Oh siate voi, vele latine, salutate, voi brezze del
Mare,
siate voi, salutate da me con gioia e tu capo dell'omerica
Circe!
È una lussuria guardarti, specchio delle stelle
Celesti,
sacro, eterno mare, mosso dal respiro degli
dei,
e vivere nuovamente nella casa dell' ospitale padre
Nettuno,
dove egli circonda con suoni profondi, città sommerse e
popoli,
fluttuante nella sabbia mescolata alle conchiglie, intorno
ai palazzi degli imperatori,
lo splendore di Anzio, adesso ghiaia e slavata scheggia
del marmo.
Ma splende intorno a me una sala da festa, dipinta di
Colori,
a me, dimora del mare nell' ospitale cittadina
Nettuno.
Ebbene, né settanta passi, né ottanta gli
Bastavano,
camminai lungo il trascurato splendore di pareti
già ingiallite,
in solitudine qui nel palazzo; che era un tempo la villa di
Donna Olimpia,
ogni volta che ella fuggiva dalla casa dei
romani,
o dall' ironia di Pasquino, lei, la Messalina del Papato.
E ancora una volta mi stupisco, che annerito dai tempi,
è appeso nella sala,
come altero il capo si pavoneggia fuori dal colletto
merlettato,
sfarzoso nel potente diadema, e si irrigidisce il vestito di
broccato,
brillante di perle, le lacrime di sangue del popolo e
anche della disperazione del papa,
al quale, al debole, lei tolse la chiave di
S.Pietro,
con avidità la perfida si appropria dello Stato,
preservandolo nei propri forzieri.
Ma adesso qui è desolante lo splendore pieno
di scherno nelle volte.
I venti colpiscono la casa, suoni di trombe della
Fama,
che con spavento spettrale, di notte mi sveglio
con sussulto dal giaciglio.
Quando poi il mare si infrange rumoreggiando
contro le tintinnanti finestre,
o spalanca la porta, che addirittura
nessuna serratura riesce a trattenere.
Ah, allora fuoriesce sfrusciante, sì, .
Donna Olimpia intendo, veder
passeggiare,
come il popolo di Trastevere la vede sempre e ancora,
errare di notte, così simile a Lady Macbeth.
Ma scompari, tu spettro,
poiché la vita mi volteggia intorno!
Sfarzose ti splendono, oh Roma,
le donne che camminarono con orgoglio
nel Corso,
ma la nemica mortale della natura,
la figlia senza vergogna del
tempo,
la moda, ella le ha svestite delle vesti delle madri
e anche della virtù;
preda dei galli divenne, ah! più delle mura
e delle città.
Ma sulla spiaggia del Lazio fioriscono silenziose
nella natura selvaggia,
belle, loro stesse fiori selvaggi, come i figli di porpora
della flora;
fanciulle che si ornano di strane vesti
ereditate,
piene di grazia,
fantastiche come le chimere di tempi molto
lontani.
Ma lodo te prima di tutte,
la fanciulla più bella della Spiaggia,
sei tu per me degna di ornare, come fior di loto,
il canto.
Appari tu, improvvisamente,
per piacere allo straniero Stupito,
altalena sala al crepuscolo,
sfrusciante nella seta di porpora,
allora egli ti saluta come principessa e
Donna Olimpia,
poi in modo più classico, come Circe,
dea della montagna bluastra là.
Poiché non più splendente, tesseva la maga di Ulisse
a suo tempo,
la magica veste, porpora di mare, bella,
con la spada risuonante,
di quella che fluttua intorno alle tue membra,
graziosa fanciulla; abbasso
ondeggia il velluto,
come le nuvole della sera infiammata nell'orlo
abbonda Toro artificiale sui piedi rosei vestiti
di scarpe.
Orgogliosa intorno alle spalle e
piegata con invidia la veste
di seta,
fiorisce su di te come il fiore del melograno
con boccioli di fuoco.
Ma con troppi chiavistelli dorati sbarrava il
Seno.
Cupido. Ah! Il birichino imprigionato
da fibbie come Inferriate,
fuoriesce ridendo, e scuote
e tira fuori questa prigione invitante.
Beata quella tripla catena,
come ti circonda il collo tre Volte,
con coralli, e su di essa vacilla l'immagine
sacra
di un uomo torturato, che qui ancora,
nell'immagine sul tuo collo,
continua l'infinita tortura,
oh dolore!
Ma intorno al capo fiorito,
largo intorno al volto ridente,
festosamente si alza, lo scialle di broccato,
e argento, costa quindici
scudi
Un tabernacolo mi sembra,
che circonda il dolce volto della Madonna,
le offrono in ginocchio
gli amanti,
molti fiori e sospiri di cuore.
Beata la stirpe degli uomini, alla quale,
qui nelle schegge delle cose,
benevola offre la natura così preziosi fiori di
donne,
a cui nei colori di Eros, la virtù delle madri le veste.
Non come remoto in tempi più duri,
li annuncia il castello ancora,
dove nella sterpaglia della Ginestra con bombe di ferro si
addormentò,
qui rapisce dalla spiaggia sulla nave,
il corsaro la Vergine,
pieno di libidine, il satiro del mare,
trascinando con sé la bella urlante,
preda per l'harem di Tunisi goduria per la danzante
Baghdad;
ma abbaglia lo specchio del mare di vele
latine,
e del frutto splendente ridono le rive di
Arcadia.
Autunno adesso è, le rose fioriscono,
silenziosa è Philomele,
ma la cicala canta, la modesta amica di Apollo,
sotto il cespuglio di Mastice,
e fuoriesce ancora il tronco
Potente
Della tarda Agave, per le sirene come un foro di
fiori.
Bello si trasforma con il bisbiglio dell'onda
Volteggiante
Sopra la morbida spiaggia,
quando un roseo crepuscolo riempie
il Mare.
Vedi lì ardere Anzio!
Una volta culla di marmo di Nerone,
una volta trono di quell'Apollo,
la primavera immortale delle arti
figurative,
del quale il tedesco una volte compose
l'inno di ammirazione.
Un trono anche perdesi, oh mutevole fortuna!
Qui Orazio, ti offrì nella coppa d'oro il
getto benedetto del canto
prezioso.
Ma veloce ruotava la ruota e
il raggio veemente distrusse qui Anzio,
la tua casa anche, ah! e anche Roma.
All'infinito scorre il tempo come i ritmi uniformi
del mare.
In eterno nel medesimo ritmo porta via
la vita con Indifferenza;
poi da essa si solleva la chimera
di una leggenda melanconica.
Bella come la montagna di Circe,
che là nelle acque, oh vedete,
si solleva come un'ametista
con i merletti di magico splendore,
ma dabbasso sul lato del monte con melanconia lo vede
il tedesco,
fluttua nelle acque solitario,
come il cigno morente nelle onde,
abbagliante un castello, la torre di Asturia,
tu tedesco piangi su di esso.
Circe lì incantò Konradin fino a prigione e
Morte
Quando egli dal campo di Scurgola fuggì per il Terrore,
nipote dell'Aars dei suebi; egli fu attaccato dalla
bionda
lama sanguinante del nemico, qui, nel golfo di Napoli poi,
trascina via il misero, gettando il suo capo nella
sabbia.
Vedi, adesso la torre abbaglia come sangue
e sanguina il mare
profondamente,
ma Helios gettò abbasso silenziosamente dal
capo
sorridente la sua corona del Mondo
e lo scettro splendente nel mare.
Scende la notte: ma sempre ancora gli occhi rivolti a
Circe
Sono seduto circondato dalle ali del sogno
e di nostalgia che prende
il cuore.
Molti di Italia hai trascinato giù nelle tombe, oh Circe,
Maga, molti dei tedeschi con incanti che toccano il
cuore.
Ma io attingo devoto dal mare grande getto
Sacro;
sperando nel ritorno,
come dono ai morti e a te o Minerva,
che tu mi mandi la nave, per organizzare il ritorno a
casa. |