono, indusse i Volsci (insieme coi Latini) a scontrarsi con 1' esercito Romano sul lago Regillo; ma, dopo, cruenta battagliala sorte non fu loro benigna poiché, in successivi combattimenti, perdettero le città di Longula e Pollusca, situate, la prima, nella tenuta " Buon Riposo " la seconda presso il " castello della Mandria "; ambedue prossime a Velletri. Perdettero poi Corioli città, dalla quale C. Marcio assunse il nome di Coriolano, avendola valorosamente conquistata a trionfo di Roma. Questo duce, in seguito, saccheggiava la terra Volsca Anziate e la città di Anzio.
11) I VOLSCI CONTRO ROMA CORIOLANO
Ma un tale saccheggio fu, per gli Anziati, foriero di valorose vittorie che fecero trepidare i Romani. Coriolano, non adempiendo l'obbligo di rendere al pubblico erario il ricco bottino volle distribuirlo fra i soldati. Un tal fatto fu reputato delitto. Inoltre, accusato di aver patteggiato per i patrizi e non per i plebei, circa l'elezione dei Tribuni, fu decretata contro lui la pena di morte, che evitò, fuggendo. Quindi, il popolo lo votò a perpetuo esilio. Non si fiaccò l'animo di Coriolano poiché, tramando nel cuore la vendetta pensò di suscitare guerra contro i Romani.
Recatesi in Anzio, rivale di Roma,presso i Volsci, poco prima da lui debellati, offrì loro la spada per combattere contro la sua stessa patria, ingrata.
Tale racconto ha molti elementi fantastici; e sono forse infondati i particolari della tradizione. Coriolano, conquistatore, è una figura leggendaria; ma, come uomo, campione della gioventù patrizia, cospiratore contro il tribunato della plebe, e da questa condannato, è figura storica.
Travestito da milite Volsco, giunse a sera in Anzio e si recò alla casa di Azzio nobile guerriero, nemico acerrimo dei Romani.
Ricevuto cortesemente, sedette presso il focolare sacro, mentre i famigliari avvertivano Azzio dell'improvvisa visita dì un uomo rigido, severo che, nella propria maestà, incuteva timore.
Azzio, fissato lo sguardo sul volto dell'ospite, lo interroga. Coriolano proferisce il suo nome significandolo quale unica ricompensa dei Romani alle compiute prodezze e manifesta che, esiliato da Roma, voleva vendicarsi dell'onta ricevuta, ponendosi agli ordini e all'arbitrio di Azzio, e promettendo che, con altrettanto valore e coraggio avrebbe riparato all'immenso danno del saccheggio. Azzio assicura di tener conto del pegno di tanta promessa e, conoscendo il valore di Coriolano, dimenticando quanto egli fece a danno dai Volsci, l'accoglie come duce, nelle file del suo esercito, dimostrandosi grato e riconoscente.
I due guerrieri divisano di trovare pretesto per muovere guerra ai Romani. Sapevasi, che in Roma, dovevano istituirsi giochi e spettacoli pubblici; e molti popoli dovevano accorrervi. Si propose allora che da Anzio, una moltitudine Volsca sarebbesi recata nell'Urbe, dando sentore di essere arrivati per assalirla di notte e invaderla. I consoli Romani avrebbero agito contro i Vosci e dato motivo ad Azzio di dichiarare la guerra. Si eseguì la proposta e il piano ebbe compimento.
II popolo cacciò i Volsci da Roma. Azzio, riunitili a Porta Capena, rammentò ad essi i danni arrecati dai Romani, l'onta, ignominiosa per essere da questi stati cacciati rudemente, come scellerati violatori di abitazioni e del culto dei Numi; e così li stimolò alla vendetta. Azzio e Coriolano, duci supremi, si accingono a fare issare stendardi di guerra, tutto si appresta per la battaglia e si inviano ambasciatori perché Roma restituisca quanto aveva usurpato ai Volsci.
Roma altera, forte nelle sue armi, ricusa. L'esercito Volsco si inoltra, saccheggiando. Al presidio e alla città di Anzio resta Azzio, mentre Coriolano conquista il Circeo, colonia Romana; l' oltrapassa e, unitesi con un formidabile corpo di altri guerrieri, conquista Satrico, Polusca, Longula e Corioli, città, che, per suo valore, furono dei Romani; quindi proseguendo e saccheggiando, fatto un gran numero di prigionieri sì avvicinava alle porte dell'Urbe.
I Romani, presagio il pericolo, richiamano Coriolano; il Senato si oppone; si pensa alla difesa. E poiché le sorti dell'offensiva pendevano minacciose, s'inviarono addetti consolari per trattative di pace, offrendo il ritorno in patria al ribelle, il quale rifiutò, imponendo la restituzione di quanto si era usurpato ai Volsci
Sopravviene una tregua. Durante questa, un senso dell'incertezza invade Coriolano; forse l'amor patrio, che forte alberga nel cuore, lo rende esitante.
Azzio se ne avvede; e lo eccita. Il duce, allora, fermo al giuramento fatto sui lari ospitali, ricompare di nuovo più minaccioso sotto le mura di Roma; pone il campo, e l'assedia.
Alti personaggi mallevadori vanno di nuovo al campo Volsco. Coriolamo resta inflessibile; s'inviano ancora sacerdoti e custodi delle divinità invocando, in nome dei Numi, che si desista dall'assedio. Neppur questo valse a commuovere il fiero animo del transfuga.
Perduta ogni speranza Roma rassegnata attendeva la propria sorte. Il popolo tumultava, e correva ai templi a supplicare gli dei per la salvezza della città. La disperazione invadeva ormai gli animi di tutti. Nel frangente, alcune matrone, con a capo Veturia, madre di Coriolano, si avviano coraggiosamente al campo volsco Avvertito, il duce rimane inflessibile; ma, nel vedere, poscia, tra le angosciate donne la madre triste e piangente, si fa avanti, si turba e commosso, si getta fra le sue braccia. Veturia, con animo ardito, frenato il pianto, abbandonato l'amplesso interroga, " è il figlio che l'abbraccia, o un " traditore della patria, che vuole misera e schiava la sua madre, e il patrio tetto ".
La parola materna, potente strale, vinse l'animo di Coriolano, superò l'orgoglio ferito con la gloria raggiunta; infrange il giuramento e debellò il ferro micidiale e la vendetta. Coriolano, sollevando la genitrice, baciatele l'umido ciglio, l'abbraccia e dice: " Madre, hai vinto; tu salvi Roma, ma perdi tuo figlio! "
Tolto l'assedio, Coriolano torna in Anzio. Per pubblico editto è dichiarato traditore, e, quantunque cercasse difendersi con eloquenza, non ottenne scampo. Da storici afferma dubbiosa la sua fine: se sia siato ucciso, ovvero esiliato.
12) IL PORTO CENONE
I fatti di Anzio Volsco addimostrano quanto potente e battagliero fosse quel popolo.
Nel 285 di Roma, il console Numicio stimò desistere dall'espugnare la città di Anzio, ove gli abitanti eransi fortificati, e si volse, invece ad attaccare con poderoso esercito il porto navale Anziate, chiamato Cenone (Coeno). Assunse questi tal nome da un castello vicino e fu stazione celebre.
Nella formidabile pugna, fu rovinato il porto, demolito il castello e incendiate le navi Dopo un secolo venne ricostruito e fu ricovero delle navi Anziati da preda, che, insieme con quelle Etrusche, approdavano fino alle coste della Grecia.
Come popolo soggetto ai Romani per ordine del Senato, subì il sequestro di tutte le navi; e i rostri di esse,portati come trofeo in Roma, adornarono il Foro ove si discutevano i pubblici affari e i maggiorenti facevano allocuzioni al popolo.
Distrutto il naviglio, il porto fu abbandonato e non se ne ebbe, per lungo tempo, memoria, a partire dal III secolo a. C. Sicuramente fu distrutto; tanto che il geografo Strabene, ai tempi di Augusto, nomina la città di Anzio: " città senza porto ".
Da storici ed archeologi, ad eccezione del Nibby, è confermato che il porto Cenone Anziate era nel basso del Castello di Nettuno, dalla parte di levante, e prossimo al fiume Loracina, Dalla foce di questo fiume fino al castello di Nettuno, per oltre cento metri entro il mare, esistono strati di profonde costruzioni, ricoperte dalle onde, e al termine di queste mine le acque hanno una profondità rilevante.
Il Ligorio, vissuto nel sec. XVI, dichiara aver osservato, a suoi tempi, gli avanzi e il punto ove erano assicurate le navi.
Il porto Cenone, col suo piccolo castello, secondo Livio e Dionisio d'Alicarnasso, erano lontani ed isolati dalla città di Anzio. V'erararsenale, il faro perii mercato e deposito di viveri, i pozzi per il grano, molti dei quali furono visti ricolmati da poco tempo nell'attuale piazza Umberto I, già chiamata da secoli, piazza dei Pozzi in Nettuno.
Anche lo storico Cluerio stima che il Porto Cenone fosse nell'intervallo tra l'attuale Castello e il fiume Loracina.
Cito in ultimo il Volpi, che scrisse: " II porto Cenone Anziate " era nel luogo ove ora è il Castello di Nettuno, le sue rovine e " vcstigia, che fino alla presente età (sec. XVI) si vedono, indubbiamente appartengono a detto Porto. " Lo stesso asserisce essere stato, nei pressi del Cenone; il Tempio di Esculapio e di Apollo, al quale attribuisce il seguente fatto favoloso: "Un morbo contagioso " costrinse i Romani a consultare gli oracoli sibillini; fu risposto che " si trasportasse, dalla città Epitauro del Peloponneso, in Roma, il " serpente ivi adorato come simbolo del culto. Il serpente scortato " da parecchie navi fu dalla Grecia portato al tempio Anziate di " Esculapio; esso, uscito dalla nave, solcando il lido arenoso, " sdrucciolò nel vestibolo del tempio, che era non lungi dal porto, " ove erano le navi greche apportatrici. Nei tre giorni della sua " dimora nel tempio, il flagello del contagio cessò in Roma; il " serpente tornò nella nave che volgeva la prora verso Roma."
Nei pressi del Cenone fu rinvenuta una lapide, (riportata testualmente dal Soffredini, nella sua storia) sulla quale accennasi al foro del mercato e ai pozzi annonari, di cui fu detto in anteceden-
za.
Tito Livio, parlando dell'espugnazione del Porto Cenone compiuta dal Console Numicio, lo dichiara distaccato dalla città di Anzio (Lib. II63) e Cicerone, scrivendo ad Attico, pone il castello del Cenone lontano dalla città di Anzio (ad Attico Leu. IV. 8).
13) FIUME LORICINA
La solatia, profumata riviera del glauco mare Nettunese, soggiorno festevole di luminose e vivide tinte, circonfusa da un'atmosfera limpida e salubre, si estende, a levante, in una meravigliosa distesa di campi. Lo sguardo scorge un panorama sempre variato dell'immensa pianura, fino ai Lepini; una mirabile coltivazione lussureggia nella fertile terra, arricchita da una miriade di raggi d'oro, a guisa, d'un paradiso terrestre o di un regno di fate. Volgendo lo sguardo verso Nettuno, risalta maestosamente il castello con le sue pacifìche torri, sopra un fondo arancione, che il sole indora fino all'estrema ora del giorno.
Non poteva sfuggire tanta suggestiva bellezza ai primi abitatori, i quali, nei pressi del castello e del porto Cenone, costruirono ville e palazzi.
Secondo la notizia dataci da Livio, vicino al tratto, ove scorre il rivo Loracina, era la villa di C. Lucrezio.
Narra lo storico che, contro il detto Pretore, circa l'anno 583 di Roma, si promosse un giudizio. Il magistrato, sotto accusa dei tribuni del popolo, per estorsioni, fece credere che urgenti affari pubblici gli vietavano di presentarsi allo svolgimento della questione. Si seppe, invece, che egli pacificamente dimorava nella sua villa in Anzio, nei pressi del fiume Loracina e, col bottino ricavato dalla Grecia, pensava a condurre l'acqua del detto fiume nella sua proprietà, spendendovi 32500 sesterzi (489123 lire di nostra moneta).
Il Nibby conferma che il ruscello odierno attraverso la strada di levante (vicino agli stabilimenti balneari), era il Loracina nominato da Livio; e forse, anticamente era ricco di acque, le quali, nel volger dei secoli, si sono probabilmente diramate altrove, per la campagna. Deducesi ancora che l'acqua di detto fiume era di buona qualità; come si argomenta dal fatto, per cui il Pretore C. Lucrezio pensò di derivarla alla propria villa.
14) SATRICO
Dalla strada dell'amena pianura campestre, a levante del castello di Nettu-no, fra due ali di ubertosi vigneti traversando boschi e doviziose seminagioni, passato Campoleone dopo circa dodici chilometri di percorso, si giunge al casale di Conca e, quindi, alla vicina tenuta di Campomorto, località che in seguito illustrerò.
Intorno al casale di Conca, posto nell'aperta campagna, fertile e rigogliosa si estendeva una città preistorica: la celebre Satrico, non meno interessante di Nettunia, con la quale ha relazioni e analogie.
Se positivi risultati archeologici potessero precisare l'epoca della fondazione di Satrico, si desumerebbe che la sua origine e contemporanea alla città Nettunia o di poco posteriore.
Rilevasi, tuttavia, dalle mura superstiti che Satrico, al pari di Neptunia, appartenne, da tempi preistorici, a popolazioni Italiche. Alcuni la reputano esistita prima che Remolo segnasse il solco dell'eterna città (Nicolai). Lo storico Fioro la vuole fondata da popoli dell'Arcadie (Pelasgi), e la nomina provincia. Dionisio d'Alicarnasso la ritiene città Volsca, perché dopo l'occupazione di Fidene, nell'Assemblea dei Latini,che decretò la guerra a Roma, v'intervenne il popolo di Satrico.
Prevalendo la, fortuna, Satrico fu presa dai Quiriti e, dall'esule Coriolano, riconquistata nel 226 da Roma, siccome già fu detto.
In seguito, i Volsci perdettero di nuovo laloro città; ma (dopo l'incendio di Roma, operato dai Galli) ritornarono padroni di essa; e ne formarono una fortezza a difesa delle terre di Satrico, Neptunia e di Anzio.
' Nel 330 di Roma: Latini e gli Ernici, chiusi entro la cinta della città, furono vinti dai Romani. Inaspriti, i Volsci reagirono contro gli usurpateli, e unitisi agli Anziati e ai Prenestini, espugnarono di nuovo Satrico. non risparmiando neppure il culto degli Dei; restaurarono la città e vi abitarono coi Latini. Sopraggiunta una discordia tra loro per una pace immatura, che volevasi fare con Roma, i Volsci capitolarono; ma i Latini sfogarono il loro furore contro Satrico, e la distrussero, risparmiando il solo tempio della dea Matuta. Narra Livio che si udì una voce, uscita del Tempio, orribile e spaventosa, la quale minacciava sterminio a chi avesse osato dar fuoco al sacro edificio.
Proseguendo la discordia tra Latini e Volsci, i Romani ripresero Satrico salvando il tempio della dea Matuta. Nel 414 di Roma i Volsci riconquistarono Satrico e vi posero il campo, ma i Romani se ne impadronirono di nuovo e vi abitarono con i Sanniti.
La lotta tremenda, tanto tempo durata per l'odio dei Volsci contro i lor più fieri nemici, ebbe fine con la distruzione completa di Satrico, operata da Siila.
La fortuna di Roma trionfava, al di sopra dei diritti di quei popoli, che, per le conquiste delle lor terre erano costretti a divenir sudditi.
Plinio annovera Satrico fra le cinquantatre città dell'antico Lazio di cui non rimase vestigio.
15) TEMPIO DELLA DEA MATUTA
Famoso fu, a Satrico, il tempio della Dea Metuta. Questa divinità assumeva il nome anche di Albunea, sibilla che dalle selve Tiburtine, mandava oracoli; fu chiamata Satriana o Leucatoe, balia di Bacco, allevato nel sacrario di Nisca. Si facevano sacrifici alla dea, alle donne e matrone, escluse le schiave e le ancelle. In magnifico corteo, esse, fra tirsi e tamburi, coronate di rose e di fiori bianchi, gialli e rossi con pompa solenne offrivano una focaccia abrustolita; e proseguivano quindi, con i sacrifici. Nel momento della cerimonia una serva veniva percossa con verghe.
Importantissima è stata, nella località di Conca, la scoperta del tempio, assai ragguardevole per la storia e l'archeologia. L'avvenimento risale al Gennaio 1896, ad onore degli archeologi Bernabei e Borsari, ispettori dei Musei. Interessanti iscrizioni, relative al tempio furono rinvenute anche nella vicina tenuta di Campomorto.
Il tempio era nella località della Ferriera di Conca, in quel colle, da cui scaturisce una fonte di purissima acqua.
Vennero alla luce le mura di fondazione, frammenti futili, e antefisse con motivi muliebri, di stile arcaico.
Esplorata una fossa, si rinvennero ammassati oggetti di carattere votivo; fìbule, ornamenti di bronzo, vasi fìttili precorinzi e corinzi, buccheri finissimi. e materiale analogo a quello rinvenuto in varie tombe Etrusche nelle località Laziali, in rispondenza al secondo periodo del commercio Fenicio (Vili sec. a. C.)
Il tempio soggiacque a vari cambiamenti di costruzione.
La forma primitiva fu quella tuscanica, cella rettangolare che formava lo strato più basso e portico alla fronte.
Venne edificato col tufo delle cave locali; lo spessore era piuttosto esiguo (caratteristica dei templi Tuscanici VII sec. a. C.) mentre la costruzione susseguente veniva a presentare caratteri più sontuosi, di stile greco.
Il maggiore splendore dell'edificio avvenne nei successivi riadattamenti. Cambiandone posizione, si costruì la cella santuaria, provvisoriamente, per non sospendere il culto, mentre fervevano i lavori di riedificazione.
Si adottò quindi una forma greca, perittera con un solo ordine di colonne; primitivo esemplare del genere, che si conosca nell'Etruria e nel Lazio. Seguirono altre modificazioni; al peristilio venne aggiunto un secondo recinto, sopra cui erigevasi un doppio ordine di colonne, sullo stile d'un tempio dittero.
I suddetti archeologi lo descrivono dunque, minutamente: dapprima fu tempio tuscanico con cella rettangolare di carattere transitorio; secondariamente, tempio perittero con cella rettangolare; pronao di carattere anch'esso transitorio; finalmente, tempio di maggiore dimensione, dittero.
16) COROGRAFIA E DISTRUZIONE DI SATRICO
È indubbiamente confermato che lalocalità dell'odierna tenuta di Conca sia stata la sede della celebre preistorica città di Satrico. È accertato il fatto che in questa amena riviera, memore di tanta grandezza, sopraggiunti in Roma, nel VII sec. a. C., artisti Greci, diffusero, nella terra Nettunia, il gusto della loro squisita architettura, siccome fa testimonianza la scoperta del tempio della dea Matuta.
È cosa incerta, però fino a quando questo si ergesse.
Si sa che nel 206 di Roma (Livio) un fulmine colpì l'edificio e lo deteriorò; nel 348, pur nella distruzione di Satrico, venne rispettato.
La città ebbe il maggiore incremento in vicinanza del tempio, che n'era l'acropoli. Nella contrada " Bottacci ", e in quella di " S. Lucia ", si riconobbe una vasta necropoli in cui furono esplorate varie tombe, i cui bronzi sono arcaici. Lungo un tratto di via romana, nella tenuta di Campomorto, furono rinvenuti ruderi di monumenti sepolcrali. Tanto nella tenuta di Conca, che in quella di Campomorto, si scoprirono molti avanzi di ville romane dei primitivi tempi dell'Impero.
Distrutto il tempio, passò all'oblio la celebre città di Satrico, compresa nella terra di Nettunia. Una sì vasta zona dell'antico Lazio immensa pianura interrotta dal verde di ubertose coltivazioni, e dalie chiazze brunastre di colossali selve, rimase abbandonata. Ogni vitale attività, vi cessò, prima dell'era volgare.
17) ANZIO, COLONIA ROMANA
Un'era fausta per Roma, orgogliosa delle sue conquiste dileguò la gloria e la grandezza di Anzio Volsca, i cui fasti ricordavano ai Romani numerose lotte e grandiose gesta guerriere.
Roma, attraverso i secoli, consolidò il dominio che volta per volta, assorbì i popoli; e tra questi i Volsci e i Latini, importando novella civiltà. Così parlano i commentali di Giulio Cesare e i fasti dell' Imperatore M. Aurelio.. costituita la repubblica, e mutate le condizioni economiche, sorte le guerre civili, Anzio, per aver favorito le fazioni di Siila, soggiacque e perdette l'indipendenza. In tal periodo eranvi continue discordie tra senato e popolo. Il lavoro dei campi languiva; si aggravano i contribuenti e molte terre rimanevano incolte.
I Romani non avevano altro di mira che la guerra e le conquiste; si viveva nella crapula e nello sfarzo. I patrizi, avidi ed avari, usurparono le terre dei vinti; e l'agricoltura fu quasi distrutta
Le colonie dei Romani erano semenzaio di soldati e di istituzioni politiche: come sentinelle avanzate dovevano difendere dai nemici. Roma, che, arbitra sovrana della guerra, considerava i vinti una genia abbandonata dagli Dei, e perciò destinata a servizio del vincitore.
Così la terra Volsca di Anzio e Nettunia fu sottomessa, divenne colonia, e gli abitanti furono obbligati dai vincoli della sudditanza
Non si beneficavano che cittadini Romani; continue querele giungevano al Senato, da parte del Vosci e dei Latini, maggiormente colpiti con la privazione delle terre. I campi circostanti all'Urbe, essendo insufficienti al fabbisogno dei suoi abitanti, usufruivasi di quelli dei popoli vinti.
Nondimeno i dominatori procuravano all'antica Anzio un'epoca di risorgimento. Il soggiorno piacevole e ameno nella solatia riviera, allietata da un perenne sorriso di natura, attrasse l'avido sguardo di Roma, che, nella lusinghiera incantevole terra di Anzio e Nettunia, pose dimora. Vi ospitarono patrizi consoli, magistrati e molte nobili famiglie; venne abbellita, di splendidi edifici, teatri, templi e ville opulenti Fu recinta da un aggere con solide mura, che avevano, a ponente la " Porta Aurea " situata in prossimità del luogo detto " Quartierone. "
A testimonianza, dello storico Strabene e a tenore di molte lapidi ritrovate, furono nell'epoca, le ville ed abitazioni di Claudio Medullino, della famiglia Settimia, Inolesia, Auzia, Aufidia. Anti-stia. Vi dimorarono, inoltre, le famiglie dei Flavi, degli Ottavi e quella dei Fabi.
18) CASA DI CICERONE
Cicerone nome che memorabile ed eterno rimarrà nella Storia ebbe in Anzio una casa.
È dubbio se essa fosse nel centro della città o nelle vicinanze di Nettuno: si conosce soltanto che era situata non molto distante dalla villa, ch'egli aveva in Astura. Questi luoghi sono, a giusto diritto, orgogliosi di avere ospitato un tant'uomo.
Era egli alto di statura, magro, grave e pur sereno nell'aspetto, frugale, studiosissimo. Dopo le grandi fatiche di una vita esuberantemente spesa nelle cure politiche, venne proscritto, e, quindi, ucciso dai sicari di Antonio. Filosofo, maestro sapiente, di animo nobile, dotato d'ingegno non meno gagliardo della sua eloquenza, i suoi detti si diffondevano ovunque, e tuttora s'impongono all' umana deferenza.
Giulio Cesare ambiva di conoscere tutte le opere di Cicerone, che, numerosissime, sono eterno patrimonio della civiltà Latina. Possedeva varie ville, nel Tuscolo, in Arpino sua patria, in Fonnia, a dima. Pozzuoli e Pompei, ma le dimore predilette erano la casa di Anzio e la villa in Astura. Nei suoi scritti, loda Anzio città, in quei tempi popolata da numerosi cittadini, cavalieri e uomini insigni per ingegno e liberalità. Egli esclama impetuosamente: " Bramo meglio vivere ad Anzio che in Roma ".
I dispiaceri procurategli dalle sciagure della Repubblica, lo indussero a recarsi in Anzio e in Astura; non volendo assistere alla pubblicazione della legge agraria di Cesare, tranquillamente dimorò nella sua villa in Astura nell'aprile e nel maggio del 694 di Roma, preferendo starvi nella dolce primavera.
Aveva la maggior parte dei libri in Anzio, e scriveva: " Pertanto mi ricreo con i libri, di cui in Anzio ho giuliva e numerosa " copia, o mi diletto a numerare i flutti del mare ".
Dopo patrocinata la causa di Milone, venne in Anzio. Aveva già riordinata la biblioteca; dopo il patito esilio, incaricò Tirannione di fare il catalogo, considerando lo studio come alto conforto alle sofferte calamità; Tenne, poi, per bibliotecari Dionisio e Menafilo, in aiuto di Tirannione e da questi richiedeva il massimo ordine, inteso a " dar lo spirito alla casa ". Quella raccolta di volumi fu, in seguito, acquistata da Lepido, avendone, Cicerone, un'altra in Astura, ove più tranquillamente poteva attendere agli studi:
"Lepido ieri commise a me una lettera in Anzio, ove era la mia casa, che ora lui ha, avendola noi venduta ".
Da Anzio scrisse molte lettere; e se ne numerano ventisei. In una di esse, indirizzata ad Attico, che esprimeva desiderio d'acquistare un'abitazione in Anzio, rispondeva di non riuscire a trovarla, per la numerosa popolazione accorsa nella deliziosa riviera. " Non posso trovarti - gli scrive - abitazione in Anzio. Nel vicino castello ve n'è una, ma è dubbio se si vende; ed è prossima alle nostre case,.... questo posso sapere,... del resto non v'è luogo più quieto, più sublime, più ameno. Da questo scritto sì rileva che il vicino castello "
doveva essere quello del Cenone in Nettuno o quello in Astura; e la casa di Cicerone, prossima ad uno di essi. Non occorre altro elogio a questa terra ammaliante. L'espressioni di Cicerone fanno testimonianza sulle bellezze naturali del ridente lido e sulla mitezza salutare del clima.
19) VILLE DEI ROMANI E SEPOLCRI
Dopo l'uccisione di Cesare, Cicerone si recò in Anzio nelle abitazioni di Bruto e di Cassio, che ivi dimorarono; vi andò per trattare urgenti cose della repubblica, circa il partito che doveva prendere Bruto, nello scopo di salvarla dalla tirannide. Dell' assemblea, con a capo Cicerone, facevano parte la madre, la moglie e la sorella di Bruto: Servilia, Porcia e Tertullia, sposata a Cassio. Fu molto discussa l'occasione di uccidere Antonio; e Cassio aveva severe parole per Decimo Bruto. Tutto ciò sta a provare che Bruto e Cassio ebbero le loro abitazioni in questa riviera. E infatti, nella lettera ad Attico, Cicerone scriveva: " Venni ad Anzio avanti gli Idi. Bruto, " allegro della nostra, venuta ecc... ".
Non poche ville e abitazioni di Romani si estendevano dall'antica Anzio ai pressi di Nettunia; come pure grandiose terme, una delle quali, da poco rinvenuta. Si nominano la villa di Caio Lucrezio vicino al fiume Loracina, quella di Pomponio Attico e quella di Lucio Verazio Afro, questore di Anzio. Questi dimorava nei pressi dell'odierna contrada S. Biagio in Nettuno. Ivi fu rinvenuto un cippo eretto sopra il di lui sepolcro, che l'archeologo Armellini descrive.
"II nostro personaggio dopo aver militato, forse, nelle corti Pretoriane, compiti gli stipendi, fu dapprima nel numero dei veterani; poscia, tornato in Anzio, a quei tempi celeberrima colonia Romana, entrò nel corpo dei decurioni, finché pervenne ad essere questore. È noto infatti che Anzio ebbe, come tutti gli altri municipi e colonie, i suoi decemviri, quatorviri, decurioni, pretori, e questori, tra i quali, se non erro, il nostro Verazio Afro è il primo che ci presentano le memorie epigrafi Anziati. I nomi che seguono nell'iscrizione del cippo sono gli eredi del nostro questore, tutti appartenenti alla milizia, dei quali i primi due occupano la carica di speculatori della VII Coorte pretoria; i quali formavano sotto l'Impero, un corpo d'uomini scelti addetto alla persona del duce dell'esercito marciando al medesimo. Idue ultimi sono legati nella VI coorte dei vigili"
La biografia fu desunta dal cippo sepolcrale, che tuttora esiste presso l'autore del presenta scritto.
20) GROTTACCE E
TORRE DEL MONUMENTO
Passato il ponte di Foglino, opera costruita nel XVIII sec. d C., si giunge alle grandiose rovine, che oggi si denominano Grottacce. Si dice che ivi fosse la villa di Locullo (Nibby). I ruderi presentano massi quadrati e mura di opera reticolata, abbastanza rilevanti, che facevano parte di un'antica, sontuosa costruzione romana, degli ultimi tempi della Repubblica. Con molta certezza, quindi, i resti possono attribuirsi ad una villa Lucilliana. Lucullo, stratega contro Mitridate del Ponto, padrone d'ingenti somme ricavate dalle città vinte, raffinato nell'arte greca, studiosissimo e ricco di biblioteca e di gallerie, finì col togliersi dalla vita pubblica per dedicarsi esclusivamente all'arte della mensa, ove faceva apprestare squisite vivande. Le imbandigioni, che offriva agli amici erano sontuosissime, e sede speciale e prelibata era la sala di Apolline, ove per ciascun convito spendevasi una somma, prossima in valore normale, alle quarantacinquemila lire. Lucullo fu contemporaneo a molti romani, che abitavano in Anzio; e aveva molta relazione con Cicerone, che lo difese contro Quinto Ortensio. E, se la smagliante bellezza della riviera avvinse l'austero animo dell'oratore l'epicureo Lucullo si compiacque forse dimorarvi, per pascersi di grasse murene d'Astura.
A circa sei chilometri, a nord, da Nettuno si osserva un magnifico monumento antico, tombale che volgarmente chiamasi torre del Monumento o " Torraccio ". Il Nibby (1831) lo descrive minutamente.
" Lasciando dopo il primo miglio la strada romana a sinistra e seguendo l'andamento di una via antica di comunicazione della quale incontrasi di tratto in tratto vestigia e che probabilmente era quella che andava a raggiungere la via Appia presso le tre tabeme, ove ancora si vede la diramazione. Il monumento appartiene agli ultimi tempi della repubblica ed è costrutto di un reticolato (opus reticolatum) analogo a quello di Astura, con legamenti di tegole alternate come fu notato in Anzio, alla villa Corsini. Esso presenta tre corpi diversi, uno sopraposto all'altro; il basamento è un gran dado quadrato di venti piedi per ogni lato, sul quale, sopra uno zoccolo, innalzasi una mole rotonda, e sopra questa, una specie di tempietto, pure rotondo, esternamente decorato di mezze colonne; esso terminava in una calotta o cupola sferica; tutto era intonacato a stucco in modo da indicare come se fosse costrutto di pietre; nel lato occidentale poi, dove passa la via, rimane ancora l'incassatura della iscrizione che aveva tre piedi antichi di lunghezza e due di altezza. "
Dal Nibby si nota, dunque, che la costruzione è contemporanea all'epoca di Cicerone e che il monumento aveva un tempietto. La lapide (e forse anche l'effigie della persona defunta) era posta nella parte occidentale. Tutto fa supporre che fosse il sepolcro di TuIIia, figliuola di Cicerone.
Questi, nei primordi della congiura contro Cesare, dopo che suo figlio si separò da lui per andare in Atene perdette anche l'unica figlia Tullia, morta di parto, dopo il divorzio dal marito Dolabella, il cui perverso umore amareggiò grandemente la giovine sposa. Cicerone adorava la figliuola e divideva con lei le pene. Non valsero i suoi amici filosofi a consolarlo di una simile perdita. Il dolore e la tenerezza di padre gli ispirarono l'idea di fabbricare un tempio a Tullia a mo ' degli antichi, che consacravano e deificavano eccellenti personaggi, loro erigendo un sacro edificio. Tale idea sopravvenne a Cicerone, mentre era in Astura.
Il monumento accennato, secondo il Nibby, presenta tutto il carattere particolare dei templi votivi ove solevasi porre il Nume, (cui venivano dedicati) rivolto alla parte occidentale, perché i fedeli, prostrati avanti ad esso, pregassero con lo sguardo verso oriente al sorgere del sole.
Cicerone avvilito per la morte della figliola e angosciato per il tracollo della repubblica, che di pari ardore amava, ritiratesi nella sua villa in Astura e, nel desiderio d'aver vicina la salma di Tullia, ebbe a costruire il tempio agognato, di cui avrò ancora occasione di parlare in successivo argomento.
21) ASTURA
Dalle nominate Grottacce, site a levante di Nettuno, nel percorso lungo la riva del mare, si vedono molte vestigia di sontuose, storielle costruzioni fino ad Astura. Questa è distante da Nettuno circa quindici chilometri.
Percorrendo lo spazio lungo la riva 1* occhio del viandante è attratto dal ritmo variato di bellezze agresti e marine; tutto parla alla fantasia ed al sentimento artistico del visitatore. Grandi e sublimi visioni campeggiano nell'azzurra immensità e nel magnifico verde della pianura in rigoglio. Quelle zolle, a volte tenebrose, cinte da boschi, in una col mare tempestoso rivelano i drammi, le lotte e le angoscie dell' uomo. Eppure i verdi campi e l'azzurro mare danno forte la brama di vivere, di godere. Sublime visione, Astura ! Chiudendo l'ampio golfo di Anzio e Nettuno sta sempre avanti gli occhi con le sue memorie, col suo incantesimo, con i fasti della sua storia. S'erge superba, sull'onde del luminoso mare, cinta da feraci campi e, da silenziose selve donde protendesi la nostalgia del passato, mentre il sole spande le sue tinte infocate e cangianti. Il quadro è superbo, pieno d'armonia, che attrae ed affascina.
Astura; secondo Plutarco Astyria; secondo Strabene, Stura è in brevi tratti descritta da Plinio " Astura fiume e isola ". L'origine di essa è incerta; certamente doveva già esistere, in età molto anteriore a quella di Plinio. Non è a dubitare che essa fosse ai tempi dei Volsci e Latini. Si sa, da Livio, che C. Menio, nel 416 di Roma, vinse in Astura gli Anziati, i Veliterni e i Prenestini. Il fiume Stura, che attraversava l'antica Satrico; si gittava in mare presso l'isola di Astura e aveva il suo porto, stazione di corsari. Strabene dice: " Dopo Anzio è il Circeo; nel mezzo v'è il fiume Stura e con esso la stazione dei pirati. " I Volsci - come dissi innanzi - abitatori dell'antica Anzio, prima di addivenire sudditi romani, furono pirati e, per i lor fini, si giovarono precipuamente del porto di Astura. Lo storico Selvio vuole che ivi fosse una rocca o castello: " Poco lungi da Terracina v'è il Castello di Astura e il fiume dello stesso nome, l'archeologo Ligorio afferma essere stata una città ma ciò è messo in dubbio da altri eruditi; però, lo strato di antiche costruzioni, che si vedono nella bassa marea, hanno il carattere più di mura di abitazioni che di un castello.
Seguendo l'ordine cronologico prefissomi, mi riservo a parlare di Astura nell'epoca medioevale.
Quello che maggiormente attrae il pensiero del visitatore è la singolare, interessante memoria dello dimora che ivi ebbe Cicerone.
Fu il primo, che allettato dalla bellezza del lido, vi costruì la propria villa. In poche parole ne fa la descrizione: " È questo ancora un luogo ameno posto nello stesso mare, da dove si può vedere Anzio e il Circeo. "
L'erma solitudine lo persuase maggiormente a stabilirsi in Astura. Affranto dai dolori, non curando gli amici, cercò di schivare ogni compagnia, e bramò racchiudersi nella biblioteca della villa, che aveva vicino alla casa, nei pressi di Nettuno. Da Astura scriveva, così esprimendosi:
" La solitudine giova molto;.... vivo qui, senza commercio umano; dallo spuntar del Sole io entro in questa folta selva e me ne ritorno la sera. Oltre di voi, niuna cosa mi è tanto cara quanto la solitudine. Non mi trattengo con altri che con i miei libri; e, se la lettura di questi è interrotta, lo è dalle mie lagrime, delle quali io trattengo il corso, per quanto mi riesce possibile; ma non sempre ho la forza di farlo. "
In questo melanconico passo, viene nominata la celebre selva di Astura, ohe, a danno della storia e del paesaggio Italiano, più non esiste, per avania distruggitrice !
22) SELVA DI MATTONE
Non si può tacciarmi d'esagerazione se io asserisco essere stata la foresta nominata da Cicerone, quella che molti ancora, con dolore, ricorderanno sotto il nome di selva di " Mattone " distrutta vandalicamente e totalmente verso il 1887.
Consultando storici e naturalisti, e massimamente Plinio, si può dire che annose foreste di quercia o ceni come era quella di Mattone, sono rimaste vegete e fiorenti per lunghissimi volger di tempi. Vetuste selve, che ricordavano circa venti secoli, nell'epoca di Costan tino tuttora esistevano, e sono da lui ricordate. Nellametà del sec. XVIf d. C., testimoni oculari asseriscono aver visitato le foreste della Gallia, ove i Druidi raccoglievano il " mesledo " nominato da Plinio. I popoli antichi avevano in tanto culto i boschi, che proibivano anche di coglierne le foglie. I Romani veneravano in maggiormodo i boschi ghiandiniferi. Cesare, nei suoi commentali, nomina la selva di Ardenna che abbracciava gran parte della Gallia Belgica e che nei sec. VII v. C. ancora esisteva. Plinio, nel libro decimosesto della sua Storia Naturale, parla della celebre selva " Ercinia " nella Bemia, dai Greci chiamata " Orciniana ", che aveva un'estensione enorme. Per attraversarla nella sua lunghezza, si impiegavano sessanta giorni, e, nella sua larghezza nove. In essa mai si tagliavano le piante. Testuali parole di Plinio sono: " onde in quella (selva) sono (alberi) antichissimi, nati quando il mondo, di grandezza incredibile. "
L'albero ha in sé molto di sacro, specialmente quando, ormai vetustissimo, è testimone di antichi eventi, dei quali esso fu contemporaneo, assistendo in longevità al procedere continuo delle umane generazioni.
Chi ricorda la selva di Mattone o, più propriamente, l'immenso, imponente e grandioso giardino, il cui suolo era tappezzato da un verde scintillante nelle chiazze assolate e da un verde turchiniccio sotto l'ombra degli annosi ceni, non può che imprecare contro l'opera vandalica a danno dell'umanità, dell'arte, della storia, dell'igiene e del paesaggio italiano. Era tenuta con somma cura e passione d'artista dal proprietario, principe Marcantonio Borghese, amatore del bello. Era un tempio naturale, un regno d'incanto e di una bellezza sublime: visione splendida ormai sparita!
Come colonne superbe, nel grande arboreo tempio, si ergevano al ciclo i colossali ceni, enormi di diametro, ed altissimi, al dir di Plinio, " d'incredibile grandezza". Il visitatore poteva indugiarsi in tranquilla meditazione nel maestoso silenzio, interrotto da fruscianti folate di vento, violato talvolta, dal rapido frullare d'ali di festosi stormi di volatili e dal lontano muggito di vacche e vitelli, che si ripercoteva nell'alta quiete. Lasciva era di giovamento al paese. Oltra la fortuna di un tale possesso, eravi l'utile, che, da essi i Nettunesi traevano con la caccia, con i funghi, e col far legna. Era un'antimurale contro la malaria pontina a difesa dei tenitori di Nettuno, di Anzio e di Roma. Purificati i venti da vapori miasmatici, rendevano il clima salutare; e le foglie, mosse dal vento, con allegro ritmo sussurando, erano sorgive di ossigeno ristoratore alla corrotta atmosfera.
23) CICERONE FUGGE D'ASTURA - SUA MORTE -
Cicerone in Astura scrisse quarantuno lettere. In una di queste, nell'anno 709 di Roma, mostrava la predilezione per la villa che colà possedeva " Io non ho altro luogo ove facilmente " posso trovarmi, quanto Astura". Attico lo esortava a lasciare quella solitudine, a mostrarsi socevolo e godere la compagnia degli amici, ma egli ripeteva con una lettera:
" Che vogliono mai questi uomini... che io abbia meno dolore? Questo è domandare l'impossibile... Dopo che mi sono portato in Astura, quelli che rimproverano la mia tristezza, non possono certamente, col loro allegro umore, leggere quanto io ho scritto. Ho cercato, senza dubbio, ogni occupazione... Rispetto a quell'allegrezza che, in questi infelici tempi, raddolciva l'amarezza dei nostri mali, io l'ho perduta per sempre; ma si rinverrà, nella mia condotta e nei miei discorsi, sempre la medesima costanza ".
Non trovando altro sollievo che nei libri, non desisteva dalla tristezza, quantunque Cesare, Bruto e Servo Sulpicio lo invitassero a uscire dalla solitudine per ritornare, tra gli amici, in Roma. Dimorando in Astura compose il trattato "de consolatione"; e fu allora che concepì l'idea di costruire un tempio la figliouola Tullia, di cui avanti narrai. Da Astura scriveva agli amici:
" Io voglio fabbricarle un tempio; non v'è cosa che possa levarmelo dalla mente; se non sarà compito prima d'inverno io non mi crederò esente da delitto ".
Questo brano di lettera talmente risoluto, scritto da Cicerone, negli ultimi tempi della Repubblica, dimorando in Astura, può essere dal lettore giudicato relativamente a quanto narrai parlando della " torre del monumento. "
Trovandosi Cicerone nella sua villa al Tuscolo, avvisato segretamente dagli amici ch'egli era compreso nella proscrizione tenuta occulta, partì immediatamente per Astura col desiderio di servirsi di un vascello per fuggire. Trovatelo, sollecitamente s'imbarcò. Battuto dai venti e dai marosi, prese terra al Circeo. Ivi passò la notte, inquieto ed indeciso. Pensando a un luogo di ricovero, ideò di andare da Bruto o da Cassio o da Sesto Pompeo, ovvero di tornare in Roma e uccidersi in casa di Ottavia, affinché il suo sangue provocasse una vendetta contro gli autori di tanto male alla Patria. Disprezzando la propria vita era risoluto a morire, ma dietro consiglio dei famigliali, fece vela verso Gaeta. Giunto a Formia si fermò nella sua villa.
Stanco di ramingare, si addormentò, mentre uno stuolo di corvi svolazzando avanti alla sua finestra gracidava il presagio lugubre di una prossima fine.
Si narra che un corvo, entrato nella stanza, avesse tratto a sé col becco, un lembo della coltre del letto. Spaventati gli schiavi, risolvettero di destare il padrone e porlo in salvo. Adagiatelo in una lettiga, s'avviano per una folta boscaglia con l'idea di giungere al mare e fuggire nuovamente con un vascello. Ma, partiti appena dalla villa, giunsero i militi di Antonio col duce Popillio Lenate, da Cicerone salvato da pena capitale, e, raggiunta la lettiga, imposero ai fuggitivi d'arrestarsi. I famigliari cercarono difendere il loro padrone ma Cicerone ordinò loro di non fare alcuna resistenza. Tranquillo d'animo, fissando lo sguardo sopra i nemici, sporse il capo fuori dalla lettiga, esclamando: " Prendete quello che deside rate; adempite l'ordine ricevuto ". Troncatigli la testa e le mani, i soldati si affrettarono a tornare in Roma col lugubre fardello. Popillio ne fece dono ad Antonio, il quale ordinò che la testa recisa fosse posta nel Foro fra le due mani, in quel punto, ove tante volte aveva perorato Cicerone; e così il popolo godesse di tale crudele ed infame spettacolo.
Da Astura, scorgesi il Circeo, simile ad enorme cetaceo. L'Italia, tra i monumenti Pelasgici che conta, vanta quello del sepolcro di Elfenore, compagno di Ulisse, che è alla sommità del promontorio. Quivi è anche il tempio di Circe e la sua favolosa grotta degli incantesimi. Fuvvi poi l'antica città di Circello, conquistata da Coriolano, siccome accennai parlando di Satrico.
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