Spesso l'attrice aveva gli occhi rossi di pianto mentre il poeta, ripreso dalla vita mondana, la lasciava sola alla Cappancina.
Purtroppo quella dolce vita finì: mio padre ed io restammo soli. Abbandonata a me stessa ridivenni la lettrice infaticabile che ero già da vari anni, tanto che mio padre era costretto a razionarmi i libri. Per la sera, per lo ore che egli poteva passare con me, trovammo un giuoco nuovo. Mi costruì con dei pezzi di sughero una flotta. Con infinita pazienza fece gli scafi con un temperino, gli stuzzicadenti furono gli alberi, le gomene furono dei sottili fili di seta, e la guardarobiera fece le minuscole vele e facevamo in un catino delle lunghissime battaglie.
Un giorno che avevo finito la mia razione di lettura, non sapendo cosa fare, salii sulla terrazza che coronava la villa e chissà per quale idea bizzarra mi misi a camminare in equilibrio sul parapetto a rischio di precipitare. Ad un tratto mi sentii afferrare da due braccia forti e tirar giù, sulla terrazza, mentre la voce di mio padre mi diceva affannosamente: "Cattiva, domani tornerai a Roma". Mi prese per mano, mi condusse nella mia camera e mi lasciò sola. Tornare a Roma! Ah no, mai. Non poteva esserci più tremenda punizione. Mi buttai sul letto piangendo disperatamente , chiamando "papa" fra i singhiozzi, supplicandolo di non punirmi in quel modo. Finalmente smisi di singhiozzare. Dopo un poco intesi il suo passo nel corridoio e ripresi i miei singhiozzi e le mie invocazioni. Dopo due o tre volte di questa manovra egli entrò in camera, mi prese fra le braccia, mi asciugò gli occhi, e mi baciò dicendo: "Piccola cara, tu non pensi al pericolo mortale che correvi! Se tu fossi caduta cosa avrei fatto senza di te? Perdonami, non piangere più. Stai tranquilla, starai con me, sempre! Sai che faremo adesso? Dò l'ordine di attaccare ed andiamo ad Anzio a comprare quello che ti piace".
Il Teatro dei burattini
Andammo ad Anzio e comprammo un teatrino con tante marionette. E il poeta non disdegna di inventare tante belle improvvisate commedie per la sua bimba.
Finalmente la signora Duse annunziò il suo ritorno e allora mio padre scrisse una commedia. No, non era proprio una commedia, era un piccolo componimento poetico in cui un personaggio diceva dell'attesa di tutti per una persona che doveva arrivare, e il coro ripeteva: "Chi sarà? Chi mai sarà?"!. Ricordo che cominciava con questo verso: "L'hanno già riconosciuta le rosette di settembre". E finiva con l'esclamazione gioiosa: "La signora! La signora!".
Penso che ebbi un gran coraggio a far recitare i miei burattini dinanzi alla signora Duse, ma lei per me, allora, non era la grande attrice ma la grande amica piena di comprensione e tenerezza! Dopo la recita mandammo su innumerevoli palloni di carta di cui mio padre, da buon abruzzese, aveva sempre una riserva. La "Figlia di Iorio" era finita. Una sera giunsero da Roma l'immancabile professar Tenneroni e altri due amici dei quali non ha mai saputo il nome. Dopo pranzo nonostante le mie proteste, fui mandata a letto. Ma non mi detti per vinta. Sapevo che mio padre doveva leggere la sua nuova opera e non capivo perché io dovevo essere esclusa dall'audizione. Finsi dì obbedire. La "Signora" venne a darmi il solito bacio a letto e spense la luce, sicura che mi sarei subito addormentata. Invece dopo qualche minuto mi alzai e silenziosamente salii nella mia lunga camicia da notte allo studio. Rimasi in ascolto dietro la porta chiusa. La voce armoniosa scandiva i versi e sarei rimasta lì tutta la. notte, ma involontariamente urtai la porta. La signora Duse come mossa da un presentimento venne ad aprire e io mi trovai contro il suo cuore, mentre copriva di baci il mio viso ansioso proteso verso di lei. In ottobre tornammo alla Capponcina. La vita in comune continuò in apparenza sempre uguale, ma io non mi sentivo completamente felice; qualcosa c'era di mutato, ma che? Mio padre mi colmava di doni e di carezze.
La mattina stavo quasi sempre con lui. Lo seguivo nella visita alle scuderie, mi occupavo dei cani. Per un'oretta tiravamo di scherma nella sala preparata per tale uso al primo piano della villa. Nel pomeriggio, invece stavo con la Signora, mentre lui scendeva in città dove aveva ripreso la sua vita mondana. Ma spesso la Signora Duse aveva gli occhi gonfi come se avesse pianto e mi accarezzava e mi baciava come se volesse trovare in me una consolazione.
Fu in quei giorni che ebbi la rivelazione improvvisa e sconvolgente della grande artista che era Eleonora Duse. Ella era stata per me sempre e soltanto la grande e comprensiva amica che sapeva placare tutte le tempeste con la sua voce indimenticabile, con una carezza delle sue belle mani, sempre pronta ad accogliermi con una sorriso, e ad aprirmi le braccia. Quel giorno venne alla Capponcina una giovane cantante che doveva interpretare la parte di Violetta e voleva dei consigli specialmente per le ultime scene, e siccome la giovane donna non capiva, "la Signora" cominciò a recitare. La vidi allora trasformarsi in un'altra donna, una donna che non conoscevo, che soffriva, che moriva davanti a me. Ne fui sconvolta e atterrita: nascosta in un angolo della grande stanza la guardavo con occhi sbarrati mentre l'angoscia mi stringeva la gola. Trattenni disperatamente i singhiozzi che mi soffocavano, ma appena la scena ebbe termine scoppiai in un pianto irrefrenabile. "La Signora" venne verso di me, mi sollevò il viso e disse con la voce ancora fremente: "Nessun applauso di pubblico ha mai avuto il valore che ha per me il pianto di questa bimba". Mi asciugò gli occhi e mi baciò con tenerezza quasi riconoscente.
Partenza dell'attrice
Una sera al ritorno da una delle sue gite a Firenze, mio padre annunzio che sarebbe stato assente per tre giorni poiché doveva presiedere come testimone al matrimonio di un suo amico.
Per quei tre giorni "la Signora" mi fece preparare un letto nella sua camera e dormii con lei. Una notte la sentii piangere disperatamente. Singhiozzava forte. Avrei voluto correre accanto a lei, ma una inspiegabile timidezza mi trattenne.
Involontariamente sorse nel mìo cuore il ricordo di un'altra notte lontana, in cui io, bimba di quattro anni, avevo sentito cadere sulla mia testa le lacrime pesanti di un'altra donna giovane bella e disperata. Ed ero rimasta anche allora silenziosa e sbigottita. Mio padre tornò allegro, giovane, esuberante. "La Signora" diventava sempre più pallida e triste ed io soffrivo e fuggivo la casa. Facevo lunghe passeggiate con i cani, scorrazzavo per la campagna per lunghe ore. Al ritorno di una di queste corse non trovai più "la Signora".
"Ci ha lasciati e non tornerà più". Mi disse platonicamente mio padre senza preoccuparsi della mia sofferenza e della mia solitudine. Dopo qualche giorno andammo a salutarla in una modesta pensione di Firenze. Pareva che non si potesse staccare da me, e anche io non volevo lasciarla. La supplicai timidamente di tornare alla Capponcina. "Non si può!" Mi rispose e mai dimenticherò l'espressione di angoscia del suo viso espressivo. Non la rividi più. Dopo molti anni mio padre aveva finito di scrivere la ''Freda" ed io ero uscita di collegio per un giorno. Mi mostrò il manoscritto e mi disse che aveva scritto alla signora Duse per pregarla di prendere la parte della protagonista, ma non gli aveva riposto. "Vuoi scriverle tu? Ti voleva tanto bene!" Scrissi. Dopo qualche giorno ebbi un breve biglietto: "Cara Cicciuzza, sempre ti ricorderò e sempre ti amerò. "La Signora".
RENATA MONTANARELLA |