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Dilettevole Inganno e
Ingegnosa Maraviglia

Studi su Antonio Ongaro,
Andrea Sacchi, Paolo Segneri

di Rocco Paternostro

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Il "maraviglioso" nei Panegirici Sacri
Paolo Segneri

 

 

Nella lettera dedicatoria al suo maestro Sforza Pallavicino, scritta il primo gennaio 1664 a Bologna e premessa alla prima edizione dei Panegirici Sacri, Paolo Segneri, non ancora quarantenne, definiva, con sincera modestia - di fronte a colui che egli considerava la "penna maggiore del secolo",(1) appunto lo Sforza Pallavicino - queste sue composizioni "sconciaturelle misere (e) meschine",(2) degne solo di essere nascoste. Vent'anni più tardi, nel 1684, nella lettera dedicatoria al cardinal Gregorio Barbarigo premessa alla seconda edizione della sua opera, nell'elaborare, a proposito dei suoi Panegirici, il concetto di "galleria",(3) in cui chi avesse voluto avrebbe potuto profittare spiritualmente dei tanti "ritratti",(4) delle tante "pitture sacre",(5) ribadiva, senza mezzi termini, i limiti artistici delle sue composizioni definendole, questa volta, "rozze".(6) Però subito precisava che tali "pitture", tali composizioni, nonostante fossero rozze formalmente, proprio perché sacre avevano il privilegio di essere amate e apprezzate, anche perché -come aveva scritto venti anni prima al suo maestro - egli aveva tessuto panegirici solo di quei giusti che, avendo compiuto felicemente "il loro arringo", si potevano lodare francamente senza sospetto "ne' lodati di fasto o nel lodator di adulazione"(7) e che, quindi, avrebbero potuto essere d'esempio in un secolo "senile" e "superbo",(8) quale era il Seicento, il secolo appunto in cui gli era toccato in sorte di vivere.

Dalle due dedicatorie in questione mi sembra di poter evincere alcuni aspetti che ritengo fondamentali per la comprensione dell'operazione di scrittura segneriana e, quindi, della poetica dei Panegirici Sacri: un primo di carattere storico-morale, un secondo artistico-culturale, e però saldamente e dialetticamente uniti tra loro. Tali aspetti costituiscono quella che, con linguaggio ramsonian-wimsattiano, mi piace definire la structure, ovvero lo scheletro, l'impalcatura, l'ossatura, non solo ideale, ma anche morale, ideologica, retorica, in una parola storico-culturale dei Panegirici Sacri. Elemento, questo, certo non marginale ai fini di un'esatta comprensione delle predilezioni, delle scelte, delle opzioni artistico-estetiche di Segneri. Difatti se è vero che la structure, da sola, non può garantire l'artisticità, il proprio in sé estetico dei Panegirici, è altrettanto vero che è la sua presenza a rendere ragione del determinarsi e dell'attuarsi della poetica che sottintende ai Panegirici Sacri; quale risultato finale della capacità personale-storica di Segneri di relazionarsi criticamente con il plesso di poetiche, gli indirizzi di gusto e, in senso più lato, gli indirizzi estetico-culturali del proprio tempo. E dove pure le ragioni di una polemica storico-morale s'intrecciano, si tramano, con quelli di una polemica storico-culturale. La prima investe lo stesso XVII secolo, definito da Segneri ora come "senile" e "superbo", ora come "corrotto",(9) "amico delle apparenze",(10) di "pomposa comparsa"(11) e di una "sontuosità artificiosa".(12) La seconda investe in generale gli orientamenti artistici dominanti e in particolare quelli letterari ai quali ultimi Segneri contrappone come modello da imitare quello rappresentato dallo Sforza Pallavicino, scrittore da lodare - a suo parere - non tanto per la "chiarezza", che pure gli era congeniale, quanto piuttosto per la "robustezza", ovvero per la "sodezza"(13) del pensiero, della dottrina, della scrittura; "sodezza" che, unita alla prudenza, all'integrità, all'acutezza, alla veracità, alla modestia, alla religione, proprie di un animo sciolto da ogni interesse, tutto benevolenza, tutto gratitudine, tutto beneficenza(14) facevano del Pallavicino il maggiore scrittore del secolo. Aspetti questi che costituiscono - come dicevo - la structure, ovvero elementi che, seppure non marginali ai fini di un'esatta comprensione delle scelte segneriane di poetica, certo sono - per servirmi di una proposizione critico-teorica di Wellek e Warren -estrinseci e non, come al contrario dovrebbero essere, intrinseci all'arte. Altri luoghi, altri passi dei Panegirici Sacri è allora necessario prendere in considerazione a tal fine.

Penso soprattutto a quel lacerto in cui Segneri non esita ad affermare che così come alle pitture non viene il pregio dal numero, ma dall'arte, ma dall'artefice,(15) ossia dall'essere esse opera d'arte, similmente deve considerarsi per le opere letterarie. Lacerto che - a ben guardare - è, pur nella sua semplicità, starei per dire ovvietà di contenuto, significativo, in quanto fa scivolare il discorso su un primo fondamentale nucleo di riflessioni teorico-culturali segneriane intorno alla natura dell'arte letteraria; ovvero, in primo luogo, sulla necessità che nell'opera d'arte, per quanto riguarda il suo oggetto, non vi debba essere la minima presenza di "fasto"(16) e che l'artista conseguenzialmente non debba cedere, nel suo lavoro, all'"adulazione";(17) in secondo luogo, sulla necessità di rifuggire dai "colori rettorici" quando questi cedano il passo a un "eccesso di figure e di formule",(18) proprio perché tali "colori rettorici" servono soprattutto a offuscare le verità per sé belle piuttosto che a illustrarle(19) e che quindi, al contrario, è necessario, alfine di "acquistare una sincera notizia de' fatti", preferire la "nuda semplicità del dire";(20) in terzo luogo, infine, sulla necessità di liberare l'arte dalla "mera favola",(21) dalla menzogna,(22) soprattutto se si consideri come "certi nomi effeminati di Fillidi e di Clori, di Veneri e di Amoretti, indegni di comparire [...] tra le ragunanze cristiane" fossero allora i soli che risuonavano nelle Accademie, i soli di cui si avvalevano i teatri, i soli di cui si componevano le musiche.(23) Liberare l'arte da queste e altre "laidissime oscenità"(24) non voleva solo dire, per Segneri, schierarsi nel dibattito artistico-culturale di quegli anni dalla parte della contemporaneità, ma anche e soprattutto voleva dire recuperare l'arte alla verità, ossia ai dettami teologici e morali e ai capitoli di fede della religione cattolica. Aspetto quest'ultimo non senza rilevanza ai fini dell'esatta e piena comprensione di quale fosse la reale collocazione di Segneri nell'arengo artistico-estetico dell'epoca. Difatti, a un'arte siffatta non servivano il fasto, l'adulazione, i "colori rettorici" esasperati, ovvero non serviva l'eccesso di figure, formule, metafore sonanti e strepitose, tipiche della poetica o meglio del plesso di poetiche allora in voga, quanto piuttosto la semplicità del dire, dello scrivere che mai però era caduta di stile,(25) in quanto tale semplicità non poteva e non doveva essere disgiunta dall'"acutezza delle argomentazioni",(26) dall'"acutezza d'ingegno"(27) e dall'"altezza di erudiziene".(28) Tutto ciò al fine di non "stuccare" gli uditori con argomenti non adeguati.(29) Del resto era quanto aveva fatto Francesco Saverio nella sua predicazione nelle Indie, allorché si era servito di una eloquenza meravigliosa, piena di passione e arricchita, non soverchiata, di termini figurati.

L'accenno a termini e concetti di ascendenza peregriniana e gracianiana, quali "acutezza delle argomentazioni", "acutezza d'ingegno", "altezza di erudizione", oppure ancora l'avvertenza a non "stuccare" gli uditori sono la testimonianza più concreta del suo schierarsi, nel campo dell'arte letteraria in generale e dell'arte oratoria sacra in particolare, tra le file di quelli che nel linguaggio secentesco si dicevano "hoggidiani", ovvero sono la testimonianza del debito che Segneri pagava al proprio tempo e quindi al Barocco, come del resto è ulteriormente attestato dal ricorso che egli fa, nei Panegirici Sacri, alle metafore,(30) alle similitudini (31) e alle figure composite.(32)

Per altro verso, però, il suo continuo invito ad astenersi dall'uso di "colori rettoria" esasperati, dall'eccesso di figure, di formule e metafore sonanti e strepitose, e quindi il suo additare come modello di arte letteraria più alto e compiuto dell'epoca quello rappresentato dallo Sforza Pallavicino, testimoniano altresì come quello che egli pagava al proprio tempo fosse in effetti un contributo temperato, moderato; insomma testimoniano di fatto come egli finisse per collocarsi nel variegato panorama delle poetiche del Seicento - dal Marino al Tesauro all'Achillini - in quella linea di moderato barocco di area romana, che, passando per la Toscana, arrivava sino a Venezia e in Liguria, e che è, del resto, un'acquisizione critico-storiografica consolidata e definitiva degli studi secenteschi più recenti (penso per tutti a Franco Croce e a Mario Costanze Beccarla). E a Roma, allora centro di diffusione mondiale della cultura, fortunata ma non casuale coincidenza, aveva da poco conclusa la sua attività pittorica un altro nettunese, Andrea Sacchi, che, allievo di Francesco Albani, pur formatosi sulle opere di Raffaello e Annibale Carracci, e quindi pur essendo stato tra i pittori che avevano opposto all'irrazionalismo barocco una ricerca di ordine compositivo e di chiarezza delle forme, - come dimostrano da un lato il Miracolo di San Gregorio (1626) e la Visione di San Romualdo (1631, Roma, Musei Vaticani), e, dall'altro, gli affreschi di Villa Chigi (1628 ca.) a Castelfusano, nonché quelli di Palazzo Barberini (1629-1633), della sacrestia di Santa Maria sopra Minerva (1637-1638) e di San Carlo ai Catinari (1648-1649), a Roma - aveva finito con l'elaborare una poetica di moderato barocco, in cui giocava un ruolo fondamentale il tema del deforme, del brutto, quale topos del meraviglioso, per tanti aspetti assai vicino a quanto ora Segneri andava elaborando nel campo letterario, anche se l'operazione compiuta dal gesuita nettunese sarà, per certi aspetti, più complessa di quella sacchiana. L'anteporre - da parte di Segneri - all'osservanza dei precetti retorici la capacità di grandi concezioni, l'ardente pathos, la qualità delle figure, la nobiltà intesa come adeguatezza e moderatezza dell'espressione, il ricorrere a elementi fantastici - si veda il suo continuo richiamarsi al mondo del favoloso Oriente - è signal di una concezione e pratica dell'arte che, attraverso la mediazione di quella linea di moderato barocco di cui detto, lo faceva di fatto avvicinare, anche se in modo trasversale, alla poetica del Sublime. Poetica, del resto, all'epoca favorita in primo luogo dalla riscoperta e dalla pubblicazione che nel 1554 Robortello aveva fatto di un vecchio trattato ellenistico attribuito nel passato allo Pseudo Longino ma in realtà scritto nel I secolo da un seguace della scuola retorica di Teodoro di Gadara e intitolato appunto Del Sublime, in secondo luogo e conseguenzialmente dal rinnovato interesse che tale scoperta alimentò per i questionari De sublimitate, anche grazie alle numerose volgarizzazioni del trattato ellenistico, di cui la più celebre fu quella di Boileau e di cui un esempio concreto in Italia è rappresentato da Benedetto Menzini, che nel 1688 nel suo trattato Arte poetica a proposito del Sublime così scriveva:

Sublime è quel, ch'altri in leggendo desta
ad ammirarlo, e di cui fuor traluce
beltà maggior di quel che '1 dir non presta.
Ond'è che l'alma a venerarlo induce,
e l'empie di se stesso, e la circonda
d'una maravigliosa amabil luce.
E quanto in lui più e più si profonda,
più e più diletta: e per vigore occulto
la mente del lettor fassi feconda.
So ben, che puote anche in sermone inculto
chiudersi un gran pensiero; e si appresenta
talvolta in creta anche un gran Nume insculto.
E v'ha talun, ch'ebbe la cura intenta
solo al concetto, e l'ornamento esterno
sprezzò la mano e neghittosa e lenta.
Quindi sovente un tal costum'io scemo
in quei che, ratto immaginando, al cielo
vide far di tre giri un giro eterno.
Ma tu d'un doppio e generoso zelo
vorrei che ardessi; e che le grandi idee
ricco avesser per te pomposo velo
(....)

Così le basse forme e sì l'oscure
fuggir tu dèi; e all'arte, all'ornamento
volger l'ingegno e le fugaci cure.
E far che splenda il non volgar talento
ne' gran sensi non sol, ma in quello ancora
onde si spiega un nobil argomento.
Che se l'un tu riserbi, e l'altro fuora
negletto lasci, non avrai per certo
la doppia palma, onde lo stil s'onora.
Talvolta udrai dentro gli scritti altrui
alto rimbombo, e strepitoso il suono;
ma ve', che inganna, e non è fondo in lui.
Perché l'alta del grande origin sono,
i gran pensieri, e di febèa faretra
fulmine i sensi, e le parole il tuono.(33)

Se nella posizione di Menzini si colgono alcune differenze non solo di contenuto ma anche di modo rispetto a quella segneriana (nel primo emerge una maturata, pensata, elaborata, consapevole e diretta adesione al Sublime, nel secondo, al contrario, tale adesione è mediata, trasversale e si configura quasi come partenogenesi della poetica moderato-barocca; nel primo è chiaramente esplicitata l'attenzione all'ornamento, alla forma, nel secondo, invece, è maggiormente accentuato il discorso sul contenuto), poi tali differenze non finiscono con l'avere - aldilà delle sfumature legate a una diversa temperie culturale e/o a differenti affermazioni e codificazioni del gusto tipiche di una mutata situazione temporale - un peso determinante e tale da incidere nella sostanza sulla natura della poetica del Sublime. Difatti mi sembra di poter senz'altro affermare che comunque in tale poetica, sia che si tratti di Menzini sia che si tratti di Segneri, il contenuto finisce con l'essere centrale e prioritario rispetto alla forma, perché proprio per quel contenuto sublime si arriva ad avere una forma altrettanto sublime e non solo quindi ricercato, pomposo artificio stilistico fine a se stesso.

Per questa strada, e non solo per questa in verità, Segneri poteva teorizzare persino una sorta di recupero del "deforme", in linea, seppure con finalità ed esiti artistici diversi, con quanto allora s'andava elaborando e producendo in campo figurativo(34) e letterario,(35) penso all'anamorfosi, a certe figure femminili di zoppe, nane, vecchie orribili, brutte donne "putride e malsane" a cui facevano riscontro in campo maschile nani, gobbi, storpi, zoppi, e penso al tema del tempo, oltraggiatore della bellezza, e a quello della rovina che facevano presagire persino una poetica della decadenza,(36) presente in letteratura e in arte, e di cui ho già dato ampia e dettagliata notizia nel saggio su Sacchi.(37) Va precisato però che in Segneri - e, certo, non poteva essere diversamente - questa teorizzata "forma del deforme" assume, nella sua poetica, un valore singolare rispetto al gusto medio del secolo, proprio perché si configura come una delle tante facce di quella sorta di analitica del "maraviglioso" che egli elabora nei suoi Panegirici. Avrò modo di dimostrare ciò. Ora mi preme chiarire il discorso segneriano sul deforme, così come esso si evince dal Panegirico Ventesimosecondo in onore della Santa Sindone e dal Discorso sopra il Santissimo Sagramento, con il quale termina quest'opera del 1664 del gesuita nettunese.

Nel primo, dopo aver parlato degli aspetti "assai riguardevoli" e "assai vezzosi"(38) di alcuni quadri di tono e soggetto classico, che, seppur lontani da ogni "aspetto deforme",(39) erano privi però di sodi contenuti,(40) e dopo aver dimostrato, con l'esempio di Agesilao, re di Sparta, saggio e valoroso ma laido nel volto,(41) che l'uomo si preoccupa di essere ricordato più per la sua bellezza esteriore che non per le sue imprese valorose, Segneri sostiene che per Cristo, grande dispregiatore "d'ogni beltà corporale"(42) e sempre lontano da ogni "altera pompa"(43) la deformità non ha importanza, anche perché quella di Cristo non è una deformità che non attrae, o che aliena gli animi; al contrario, è una deformità che innamora.(44) Innamora per il Sublime che dietro di essa si cela. Simile concetto Segneri ribadisce nel Discorso. Qui afferma che Dio è "mimicissimo d'ogni comparsa vana",(45) cosicché "dove gli uomini sono avvezzi a tenere il più vile dentro, e il più bello fuora, Iddio fa l'opposito; tien egli il più vile fuora, e il più bello dentro".(46) Similmente deve fare l'arte letteraria: essa deve guardare più alla verità del contenuto, alla sostanza, che non alla frivolezza della forma esteriore. Deve soprattutto riempirsi di contenuti belli, sublimi, piuttosto che ammantarsi di esteriore artificiosità, anche se poi deve mirare a essere formalmente "vezzosa e riguardevole". In tal senso appare ovvio che per Segneri è possibile innamorarsi solo di opere di grande contenuto piuttosto che di quelle che, al contrario, privilegiano esclusivamente l'aspetto formale. Purità, sincerità, schiettezza, rettitudine, pietà,(47)sono alcuni dei contenuti di cui l'arte deve sostanziarsi; certamente non delle favole o delle menzogne.(48)

La natura di tali contenuti mi sembra possa darci la possibilità di risalire ad uno dei nuclei teorico-filosofici che compongono la struttura narrativa dei Panegirici, ovvero a quel corpus teologico-morale proprio di un cattolicesimo post-tridentino che, propugnando una visione della vita fondata sull'amore,(49) sulla rassegnazione(50) sulla povertà,(51) sulle perfezioni relative,(52) forniva a Segneri gli strumenti-valori per combattere e fustigare i mali del tempo, quali l'"avarizia",(53) la "lascivia" o le follie carnali,(54) "le sregolate licenze del Carnevale",(55) ecc.; ai quali - come rimedio salvifico - veniva opposto, quasi una sorta di pratica cattolico-cristiana dei doveri, la penitenza rimediatrice.(56)

Tale visione del mondo e della vita mal sopportava quelli che erano gli altri mali, le altre deviazioni dell'epoca, ovvero l'alchimia e la magia,(57) da una parte, l'empietà maomettana(58) e l'alterigia dei luterani e dei calvinisti,(59) dall'altra.

Il tutto veniva filtrato attraverso un'ideologia che si nutriva di un non mai celato aristocraticismo che portava Segneri a considerare con distacco, se non addirittura con disprezzo, la plebe(60) e lo induceva anche e soprattutto a vedere la propria classe con ammirazione;(61) ideologia - a ben guardare - in cui non era assente neppure un acceso antisemitismo: "popolaccio giudaico"(62) Segneri chiamava con disprezzo gli Ebrei e li definiva "protervi, maligni, perfidi".(63)

Questi aspetti - come dicevo - compongono la structure, l'ossatura narrativa dei Panegirici, ed essi sono gli aspetti morali e ideologici propri di una cultura composita, complessa, stratificata su più livelli, qual era appunto la cultura segneriana: qui conoscenze astrologiche,(64) sapere teologico, erudizione e competenza classica, si intessevano, si intrecciavano fra loro e si incontravano dialettizzandosi con elementi e aspetti di un mondo esotico mutuati da Segneri dalla lunga frequentazione di testi che parlavano di luoghi geografici lontani e in un certo senso da lui vagheggiati per vocazione missionaria, cosicché il fascino del mondo delle Indie, del Giappone, della Cina, dell'Oriente tutto, diveniva l'aspetto fantastico, se non addirittura fantasmatico, starei per dire persino letterario, di tale cultura e di essa rappresentava la zona del sogno e, insieme, la tensione al reale agognato. Dunque, se, come ho sin qui dimostrato, tutti questi aspetti formano nel loro insieme la structure dei Panegirici; la texture, ovvero il corpo artistico di essi, è da ricercare e da trovare nel topos particolare, pur nella sua complessità, del "maraviglioso", di cui appunto uno degli elementi costitutivi è da individuarsi nell'esotismo orientale di cui ho parlato.

Appare chiaro allora come il topos del "maraviglioso" sia la cerniera che lega e unisce, proprio perché ne è la sintesi, aspetti fra loro allotri ma pur sempre interni, costitutivi, della composita, variegata cultura segneriana; e come esso finisca poi per porsi in maniera del tutto propria rispetto al plesso delle poetiche del Barocco.

Il "maraviglioso" - come si sa - fu il topos che caratterizzò nel loro insieme le poetiche letterarie del Barocco, quale estrema conseguenza del culto della bellezza intesa come pura forma e della ricerca della raffinatezza, aspetti questi che già avevano distinto il classicismo cinquecentesco. Esasperata abilità tecnica nel poetare, esasperata ingegnosità nell'esprimere concetti, esasperata capacità di sorprendere il lettore, sono queste le componenti del gusto dominante nel Seicento, oscillante tra marinismo e concettismo, ossia tra la predilezione per la metafora e quella per l'acutezza, vale a dire per il modo nuovo di dire le cose. Da una parte, la linea di Marino; dall'altra, quella di Tesauro e di Peregrini, per intenderci. È chiaro, allora, come il "maraviglioso" fosse, per speculare conseguenza, anche il topos centrale e irrinunciabile della predicazione barocca e specificamente concettista.

Si ricordi quanto scriveva in proposito Francesco Panigarola nel suo Del modo di comporre una predica, dove raccomandava di collocare la parte di "maraviglia" alla fine della prima metà della predica; e si ricordi anche Tesauro che nel Cannocchiale aristotelico aveva teorizzato i cosiddetti "concetti predicabili", ovvero quegli argomenti ingegnosi per mezzo dei quali alcuni intellettuali spagnoli trovarono "questa novella maniera di insegnar dilettando e dilettare insegnando".(65) Però il "maraviglioso", nonostante fosse anche il topos preponderante della predicazione segneriana, non portò il gesuita nettunese - come al contrario avvenne per i più - alle degenerazioni e agli eccessi in cui erano caduti i rimatori e i prosatori profani e contro i quali non aveva polemizzato solo l'Achillini, ma lo stesso Tesauro. E ciò per più motivi. In primo luogo, perché Segneri si muoveva nell'alveo sì del Barocco, ma di un Barocco moderato, temperato, di area romana: penso al suo maestro Sforza Pallavicino, l'autore della Storia del Concilio di Trento, che, nel suo Trattato dello stile e del dialogo, aveva messo in guardia contro i concetti esasperati e riteneva che il concetto, definito "osservazione maravigliosa raccolta in un detto breve", era elemento fondamentale dello stile, perché "la principal dilettazione dello intelletto consiste nel maraviglioso"; e penso al gesuita ferrarese Daniello Bartoli, vissuto lungamente a Roma come storiografo della Compagnia, e ai suoi trattati storico-letterari (L'uomo di lettere difeso ed emendato, forse del 1645, e Il tono e il diritto del non si può, del 1655), in cui chiarisce la sua concezione pedagogico-gesuita dello scrivere: docere delectando, dove il primo termine è tutto nello spirito della Controriforma e il secondo è tutto nel gusto barocco, ma di un barocco moderato, temperato appunto. In secondo luogo, perché Segneri concepiva il "maraviglioso" in modo del tutto proprio e originale rispetto alla concezione e all'uso generalizzato e comune dell'epoca, ascrivendolo non tanto al piano della forma quanto piuttosto a quello del contenuto; posizione teorico-programmatica quest'ultima cui certo non erano estranee le suggestioni e le indicazioni della poetica del Sublime. Del resto la teorizzazione e l'applicazione che del topos Segneri da e realizza nei Panegirici Sacri dimostrano proprio ciò.

La prerogativa di compiere "maraviglie" - scrive Segneri nel Panegirico Primo -, ossia di compiere "azioni inusitate", è propria di Dio e della sua potenza.(66) Cosicché maraviglia, oppure la virtù di operare prodigi, e divinità sono due termini fra loro congiunti, anche perché Dio la prima volta in cui donò a qualcuno diverso da sé la virtù di operare prodigi, maraviglie, gli diede anche la facoltà di chiamarsi Dio. Proprio questo fatto spiega il motivo per cui Dio raramente concede all'uomo una tal potenza e se pur la concede, in alcuni casi, non suole concederla, tranne che eccezionalmente, tutta in una stessa persona. Con la stessa gelosa parsimonia del Sole che non comunica mai ad una stella tutta la sua luce ma la distribuisce fra molte, Dio concede tale potenza ripartita tra più uomini. Ad alcuni da la virtù di curare malattie incurabili, ad altri di penetrare pensieri nascosti, ad altri ancora di possedere linguaggi sconosciuti, ecc. E questo sempre per ragione di "esemplo".(67) In tal senso la maraviglia, in quanto dono divino, è sinonimo di prodigio e quindi di miracolo,(68) vale a dire di atto o di opera fuori dalle leggi conosciute della natura, dovuto a una potenza soprannaturale che si manifesta però nella natura per mezzo di un uomo eletto da Dio e al quale Dio ha conferito tale potenza, tale virtù, il Santo appunto, che diventa pertanto exemplum, modello che, per il prodigioso, il meraviglioso del suo in sé, suscita stupor,(69) stupisce. Il "maraviglioso" quindi per Segneri è tutto ciò che attiene al campo delle meraviglie, dei prodigi, dei miracoli, e, suscitando stupore(70) diventa egli stesso esempio della santità.

A questa prima definizione del "maraviglioso" come dono divino di compiere azioni inusitate, prodigi, miracoli e nella quale il Santo stesso si erge ad exemplum o meglio ancora, per servirmi di una formula barthesiana, a imago, vale a dire a incarnazione di una virtù;(71) a questa prima definizione - dicevo - segue l'altra che si legge nel Panegirico Decimosesto in onore di San Giovanni Battista:

Iddio non vuole da noi, se non quello ch'è in potere nostro: e però in Ciclo si stiman le virtù, non le maraviglie; e si premiano i meriti non i doni.(72)

Qui la maraviglia è sempre un dono di Dio ed è svincolata dalla virtù la quale diventa essa stessa invece un merito. Allora si ha da una parte il piano della maraviglia come dono e dall'altro quello della virtù come merito. E ciò non contraddice quanto Segneri ha teorizzato precedentemente ma lo chiarisce e lo specifica. Difatti lì virtù era sinonimo di capacità, capacità di operare prodigi, qui è un abito morale, un valore che si possiede e, in quanto tale, non è una meraviglia, ma può e deve essere "maravigliosa", deve suscitare meraviglia, ovvero stupore:

[...] con maravigliosa provvidenza dovevano aprire per tutto il mondo la strada alla predicazione evangelica [...].(73)

[...] ella [la Santissima Nunziata] insin dal seno materno possedette [...] prudenza massima, sapienza maravigliosa [...] (74)

[...] virtù corteggiata da maraviglia [...].(75)

Ma qual maraviglia che avessero tanta forza le sue parole [...].(76)

Qual maraviglia è però s'egli custodisse un'innocenza sì pura [...].(77)

Qual maraviglia però, che per esser tale si ricercasse in lui quel congiungimento di tutte le perfezioni [...].(78)

Come è possibile vedere, Segneri concepisce le meraviglie alcune volte come sostanze (essenze) e distingue tra meraviglie palesi e/o nascoste(79); altre, come attributi delle sostanze (delle virtù), ovvero come proprietà essenziali della virtù che attengono quindi alla sfera divina e morale; altre volte, infine, come accidenti, ovvero come carattere non necessario di un essere, di una sostanza cui appunto sopravviene. In questo ultimo caso, siamo nella sfera del naturale, del fisico, dello storico:

Non aveva forse il Nilo altre maraviglie?(80)

Vediamolo in un successo sommamente maraviglioso.(81)

Oh atto meraviglioso!(82)

Oppure, ancora, "maraviglioso" può essere perfino la mancanza della facoltà del dono di operare "maraviglie", miracoli, che, come avviene in San Giovanni Battista che signum fecit nullum (Gv. 10, 41), non sminuisce minimamente la santità:

Vengo a formarvi proposizione maravigliosa, ma vera; ed è che se in altri l'eminenza della santità suole essere comunemente cagione ch'abbiano facoltà di operare gran maraviglie, in Giovanni l'eminenza della santità fu cagione ch'ei non l'avesse [...]. Che sarebbe stato se alla purità della vita avesse parimenti congiunta la podestà de' miracoli?(83)

Ma ancora il "maraviglioso" è l'aura di esotismo di un mondo lontano non conosciuto direttamente ma solo vagheggiato anche se per spirito missionario, ossia il mondo delle Indie, dell'Oriente: "tempestissimi golfi", "inaccessibili rupi", "popolose città", "impraticabili solitudini", "ultime falde del mondo", Segneri definisce quei luoghi, e gli abitanti: "popoli abbandonati dalla natura, ne' confini più impraticabili d'Oriente", "genti sì disgiunte di luogo, sì varie di usanze, sì contrarie di religione"; e le Indie luoghi "da noi disgiunti con tanta vastità di monti e di mari" dove ci sono almeno trenta paesi di linguaggi differentissimi insieme al Giappone, più incognito, più remoto, con i suoi sei regni: Sazzuma, Firando, Suvo, Meaco, Figen, Bungo. I "mercatanti e le loro merci", le tre più celebrate Accademie d'Oriente (da quella dei Brammani a quella degli Imani, a quella dei Bonzi), le monarchie di quelle terre (dal re di Candia, al re di Ulate, al re delle Maldive, al re del Macazarre, al re di Nuliagen, al re di Travancorre), i loro "fastosi diademi", nonché la savia Mora, moglie del re di Ternate, e il gran Principe di Rosolao, tutto è visto da Segneri come un mondo lontano, remoto, mostruoso e insieme affascinante ("ultimi termini della terra" definisce quei luoghi che vanno dal Giappone "più remoto" alla Cina vastissima e più inaccessibile"). E in questa atmosfera fantastica e per certi aspetti - come ho già detto - addirittura fantasmatica, inserisce persino la figura di Francesco Saverio:

All'ingresso di Francesco nelle Indie [...] il mare, a poco a poco avanzatesi a quei confini, pareva [...] qual umile pellegrino che [...] arrivato al bramato tempio, baciasse reverente la soglia e sciogliesse il voto [...]. Tornava egli dal Giappone, nell'India, quando a un'improvvisa burrasca che si levò, fu la sua nave trasportata in un mare nuovo ed incognito.(84)

Insomma questi luoghi, proprio per essere, per la loro estrema lontananza, ascrivibili alle meraviglie nascoste piuttosto che a quelle palesi, suscitano grande stupore sia che si tratti della metropoli dell'Oriente, Goa, definita "rocca, cuore della barbarie", sia della "barbara costa" di Pescheria, sia del reame di Travancorre e, sia delle "isole selvagge" delle Molucche, o di quelle "spaventose" del Moro, o delle secche di Ceilano, o dell'isola di Sancino, o della città di Malacca. Ed è sufficiente solo nominarli per evocare tutta la loro aura di esotismo, di mistero: da Goccino, a Sanciano, al Tornai, ad Amboino, al Mozambico, a Melinda, a Comorino, a Cambaja, a Cioromandello, a Goa, a Manapar, a Magapatan, ecc(85)

E ancora il "maraviglioso" è dato da certi squarci, certe atmosfere naturalistiche di serenità, di limpida lucentezza e pace:

Dotò la natura quel fiume [il Nilo] di perfezioni e di proprietà singolari [...]. Fra tutti i fiumi lui [è] il favorito. Perocché dove nelle estati ella scemi agli altri le acque, a questi le accresce [...] ed egli ampiamente innondando fuori del letto, scorre per le campagne, cuopre le valli, e cambiando i villaggi tutti in tante isole fortunate [...].(86)

Così parimenti, qualor ornava di tante piante la terra, di cedri, di cipressi, di ulivi, di palme, di platani [...].(87)

L'ape, la quale [...] in un fiorito orticello si appiglia [...] al citiso, al timo, alla santoreggia, al sermollino, alla persa [...].(88)

V'ha delle rose che son le delizie degli orti più signorili. V'ha de' cedri che sono la gloria de' Libani sì famosi [...].(89)

E altresì è da ritrovare pure nel "deforme", di cui ho già detto, proprio perché il deforme, alla luce di tutto il discorso segneriano sin qui svolto, mi sembra possa e debba essere inserito nella categoria delle meraviglie nascoste quale signal della presenza di una poetica del Sublime, che, puntando l'attenzione soprattutto sul contenuto, finisce per inglobare in sé persino lo stesso topos del meraviglioso con cui appunto si confonde, essendo l'altra faccia della stessa medaglia, soprattutto quando il topos in questione, di natura teologico-dottrinale, è ascrivibile al campo delle essenze.

Questo è quanto Segneri ha teorizzato e, insieme, quanto si è costruito circa il meraviglioso, quasi una sorta di "galleria", di "numeroso catalogo",(90) di repertorio, cui attingere e di cui servirsi per tessere i suoi Panegirici Sacri. Proprio in tale topos risiede la texture di quest'opera segneriana. Difatti, è dal "maraviglioso" che parte la spinta, l'input affabulatorio, narrativo. E ciò si determina su due piani: quello che produce il macrotesto narrativo, ovvero il genere panegirico che, nel campo ecclesiastico, si configura come discorso pubblico ai fedeli in cui si esalta un santo o un'altra figura del culto cristiano nella festività a essa consacrata, con il fine di edificare l'uditorio proponendo l'esempio delle sue virtù; e l'altro, dei tanti microtesti che dal macrotesto scendono a grappolo e che, pur essendo a questo strettamente legati, si possono configurare a livello estetico e narrativo come microtesti autonomi, conchiusi e perfetti in sé. Qui il ritmo narrativo improvvisamente cambia rispetto al registro della narrazione media dell'intero panegirico: meraviglia e impreziosimento stilistico del testo tutto.

Tornava egli [Francesco Saverio] dal Giappone nell'India, quando a un'improvvisa burrasca che si levò, fu la sua nave trasportata in un mar nuovo ed incognito, anche all'audacia medesima portoghese. Adoperarono i marinai ogni industria per assicurare il battello [...] ma nel più orrido della notte [...].(91)

Nerone [...] imperadore del mondo, dispone una memorabile spedizione. Per ordine suo si apprestano da più parti cavalcature, si radunano genti, si raccolgon denari, si compongono carriaggi, e si preparano provvigioni grossissime [...]. Si spargono preghiere per la partenza, si fanno voti per il ritorno. E frattanto spiccasi la famosa comitiva da Roma, capo del mondo. Tutti i popoli, per mezzo ai quali ella passa, domandano curiosi dove ne vada. A tutti rispondesi: va a cercar l'origine del Nilo
(...)(92)

Stava questa gran principessa, nominata Sarolta, vicina al parto, quando le apparve Santo Stefano in abito da diacono, e con volto allegro e con parole amorevoli: sappi, le disse, che arrivata è già l'ora della salute dei tuoi vassalli [...].(93)

Nel tempo che le Spagne erano infestate dai Mori, l'anno 1147, andò il re don Alfonso con un poderosissimo esercito sotto Almaria, città di Granata, per conquistarla. E perché l'impresa era molto ardua, aveva unito seco le forze di altri potentati e di altre provincie. Tra questi erano i Catalani con molte pronte squadre, sì terrestri come marittime, delle quali era ammiraglio Galzerano de' Pini, baron di Baga [...].(94)

Aveva egli [San Giovanni Evangelista] in una città dell'Asia scorto un giovane di indole generosa e di abilità singolare al culto divino. Lo die pertanto in serbo ad un vescovo, perch'egli stesso di persona allevasselo ne' costumi. Ma in progresso di tempo cominciò il giovane, qual cavallo sboccato, ad odiare il morso e a scuotere il direttore. Si diede ai giucchi, a crapole, a passatempi [...].(95)

Era egli [Gregorio il taumaturgo] da' romitori salito per opera di Fedirne, alla sedia di Neocesarea, città in quel tempo tanto ingombrata di errori, che non vi si arrivava bene a discernere se quivi gli Etnici fosser finti Cristiani, o se i Cristiani finti Etnici.(96)

Andavane il ladrone infernale tutto superbo, ed a guisa di quell'incirconciso gigante de' Filistei insultava alla terra, insultava al cielo [...].(97)

Aveva Anselmo ricevuta dapprima Matilda in cura sotto Alessandro, quando era questa nel fior di sua giovinezza [...] ma per fuggirsene al chiostro l'aveva lasciata già non meno assodata nella virtù che adulta negli anni [...].(98)

A questi otto microtesti si debbono aggiungere altri sedici, di cui due presenti nel Panegirico Settimo in onore di Sant'Anselmo,(99) uno presente nel Panegirico Nono sugli ordini regolari,(100) due nel Panegirico Undecimo per la festa della Santissima Nunziata,(101) due nel Panegirico Duodecimo in onore di San Filippo Neri,(102) uno nel Panegirico Decimoterzo in onore di San Pietro di Parenzo,(103) uno nel Panegirico Decimoquarto in onore di Sant'Antonio da Padova,(104) uno nel Panegirico Decimosettimo sulla cattedra di San Pietro,(105)due nel Panegirico Decimottavo in onore di Sant'Ignazio di Lojola,(106) uno nel Panegirico Decimonono del Santo Angelo custode,(107) uno nel Panegirico Ventesimo in onore di tutti i Santi,(108) due nel Panegirico Ventesimoprimo in onore della Santa Casa di Loreto.(109)

Due di questi microracconti (Fidia e il saccente e Il giovane ateniese che si innamora di una statua) hanno la caratteristica di aprire il panegirico e, seppure assai brevi, sono due perle formali; sono di argomento classico, come sono, al contrario, di argomento storico-religioso quello di Giuliano l'Apostata contro i Persi, quello di Teodora moglie di Giustiniano e il diacono Vigilio, quello bellissimo per struttura narrativa di Leone il Trace e l'altro dell'Assedio di Orvieto da parte di Enrico figlio di Barbarossa e Pier di Parenzo, governatore di quella città, la cui struttura narrativa è direttamente funzionale all'intero panegirico cui si riferisce, come lo sono tutti gli altri di argomento prettamente religioso. Tali microtesti, seppure interamente funzionali ai panegirici in cui si trovano, in quanto proprio da quel macrotesto si originano, sono, come quelli che sembrano generarsi autonomamente, in sé conchiusi e perfetti, per cui al di fuori del loro valore e della loro funzione esemplare sono in una certa misura anche esornativi a livello formale dei singoli panegirici; di essi rappresentano l'aspetto estetico più riuscito e più valido, proprio perché, come ho già scritto, hanno un diverso ritmo e timbro narrativo rispetto al registro della narrazione media dei singoli panegirici. Un esempio valga per tutti; nel Panegirico Undecimo per la festa della Santissima Nunziata, parlando dell'umiltà, così Segneri scriveva:

Pare strana cosa, uditori, che si pretende favellar d'umiltà presso a' secolari, i quali mai non dirizzano ad altro fine tutti i loro pensieri, se non a questo, di comparire, di avanzarsi, di avvantaggiarsi, ad emulazione del coccodrillo, il quale solo fra tutti gli altri animali, non ha mai stato alcuno di consistenza, ond'è che tanto egli seguita a crescere, quanto vive [...]. E questo potrei io mostrarvi sulle persone di un San Bonito vescovo, di un Santo Ermanno prete, e di altri, i quali, mercé la loro umiltà, riceverno dalla Vergine onori tali, che mai non sarebbero lor caduti in pensiero. Ma per addur l'esempio di un uom di mondo, ascoltate quello che avvenne ad un tal Leone, Trace di Patria, capitano di professione.(110)

A questa prosa dal timbro argomentativo e razionale, propria dell'eloquenza epidittica e dimostrativa del panegirico, segue poi, allorché deve dimostrare, una prosa di tono e di timbro narrativo. Insomma, qui Segneri non dimostra ma narra, o meglio, narra dimostrando:

Camminava egli un dì per un certo bosco, non so se a cagione o di viaggio, o di caccia, o di passatempo, quando udì da lungi una voce, come di uomo lagrimoso e languente. S'arrestò egli per comprendere meglio donde uscisse quel suono.(111)

Dunque, questi microtesti in cui Segneri narra, racconta, sono al di fuori dei moduli narrativi dell'eloquenza religiosa barocca, fondata sulla retorica, e s'inseriscono in un registro di meraviglioso meno teologico-dottrinale e più storico-reale. Questo, presi in sé, al di fuori di quel macrotesto di cui pur fanno parte. All'interno di esso, al contrario, partecipano di quella sezione dimostrativa, esemplare, di un discorso retorico che si fondava certo sulla inventio e sulla dispositio, piuttosto che sulla elocutio.

Difatti, quando Segneri ammetteva che al fine della educazione e quindi della persuasione era necessario basarsi su di un "discorso solenne",(112) certamente, per tutto quanto ho dimostrato, il solenne era riferito più al contenuto che alla forma, in quanto la prima cosa da bandire era giusto il ricorso alle favole, alla menzogna:

Soglionsi gli oratori comunemente procacciare la benevolenza e lusingar la credulità di chi gli ode con dissimulare per via di occulti artifcj ciò ch'eglino hanno o di speciale affezione, o di privata utilità nella causa e con ispacciarsi tutti carità, tutti zelo. Ma lungi lungi da me precetti mal confacevoli a un cuor leale. Io mi dichiaro apertissimamente, sicché ognun sappialo, di voler trattare una causa in cui son tutto passione, tutto interesse. Provar vi voglio che a qualsiasi religioso portar conviensi un'altissima riverenza. Però guardatevi di non prestar niuna fede, se non a quello che io farò vedervi con gli occhi e toccar con mano. Non avete a tenere in pregio veruno il peso della mia autorità, ma solamente il valor delle mie ragioni.(113)

Nonostante, o proprio per tale avvertimento, i Panegirici non sono spogli, privi di bellezza e, tra i molti, primeggiano quello per La festa di tutti i Santi e l'altro In onore di Santo Stefano Protomartire, essendo tutti scritti con qualche finezza stilistica che deriva loro non tanto da un'esasperata attenzione di Segneri, a, diciamo così, una retorica della forma, quanto piuttosto da una maturata adesione a una retorica del contenuto, che è come dire dalla prioritaria fedeltà alle ragioni di una poetica di moderato barocco, e da questa a quelle di una poetica del Sublime, mediante la quale poteva moderare gli eccessi stilistico-formali propri del secolo. Ma ciò non è stato sempre del tutto sottolineato dalla critica, a discapito di una giusta e complessiva comprensione di quest'opera segneriana.

Difatti strana e singolare fortuna è toccata, sin dal loro apparire, nel 1664, ai Panegirici Sacri, se lo stesso loro autore li ha definiti "sconciaturelle rozze" e la critica, nonostante la Crusca li abbia citati, seppure non frequentemente, li ha giudicati opera non riuscita. Si pensi ad Antonio Meneghelli che, nel suo Elogio di Paolo Segneri, fra le opere del gesuita nettunese non reputa degno di ricordare i Panegirici "perché, dettati in sull'aprile degli anni, precedono di molto l'epoca fortunata in cui [egli] si accinse a riformare se stesso e l'eloquenza dei suoi giorni"; e, da ultimo, si pensi a Quinto Marini che, nell'introduzione a una recentissima riedizione delle ottocentesche Novelle morali eloquentissime,(114) parla di "ingenue e rozze marcature stilistiche" dei Panegirici.(115) Non si accorge Marini che "la dura sostanza degli ideali segneriani di riforma" dell'eloquenza sacra realizzata con il Quaresimale, ovvero con quell'opera della maturità tutta nutrita di dottrina e tutta impegnata culturalmente nei grandi dibattiti del quietismo e del probabilismo e nella quale si evitano le stranezze di una predicazione barocca e concettista, dicevo, non si accorge Marini che la riforma dell'eloquenza sacra inizia proprio da qui, dai Panegirici e, specificamente, dalla teorizzazione e dall'uso segneriani, davvero personalissimi, del topos secentesco del "maraviglioso", di quel meraviglioso appunto, in cui, come del resto era avvenuto per Sacchi, un posto fondamentale lo giocava l'ingegno inteso, come scrive - Michele Cataudella - quale nuovo centro del fare artistico e letterario.

 

NOTE

1 - P. Segneri, Panegirici Sacri, in Id., Opere, tomo I, Prediche e Panegirici, Società Tipografica di Classici Italiani, Milano 1837, p. 523.

2 - Ibid.

3 Ivi, p. 527.

4 - Ibid.

5 - Ibid.

6 - Ibid.

7 - Ivi, p. 526.

8 - Ivi, p. 524.

9 - Ivi, p. 661.

10 - Ivi, p. 728. Certo la spietata analisi che Segneri fa del suo tempo assume toni e accenti polemici ancora più forti. Quegli anni venivano da lui definiti "lubrici" proprio perché caratterizzati da un "popolo scorretto", da "uomini effeminati" che "in vane pompe collocar sempre usano ogni lor gloria in fasti, in abbigliamento, in divise"; da "giovani irriverenti" che "ogni dì più cercano di gale onde comparir più lampanti"; da "donne vane" che "ogni dì inventano di più di lisci onde comparir più vezzose". Ma i guasti morali non si arrestavano qui. Essi investivano l'intera Cristianità che era "combattuta da tanti vizi", la stessa Gentilità che era "ingombrata da tanti errori", le stesse Corti che vivevano in uno "splender lusinghevole". Cosicché "morbidezze", "lussi", "gozzoviglie", "ricchezze", "fasto", "vita fiorita e lusinghevole", costituivano - a parere di Segneri - la cifra morale di quel secolo (cfr. Ivi, pp. 635, 636, 637, 641, 661, 671, 691, 727).

11 - Ivi, p. 728.

12 - Ibid. E dove è regola "vestir seta, [...] mantener cavalli, [...] metter cocchio, [...] condur servi a livrea [...] farsi più povero [...] per parer ricco" (Ibid.); e dove è gloria tenere nei palazzi "superbamente addobate le camere dell'udienza" con "i broccati più splendidi", con "i tavolini più figurati", con "le trabacche più fini", con "le argenterie più magnifiche" (Ibid.); e dove persino giardini, boschetti e ville appaiono di una sontuosità artificiosa "con prospettive fallaci, con metalli fittizj, con marmi finti, e con altre mille guise d'inganni deluditori, in cui [...] trionfa più che mai mirabile ogni arte" (Ibid.).

13 - Ivi, p. 524.

14 - Cfr. Ivi, p. 525.

15 - Ivi, p. 527.

16 - Ivi, p. 526.

17 - Ibid.

18 - Ibid.

19 - Ivi, p. 538.

20 - Ibid.

21 - Ivi, p. 580.

22 - Ivi, p. 609.

23 - Ivi, p. 573.

24 Ivi, p. 574. Riferendosi a tali oscenità Segneri così precisava: "come quelle di un Giove infellonito dietro un'Europa", di "un Apollo perduto per una Dafne", di "un Plutone involatore d'una Proserpina" o ancora come quelle di non sapere trattare sulle scene "se non rozzi innamoramenti", di non sapere proferire "se non disoneste facezie", di non sapere celebrare nelle Accademie "se non bellezze impudiche" (Ivi, pp. 573-574).

25 - Ivi, p. 573.

26 - Ibid.

27 - Ivi, pp. 629 e 669.

28 - Ivi, p. 629. Un'arte siffatta, proprio perché si esemplava anche sul modello della retorica classico-cristiana di Lattanzio e Tertulliano, doveva altresì guardarsi dall'assu-mere a suo contenuto tutto ciò che non fosse in linea con le verità morali del cristianesimo, ovvero - come scrive Segneri - non doveva prestare fede ad "alcune penne malediche, il cui inchiostro è come quello della seppia, che, posto nelle lampare accese, fa tutte comparire schifose ed orride anche le più belle figure" (Ivi, pp. 573 e 682).

29 - Ivi, p. 573.

30 - Si legga a mo' di esempio quanto scrive Segneri: "questo è l'oggetto al quale in questo mio solenne discorso io drizzerò tutti i dardi per essere più sicuro di dar nel segno"; e ancora: "Oh povera Chiesa [...] che farai con un lupo tale assegnateti per custode? [...] Questa è la volta che rimarrà per lo meno l'ovile aperto agl'insulti di tutti i ladri; che nessun cane fedele oserà più latrare per atterrirli" (Ivi, pp. 584 e 684-685).

31 - Si legga in proposito: "Perciocché quindi più chiaramente scorgea di venir all'amata dal suo consorte con un affetto di benevolenza celeste, non di concupiscenza brutale, mentr'egli si era contentato per lei di far come l'olmo, il quale si sposa alla vite, ma non per altro che per reggere i pesi del matrimonio, non se la sposa per ricavarne i profitti" (Ivi, p. 598).

32 - Valga tale esempio: "Essendo i Religiosi [...] coloro, contro de' quali hanno gli eretici degrignati più i denti, e quai rabbiosi mastini dati più urli, avventati più morsi, e vomitata più stomacosa la bava de' loro inchiostri" (Ivi, p. 606).

33 - Cfr. B. Menzini, II Sublime, in Id., Arte poetica, vv. 112-132, in Poesia italiana. Il Seicento, a cura di L. Felici, Garzanti, Milano 1978, pp. 540-542. I due elementi estetici valorizzati dal vecchio trattato ellenistico, ovvero la portata dell'entusiasmo nelle arti e la soggettività di quel che si denomina Sublime, saranno ripresi e approfonditi - soprattutto il secondo che vuole appunto il Sublime essere nell'anima non già nelle cose, nel soggetto non già negli oggetti - dalle nuove filosofie. Difatti mentre Home nei suoi Elementi di critica connetteva il Sublime con le emozioni forti, Burke più analiticamente riteneva fonte del Sublime tutto ciò che è terribile, o ancora, quel qualcosa che, isolato in altro contesto, appare come brutto, ma che, in appropriato contesto estetico ci da un "orrore dilettevole". Queste considerazioni che Burke svolse nel suo libro del 1756, Ricerca filosofica sull'origine delle nostre idee del Bello e del Sublime, influenzarono Kant, il quale ne trattò sia nelle Osservazioni sul sentimento del Bello e del Sublime del 1764, sia nella Critica del giudizio del 1790.

34 - Cfr. nt. 19 del saggio su Andrea Sacchi a p. 72 di questo volume.

35 - Cfr. nt. 20 del saggio su Andrea Sacchi a p. 72 di questo volume.

36 - Cfr. nt. 21 del saggio su Andrea Sacchi a p. 73 di questo volume.

37 - Cfr. nt. 22 del saggio su Andrea Sacchi a p. 73 di questo volume.

38 - P. Segneri, Panegirici Sacri, cit., p. 722.

39 - Ivi, pp. 722-723.

40 - Alcuni rappresentavano Proserpina "la quale sen va per un prato cogliendo fiori", altri una Europa "la quale sen va sopra un lito cercando perle", oppure un Narciso "il quale si sta [...] specchiando al fonte" (Ivi, p. 722). Mi sembra di poter cogliere qui una sorta di polemica contro il "maraviglioso" della classicità in quanto solo ed unicamente vuota forma. Quanto da me ora affermato si chiarirà nei suoi contenuti allorché, più avanti, tratterò del topos del meraviglioso.

41 - Ivi, p. 722.

42 - Ivi, p. 723.

43 - Ibid.

44 - Ibid.

45 - Ivi, p. 728.

46 - Ibid.

47 - vv, p. 584.

48 - Ivi, p. 655.

49 - Ivi, p. 677: "rendere ben per male, onori per onte, ed applausi per villanie".

50 - In proposito si legga questo passo segneriano: "[...] se Dio vi vuoi poveri, vi contentiate della [...] mendicità, se infermi, il benedichiate ne' vostri mali; se afflitti, lo ringraziate nelle vostre tribolazioni; e [...] senza punto invidiare l'altrui fortuna, vediate volentieri precedervi quei vostri concittadini i quali ha Dio collocati in grado maggiore o di dignità, o di ricchezza, o di podestà" (Ivi, p. 677).

51 - In linea con ciò Segneri invitava a vantare "per gloria i dispregi, per tesoro la nudità, per sollazzo i tormenti, per potenza la debolezza, per grazia gli oltraggi, per riso le lagrime, per contentezza gli affanni", e insisteva sulla "purità", sulla "fede", sulla "carità", sulla "sincerità", sulla "schiettezza, sulla rettitudine, sulla pietà" (Ivi, pp. 535, 577, 447, 665, 584, 647, 584).

52 - Segneri distingueva tra perfezioni assolute, in quanto proprie di Dio, e relative, in quanto proprie delle creature se non attuali almeno possibili. Tra le prime annoverava l'infinità da cui derivano l'immensità, l'eternità e l'immutabilità. Tra le seconde annoverava: la potenza, la provvidenza, la sapienza, la giustizia, la misericordia, la bontà, la benignità, l'amore, la liberalità, la padronanza (Ivi, p. 567).

53 - Ivi, p. 576.

54 - Ivi, p. 664. Particolarmente duro era Segneri nei confronti del peccato carnale che con disprezzo definiva: "concupiscenza brutale", "vomito sessuale", "dissoluzioni di senso" (Ivi, pp. 598, 600, 732, 630).

55 - Ivi, p. 641.

56 - Ivi, p. 727. Così in proposito scriveva: "La beltà d'un Cristiano dovrebbe tutta essere posta in aver le carni livide da flagelli, afflitte da cilicj, macere da catene, consunte da patimenti" per cui "ogni piaga [...] fatta per tal cagione, pregiar [...] si dovrebbe qual cara gioia!" (Ivi, p. 727).

57 - Ovvero combatteva tutti coloro al mondo che "si sono di Mercurio valuti a [...] fine [...] per cui si vagliono i chimici del mercurio, ch'è per trar l'oro", e, in modo particolare, combatteva "la magia con i suoi trattati occulti [...]" definita "fucina di stregherie, epilogo di incantesimi" (Ivi, pp. 576, 543, 643, 694).

58 - Ivi, p. 721; cfr. pure pp. 638, 686, 717.

59 - Ivi, pp. 606, 607, 681.

60 - Ivi, pp. 540, 683. Si legga in proposito questo passo: "ma chi è nato vile, difficilmente egli può co' propri talenti arrivare a nobilitarsi [...]. È vero ch'egli può con essi ascendere a gradi anche sublimissimi; ma sempre in lui rimane indelebile quella nota: egli è di schiatta plebea, di sangue putente, di vil prosapia servile" (Ivi, p. 540).

61 Ivi, pp. 576, 690. Certamente diversi rispetto a quelli usati per descrivere la plebe sono i toni e gli accenti di cui Segneri si serve per descrivere la nobiltà. Si legga in proposito: "era egli [Tommaso] nato da prosapia ricchissima, nobilissima, splendidissima; e però troppo si sarebbe egli sdegnato di avvilire il suo ingegno a raccor denaro" (Ivi, p. 576).

62 - Ivi, p. 672.

63 - Ivi, pp. 670, 671, 672.
64 - Ivi, p. 622. In proposito si legga anche questo passo: "De' pianeti dicon gli astrologhi, che se mai copiosi diffondono i loro influssi, ciò avviene quand'essi soggiornano in propria casa. Così fa la Luna, quando abita nel suo Cancro, così Mercurio ne' suoi Gemini, così Venere nel suo Tauro, così il Sole nel suo Leone, così Marte in suo Ariete, così Giove ne' suoi Pesci, e così Saturno [...] nel suo Acquario" (Ivi, p. 718).

65 - Cfr. E. Tesauro, Il cannocchiale aristotelico o sia idea dette argutezze eroiche vulgarmente chiamate imprese e di tutta l'arte simbolica e lapidaria, contenente ogni genere di figure e inscrizioni espressive di arguti e ingegnosi concetti, esaminata infante co' rettorici precetti del divino Aristotele, che comprendono tutta la rettorica e poetica elocuzione, Settima impressione accresciuta dall'autore di due nuovi trattati, cioè De' Concetti Predicabili e Degli Emblemi, con un nuovo Indice Alfabetico oltre a quello delle Materie, per Gioseffo Longhi (con licenza de' Superiori), Bologna MDCLXXV, pp. 332-358, soprattutto p. 333.

66 - P. Segneri, Panegirici Sacri, cit., p. 529.

67 - Ibid.

68 - Ibid.

69 - Del resto il Santo per la sua natura di eccezionalità interiore, ovvero per il suo in sé sublime, è ascrivibile - per quanto ha teorizzato Segneri - alla categoria delle "maraviglie nascoste" piuttosto che a quella delle "maraviglie palesi". Solo attraverso il miracolo tali "maraviglie nascoste" diventano palesi. E poiché gli uomini ricercano avidamente più le prime che non le seconde, sono proprio esse - le "maraviglie nascoste" -, una volta scoperte, a suscitare maggiore stupore (Ivi, p. 544). Inoltre per il topos della "maraviglia" e per quello ad esso strettamente collegato dello stupore cfr. Ivi, pp. 529, 530, 531, 532, 533, 534, 538, 542, 543, 548, 551, 553, 554, 555, 561, 562, 568, 578, 579, 583, 585, 590, 595, 604, 605, 612, 617, 618, 620, 627, 628, 629, 631, 639, 640, 641, 643, 649, 650, 651, 652, 655, 656, 657, 659, 661, 662, 663, 664, 665, 667, 668, 669, 670, 671, 672, 673, 674, 675, 677, 680, 681, 683, 687, 688, 689, 692, 694, 695, 696, 697, 701, 705, 710, 711, 716, 718, 725, 729, 730.

70 - Ivi, p. 683.

71 - Francesco Saverio, il predicatore delle Indie (cfr. Ivi, p. 529), Santo Stefano, il primo martire della cristianità che ha dato la vita per Cristo (cfr. Ivi, p. 547), ecc.

72 - Ivi, p. 677.

73 - Ivi, p. 563.

74 - Ivi, p. 620.

75 - Ivi, p. 669.

76 - Ivi, p. 531.

77 - Ivi, p. 662.

78 - Ivi, p. 568.

79 - Ivi, p. 543.

80 - Ivi, p. 542.

81 - Ivi, p. 554.

82 - Ivi, p. 584. (L'"atto maraviglioso" è quello di Sant'Anselmo che rifiuta l'investitura vescovile da Enrico re di Germania).

83 - Ivi, p. 673.

84 - Ivi, pp. 532, 534, passim.

85 - Ivi, pp. 535, 536, 537, 559, 606, 609, 691.

86 - Ivi, p. 542.

87 - Ivi, p. 619.

88 - Ivi, p. 620. Cfr. anche Ivi, p. 619-

89 - Ivi, p. 662.

90 - Ivi, p. 539.

91 - Francesco Saverio e il battello alla deriva (Ivi, p. 532). Per l'intero microtesto, come del resto per tutti gli altri che sono presenti nell'opera segneriana, rimando il lettore all'Appendice di questo mio saggio.

92 - Nerone manda a cercare l'origine del Nilo (Ivi, p. 542).

93 - Santo Stefano appare alla madre di Stefano I d'Ungheria (Ivi, p. 553).

94 - Santo Stefano libera dai Mori l'ammiraglio Galzerano de' Pini (Ivi, pp. 554-555).

95 - San Giovanni convince un giovane a mutare vita (Ivi, pp. 558-559).

96 - Come Gregario il Taumaturgo cancellò le eresie di Neocesarea (Ivi, p. 560).

97 - Le imprese del demonio (Ivi, pp. 568-569).

98 - Sant'Anselmo contro i Lombardi scismatici (Ivi, pp. 587-588).

99 - La sepoltura di Sant'Anselmo e il vescovo di Sutri Bonizzone (Ivi, pp. 591-592);
II Battista (Ivi, p. 593). I titoli di questi microtesti, come del resto di tutti gli altri che appaiono nelle note che vanno dal numero 90 al 97 o quelli che seguiranno, non si trovano nel testo segneriano. Sono titoli fittizi dati da me per meglio rintracciare i microtesti in questione nel panegirico che li contiene. Di essi si da riproduzione fedele nell'Appendice di questo mio lavoro.

100 - Giuliano l'Apostata contro i Persi (Ivi, p. 615).

101 - Fidia e il saccente (Ivi, p. 625); Leone il Trace (Ivi, pp. 632-633).

102 - San Filippo e il patrizio romano prossimo alla morte (Ivi, p. 636); San Filippo e il cardinale Gabriello Paleotto (Ivi, p. 639).

103 L'assedio di Orvieto da parte di Enrico figlio di Barbarossa e Pier di Parenzo, governatore di quella città (Ivi, pp. 643-645).

104 - Sant'Antonio e gli animali marini (Ivi, p. 655).

105 - Teodora moglie di Giustiniano e il diacono Vigilio (Ivi, pp. 683-684).

106 - Sant'Ignazio tentato dal demonio (Ivi, p. 692); Estasi di Sant'Ignazio (Ivi, p. 694).

107 - Mosè e l'Angelo armato (Ivi, pp. 698-699).

108 - Proclo vescovo di Costantinopoli ricorda San Giovanni Crisostomo e chiede a Teodosio di ricondurne la salma a Costantinopoli (Ivi, pp. 711-713).

109 - Un giovane ateniese si innamora di una statua (Ivi, p. 715); Una luce apparsa improvvisamente nella casa di Loreto mentre vi predica un sacerdote (Ivi, p. 719).

110 - Ivi, p. 632.

111 - Ivi, pp. 662-663.

112 - Ivi, p. 584.

113 - Panegirico Nono, Ivi, pp. 605-606.

114 - P. Segneri, Novelle morali eloquentissime, a cura di Q. Marini, Magnanti, Nettuno 1993. 115

115 - Ivi, p. 12.






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