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Dilettevole Inganno e
Ingegnosa Maraviglia

Studi su Antonio Ongaro,
Andrea Sacchi, Paolo Segneri

di Rocco Paternostro

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Introduzione

"Dio ti salvi, lettore, dai prologhi lunghi". Con questa citazione di Francisco Gómez de Quevedo, Jorge Luis Borges terminava il 19 aprile 1970, l'introduzione alla sua bellissima raccolta di racconti brevi Il manoscritto di Brodie.

Con questa citazione e rinunciando, cosi come fece in quell'occasione il grande argentino, "alle sorprese di uno stile barocco", desidero inoltrare il lettore alla conoscenza di questo mio libro su alcuni aspetti artistici e letterari che, per una serie di circostanze fortuite, maturarono, sulla fine del Cinquecento e nel medio e tardo Seicento, direttamente o indirettamente a Nettuno, per opera di tre autori che con Nettuno appunto ebbero in qualche modo a che fare.

Il libro, che oggi vede la luce, nasce quasi per caso ed è lontano dall'offrire al lettore un finale inatteso e dal volere suscitare in lui una qualche aspettativa o un qualche stupore. Il libro, più semplicemente, vuole testimoniare come esso sia il prodotto esclusivo e assoluto del caso e del piacere, se non addirittura del gioco: elementi questi che mi hanno permesso di ricostruire una fortunata, e ceno irripetibile, stagione culturale maturata, tra manierismo e barocco, in un angolo appartato di periferia romana, in un particolare momento della storia politica, economica, sociale e civile della nostra penisola, caratterizzata e profondamente segnata dall'emergere e affermarsi di una forma di economia e di organizzazione precapitalistiche, di cui traccia evidente fu la divisione sociale del lavoro e il contrasto tra città e campagna (città e lido), che allora comparvero; fenomeni questi che gli intellettuali portarono sulla pelle e registrarono già al loro primo apparire e quindi al loro pieno affermarsi.

Certo, se ogni linguaggio è una tradizione e se ogni parola è un simbolo condiviso, per dirla con Borges, è pur vero però che il linguaggio e la parola di cui mi servo in questo mio libro nascono da un'irrefrenabile e inarrestabile necessità: la necessità di dire coniugata a quella dì chiarire; ovvero di chiarire e di chiarirmi quale valore assunsero e quale funzione svolsero, in quella società precapitalistica italiana cinque-secentesca, la letteratura e l'arte nelle loro varie determinazioni di favola pastorale, di panegirico sacro, oppure di narrativa pittorica. Che poi non è altro che il tentativo di capire se il realismo fantastico, quale caratterizzazione del romanzo nella sua fase iniziale (si pensi a Rabelais e Cervantes) - nato, come vuole Lukàcs, da un Iato, dalla visione utopica delle grandi forze dell'epoca e, dall'altro, dalla comparazione satirica del vecchio mondo in dissoluzione e di quello nuovo che stava nascendo coi grandi principi di lotta contro la degradazione dell'uomo - fosse un'acquisizione esclusiva del romanzo borghese allora nascente; o, piuttosto l'elemento caratterizzante di esso, ovvero la consapevolezza della vita degradata dell'uomo fosse un'acquisizione generalizzata presente in ogni forma d'arte e, perciò, propria dell'intellettualità d'allora, magari più marcata in quella schiera di intellettuali maggiormente avvertita e consapevole, i cui rappresentanti erano consci di essere persone concrete in circostanze concrete la cui vita privata era in contrasto non solo con la vita sociale antica, ma soprattutto con quella moderna.

In proposito penso all'azione svolta dalle Accademie, fiorite numerose in quegli anni, vere e proprie istituzioni letterarie, in cui gli intellettuali si riconoscevano parte di un gruppo, di un micro-universo culturalmente omogeneo; Accademie che specialmente nel Seicento sorsero a decine sia nelle grandi città, sia nei centri di periferia e che esprimevano o una volontà di impegno intellettuale e di resistenza, ai condizionamenti esterni (Accurati, Coraggiosi, Illuminati, Infaticabili, Riformati, Risoluti), oppure denunciavano l'oggettiva situazione di disagio (Addolorati, Confusi, Disarmati, Smarriti), o, ancora, stigmatizzavano la situazione di disoccupazione intellettuale (Abbandonati, Inutili, Negletti, Sfaccendati), o, infine, avevano scopi scientifici ben marcati e finalizzati come l'Accademia dei Lincei, fondata a Roma nel 1002 dal principe Federico Cesi e che annoverò fra i suoi membri anche Galileo Galilei, e come l'altra del Cimento, fondata nel 1657 da Leopoldo di Toscana, il cui prestigio e la cui notorietà le vennero da scienziati quali Vincenzo Viviani, Francesco Redi, Lorenzo Magalotti, Evangelista Torricelli; Accademie, queste ultime due, cui seguirono più tardi, a livello europeo, la Royal Society di Londra costituitasi negli anni Quaranta, ma riconosciuta ufficialmente da Carlo II di Inghilterra solo nel 1662 e l'Accadèmie Royale des Sciences, istituita nel 1666 dal ministro francese Jean Baptiste Colbert. Ma anche penso all'azione svolta dall'enciclopedismo cinquecentesco, ovvero da quel classicismo filologico umanistico e manieristico, età di thesauri e florilegi, in cui lo scontro fra metodo ed erudizione assunse !e sembianze di una rivalità fra topica ramista e riscrittura manieristica, fra - come scrive Cherchi - theatri metodizzati e silvae di citazioni, e soprattutto penso all'enciclopedismo barocco: da quello millenaristico di Alsted, a quello catastrofistico di Kircher, a quello dell'infinitezza della sostanza metafisica eli Leibniz, con il conseguenziale paradosso dell'ostilità fra la dimensione speculativa e quella operativa. Enciclopedismo barocco le cui concezioni, come ha acutamente notato Federico Luisetti in un suo recente e dottissimo saggio,(1) dipendevano da paradigmi teologici di tipo escatologico, laddove la ricognizione totale dello scibile si poneva non solo in concorrenza con l'immagine naturale del mondo, quando non addirittura con il suo diritto alla sopravvivenza, ma anche con il tentativo eli ricomporre quella totalità tra uomo e natura, tra uomo e società che ormai si era irrimediabilmente persa; ovvero poneva alla ribalta "l'imbarazzante questione del senso della totalità del senso, e in particolare di che cosa avrebbe significato contemplare il mondo in un suo duplicato perfetto- (Luisetti), in quel particolare momento epocale di crisi della coscienza europea.

 

Per l'appartenenza al paradigma apocalittico-catastrofico, scrive in proposito Luisetti, proprio della tradizione giudaico-cristiana, l'enciclopedia occidentale è costretta a confrontarsi con i teologemi della fine e della redenzione. Poiché è impossibile che un libro divino venga accettato come Grande Codice in una storia umana senza conclusione e costellata di continue produzioni di senso, .sulla scorta della Bibbia i massimalisti occidentali del libro prediligono la "visione della storia come processi di crolli (o distruzioni) seguiti da rinascite (o ricostruzioni)". [...]. L'accumulazione enciclopedica si inserisce per lo più tra gli effetti redentivi sviluppandosi come fase positiva che segue al collasso dei vecchi ordinamenti (Kircher). Ma talvolta essa segnala l'avvicinarsi della fine presentandosi come un archivio della totalità condannata della storia, un inventario della terminale età del mondo (Alsted). Il nesso fra i segni escatologici della catastrofe e le visioni totali di rinnovamento (trasformazioni sociali, plenitudo temporis) - seguita Luisetti - si ripropone nelle enciclopedie barocche come successione di epochè metodologiche e totalità salvifiche. Come Nuova Gerusalemme, Arca mystica, Panacea o Clavis l'enciclopedia si solleva dalla distruzione [...]. E d'altronde il vocabolo greco apokalypsis, come il tedesco Offenbarung, significa al contempo distruzione e rivelazione, annuncio della catastrofe e contemplazione della verità [...]. A livello testuale - conclude il giovane studioso torinese - è invece la moltiplicazione degli stili propria del "tono apocalittico- a richiamare la varietà stilistica dei testi enciclopedici, opere a più mani rivolte a un destinatario collettivo: "dai momento in cui non si comprende più chi parla o scrive, il testo diviene apocalittico".(2)

 

L'enciclopedia, proprio perché era un archivio della totalità della storia, un'opera a più mani rivolta a un destinatario collettivo, non solo, come vuole Luisetti, era un testo apocalittico, ma era anche, a mio modo di vedere, un testo che mirava, magari suo malgrado, a ricondurre a totalità la separazione tra uomo e natura, tra uomo e società. Del resto, come segnalano le considerazioni di Walter Benjamin sul ''collezionismo barocco", di Martin Heidegger sulla "volontà di sistema", di Michel Foucault sull'"età della rappresentazione" e, come sostiene Federico Luisetti richiamandosi a tali studiosi, in quell'epoca intorno a ogni disciplina -dalla retorica citazionistica alla poetica allegorica, dalla museo-grafia enciclopedica alla filosofia sistematica - e a ogni concetto
- dall'agudeza alla monade, dall'eco cartesiano all'ordo - si coagularono delle totalità.(3)

Insomma, proprio per la natura collettiva dell'enciclopedia, gli enciclopedisti finirono per dare una risposta, non so fino a che punto voluta, alla degradazione della vita privata in contrasto e con la vita sociale antica e soprattutto con quella moderna.

Tale contrasto che fu un contrasto generale della società, maturatesi visibilmente già nel tardo Cinquecento, fu avvertito e vissuto, seppure in maniera diversa, e quindi meno forte e originale rispetto agli enciclopedisti, anche da autori quali Antonio Ongaro, Andrea Sacchi, Paolo Segneri. Autori che, vivendo in periodi differenti: nel tardo Cinquecento l'Ongaro, nel medio e tardo Seicento - ovvero nel secolo che mise in crisi e vide sfaldarsi le certezze del precedente, gettando le basi della modernità - gli altri due; dicevo, autori questi che vivendo in periodi diversi, ebbero tutti e tre a che fare con la città dì Nettuno. Ongaro vi soggiornò a lungo e vi ambientò la sua favola pescatoria Alceo che qui rappresentò, alla corte dei Colonna, per la prima volta. Sacchi vi ebbe la propria formazione artistica, avendovi risieduto da fanciullo, in quanto - come recentemente ipotizzato - adottato da Benedetto Sacchi, pittore del luogo di mediocre levatura. Segneri vi ebbe i natali.

La risposta che dettero a quel contrasto non fu certamente una risposta da eroi, rifugiandosi tatti e tre nell'arte: il primo intendendola come una sorta di dilettevole inganno, gli altri due come luogo privilegiato di un'ingegnosa meraviglia e, quindi, per questa fuga dal mondo che, del resto, come sottolineato da Benjamin, fu propria del Barocco, in cui la crisi delle certezze rinascimentali sfociò, anche se solo in rarissimi casi, in un'arte della crisi, mentre nella maggior parte dei casi, come scrive Guido Morpurgo-Tagliabue, sfociò in un'arte della conciliazione, -della soluzione, del risultato facile e artificioso, ancorché iperbolico-; - come dicevo - quindi, proprio per questa fuga dal mondo, Ongaro, Sacchi e Segneri evitarono di prendere direttamente posizione nei confronti di quella società degradata, e se lo fecero, come nel caso di Segneri, lo fecero unicamente nel nome dei principi religiosi di ispirazione cattolico-tridentina. In tal senso, fuggendo dal mondo, sfuggirono alle loro responsabilità soggettivo-storiche e contribuirono, come del resto la grandissima parte degli scrittori, artisti e poeti di allora, alla nascita e alla affermazione di un intellettuale passivamente sottomesso al potere, prima, nel Cinquecento, adulatore del signore di cui era al servizio fosse egli principe o marchese o cardinale e, quindi, nel Seicento, di un intellettuale votato a svolgere un ruolo subalterno, secondario e marginale, certamente non in rapporto diretto con la realtà, allorché quella divisione sociale del lavoro di cui detto ne specificò le caratteristiche e ne mutò la condizione, costringendolo ora a vivere del suo lavoro come un qualsiasi professionista, e non più all'ombra protettiva di un qualche signore mecenate, così come era stato nel secolo precedente. Però, nel passaggio dal Cinquecento al Seicento, l'intellettuale, pur mutando i propri caratteri, conservò nella società un ruolo subalterno e secondario e mantenne inalterato il suo distacco dalla realtà. Tant'è che, a ragione, Antonio Gramsci, nei suoi Quaderni del carcere, parlando dell'intellettuale tradizionale italiano aveva potuto scrivere che la sua caratteristica precipua fu, soprattutto nel Rinascimento, quella di sentirsi più legato ad Annibal Caro che non a un contadino pugliese o siciliano. Quindi un intellettuale disimpegnato, che del disimpegno faceva il suo vanto e insieme la sua ragione d'essere, fu l'intellettuale che in quegli anni tra il Cinquecento e il Seicento, pur con i mutati caratteri di cui detto, andò configurandosi nel nostro paese, del resto così bene stigmatizzato e rappresentato qualche anno prima da Baldassarre Castiglione che con il "cortigiano" teorizzò l'intellettuale tipo rinascimentale e da Ludovico Ariosto che, in una delle sue Satire, si lamentava che il suo signore "da poeta cavalier lo fee", sebbene in lui si legga una polemica contro i valori fittizi della vita di corte, del resto adombrata più tardi anche dal Tasso dell'Aminta soprattutto nella figura del Satiro, e quindi sebbene si legga la difesa della propria dignità di poeta e la scelta e la rivendicazione della libertà dell'intellettuale, per cui Ariosto non esita a prorompere in questi versi e contro il servilismo dell'epoca e contro il cardinale Ippolito d'Este che a questo servilismo avrebbe voluto vincolarlo:

Oh, tutti dotti ne la adulazione
l'arte che più tra noi si studia e cole.''(4)

Chi brama onor di sproni o di cappello,
serva re, duca, cardinal o papa;
io no, che poco curo questo e quello.(5)

Or, conchiudendo, dico che, se 1 sacro
Cardinal comperato avermi stima
con li suoi doni, non m'è acerbo et acro
rendergli e tòr la libertà mia prima (6)

 

Insomma un intellettuale, quello formatesi in Italia in quel periodo, che finì per abdicare a se stesso, ovvero a essere uomo del suo tempo con il quale, al contrario, avrebbe potuto e dovuto entrare in conflitto; cosicché evitando di "sporcarsi le mani" quell'intellettuale finì per abdicare alla sua propria responsabilità personale-storica, scegliendo di essere puro letterato, o, che è lo stesso, puro ricercatore di un'utopica e asettica isola dell'arte, nella quale potesse realizzare un ideale di vita serena e tranquilla. Questo configurarsi e cristallizzarsi della letteratura, quale rifugio ed evasione dal reale, nell'utopia di una astorica e metatemporale isola dell'arte è l'elemento aggregante che conferisce unità e compattezza ai tre saggi che compongono questo volume. Volume, come ho avuto già modo di dire, nato dal caso e dal piacere, da quel piacere che solo il gioco riesce a procurare. Difatti i tre saggi in questione sono stati pensati in un arco di tempo assai lungo e appartengono a e nascono da momenti e situazioni diverse, senza un preciso disegno programmatico, se non quello del puro divertissement.

Il primo, L'Alceo, o della poetica del simulacro, che apre il libro è, per quanto riguarda la composizione, il più recente dei tre. Esso è stato scritto nel 2002 su sollecitazione dell'editore Magnanti quale saggio esplicativo della riedizione dell'Alceo curata da Lucinda Spera e si inserisce in un progetto secondo cui si è voluto riconsegnare a Nettuno il capolavoro dell'Ongaro che proprio in questa città rappresentò per la prima volta nel 1581 la sua favola pescatoria. Se a questo saggio si vuole riconoscere un suo proprio intento questo va individuato in quello puramente celebrativo. Lo stesso intento è alla base del secondo saggio, Il deforme nelle poetiche del Seicento: Andrea Sacchi; saggio scritto nel 1999 in occasione della mostra e del convegno tenuti a Nettuno nel quarto centenario della nascita di Andrea Sacchi, nascita ritenuta da più critici (G.P. Bellori, G.B. Passeri, H. Posse, A. D'Avossa, B. Tavassi La Greca) a Nettuno, anche se tale ipotesi non è da tutti accettata, così come è emerso nel convegno net-tunese; ed esso era parte integrante di un ciclo di conferenze organizzato a fianco e all'interno di quegli eventi celebrativi tenuti nella città tirrenica. Infine al medesimo intento celebrativo risponde anche il terzo e ultimo saggio del libro, Il "maraviglioso" nei "Panegirici Sacri". Tale saggio è stato presentato come relazione in occasione del convegno internazionale di studi svoltosi a Nettuno nel 1995 per celebrare i trecento anni della morte di Paolo Segneri e quindi è il primo dei tre ad essere stato composto.

Se l'intento celebrativo accomuna i tre saggi in questione, essi sono nati però indipendentemente l'uno dall'altro e sono stati ordinati e messi insieme successivamente per le evidenti affinità che ne caratterizzano - per quanto, e torno a ribadirlo, casualmente - il tono e la tensione critica dei contenuti.

Tali affinità uniscono e cementano i tre saggi conferendo loro organicità e unità, caratteristiche queste che da essi si trasferiscono conseguenzialmente al libro che ora licenzio alle stampe, per cui, come quei saggi sono stati tramati nel piacere e nel gioco, allo stesso modo, tale libro si compatta e si sostanzia della medesima tramatura. E a ben pensare solo il poter giocare con l'intelligenza e con le sottigliezze compositive dei tre autori citati, ossia solo la possibilità che ho avuto di mettere in gioco la mia intelligenza <con quelle di Ongaro, Sacchi e Segneri, mi ha dato il piacere e quindi la forza che hanno animato e ispirato la composizione dei tre saggi e quindi l'intero volume.

E che questo volume, andando aldilà del semplice piacere del gioco, sia, per usare una categoria critico-estetica di Roland Barthes, nella sua composizione davvero un testo di piacere?

Nell'attesa che tu, lettore, ammesso che almeno uno ce ne sia, possa pronunciarti in proposito, ancora una volta, "Dio ti salvi dai prologhi lunghi". Ma soprattutto salvi me da simile tentazione!

 

NOTE

1 - F. Luisetti, Plus Ultra. Enciclopedismo barocco e modernità, Trauben, Torino 2001.

2 - Ivi, pp. 8-9.

3 - Ivi, p. 12

4 - L. Ariosto, Satira I, vv. 7-8.

5 - L. Ariosto, Satira III, vv. 7-9.

6 - L. Ariosto, Satira I, vv. 25-28.






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AUTORIZZATA DALL'AUTORE ROCCO PATERNOSTRO

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