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Dilettevole Inganno e
Ingegnosa Maraviglia

Studi su Antonio Ongaro,
Andrea Sacchi, Paolo Segneri

di Rocco Paternostro

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L'Alceo, o della poetica del simulacro
Antonio Ongaro

La favola dell'Alceo fu pubblicata per la prima volta a Venezia per i tipi di Francesco Ziletti nel 1582, ovvero nell'anno che, in seguito alla riforma del calendario promossa da Papa Gregorio XIII (Ugo Boncompagni, 1572-1585), aveva visto cancellati dalla storia dell'Occidente cristiano-cattolico dieci giorni: al 4 ottobre di quell'anno si decise di far seguire direttamente il giorno 15. Ma fu rappresentata per la prima volta dal suo autore, Antonio Ongaro, l'anno precedente; precisamente nella primavera del 1581 a Nettuno, presso la corte dei Signori Colonnesi, pochi mesi dopo la morte di Fabrizio Colonna, primogenito di Marcantonio, forse alla stessa presenza di quest'ultimo, il "trionfatore" insieme a Don Juan d'Austria dei Turchi a Lepanto.

Marcantonio, infatti, nominato da Filippo II di Spagna viceré di Sicilia il 4 gennaio del 1577, verosimilmente alternava il soggiorno nel Regno con quello a Roma e/o nei suoi possedimenti nello Stato pontificio, compresa Nettuno dove aveva risieduto quasi stabilmente, se si eccettuano brevi periodi ad Avezzano, sino al 1576, avendovi trovato una miniera di zolfo(1) da cui aveva avuto nel 1571 l'autorizzazione dal papa a produrre e a vendere il vetriolo a tutto il 1586, e dove certamente non dovette essere molto amato da quei cittadini per il suo modo esoso di amministrare quel feudo simile a quello del padre Ascanio, come testimonia la supplica che gli abitanti di Nettuno inviarono al papa con cui chiedevano al pontefice di essere liberati da tale sfruttamento.

Fabrizio, quasi coetaneo dell'Ongaro(2) era morto a soli 27 anni, nel 1580, a Gibilterra al seguito dell'esercito spagnolo nella guerra che Filippo II aveva intrapreso contro il Portogallo per la successione a quel trono, a causa di un "fiero morbo". La sua morte non aveva colpito l'opinione pubblica di allora per aver egli lasciato la moglie Anna Borromeo e i due figli Marcantonio e Filippo in tenerissima età; quanto piuttosto perché la sua salma, imbarcata per essere tumulata a Roma, fu inghiottita dalle onde durante una furiosa tempesta che causò il naufragio della nave che la trasportava.

La tristissima sorte di Fabrizio colpì profondamente il giovane Ongaro che da Padova, dove aveva studiato Legge, si era trasferito, per fuggire l'amore di una donna di facili costumi, prima a Napoli, poi, nel 1578 a Roma e da qui, infine, sul finire di quello stesso anno, al seguito di Fabrizio Colonna, a Nettuno dove soggiornò sino alla primavera del 1581, sin quando, cioè, non rappresentò l'Alceo.

E che la tristissima sorte del primogenito di Marcantonio colpisse profondamente l' Ongaro è testimoniato dal fatto che quest'ultimo per ricordare quel luttuoso evento scrisse un sonetto d'occasione non privo di una qualche commozione, l'unico - come è stato sottolineato - della sua varia e numerosa produzione di rime rivolto a un personaggio della famiglia Colonna(3)

 

Gloriosa colonna, onde attendea
il gran nome latin gloria, e sostegno,
e co '1 valor di cui sovrano, e degno
l'antico impero ei ricrovrar credea.

Già l'empio serpe oriental temea
a la forza congiunto in te l'ingegno;
e più d'una provincia, e più d'un regno
alto terror de la tua spada havea.

Già ti destavi ad alte imprese, e quando
salir dovevi in Campidoglio, cinto
di cattivi tiranni il carro intorno

morte di te trionfa; anzi tu vinto
l'esercito di vitij trionfando
fai giovinetto Alcide al ciel ritorno (4)

 

Aldilà di un certo soffuso sentimento di dolore qui presente, aldilà di una generica condanna dell'-esercito di vitij" che si accompagna alla condanna di quel gusto corrente dell'osceno presente nella poesia di allora, così come si legge in un capitolo dedicato a Francesco Panigarola, ovvero aldilà della condanna di quella massa di buffoni e ruffiani senza dignità alcuna che prosperava nelle corti d'Italia per garantirsi il pane:

 

Non è re, duca, conte, né marchese,
il qual non faccia a una lunga frotta
e di buffoni e di ruffian le spese,
e per questo la gente è scaltra e dotta
in tal mestier che seguita quell'arte
per la quale s'acquista la pagnotta;(5)

 

aldilà di tutto ciò, quello che mi preme sottolineare è come l'Alceo, questa favola d'argomento pescatorio che ricalca i motivi dell'Aminta del Tasso, ovvero di quell'opera che già prima di essere stampata fu molto conosciuta in Italia, tanto da eccitare, come scrive il Carducci, "per tutto la velleità degli imitatori" se già ad appena un anno dalla sua rappresentazione si ebbe nel 1574 il Ligurino di Niccolò Degli Angeli marchigiano, cui fecero seguito il Pentimento amoroso del Cieco d'Andria nel 1576, la Fillide di Cesare Della Valle napoletano nel 1579, e il Pastor fido cui Battista Guarini pose mano nel 1580 anche se poi fu pubblicato circa dieci anni più tardi,(6) dicevo, aldilà di tutto ciò, quello che mi preme sottolineare è come l'Alceo, chiamato dall'Eritreo "l'Aminta madidus",(7) finisse di fatto per essere, in qualche modo, anche un'opera consolatoria del dolore dei Colonna e non solo celebrativa di un non ben individuato matrimonio di qualche personaggio della corte dei Signori del castello di Nettuno come è stato scritto." E ciò mi pare più che plausibile solo se si pensi alla natura del poeta pastorale che doveva avere - così come teorizzato da Angelo Ingegneri - più di quelli tragico e comico "per fine il diletto": "il pastorale - scriveva in proposito l'Ingegneri - ha più degli altri due per fine il diletto".(9)

Quindi l'Alceo fu rappresentato anche col fine di distogliere dal dolore i Colonna; quel dolore che l'Ongaro conosceva assai bene, avendolo egli sperimentato soprattutto per amore, allorché, dopo la prima esperienza padovana, si era di nuovo innamorato e anche questa volta perdutamente.(10) E quale antidoto al dolore della morte poteva essere più potente della celebrazione del trionfo dell'amore? Al lato oscuro della morte e alla sua mesta ombra, il giovane Ongaro opponeva la gioia dell'amore e la sua prolungata e luminosa scia, che era poi la forza dei suoi vent'anni. Anche con questo intento egli rappresentò pubblicamente l'Alceo a Nettuno, luogo da cui aveva tratto ispirazione e luogo dove si era recato forse su sollecitazione degli stessi Ruis presso i Colonna(11).

La rappresentazione, svoltasi nel castello dei Colonna nella primavera del 1581, impegnò vari attori e dovette servirsi di un allestimento scenografico di grande effetto se è vero che l'opera suscitò molti entusiasmi e consensi.(12) Così, a distanza di otto anni, avvenne per l'Alceo quanto già era avvenuto per l'Aminta, allorché la favola tassiana fu rappresentata il 31 luglio del 1573 nell'isoletta fluviale di Belvedere sul Po presso Ferrara, dove sorgeva la villa ducale degli Estensi, (13) alla presenza di Alfonso II e della sua corte e messa in scena dalla compagnia di comici dell'arte, i Gelosi, che furono "istruiti e preparati alla recitazione" dallo stesso Torquato Tasso, allora ventinovenne.(14)

Ma se l'Alceo e l'Aminta ebbero medesima sorte nell'avere un grande e immediato successo, diverso fu il loro destino per quanto riguarda la pubblicazione. L'Alceo fu pubblicato l'anno dopo la sua rappresentazione nettunese, l'Aminta, al contrario, pur essendo divenuto sin dalla sua prima rappresentazione il modello della pastorale italiana, nonostante studi recenti affermino il contrario,(15) venne pubblicata ben sette anni più tardi, nel 1580 appunto, da Aldo Mannucci "l'ultimo - a dire del Carducci - e minore dei dotti ed eleganti tipografi",(16) quando il Tasso era già stato rinchiuso in Sant'Anna.

Se la rappresentazione a Nettuno dell'Alceo può far pensare alla presenza di un intento consolatorio nel giovane Ongaro nei confronti del dolore della potente famiglia che l'ospitava, e quindi, a un modo di sdebitarsi per l'opportunità ispirativo-artistica che quel soggiorno gli aveva offerto, pur è vero, però, che la dedicatoria ai fratelli Ruis dell'opera a stampa dimostra che egli almeno per quegli anni, non fu, come al contrario lo fu la quasi totalità dei letterati d'allora, servo del principe, ovvero poeta di corte, e che la corte che lo proteggeva e che egli serviva non fu quindi quella dei Colonna,(17) quanto piuttosto il palazzo romano dei fratelli Ruis, aperto indistintamente a tutti gli artisti, letterati, poeti che si trovavano a Roma:

Tutti gli amatori delle virtù - scriveva l'Ongaro nella dedica agl'illustri fratelli premessa all'Alceo - che sono oggidì in Roma siano obbligati a consacrare alle Signorie vostre qualche lor fatica in segno di gratitudine, [...] di tributo, avendoseli elle con la loro liberalità fatti schiavi, aprendo così onorato ridotto ove possono convenire a tutte l'ore, et ove sono cortesissimamente accolti e accarezzati.

Ma la dedicatoria ai Ruis non dimostra solo ciò, perché dalla sua data "il 25 di agosto 1581" è possibile inoltre arguire come a quel tempo l'Ongaro avesse già fatto ritorno a Roma dove per vivere, una volta caduto in disgrazia dei fratelli mecenati, dovette suo malgrado "le bilance trattar d'Astrea pesanti". Esercitato, dunque, per qualche anno l'ufficio di giudice,(18) molto probabilmente prima del 1585 passò al servizio di Mario Farnese per il quale pubblicò l'epitalamio Nelle nozze detti illustrissimi Signori Mario Farnese et Signora Camilla Lupi, e al cui seguito l'anno successivo partecipò alla guerra delle Fiandre.

In quegli anni ebbe modo di viaggiare molto in Italia e in Europa e quindi di allargare il cerchio delle sue relazioni: frequentò famiglie illustri quali gli Aldobrandini e gli Orsini, e strinse amicizia con il Tasso, l'Orsi, e lo Strozzi.

E quando nel 1600 morì,(19) sebbene fosse ancora giovane, la sua fama era già da lungo tempo acclarata e consacrata, tanto da avergli permesso di far parte, con il nome di Affidato, dell'Accademia degli Illuminati, fondata dalla marchesa Isabella Pallavicini, suocera di Mario Farnese, e luogo istituzionale, come del resto le altre Accademie che allora prosperavano in Italia da cui venivano allo scrittore suggerimenti, giudizi, onori, proprio perché l'Accademia come la corte era "la sede della vera cultura, della letteratura codificata, regolata da leggi assolute e inderogabili".(20)

Così, se nonostante gli sforzi Ongaro non riuscì ad avere in un principe il "tutore" della sua opera, tale "tutore" lo trovò al contrario nell'Accademia.

A procurargli lodi e fama fu essenzialmente l'Alceo, l'opera che per "l'eleganza del verso",(21) per la "dolcezza e naturalezza dello stile",(22) per la "molta leggiadria"(23) fece conoscere l'Ongaro al mondo letterario italiano e straniero. La favola dell'Alceo venne tradotta e pubblicata in Francia da Roland Brisset nel 1596, due anni prima dell'Aminta che fu tradotta solo nel 1598 da G. Belliard. E aldilà del fatto che ancora nel 1648 il fondatore dell'Accadèmie francasse, Valentin Conrat considerasse l'Ongaro uno, se non il primo, dei pochi poeti italiani allora conosciuti in Francia, va sottolineata l'importanza che l'Ingegneri assegnò all'Alceo per lo sviluppo e quindi per la codificazione del genere pastorale in Italia, allorché pubblicò, nel 1598 a Ferrara per i tipi di Vittorio Baldini, il trattato Della poesia rappresentativa e del modo di rappresentare le favole sceniche; trattato che, come ha avuto modo di scrivere Maria Luisa Doglio si inseriva "dichiaratamente [...] nella linea dei trattati di poetica dal Trissino al Giraldi Cinzio, dal Robortello al Vettori, dal Castelvetro al De Nores", sostanziandosi e caricandosi "sia della discussione teorica, sorta nell'ambito dell'Accademia Olimpica di Vicenza, sul testo da rappresentare all'inaugurazione del teatro costruito dal Palladio, sia dell'esperienza diretta di organizzazione, "fabbrica" dello spettacolo, e, per di più, attraversando la rovente polemica sul Pastor fido di Guarini, ancora in atto nel 1598", l'anno appunto, in cui il trattato dell'Ingegneri venne dato alle stampe.(24)

 

 

Nel trattato in questione l'Ingegneri, nel tracciare una rapida storia della "scenica poesia", poneva la favola pastorale, proprio per quella sua incomparabile fioritura cui allora si assisteva, nonché per il diletto che essa procurava, a cifra emblematica dell'arte della modernità, riconoscendo nell'Aminta del "giudiciosissimo" e "delicato" Tasso il modello che aveva fatto affermare il genere, in quanto imitato o meglio - come egli teneva a precisare - "gareggiato" da "tutti i versificatori" e da molti "sublimi ingegni". E nella cronologia delle opere, l'Alceo veniva subito dopo l'Aminta. In proposito così egli scriveva:

Furono in pochi anni veduti gli Alcei, i Cariai, i Ligurini, gli Amorosi sdegni, le Amarillide, le Pompe funebri, le Cinzie, le Tirene, le Amarante, le Mirtille, e tante altre graziose piscatorie e boschereccie, ed è poi stato con insolito giubilo letto e riletto il non mai quanto basti favorito Pastor fido, tragicomedia pur pastorale del facondissimo e 'nsieme fecondissimo Signor cavalier Guarino, ed ammirerassi, più che a sofficienza commendarla, quando che sia, la già famosissima Enone dell'illustrissimo ed eccellentissimo principe, il Signor don Ferrando Gonzaga, dal cui degno essempio invitati il Signor Fabio Orsino, il Signor Gabriello Bambasi e altri per sangue e per valore qualificati personaggi non terran forse i lor tesori nascosti, onde n'andranno le stampe onorate di cognomi illustrissimi e di nomi riveriti in Italia e fuori."(25)

Come è possibile notare l'Alceo apre la lunga serie delle favole succedutesi all'Aminta e non solo per questioni strettamente temporali, ma anche e soprattutto per la novità che quella favola rappresentò nei confronti del modello tassiano. Mi spiego. Se è vero che l'Aminta fu il testo di riferimento dell'Ongaro è pur vero che esso non venne pedissequamente imitato quanto piuttosto "gareggiato" dall'Ongaro che pure si rivolse agli esempi della poesia pescatoria del Sannazzaro e del Rota, e soprattutto del primo in verità, di colui che fu il creatore con le sue Piscatorie di un'"intentata varietà bucolica" in quanto aveva sostituito - come è stato scritto - al consueto mondo pastorale "nuove scene, nuovi costumi, nuovo linguaggio, tratti dalla vita dei pescatori" e che per questo aveva "aggiornato, rinnovato il gusto per il bucolico e l'idillico" che era stato uno degli atteggiamenti fondamentali dell'estetica classicheggiante, ovvero "l'elemento più palese del raffinamento formale a cui l'epoca della maturità umanistica aveva aspirato" non solo in Italia ma anche in Europa: dalla Spagna, al Portogallo, alla Francia, all'Inghilterra.(26)

Insomma l'Ongaro si era rivolto non solo al modello aminteo ma anche al Sannazzaro, il poeta che aveva avuto la gloria e la fama soprattutto dall'Arcadia l'opera che avrebbe maturato "nel seno delle sue prose un più fecondo genere", il romanzo moderno appunto che, cominciato pastorale in Francia, in Spagna e in Inghilterra, nacque proprio da quell'opera.(27)

Del resto che l'Ongaro si fosse richiamato al Sannazzaro e al Rota è stato sottolineato da Giuseppe Dalla Palma.(28) E sempre da Dalla Palma è stato sottolineato il fatto che l'Alceo fu a sua volta il testo di riferimento della Tirena di Pietro Cresci.(29). Aspetto quest'ultimo di grande importanza ai fini dell'esatta e giusta comprensione dell'operazione compiuta dall'Ongaro.

Al "portento" dell'Aminta,(30) che "soddisfaceva con la levità dei ritmi, la tenuità dell'espressione, la discrezione dello sviluppo, alle intime esigenze di una favola di pastori", l'Ongaro, gareggiando con essa e recuperando la linea della poesia pescatoria del Sannazzaro e del Rota, opponeva la favola dell'Alceo che, rispetto al modello tassiano al quale pur si richiamava, presentava una qualche novità proprio nella scelta dello spazio e del luogo in cui si svolgeva la storia: ai boschi, alle ninfe e ai pastori l'Ongaro sostituiva il mare, le spiagge, i pescatori, facendo svolgere la sua storia sui "lidi dove fu già Anzio e dove ora è Nettuno, Castello dei Signori Colonnesi" come si legge nell'epigrafe che precede il prologo dell'Alceo, prestando altresì attenzione a non venir meno al principio aristotelico della verosimiglianza, così come più tardi teorizzerà l'Ingegneri.

Ogni favola [...] pastorale - scriverà in proposito l'intellettuale veneto -presuppone alcune cose accadute innanzi all'azione che si rappresenta, dalle quali ha origine il caso ch'il poeta si finge e delle quali, per ben saperle rappresentare, conviene aver piena notizia. E non solo degli avvenimenti di lunga mano anteriori al fatto fa di mestieri esser bene insatruito, ma di quegli eziandio che son più vicini al principio della stessa favola, anzi, insieme, di tutto ciò ch'altri si può immaginare che verisimilmente occorresse fra l'un atto e l'altro di essa, tuttavolta che il caso imitato succedesse in effetto e con verità."(31)

Così l'Alceo entrava di diritto, insieme alle tante altre opere allora nate nel campo della drammatica, si ricordino per tutte Il pentimento amoroso (1576) e la Calisto (1583) di Luigi Groto, a formare il canone della poesia scenica che già per il passato aveva annoverato quali suoi precursori comici e tragici di grandissima stima, quali l'Ariosto e il Trissino seguiti "dall'acuto ed elevato intelletto" dello Speroni che colla sua Canace - a dire dell'Ingegneri - indicò la strada al Tasso, anche se una grande influenza su quest'ultimo esercitò lo Sfortunato di Agostino Argenti alla cui rappresentazione ferrarese nel maggio del 1567, con la direzione e la recitazione del Verato, il Tasso allora ventiduenne ebbe la sorte di assistere.(32) Questi con la sua Aminta, che scritta in due mesi nell'inverno del 1573 s'inseriva nel solco già tracciato dal Sacrificio (1554) di Agostino Beccari, dall'Aretusa (1563) e dalla Galatea (abbozzata soltano nel canovaccio) di Alberto Lollio, dallo Sfortunato (1567) di Agostino Argenti e, precedentemente, nel 1545, dall'Egle di Giovan Battista Giraldi Cinzio, scritta - come sostiene Marziano Guglielminetti - per ridare voce e scena ai personaggi del dramma satiresco greco, unicamente testimoniato dal Ciclope di Euripide,(33) questi, come dicevo, con la sua Aminta, non solo spinse molti ingegni sublimi alla composizione di diverse tragedie, commedie, pastorali, ma soprattutto, proprio per questo, fondò il genere di "questa terza specie di dramma" che, in pochi anni dal 1574 al 1597, si arricchì delle opere di Antonio Ongaro, di Gabriele Zinano, di Nicola Degli Angeli, di Francesco Bracciolini, di Cristoforo Castelletti, di Cesare Cremonini, di Carlo Noci, di Pietro Cresci, di Cesare Simonetti, di Giambattista Casalio, di Isabella Andreini, di Battista Guarini, di Ferrante Gonzaga, di Fabio Orsini, di Guidubaldo Bonarelli, di Alfonso Fontanelli e di Gabriello Bambasi.(34)

Poiché nella vastissima realizzazione delle favole pastorali si era incorsi in più di un pregiudizio e gli autori erano incappati in diversi errori, preoccupati, come del resto i lettori, soprattutto di ricercare unicamente la cura e la raffinatezza della locuzione, nonché la vivacità delle sentenze, ovvero l'eleganza formale-contenutistica facendo abbondantemente ricorso a figure e ad artifici poetici:

Né il lettore - scriveva in proposito l'Ingegneri - pare che stimi overo conceda, né lo scrittore curi o ricerchi altro pregio che quello che nelle giostre e ne' tornamenti s'appella, con [...] galante vocabolo spagnolo, del masgalano (35)

l'Ingegneri avvertiva la necessità di porre rimedio a tutto ciò, spinto anche e soprattutto dall'amore che egli nutriva nei confronti della poesia rappresentativa. A tal fine scrisse il suo trattato, in cui, affermando la centralità del modello aminteo a cui affiancava anche se in posizione più bassa l'Enone del Gonzaga e, quindi, esaminando tutta la grandissima produzione della poesia scenica di quegli anni, raccoglieva i precetti di quell'arte e quindi di essa costituiva il canone con la consapevolezza che la sua fatica era segnata dai crismi della contemporaneità e dell'originalità:

Queste cose notate da me - scriveva con malcelato orgoglio - con quella affezione ch'io porto s'in da' primi anni a studio così dilettoso, m'hanno fatto metter insieme alcune considerazioni dintorno alla poesia rappresentativa, le quali avegna che pure abbian radice nei fondamenti dell'arte poetica e nei precetti dati di quella del gran maestro Aristotele, nulladimeno né per osservazione d'altri così fatti poemi, né per avvertimento di chi abbia trattato di tal materia, ho veduto ancora [...] che siano state fatte se non da me.(36)

Dunque per lui, nonostante l'opinione contraria del De Nores, la pastorale, apparsa nel 1554 con il Sacrificio del Beccari, raggiunta la perfezione con l'Aminta del Tasso nel 1573, e trovato il suo ultimo e pieno sviluppo con il Pastor fido del Guarini nel 1591,(37) era inequivocabilmente l'arte della modernità. E ciò per motivi sia squisitamente artistico-rappresentativi che civile-economici. Difatti, per l'Ingegneri, se le pastorali non fossero esistite si sarebbe certamente perso l'uso del palco e quindi reso disperato il fine dei poeti scenici, ovvero la rappresentazione delle loro opere, con grande danno persino alla vita civile, poiché l'animo umano, "bisognoso talora di rilassamento e di ricreazione", sarebbe stato costretto a rivolgersi ad altra "men virtuosa" arte quale appunto le commedie e le tragedie: le prime si servivano di "sontuosissimi interventi" e di apparati "d'eccessiva spesa"; le seconde erano spettacoli "maninconici" e reputati di "triste augurio".(38) La pastorale, al contrario, permetteva di risparmiare ingenti somme di denaro proprio perché il suo allestimento non richiedeva "borsa reale" che i principi di allora "con serio giudizio" riservavano "per la conservazione" dei loro Stati e per la "sicurezza e comodità" dei loro sudditi. (39) Come arte della modernità restavano, quindi, le pastorali che con la "levità di apparato, di verso, di sentenza", erano graditissime e agli orecchi e all'intelletto, in quanto trasmettevano insegnamenti e dilettavano "a maraviglia":

Sieno con i cori, sieno senza - scriveva in proposito l'Ingegneri - abbiano o non abbiano intermedi, sono diporti da state, passatempi da verno, trattenimenti d'ogni stagione, dicevoli ad ogni età, ad ogni sesso.(40)

Così in quel clima culturale maturato fra il 1554 e il 1598 in cui si era assistito al lento declino della tragedia di contro alla rapida e irresistibile ascesa del dramma pastorale, fu proprio quest'ultimo la novità più singolare della drammaturgia italiana, in quanto realizzava il fine della poesia nell'incontro del "dilettevole col verosimile" e prospettava in tal senso una concezione del teatro, che proprio perché creazione spettacolare, fondata - come scrive la Doglio - sulla meraviglia, sulla dinamica congiunta del movimento, sulla scena come "metafora visibile", annunciava il Barocco. In tale clima appunto l'Ingegneri non solo - come vuole la Doglio - si prefiggeva il compito di "insegnare la via additata dal Castelvetro, di impartire le regole e i precetti della poesia rappresentativa, di guidare il poeta scenico a una "meravigliosa" e "perfettissima" pastorale, di redigere un formulario del "buon corago", un manuale, se non proprio di regia, del direttore di scena che su rigorosi fondamenti tecnici fissasse una metodologia esemplare della messa in scena"(41) ma, proprio per questo, si proponeva anche e soprattutto il fine di elaborare il canone della poesia scenica, di quella poesia, cioè, che era ed era stata arte della corte, a partire dall'Ariosto per arrivare ai poeti più recenti i quali erano per la maggior parte sudditi o servitori o vassalli o familiari o della casa d'Este, o del sangue Gonzaga, o della famiglia Orsini, ecc.

Ebbene se l'Aminta, per lo sviluppo del genere pastorale, fu per molti poeti scenici una sorte di polimatia di riuso - per usare una intuizione critico-esegetica di Paolo Cherchi - testimoniando in ciò quella pratica del plagio in uso in Italia soprattutto nei cinquanta anni che vanno dal 1539 al 1589, attestata del resto già ai primi del Seicento da Traiano Boccalini, il quale così scriveva in proposito:

Alcuni furbacchiotti poeti ruppero lo scrigno più segreto del Tasso ove egli conservava le gioie delle composizioni sue più stimate, e ne rubarono l'Aminta, la quale poi si divisero tra essi: ingiuria che tanto trafisse l'animo del Tasso, che gli inamarì tutte le sue passate dolcezze, (42)

e a cui non seppe sottrarsi lo stesso Tasso, (43) ebbene - dicevo - se l'Aminta fu per molti poeti scenici una sorta di polimatia di riuso, lo fu certamente anche per l'Ongaro, solo che il poeta veneto s'avvicinò al modello per gareggiare con esso e per innovare in qualche maniera il genere, in modo da essere la sua opera a sua volta modello da imitare, secondo lo schema così articolato: modello-copia-modello.

 

 

Ora, non mi starò a soffermare sui debiti che l'Ongaro ha contratto nei confronti del Tasso, ovvero non mi starò a soffermare su quanto l'Alceo debba all'Aminta, studio del resto già condotto brillantemente da Giuseppe Dalla Palma, (44) quanto piuttosto, seguendo un processo a ritroso, à rebours, ovvero partendo dal trattato dell'Ingegneri e arrivando quindi all'Alceo, tenterò di verificare se e in che modo l'opera dell'Ongaro abbia contribuito a costituire il canone della poesia scenica, così come teorizzato dall'Ingegneri, soprattutto a livello di struttura, ovvero di costruzione formale del genere. In tal senso mi proporrò, o meglio tenterò di verificare quante e quali delle regole teorizzate, sulla base di esempi concreti, dall'Ingegneri siano presenti nell'Alceo, ovvero quante e quali di queste regole l'Ingegneri ha mutuato dalla favola dell'Ongaro.

Le prime sei regole individuate e dettate dall'Ingegneri che sono regole di natura estrinseca in quanto si riferiscono più alla structure che non alla texture della favola, sono tutte rintracciabili nell'Alceo: dal titolo della favola che l'Ingegneri vuole debba essere in stretta connessione con la materia trattata, (45) alla corrispondenza tra linguaggio parlato dai personaggi e quello dei luoghi ove essi vivono, alla durata dell'azione che non deve superare le ventiquattrore - anche se per l'Ingegneri è auspicabile che essa duri di media cinque o sei ore -, al numero massimo dei personaggi che non debbono superare le dodici unità, alla natura dei personaggi che devono rispecchiare gli usi del paese che viene rappresentato e che debbono essere inoltre gentili e di buona grazia, alla stretta connessione, infine, che deve esserci tra prologo e favola e quindi alla assoluta mancanza nel prologo di "ombre" e/o di "spiriti infernali". (46) Ora se si riflette sul titolo dell'Alceo, sulla corrispondenza, pur se non strettissima, tra linguaggio parlato da Alceo, da Eurilla, da Timeta, ecc, con quello dei luoghi ove essi vivono, sulla natura dei personaggi, soprattutto di Alceo e Timeta (47) anche se Eurilla sembra sfuggire ai canoni della gentilezza e delle buone maniere, (48) salvo a recuperarli a conclusione della vicenda, ma soprattutto se si riflette sulla durata dell'azione che si svolge nelle ventiquattrore, sul numero dei personaggi che nell'Alceo non supera le undici unità e- quindi sulla stretta connessione tra prologo e favola, connessione così evidente che il prologo sembra esser una sorta di fabula anticipata, e ancora, se si riflette sull'assoluta mancanza nel prologo dell'Alceo di "ombre" e di "spiriti infernali", è possibile arguire, senza ombra di dubbio, che la favola dell'Ongaro contribuì in maniera cospicua alla formazione del canone della poesia scenica, così come l'Ingegneri lo aveva teorizzato. Del resto ciò è ulteriormente testimoniato dal fatto che nell'Alceo sono riscontrabili più della metà delle dieci regole di natura intrinseca, in quanto attinenti alla texture, o come dice l'Ingegneri "alla testura del viluppo" della favola. Quindi precisato che, per quanto riguarda le regole elaborate dall'Ingegneri come il proscenio, gli intermedi e la durata della rappresentazione stabilita al massimo in quattro ore,(49) non è possibile verificare se egli le abbia o meno esemplate dall'Alceo - e questo per ovvi motivi che non mi sembra opportuno esplicitare - è possibile invece affermare che per altre cinque regole l'Ingegneri senza dubbio si è avvalso dell'esempio della favola dell'Ongaro, e precisamente per quelle che riguardano il coro, oppure la non liceità di far apparire più volte lo stesso personaggio durante il primo atto, o ancora la necessità di evitare di far narrare da un istrione all'altro "cose già avvenute sul palco alla presenza di tutto il teatro", ovvero, la necessità di non replicare parole dette precedentemente da qualche altro personaggio, e infine l'avvertenza che la concatenazione delle scene spetti piuttosto all'autore della favola che non al "corago" e che la favola debba essere fornita di "negoziosità" e "operatività". Mentre per altre due delle dieci regole di natura intrinseca finalizzate dall'Ingegneri "all'aspettata e bramata soluzione della favola" vi è necessità di una maggiore precisazione, proprio perché esse si trovano solo parzialmente realizzate nell'Alceo.

Delle sedici scene in cui sono suddivisi i cinque atti dell'Alceo,(50) dieci scene non superano i centocinquanta versi secondo quanto teorizzato dall'Ingegneri; al contrario le altre sei superano abbondantemente questo limite(51) Similmente avviene per i monologhi, in verità assai scarsi numericamente, che non sono certamente brevi né formati di "periodetti brevissimi e terminati" così come vorrebbe l'Ingegneri.(52) Al contrario, la regola di natura formale-stilistica elaborata dall'Ingegneri secondo la quale sarebbe stato "convenevole" alle pastorali servirsi di versi piuttosto che della prosa, a patto però di non usare sempre gli sdruccioli, ma "mescolarvene" solamente alcuno, in modo di far accostare "il parlare al suono della prosa", badando a formare questi versi in modo che fossero scritti "continoatamente come si fanno le prose", così da rispettare la "verosimiglianza del favellare domestico";(53) al contrario, dicevo, questa regola di natura formale-stilistica si trova pienamente soddisfatta nell'Alceo in cui è assai difficile rintracciare la presenza di versi sdruccioli. Come del resto sembra essere mutuata dall'Alceo la grandissima parte delle regole di natura scenico-rappresentativa elaborate dall'Ingegneri. Mi riferisco soprattutto a quella che vuole debba evitarsi nelle pastorali di far fare all'amore i pastori con le ninfe appassionatamente e quindi di "trattar di matrimoni fra di loro alla contadinesca, maneggiando i negozi quasi per sensali", all'altra che suggerisce di usare molto parcamente i tempi sul palco riservati agli idoli e al culto profano, di cui, in verità, nell'Alceo non appare traccia alcuna; e infine all'altra che vuole doversi evitare sproporzioni nel comparire degli istrioni e "al ragionar fra loro" come personaggi che appaiono per lungo tempo senza parlare e/o senza ascoltare altri personaggi. Più articolato è, al contrario, il discorso da farsi per le altre due rimanenti regole di natura formale-stilistica elaborate dall'Ingegneri. La prima di essa che vuole doversi evitare di introdurre "omicidi volontari", ovvero suicidi per amore, perché, altrimenti, - a suo dire - il personaggio perderebbe molto della sua "nobiltà" e di quel "pregio" che lo devono rendere "ragguardevole",(54) non sembra essere stata mutuata dall'opera dell'Ongaro: Alceo di fatto tenta il suicidio per amore di Eurilla, ma non per questo - come del resto è stato già sottolineato dal Chiodo - perde la sua nobiltà e quel "pregio" che lo rendono "ragguardevole". Della seconda, in base alla quale l'autore dovrebbe in "guisa di buon corago" e di perfetto maestro figurarsi "davanti agli occhi la scena, divisandone fra di sé gli edifici, le prospettive, le strade, il proscenio e ogn'altra cosa opportuna per l'avvenimento di quel caso ch'ei si prende ad imitare" in modo da fare nella sua mente "una cotal pratica, che non uscisse personaggio che non gli sembrasse vedere ond'ei si venisse, né si facesse su '1 [...] proscenio gesto, né vi si dicesse parola ch'egli [...] non '1 vedesse e non la udisse",(55) insomma della seconda regola che finisce per codificare una sorta di scrittore-corago non è possibile da parte mia attestare con sicurezza la presenza o meno nell'opera dell'Ongaro, in quanto intorno alla prima rappresentazione e a quelle successive della favola si hanno notizie che riferiscono dei grandi successi e dei grandi clamori da essa suscitati, oppure danno conto degli apparati scenografici di volta in volta allestiti per le sue rappresentazioni, ma che, proprio per questo, non mi possono mettere e di fatto non mi mettono dalla parte dello spettatore se non per via indiretta.

A queste ultime regole che fanno dell'autore della pastorale non solamente un autore tout court, ma anche e soprattutto una sorta di "buon corago" si aggiunge un'altra regola anch'essa di fondamentale importanza per la resa scenica della favola ed è quella relativa alla presenza dell'eco. Senza ombra di dubbio questa regola che codifica l'eco come un'invenzione piena "di diletto e di meraviglia" allorché la si usi però con "buon garbo e a tempo", è mutuata dall'Ingegneri dall'Alceo, ove la presenza dell'eco appare per la prima volta nella storia del genere e dove l'uso fat-tone dall'Ongaro è del tutto corrispondente a quanto suggerisce l'Ingegneri. Infine, e non poteva essere diversamente, non manca nel trattato dell'Ingegneri l'attenzione alla divisione della favola drammatica in prologo, episodi ed essodo che del resto aveva per il passato interessato i maestri dell'arte poetica a parere dei quali l'azione si sarebbe dovuta sviluppare tutta nei tre atti centrali per cui il quinto atto avrebbe dovuto conseguenzialmente sviluppare e/o portare a compimento cose accadute nell'atto precedente. L'Ingegneri, reputando questa pratica non più in linea con i tempi moderni, i quali nel loro cambiamento avevano finito per cambiare anche i gusti, legiferava, teorizzava, che i poemi scenici dovessero presentare nell'ultimo atto "alcuna cosa nuova e dilettevole" per cui - a suo parere - era da preferire "quella tragedia o commedia over pastorale, la quale se non arra fornito co' 1 quarto atto di sciogliere il suo nodo, n'arrà almeno [...] accennata la soluzione, ch'il teatro [...] l'arra quasi dinnanzi agli occhi, facendogliene poi vedere gli effetti conseguiti nel quinto". In tal senso l'essodo sarebbe stato veramente essodo e non "punto rincrescevole, né noioso", ma "né anco sospeso e incerto, con ansietà soverchia e con troppo lungo affanno dei bramosi e forse già stanchi spettatori".(56) Come quest'ultima regola trovi perfetto riscontro nell'Alceo non è superfluo affermare, anche perché essa, prestando attenzione allo spettatore, fa sì che i nodi cardini su cui gioca il canone elaborato dall'Ingegneri siano tre, ovvero l'autore, il corago, e lo spettatore; ossia se l'Ingegneri da vero uomo di teatro prospetta una sorta di autore che sia insieme corago e spettatore, è pur certo però che vero uomo di teatro fu anche l'Ongaro nei confronti del quale l'Ingegneri ha, come abbiamo visto, più di un debito da saldare. Però, poiché non è possibile giudicare dell'efficacia rappresentativa dell'Alceo se non per via indiretta, mi sembra non solo opportuno ma anche doveroso, una volta esaminata la favola nella sua struttura di genere, esaminarla e quindi giudicarla certamente non dal punto di vista dello spettatore quanto piuttosto da quello del lettore, vale a dire esaminarla e giudicarla unicamente come testo scritto.

A tal fine reputo necessario assumere come base della mia analisi una serie di proposizioni critico-interpretative ormai consolidate nella cultura letteraria del Novecento che, prendendo le mosse dal De Sanctis della Storia della letteratura secondo cui nel mondo pastorale "l'ideale poetico, posto fuori della società [...] rivela una vita sociale prosaica, vuota di ogni idealità", si è specificata e ampliata con i contributi esegetico-euristici di Mario Costanze che, giocando sul concetto di teatro come "fittione" scenica ha riscoperto nella cultura teatrale manieristico-barocca la presenza di una concezione del teatro come "edifici di chimere", come "fuga dal reale", come "fabula" e, quindi come "simulacro"; di Ezio Raimondi sul quale grande è stata l'influenza di Drost dello Strukturen des Manierismus in der Literatur und bildenden Kunst. Eine Studie zu den Trauerspielen Vincenzo Giustis (1532-1619), [Heidelberg 1977]; di Giorgio Bàrberi Squarciti del saggio Il"far grande" del Guarirli; e di Giulio Terroni su cui hanno operato le suggestioni critico-interpretative di Baudrillard de L 'echange symbolique et la mori (Gallimard, Paris 1976) e di Perniola de La società dei simulacri (Cappelli, Bologna 1980). Tali proposizioni così recitano nelle loro varie espressioni:

L'intera cultura cortigiana cinquecentesca può essere definita come produzione di scena, sistema di rappresentazione che offre uno spettacolo che si riflette in se stesso, in quanto la corte ne è contemporaneamente produttrice e spettatrice; [insomma tale cultura opera] una riduzione del mondo sub specie teatri (una sorta di "fuga" dal reale; [...] dalla vita - in ciò che ha di "intempestivo", di indefinito, di ingannevole).(57)

Questo concetto di riflessione comporta la messa in campo del concetto più ampio di rispecchiamento, di simulazione;

II manierismo [...] si manifesta, sul piano delle strutture architettoniche, come un processo multiplo e consapevole di decentramento asimmetrico, di costruzione pluriprospettica e di discontinuità, in contrasto con una poetica dell'equilibrio e della distinta armonia che sembra ormai essersi consumata;
10 scambio tra cortile, sala, prospettiva, palazzo, città, teatro, [...] l'incastro che la corte produce tra tutti questi luoghi, costringendoli in una catena di reciproci rispecchiamenti, rivela la sua tendenza a caricare su ogni spazialità la misura di un unico spazio centrale, di una assoluta apparenza scenica;(58)

e ancora:

Il decentramento dell'azione dall'asse dei personaggi principali a quello delle figure laterali, [...] il gioco pluriprospettico [...] analogo a una anamorfosi o a una serpentinata, il principio della discontinuità [...] sembrano risolversi in una rappresentazione del reale ambigua e perplessa, lasciando allo spettatore il compito di scoprire un senso in ciò che ne appare privo, di restaurare la norma di un ordine negato o confuso dall'evento drammatico;
come simulazione di qualcosa che non c'è, la cultura cortigiana è un puro apparire, che si riferisce solo a se stesso, che si integra solo in se stesso: alla sua origine non c'è la vera e propria mistificazione, l'occultamento della realtà materiale, il mascheramento del negativo, ma la più diretta e totalizzante esclusione,(59)'' l'intero sistema culturale [...] vive solo per apparire, [...] i suoi contenuti sono in definitiva vuoti, pura forma senza sostanza;
il procedimento esemplarmente manierista [consiste nel] trasferimento sulla parola dell'azione, che è minima e quasi puntiforme, mentre, invece, sviluppi, conseguenze, modificazioni di personaggi, evoluzioni delle situazioni, sono tutti affidati alle anfibologie verbali, ai doppi sensi dei termini, alla dialettica di proprio e figurato, di metaforico e realistico, alle modificazioni e agli adattamenti delle parole stesse attraverso le infinite possibilità che offrono i tagli, le rilevazioni delle radici, le insistenze sulle radici [...] [mentre] le battute stesse delle scene dialogate tendono ad ampliarsi, a indugiare sulle minuziosità dei particolari, a preferire lo svisceramento del momento specifico, della dichiarazione, [...] della narrazione di fatti e accadimenti, fino a perdere totalmente di vista l'insieme o, almeno a diluirlo in una continuità verbale che si annoda e riannoda tendendo all'infinito dell'effazione e all'indefinito dei concetti.(60)

 

 

Da questo concetto di esclusione poi derivano quelli di labirinto, di moltiplicazione speculare di situazioni e, quindi, di simulacro:

La coscienza labirintica che si registra in alcune opere teatrali come l'Almeone [...] in cui appunto Argia sente la propria vita come un "labirinto", [...] questa coscienza labirintica passa dal personaggio al pubblico che s'identifica con lui e diviene a sua volta la ricerca di un "filo" entro la stessa esperienza teatrale;
il principio costruttivo tipico del manierismo [...] moltiplica specularmene le situazioni, così offrendo, all'interno di uno stesso schema, diverse varietà di personaggi e di azioni;
la scena cortigiana [...] ha piuttosto il compito di escludere, col suo solo atto simulatorio, tutto ciò che essa non può incastrare dentro di sé: al limite, essa può perfino assumere dentro di sé la realtà materiale, il negativo, ma solo al fine di escluderlo, riducendolo a simulazione, ad un artificiale emergere, mostrarsi e guardarsi. Il suo principio strutturale è quello del simulacro, puro essere del proprio apparire, finzione autoriferita che dietro di sé non nasconde più nulla, perché il suo è, letteralmente, l'essere di ciò che non è, parvenza ingannatrice, spettacolo puro, larva che affiora in superficie, alludendo a un "fondo" che però non c'è. Sulla scena cortigiana l'intera cultura è ridotta a simulacro, sistema di emergenza del nulla.(61)

L'Alceo come testo (62) riproduce nel proprio interno questo concetto di riflessione che, dilatandosi negli altri di rispecchiamento, simulazione ed esclusione, si materializza in quelli di labirinto, moltiplicazione speculare di situazioni e quindi di simulacro che rappresentano i suoi principi concettuali-strutturali più profondi. E ciò a partire dal prologo, ovvero da quella sorta di fabula anticipata in cui già tutto è scritto, già tutto è accaduto.

Nel prologo Venere scende fra gli uomini, all'insaputa di suo figlio Cupido cui ha rubato una freccia, per portare aiuto ad Alceo innamorato da sei anni e da sei anni rifiutato da Eurilla, e promette, qualora le donne gentili non facciano parola alcuna con Cupido di questa sua venuta, di aiutare anche loro così come ora aiuterà Alceo, anticipando in tal senso al lettore il lieto fine della storia. Qui, inoltre, non solo è indicato con precisione il luogo dove si svolge l'azione della vicenda narrata,(63) esplicitata del resto già nell'epigrafe che precede immediatamente il prologo,(64) ma anche vengono forniti tutti quegli elementi caratteristici della favola pescatoria-, dai personaggi principali Alceo ed Eurilla, al mondo in cui vivono e agiscono, agli arnesi di cui si servono, agli oggetti e/o cose che in quel luogo si trovano come lo scoglio da cui Alceo pensa di suicidarsi gettandosi in mare per lasciarsi annegare; tutti elementi che rinviano inequivocabilmente a un mondo di pescatori.(65) Ma soprattutto in esso emerge chiaramente una costruzione concettuale-strutturale tutta tramata intorno a un gioco ambiguo di antitesi, raddoppiamenti e perfino triplicazioni,(66) che sarà la tramatura concettuale-strutturale dell'intera favola, segnalata non solo dai topoi dello scambio e del travestimento, dalla presenza reiterata delle figure retoriche dell'ossimoro e dell'adynaton,(67) ma anche dall'introduzione, per la prima volta nella pastorale, dell'eco, magistralmente costruito.(68) Ed esso oltre a essere segnale inequivocabile del doppio, della replicazione, anticipa, insieme a un certo preziosismo costruttivo-stilistico proprio della gara di canto tra Siluro e Morbillo,(69) o al ricorso a figure retoriche quali antitesi, figure etimologiche, ecc.(70)certe suggestioni che poco più tardi saranno tipiche del gusto barocco. Il tutto, però, è sorretto da un'impalcatura ideologico-sentimentale dell'amore inteso come amore proprio di una civiltà laica, seppure fittizia, più vagheggiata che reale, raffinata, gentile, elegante e, quindi, libera dai pregiudizi morali; insomma di un amore di cui "nunzia e ministra", da un lato, è la pietà,(71) e, dall'altro, la libertà dagli schemi morali fagocitanti quali quelli legati all-onore".(72) Così, se questo amore rispecchia una cultura in una parola raffinata, la cui laicità si concretizza nella forza delle parole, in quanto solo esse possono dare la vita e/o la morte,(73) ovvero solo esse possono dare la capacità di narrare e quindi di rappresentare,(74) proprio per questo l'amore finisce con l'essere l'espressione di un pensiero debole tipico di una visione del mondo e della vita in cui prevale il sentimento del femminino (des Weiblichen) e in cui non solo i ruoli tradizionalmente codificati di maschio e femmina sono scambiati, interpolati, ma in cui persino viene demandata ad altri la voce per raccontare contenuti in definitiva vuoti e ridotti a pura forma senza sostanza, simulando in tal senso qualcosa che non c'è e, altresì, - come avviene nella favola dell'Ongaro - riducendo i demandatari, siano essi Timeta oppure le Ninfe,(75)a legatari di un simulacro, ovvero a legatari di una finzione autoriferita, di una parvenza ingannatrice e, quindi di un puro essere del proprio apparire, o meglio di uno spettacolo puro, che è come dire riducendo i demandatari, e nel caso specifico Timeta, a puro simulacro di Alceo e quindi, come vedremo, dello stesso Ongaro. Tutto ciò si legge, appunto, nell'Alceo.

La favola, come dicevo, è tutta giocata concettualmente intorno alla figura logica dell'antitesi, a partire da quelle di carattere generale,(76) ad arrivare a quelle contrastive tra personaggi, soprattutto tra Alceo ed Eurilla,(77) il cui contrasto, a livello psico-logico-esistenziale, è a sua volta il prodotto di uno stato sentimentale che in Alceo si riconosce nell'amore, e in Eurilla nel rifiuto dell'amore e che non determina solo risposte contrastanti: (Eurilla è morta all'amore, Alceo cerca la morte per amore), se non addirittura di trasferimento di ruoli: (Alceo è femminilizzato, Eurilla mascolinizzata), ma anche determina un contrasto tra una vagheggiata civiltà del sentimento,(78) in cui predominano i valori dell'amicizia, della pietà, della gentilezza e una concreta, realistica e moderna civiltà della decadenza, della rovina,(79) in cui persino l'amore è inteso come passione, come morte;(80) insomma determina un contrasto tra una vagheggiata civiltà dell'oro dove l'amore è inteso liberamente e quindi al di fuori di orpelli moraleggianti e dove come regola vige l'essere ardito da parte dell'amante (81) e una realistica civiltà della ragione propria dell'età moderna, dove l'amore viene frenato dall'onestà, dal timore e dalla riverenza (82) di cui segnale emblematico è l'altra antitesi tra personaggi che investe, questa volta, Alceo e Timeta, ovvero il rappresentante del sentimento e il rappresentante della ragione, il femminino e il mascolino.(83) Così se la favola è giocata concettualmente intorno alla figura logica dell'antitesi che investe pure il piano storico, laddove pone l'opposizione tra città e lido (84) come opposizione di vita, di civiltà, e, quindi, come opposizione - per dirla con Lukàcs - tra una società degli eroi in cui l'unità primitiva della società era segnata dall'assenza di antagonismo tra l'individuo e la società, e una società borghese la cui caratteristica fondamentale è data dalla profondissima degradazione dell'uomo, provocata dallo stesso modo di produzione e dalla divisione sociale del lavoro, attestata appunto dall'opposizione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra città e campagna (tra città e lido); così, dicevo, se la favola è giocata concettualmente intorno alla figura logica dell'antitesi, è pure vero, però, che tale figura non solo determina opposizione, ma anche inversione, capovolgimento dei ruoli e che alludendo al doppio, se non addirittura in alcuni casi alla triplicazione, proprio per questo, finisce per ricomporsi e quindi per sciogliersi nell'unità. Tale condizione di opposizione e quindi di ricomposizione è ben sintetizzata nel topos dell'amore, ovvero il topos centrale intorno a cui ruota e su cui si trama la favola dell'Alceo. L'amore è concepito come opposizione, in quanto è non-sentimento in Eurilla, in colei che fugge, scappa da esso, e al contrario è sentimento in Alceo, in colui che piange, soffre, si dispera e che per esso tenta persino il suicidio. Da qui poi conseguenzialmente derivano, si originano, le inversioni e i capovolgimenti dei ruoli, laddove Eurilla proprio per la sua resistenza al sentimento è mascolinizzata e Alceo, per il suo essere totalmente vinto dal sentimento, è femminilizzato;(85) da qui inoltre deriva anche quella condizione di contrasto interna agli stessi personaggi: Eurilla che è insieme amata e nemica,(86) Alceo che si trova nel "colmo dei piaceri" e insieme "negli abissi dell'infelicità";(87) condizione che dai personaggi si estende all'ambiente in cui operano;(88) oppure che pone in dissidio i personaggi, Eurilla per la sua durezza, Alceo per la sua sofferenza, con la natura, allorché l'aria, gli animali, le piante, gli umani, i sassi, testimoniano di una felice età dell'amore.(89) L'amore, infine, è concepito come ricomposizione, unione, in quanto, allorché Eurilla cederà ad Alceo, esso verrà ricondotto alla sua unità, ricompattando non solo se stesso, ma ogni cosa nell'armonia e nella serenità del suo trionfo. Tutto ciò è inscritto nella fabula della pescatoria dell'Ongaro. Alceo, pescatore gentile, bello e colto, ama non corrisposto Eurilla per la quale tenta il suicidio, ma la bella e crudele pescatrice, sotto la pressione di Alcippe e per intervento diretto di Venere, finalmente riesce a leggere nel suo cuore e dopo aver iniziato una lenta ma inarrestabile trasformazione verso il femminino, ossia verso la sua vera natura,(90) scopre di essere innamorata di Alceo:

E queste chiome, e queste
luci cieche infelici, che tant'anni
furo cieche al mio bene, e al tuo dolore,
tue sono, che a te dono anco me stessa.
Tu poi che per ancella non m'accetti
[...]
non ti sdegnar ch'io sia tua sposa almeno,
e tu sii mio marito, e mio signore.(91)

Così Alceo, dopo sei lunghi anni di sofferenze, di pianti, finalmente può coronare il suo sogno d'amore:

O mio core, o mia vita, o mio soave
conforto, Eurilla amata, e desiata
tanto tempo da me, dolce cagione
d'ogni tormento mio, termine e meta
de le mie doglie, e dei piaceri miei
caro principio, poi che le parole
e' concetti mi mancano, con ch'io
la gioia del mio cor t'apra e palesi,
te la palesi Amore, e sia presente
a' patti nostri, poi che tu m'eleggi
per tuo compagno e sposo, et io t'accetto
per mia compagna e sposa: e per sicuro
pegno di ciò la man ti porgo, e questo
piccolo cerchio d'oro, onde circondi
per memoria di me la bianca mano,
la bianca man che già mi strinse il core.(92)

 

 

È, quindi, proprio l'amore, invocato come testimone di questa sorta di celebrazione laica del matrimonio, la forza che riconduce ad Unità tutta la vicenda narrata, laddove si afferma e trionfa, in contrasto e aldifuori di una realtà in cui si è rotto l'equilibrio tra l'uomo e la natura, tra l'uomo e la società, una civiltà fittizia, in quanto solo anelata, del sentimento, ovvero, del grande femminino, 1'Ewig-Weibliche di cui parla Goethe, con i suoi valori inalienabili di bellezza e cortesia.(93)È proprio l'amore che ha come nunzia e ministra la pietà, che non ammette "le bugiarde idolatrie d'onore",(94) quale l'onestà legata alla verginità,(95) che regge e governa l'universo,(96) che non vuole che ci si ostini nella propria solitudine,(97) che è malagevole a celarsi,(98)la forza, l'unica forza, o meglio la grande utopia cui ci si rifugia, che da l'illusione di poter trionfare sulla decadenza e quindi di poter vincere persino sulla morte alla quale l'uomo è irrimediabilmente e inesorabilmente condannato,(99) dando, a chi si sottomette a esso amore, in verità solo il miraggio del vero diletto, del vero bene, del vero onore e della vita soave.(100)

L'Alceo, proprio perché è il prodotto di tutto ciò, è conseguenzialmente il prodotto, o meglio, la simulazione di qualcosa che non c'è; è insomma il prodotto di un inganno, di una finzione autoriferita che dietro di sé non nasconde nulla, parvenza ingan-natrice e spettacolo puro proprio di un sistema culturale che vive solo per apparire e i cui contenuti sono pura forma senza sostanza, cui fornisce linfa e sostanza formale-strutturale quel gioco ambiguo e astuto di allusioni, di raddoppiamenti e persino di triplicazioni, giostrato in una tramatura multiforme propria del binomio specchio-sogno. Mi spiego.

Nell'atto secondo, dove si configura una struttura a chiasmo della favola, l'apparizione improvvisa di Tritone, ad apertura di atto, è speculare della apparizione di Venere nel prologo, quasi uno squisito gioco di riflessione con cui Ongaro tenta di ricomporre in unità le dualità delle antitesi concettuali come avverrà, appunto per quelle di Alceo-Timeta, ovvero del sentimento e della ragione, del femminino e del mascolino, ricondotte all'unità grazie all'intervento dell'amore. L'apparizione di Tritone, anch'egli innamorato non contraccambiato da Eurilla, non solo riflette come in un gioco di specchi concavi l'apparizione di Venere, ma pure spinge in avanti, deformandola ovvero dilatandola, come appunto fanno con le immagini gli specchi convessi, la storia della favola, proprio perché il proposito di Tritone di rapire Eurilla dapprima è prefigurato, in un certo senso anticipato, nel sogno inquietante che Alceo ha la notte precedente il giorno dell'attuazione di tale proposito, e poi annunciato ad Alceo da Lesbina a cose fatte, cosicché attraverso il topos del sogno si ha una proliferazione non più doppia ma addirittura trinaria della vicenda, estensione e dilatazione plurima, a grappolo, oserei dire labirintica, delle riflessioni di uno specchio moltiplicante e deformante in cui le immagini riflesse si sovrappongono sui piani dell'alto e del basso, dell'indietro e dell'avana', del prima e del dopo così da originare questa concatenazione sequenziale a catena: apparizione di Tritone che preannuncia il suo proposito di rapire Eurilla, apparizione di Alceo che in sogno vede anticipato tale proposito, apparizione infine di Lesbina che annuncia ad Alceo l'avvenuto rapimento. Insomma si origina una concatenazione sequenziale a catena come se l'Ongaro avesse posto, nascosto da una parte e quindi invisibile, uno specchio riflettente, moltiplicante e deformante che opera la riflessione, sia sul piano della diacronia che su quello della sincronia, delle medesime vicende, moltiplicandole per tre. Segno inequivocabile di tutto ciò è la presenza del topos dello specchio inteso ora come pura capacità di riflessione della luce o di qualcosa o di qualcuno mediante l'acqua,(101) ora, al contrario, come capacità di riflessione mediante il sogno.(102) Questo topos che presuppone una teoria dei sogni elaborata dall'Ongaro sulla scorta di Dante, a proposito della veridicità dei sogni fatti all'alba,(103) di fatto origina una moltiplicazione delle vicende della favola, cosicché alla storia d'amore di Alceo-Eurilla si accompagnano specularmente quelle di Timeta-Florinda, di Siluro-Tibrina, di Morbillo-Aminta,(104) e presuppone, altresì, una moltiplicazione dei piani storici che dal vagheggiamento e dal rimpianto della mitica età dell'oro,(105) passando attraverso l'età presente, una sorta di età ferina in quanto l'amore vi è inteso e vissuto con il velo dell'onore,(106) si giunge a una nuova auspicata età che possa far rivivere quella mitica dell'oro con il rifuggire la concezione dell'amore-passione, dell'amore-sofferenza, (107) nonostante il dolore in amore sia un passaggio quasi obbligato alla felicità:

Quinci imparin gli amanti
a soffrir con buon core
le lagrime e '1 dolore,
e de le loro amate gli odii e l'ire,
che col tempo, soffrendo, ogni rigore
si spezza, e convenire
de' suoi seguaci Amore
suoi le doglie in piaceri, in riso i pianti.(108)


Si giunge, cioè, a una nuova età in cui possa affermarsi definitivamente quello che il Chiodo chiama "edonismo aminteo", dove a prevalere è una civiltà del sentimento segnata dalla raffinatezza, dalla eleganza, dalla gentilezza e dove il trionfo dell'amore è testimoniato da un lato, dalla nuova Eurilla ritornata al femminino:

Questi occhi, che ti fur tanto spietati,
questa bocca, ch'osò dirti parole
sì crude e sì nemiche, e queste mani
che ti negare aita, ora son tue,
[...] tu fanne quello
che più t'aggrada, di me serva tua,
come signor, disponi a tuo volere.
[...]
E queste chiome, e queste
luci cieche infelici, che tant'anni
furo cieche al mio bene, e al tuo dolore,
tue sono, che a te dono anco me stessa.(109)

E dall'altro dall'essere esso inteso nel più puro sensualismo:

Al petto allora se la strinse Alceo,
e per risposta, in vece di parole
le rese mille dolci abbracciamenti
accompagnati con muti sospiri,
e credo che cangiato mille volte
abbian l'anime loro i loro alberghi,
o che si sien confuse, e divenute
un'alma sola, come i corpi loro
paiono un corpo solo, così stretti,
e sì congiunti stanno; io gli ho lasciati
che si legano l'anime coi baci.(110)

Del resto tale gioco di specchi riflettenti, che raddoppiano o addirittura triplicano gli eventi e i personaggi, compie l'inganno degli inganni, l'artificio degli artifici, riconducendo Alceo alla sua vera unità, alla sua vera essenza, ovvero all'Ongaro stesso, assimilazione di cui gli indizi sono disseminati nella favola o indirettamente laddove Alceo è colui che sparge versi, che scrive e che ragiona, attribuzioni - a ben vedere - proprie più di un poeta che di un pescatore,(111) o direttamente, passando per Timeta, laddove Alceo, ormai rigenerato, purificato dall'elemento acquatico - il mare - nel quale ha cercato la morte,(112) altri non è - così come ho già detto - se non la faccia sentimentale di Timeta.

In tal senso, lungo questa triade Alceo-Timeta-Ongaro, la favola dell'Alceo non è altro che la rappresentazione autoreferenziale dell'Ongaro che, autorappresentandosi, ha finito per innalzare a se stesso il proprio simulacro, ovvero il monumento del proprio fantasma, vale a dire una mera finzione, una favola appunto. Una favola rappresentativa, cioè, che, gareggiando con l'Aminta "l'elegante mascherata" del Getto o, meglio ancora, il "masque ideale", secondo la formula del Guglielminetti traslatore del Radcliffe-Umstead e del Frye, finisce, proprio sul terreno della rappresentazione, con l'assumere i caratteri della novità nei confronti del modello, laddove l'Alceo sembra esaltare la rappresentazione autoreferenziale del suo autore e l'Aminta invece sembra esaltare il suo pubblico: essendo la prima pastorale un omaggio dell'autore a se stesso, la seconda essendo al contrario un omaggio dell'autore agli spettatori e quindi perciò caratterizzandosi l'Aminta come "idealizzazione della società rappresentata da tale pubblico",(113) e l'Alceo come distacco dalla vita e quindi come fuga da una società degradata. Ma, a ben vedere, entrambe le favole non fanno altro che testimoniare, sancire, l'impotenza dell'intellettuale nei confronti di un universo degradato, cioè non fanno altro che sancire, in quella società tardocinquecentesca, la morte dell'intellettuale come eroe, il quale, al contrario si caratterizza unicamente come puro solitario cortigiano, vale a dire come letterato evirato al servizio del potere, che non ha la forza di agire ma ha solo la capacità di concepire la poesia come dilettevole inganno.

 

NOTE

1 - Cfr. B. Soffredini, Brevi Memorie dell'Antica Città d'Anzio del Presente Nettuno e del Moderno Fono d'Anzio, a cura di I. Paladino, Magnanti, Nettuno 1998, p. 58. Cfr. pure V. Cerri, Nettuno, Caritas parrocchia S. Giovanni, Nettuno s. d., p. 48.

2 - II primo era nato nel 1553, il secondo nel 1560. Il luogo e la data di nascita dell'Ongaro non sono esattamente attestati. Le ipotesi sono discordanti soprattutto per il luogo: alcuni studiosi lo vogliono nato a Venezia da famiglia padovana, altri al contrario direttamente a Padova. A me pare che delle due ipotesi sia da sottoscrivere la prima soprattutto perché ad attestare questa sono proprio i suoi protettori romani, i fratelli Ruis, laddove entrambi così scrivono: "O di mille virtù spirito adorno, / a cui versa Aganippe i dolci umori, / a cui chinan le cime i sacri allori, / per cui porta la Brenta illustre il corno" (cfr. Degl'Illustri Signori li Signori Girolamo et Michele Ruis, A Messer Antonio Ongaro, in, A. Ongaro, Alceo, favola pescatoria recitata in Nettuno Castello de' Signori Colonnesi, et non più posta in luce, Ziletti, Venezia 1582, b 4), e laddove Girolamo così ribadisce: "Da le spelonche, e da gli algosi seni, / che il gran Tirreno in sé chiude / e nasconde, / per te Timeta, portano a le sponde / ricche gemme le ninfe a grembi pieni; / ... /o figlio d'Adria, o prima gloria e vanto / del mar, novello Orfeo, nuovo Airone / che fai gli scogli erranti, e l'acque immote" (Dell'Illustre Signor Girolamo Ruis, in A. Ongaro, Alceo, cit., a 5). Ma pure va segnalata, anche se priva di fondamento l'ipotesi di Giovanni Mario Crescimbeni che nella sua Storia della volgar poesia, a c. 484 vuole l'Ongaro nativo di Nettuno, forse basandosi erroneamente sui seguenti versi: "Alceo, ch'è prima gloria ed ornamento / di questo mar che nacque nel Castello / che dal gran Dio dell'onde ha preso il nome" (cfr. A. Ongaro, Alceo, cit., atto I, scena I, w. 212-214). In proposito cfr. pure B. Soffredini, op. cit., p. 60, in cui si legge: "so bene aver alcuni asserito, essere l'Ongaro non già nettunese, ma padovano, sostenendo però il contrario sono questi confutati dal Crescimbeni, nella sua Storia della volgar poesia a carte 484 per la convincente ragione, che "nascondendosi" in quella favola il poeta, sotto il finto nome di Alceo, di esso fa parlare un altro personaggio alla scena I atto I con questi versi: "Alceo, ch'è prima gloria ed ornamento / di questo mar che nacque nel Castello / che dal gran Dio dell'onde ha preso il nome"; onde pare che non manchino memorie, con cui si prova che esso, e questa famiglia Ongaro fossero originar? di Nettuno".

3 - La numerosa e varia produzione di rime dell'Ongaro che annovera poesie enco-miastiche, amorose, religiose, capitoli, due egloghe: Fillide e Glicone, sonetti, fu pubblicata postuma dall'amico Tiberio Palelle (Farnese, Nicolo Mariani) nel 1600, lo stesso che in un componimento messo a prefazione dell'Alceo - come del resto ha sottolineato Dalla Palma - riconobbe ad Ongaro il terzo posto, dopo appunto il Sannazzaro e il Rota nella poesia pescatoria: "Ninfe, che i ricchi fondi d'Anfitrite / in seggio avete, e i liquidi cristalli / e per questi arenosi umidi calli / cantar Timeta al par de' cigni udite, / voi che al canto di lui sovente uscite / a guidar care danze, e dolci balli, / di lapilli, di perle, e di coralli / fregio onorato a la sua chioma ordite; / trasse il dotto Licon le Muse pria / dai gioghi di Parnaso in queste sponde / dopo Licon Berino ha 1 primo grido, / sarà Timeta il terzo, e per lui fia / non men de la città nobile il lido, / mentre avran bianche spume e pesci l'onde" (cfr. Del Signor Tiberio Palella, in A. Ongaro, Alceo, cit., b 5). Giuseppe Dalla Palma, richiamandosi a questo sonetto così scrive: "Che Timeta, come il Tirsi del Tasso, sia da identificare con l'autore [vale a dire l'Ongaro], si deduce, oltre che dall'identità del suo ruolo di consigliere verso il giovane amante Alceo, da varie poesie di dedica. Tra queste giova ricordare il sonetto di Tiberio Falcilo [più su citato], questi [- come abbiamo visto -] inserendo la favola dell'Ongaro nel solco dell'attività poetica delle pescatorie del Sannazzaro ("Licon") e del Rota ("Berino"), nomina Timeta (appunto Ongaro) buon terzo come autore di poesia pescatoria" (cfr. G. Dalla Palma, Un capitolo della fortuna dell'"Aminta": l'"Alceo" di Antonio Ongaro, in "Rivista di letteratura italiana", XII -1994-, 1, p. 83).

4 - Cfr. A. Ongaro, In morte di Fabritio Colonna, in Id., Rime, Ciotti, Venezia 1620, p. 146.

5 - Cfr. Mss Chigi, M.V. 101, f. 31, Biblioteca Apostolica Vaticana, (cit. da R. Luzi, Nacque a Nettuno la prima favola pescatoria della letteratura italiana, in V. Cerri, op. cit., p. 301); cfr. pure D. Chiodo, Introduzione, in A. Ongaro e G. Vida, Favole, prefazione di G. Bàrberi Squarotti, Res, Torino 1998, pp. XII e XIII. Qui Chiodo nel ripercorrere il capitolo indirizzato al Padre Panigarola in cui l'Ongaro attribuisce la crisi della letteratura volgare al venir meno del mecenatismo e soprattutto alla decadenza culturale degli ambienti in cui si esercitava il potere, riporta i seguenti versi del capitolo in questione che mi piace riproporre al lettore:
Povera e disgraziata poesia, i lauri tuoi, che furo ai re sì cari son di taverne insegne e d'osteria. Conosco in Corte certi segretari, che tanto sanno lettere toscane quanto sanno arte cabala i somari E pur son trattenuti, ed hanno il pane,il salario, la stanza, e vanno a risco d'aver qualche gran grado oggi o dimane.

6 - Cfr. G. Carducci, L'"Aminta" e la vecchia poesia pastorale, in Id., Su l'"Aminta" di Torquato Tasso. Saggi tre, Sansoni, Firenze 1896, p. 259.

7 - Cfr. J.N. Erythraeus (G.V. Rossi), Pinacotheca imaginum illustrium doctrinae vel ingenii laude virorum qui autore superstite diem suum obierunt, Colonie Agrippine, 1645-1648 vol. I., p. 166. s

8 - Cfr. G. Dalla Palma, op. cit., p. 83, e cfr. soprattutto D. Chiodo, op. cit., p. 128.

9 - Cfr. A. Ingegneri, Della poesia rappresentativa. Discorso, in Id., Della poesia rappresentativa e del modo di rappresentare le favole sceniche, a cura di M.L. Doglio, Panini, Modena 1989, p. 20.

10 - Di ciò egli parla nelle egloghe e in alcuni sonetti in dialetto veneziano e in due capitoli in lingua di intonazione bernesca, intitolati Delle notti dedicati a uno dei due fratelli Ruis - Girolamo o Michele? - suoi primi protettori romani molto probabilmente signori veneziani di origine spagnola trapiantati a Roma, per celebrare i quali compose il poemetto Hospitium Musarum di quattrocento esametri in cui immagina che le Muse convengano nel palazzo romano dei due fratelli; tema questo che riappare nell'ultima scena dell'atto V a chiusura dell'Alceo: "Oggi in somma si celebri un trionfo / simile a quel che si vede dipinto / nel palagio real dei duo fratelli, / splendore e gloria d'Adria, e de l'Ibero, / che dal lungo esilio han richiamate / le Muse in ricco seggio al Tebro in riva, / a cui consacro umil la cetra e i versi" (cfr. A. Ongaro, Alceo, cit., atto V, scena III, w. 289-293); ma già nel sonetto messo a prefazione dell'Alceo rivolgendosi ai fratelli Ruis, così l'Ongaro aveva scritto: "O figli, o gloria d'Adria e de l'Ibero, / scorno a l'antica, a l'età nostra onore, / che richiamate da lor lungo errore / le sacre Muse al bel seggio primiero" (cfr. A. Ongaro, Agl'Illustri fratelli, il Signor Girolamo et il Signor Michele Ruis, in A. Ongaro, Alceo, cit., w. 1-4; a 4). E nella dedicatoria aveva insistito sulla liberalità dei due fratelli nei confronti degli artisti: "Tutti gli amatori delle virtù che sono oggidì in Roma siano obbligati a consacrare alle Signorie vostre qualche lor fatica in segno di gratitudine, o per dir meglio, di tributo, avendoseli elle con la loro liberalità fatti schiavi, aprendo così onorato ridotto ove possono convenire a tutte l'ore, et ove sono cortesissimamente accolti et accarezzati" (cfr. A. Ongaro, Agl'Illustri fratelli, il Signor Girolamo et il Signor Michele Ruis, in Id., Alceo, cit.; a 3, b 3).

11 - Così si spiega il perché l'opera non è dedicata ai Colonna, ma ai fratelli suoi protettori.

12 - Cfr. E. Carrara, La poesia pastorale, Vallardi, Milano 1909, p. 350.

13 - L'isoletta di Belvedere per gli estensi fu luogo di delizia celebratissimo - come scriveva il Carducci - che Alfonso I finì di comprare nel 1514 e che sei anni dopo finì di murare, edificare e ornare. Di tale meraviglia ci da testimonianza oltre al Giraldi Cinzio anche lo storico ferrarese Agostino Faustini. Il primo nel suo Commentano delle cose di Ferrara e de'principi d'Este così scriveva: "Dalla parte d'inanzi si distende nel fiume come in un becco, dove s'entra con scaglioni fatti per salirvi: la parte di dietro è più larga e quasi tirata in mezzo cerchio, la quale divide l'acqua del fiume in due parti, dalle quali come da due braccia è tutta cinta e bagnata. Questa isoletta, piantata d'alberi d'ogni sorte e nostrali e stranieri, chiamava egli Belvedere; e l'aveva anco tutta piena d'animali di quattro piedi e d'uccelli fatti venire d'ogni parte, così del nostro paese come del forestiero, per trame onesto piacere" (cfr. G.B. Giraldi Cinzio, Commentario delle cose di Ferrara e de'principi d'Este, traduzione di L. Domenichi, Rossi, Venezia 1556, p. 153). Il secondo ribadiva: "Era questo luogo un'isola nel mezzo del Po, di forma triangolare, poco più su della porta di Castel Tebaldo; cinta intorno di mura co' merli ben disposti e da dotta mano dipinti. Nel primo ingresso della quale si vedeva una gran prateria attorniata di piccioli bossi; nel cui mezzo sorgeva una fontana, che in molli spilli da un tronco di bronzo al naturale formato, cadendo l'acqua del Po in un gran vaso ritondo di finissimo marmo, facea di sé bellissima vista a' riguardanti. Oltre a questa prateria vedevasi di lontano il superbissimo palazzo con logge bellissime e scale, in cui l'ingegno de' primi architetti de' tempi del duca Alfonso primo affaticati s'erano. Quivi appresso era una chiesetta coperta di piombo, e dipinta dentro per mano delli Dossi, pittori famosi di quel secolo; e poco più oltre, dall'altra parte, erano certe selve ombrose, tra le quali si vedevano alcuni bagni, che di grado in grado si scendeva a bagnarsi nell'acque del Po, che per certi canali di piombo sotterra vi si conducevano. Gli alberi fruttiferi erano molti e spessi; e più a dentro di questo luogo si trovavano folti boschi, pieni d'ogni sorte d'animali domestici: su per le cime degli arbori, oltre i rosignuoli ed altri simili uccelli, si facevano gracchiando udire i pavoni d'India, che quivi domesticati non si partivano. Era così vago ed ameno questo luogo per lo sito e per l'aere puro del Po, ch'Agostino Steuco nel primo della sua Cosmopeia ebbe ardire di paragonarlo e anteporlo al paradiso di Moisè; a cui sottoscrive Fra' Leandro Alberti nella sua Italia; e prova parimente il Maustero nella sua Geografia, dicendo, com'è vero, che a chi si partiva da lui lasciava un particolar desiderio di ritornarvi" (cfr. A. Faustini, Aggiunte all'Historia ferrarese di G. Sardi, Gironi, Ferrara 1646, lib. I, pp. 18-19. Le citazioni in proposito sono tratte da G. Carducci, op. cit., pp. 233, 235, 236).

14 - Ivi, p. 237.

15 - Su questo tema si veda E. Bigi, Il dramma pastorale del Cinquecento, in Atti del Convegno sul tema: il teatro classico italiano nel '500, quaderno n. 138, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1971, pp. 101-102; e L.G. Clubb, The making of thè Pastoral Play: Italian experiments hetween 1573 and 1590, in Italian Drama in Shakespeare's Time, Yale Univ. Press, New Haven and London 1989, pp. 93-123 (cit. da G. Dalla Palma op. cit., p. 79, nt. 1 e 2). Qui così Dalla Palma scrive: "II riconoscimento dell'Aminta come episodio piuttosto isolato nella storia della pastorale cinquecentesca aperta a una varietà di registri e di temi è abbastanza recente e inquadrato da Bigi. Questa indicazione è stata confermata da Clubb che, prendendo in esame un campione di venti testi, giunge alla conclusione che, se si eccettua l'Alceo, le pastorali di quel periodo fanno vedere l'influenza più della commedia che dell'Aminta. È necessario però, - precisa Dalla Palma - tenere presente quanto Bigi aggiunge: la favola tassiana costituì "un momento decisivo per l'affermazione del genere" e nelle opere successive "l'impiego della musica della parola e del verso, la musica voluttuosa della pastorale tassesca" si venne accentuando come "fondamentale strumento espressivo"".

16 - G. Carducci, op. cit., p. 258.

17 - Ai quali "per rendere ricompensa de' benefici ricevuti", come egli scrive, rappresentò per la prima volta l'opera, mentre "per procacciare" a essa "tutore" la dedicò ai Ruis. In proposito così scrive: "Illustri Signori miei per tre cause principali si sogliono dedicar l'opere: o per speranza di dover per mezzo di una dedicazione conseguire qualch'utile, o per rendere ricompensa di benefici ricevuti, o per procacciare, per dir così, tutore ad esse opere" (A. Ongaro, Agl'Illustri fratelli il Signor Girolamo et il Signor Michele Ruis, cit., a 2).

18 - Del resto indirettamente attestato dallo stesso Ongaro allorché nella dedicatoria ai fratelli Ruis così scrive: "[...] prevedendo io che molti sarebbero stati coloro che avrebbero detto esser poco dicevole a un giovinetto par mio che faccia professione di leggi attendere alla poesia, et aver ardire di mandar le primizie del suo ingegno nel teatro del mondo, conobbi essermi necessario ritrovar qualche difensore centra simile diceria" (cfr. A. Ongaro, Agl'Illustri fratelli, il Signor Girolamo et il Signor Michele Ruis, in A. Ongaro, Alceo, cit.; b 2, a 3). L'espressione "teatro del mondo" anticipa .tematiche e topoi secenteschi. Chiodo ha insistito sulla presenza nell'Ongaro di luoghi e temi che anticipano il gusto secentesco "dell'inusitato e curioso" su cui insiste a proposito delle Rime (cfr. D. Chiodo, op. cit., p. XII). Mentre Dalla Palma si richiama al passo citato per trame notizie biografiche sull'Ongaro (cfr. G. Dalla Palma, op. cit., p. 82).

19 - Sulla data della morte i suoi biografi sono divisi su tre ipotesi: 1600 appunto, 1595 a Roma, e 1593 a Viterbo.

20 - Cfr. M.L. Doglio, Introduzione, in A. Ingegneri, op. cit., p. IX.

21 - G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Società tipografica de' classici italiani, Milano 1822-1826, t. VII, p. 1927.

22 - B. Wiese - E. Percopo, Storia della letteratura italiana dalle origini ai giorni nostri, Utet, Torino 1904, p.366.

23 - Cfr. G.B. Bisso, Introduzione alla volgar poesia, s. e., Roma 1777, p. 373- Qui il Bisso riprendeva il giudizio di Giovanni Mario Crescimbeni che nella sua Storia della volgar poesia aveva definito l'Alceo una favola pescatoria "non men bella e leggiadra della bellissima Aminta del Tasso" (cfr. G.M. Crescimbeni, Storia della volgar poesia, 1698, e. 74).

24 - Cfr. M.L. Doglio, op. cit., p. IX.

25 - Cfr. A. Ingegneri, op. cit., p. 4.

26 - Si pensi in Spagna all'esperienze poetiche del marchese di Santillana, di Boscàn e Garcilaso; in Portogallo all'opera di Sa de Miranda, di Bernardini Ribeiro, di Cristobal Falcào e del grande lirico Luis de Leon; in Francia alla poesia pastorale della Plèiade, alla poetica classicistica dei secoli XVI-XVII e soprattutto al mondo favolistico di La Fontaine; in Inghilterra allo Shepherd's Calendar (1579) di E. Spenser e a Idea, the Shepherd's Garland (1593) di M. Drayton.

27 - Sul modello dell'Arcadia la prosa pastorale si diffuse nelle letterature europee: in Spagna con la Diana enamorada di Jorge Montemayor e con il suo miglior continuatore Gil Polo; in Francia con l'Astrèe di H. d'Urfé; in Germania con le traduzioni, tutte del 1619, del Pastorfido, dell'Astrèe e della Diana enamorada; in Inghilterra con l'Arcadia di Ph. Sidney e con la Rosalynde di Th. Lodge pubblicate entrambe nel 1590 (cfr. G. Carducci, op. cit., pp. 139-275).

28 - In proposito cfr. la nota 3 del presente lavoro, p. 46.

29 - Cfr. G. Dalla Palma, op. cit., p. 80.

30 - "Portento vivo d'armonia tra l'ispirazione e l'espressione e l'impressione" - è per il Carducci l'Aminta - nonché "portento storico nella spirituale continuità della poesia italiana" (cfr. G. Carducci, op. cit., p. 139).

31 - Cfr. A. Ingegneri, op. cit., p. 23.

32 - L'opera, che fu rappresentata alla presenza del duca Alfonso II e dei suoi fratelli il cardinale Luigi e don Francesco, ebbe grande consenso di pubblico soprattutto perché richiamato dalla recitazione e dalla direzione del Verato "onore della scena" e "specchio degl'istrioni" (cfr. G. Carducci, op. cit., p. 227). Del resto prima dell'Ingegneri, in una lettera allo Speroni del 10 luglio 1585, già il Guarini aveva parlato del Tasso quale "imitatore della Canace". Riprendendo questa affermazione in età contemporanea, Marziano Guglielminetti, sostenendo che la possibilità dell'Aminta di collocarsi sulla linea del Sacrificio e del Pastorfido, si fa meno consistente di quanto potesse apparire lì per lì, in proposito così precisa: "II rapporto istituito a ragione con la Canace lascia capire che l'Aminta, pur muovendosi, come tutta la produzione teatrale pastorale, fra commedia e tragedia, propende piuttosto verso quest'ultima e non conosce che poche situazioni comiche, diversamente da quanto accade nel Sacrificio e nel Pastor fido" (cfr. M. Guglielminetti, Introduzione, in Torquato Tasso, Teatro, a cura del medesimo, Garzanti, Milano 1985 (II), p. XX).

33 - Cfr. G. Carducci, op. cit., p. 227; cfr. pure M. Guglielminetti, op. cit., p. XVIII. Inoltre sul Sacrificio di Agostino Beccari, sull'Aretusa di Alberto Lollio e sullo Sfortunato di Agostino Argenti cfr. la bella e lucida Introduzione di Fulvio Pevere al volume da lui curato, A. Beccari - A. Lollio - A. Argenti, Favole, Prefazione di G. Bàrberi Squarotti, Res, Torino 1999, pp. VII-XXXII.

34 - Cfr. A. Ingegneri, op. cit., p. 4. Chi voglia, invece, avere una visione particola-reggiata e dettagliata della tragedia e tragicommedia italiana del Cinque-Seicento può confrontare il lucidissimo e informatissimo saggio di Mauro Sarnelli dal titolo "Col discreto pennel d'alta eloquenza". "Meraviglioso" e Classico nella tragedia (e tragicommedia) italiana del Cinque-Seicento, Aracne, Roma 1999.

35 - A. Ingegneri, op. cit., p. 5.

36 - Ibid.

37 - Cfr. G. Carducci, op. cit., p. 232.

38 - Cfr. A. Ingegneri, op. cit., pp. 6-7.

39 - Ivi, p. 7.

40 - Ibid.

41 - Cfr. M.L. Doglio, op. cit., pp. XII e XIII, passim.

42 - Cfr. T. Boccalini, Ragguagli di Parnaso, Bidelli, Milano 1615, cent. I, r. LVIII, t. I, p. 265. Così seguita Boccalini a descrivere il fenomeno: "E perché gli autori di così brutto furto subito furono iscoperti e da gli sbirri fu data loro la caccia, essi, come in sicura franchigia, si ritirarono nella casa dell'Imitazione; onde dal bargello di espresso ordine di Apollo furono subito estratti e vergognosamente condotti in prigione. E perché ad uno di essi fu trovato addosso il prologo di essa pastorale, conforme ai termini della pratica sbirresca, subito fu torturato e interrogato super aliis et complicibus; onde il misero nella corda nominò quaranta poeti tagliaborse suoi compagni, tutta gente vilissima, e che, essendosi data al giuoco ed a tutti i brutti vizi, non ad altro mestiere più attendono che a rubare i concetti delle altrui fatiche, facendo tempone, avendo in orrore il sudar ne' libri e stentare nei perpetui studi per gloriosamente vivere al mondo con le proprie fatiche".

43 - Cfr. P. Cherchi, Polimatia di riuso, Bulzoni, Roma 1998, pp. 223, 270-272. Qui lo studioso nordamericano, dopo aver sostenuto che il Tasso si servì dell'Historia de gentibus septentrionalibus di Olao Magno, dimostra come il poeta campano avesse plagiato i Poetices libri septem di Giulio Cesare Scaligero pubblicati a Lione nel 1561, per la stesura del suo dialogo Il Gonzaga secondo, ovvero del giuoco, in cui per l'appunto - a parere di Cherchi - ci troviamo di fronte a un vero episodio di "plagio integrale". Che, del resto, il Tasso apparterrebbe alla schiera dei Protei eruditi, i dati lo confermano, proprio perché i frequenti spezzoni eruditi nei Dialoghi spesso sono plagiati, come del resto sono plagiati dalla Canace dello Speroni i versi 10-12 dell'atto IV, scena I (oh dolente principio), e i versi 244-245 dell'atto IV, scena II (pianti, sospiri e dimandar mercede), che ritornano rispettivamente nel verso 161 e nel verso 1394 dell'Aminta (cfr. M. Guglielminetti, op. cit., p. XX, p. 11, nt. 18 e p. 70, nt. 26). Ancora nell'Aminta sono ravvisabili plagi dal Canzoniere e dal Trionfo d'Amore del Petrarca nonché dalle Stanze del Bembo. In proposito cfr. il verso del Bembo (che'l pentirsi da sezzo nulla giova - Stanze, 49, 8 -) che ritorna tale e quale nel verso 131 dell'Aminta, o ancora il verso del Petrarca (le chiome a l'aura sparte - Canzoniere, XC, 1; CXLIII, 9; Trionfo d'Amore, III, 136 -) che ritorna nel verso 702 della pastorale tassiana.

44 - Cfr. G. Dalla Palma, op. cit.

45 - L'Ongaro intitola la sua opera Alceo non solo dal nome del suo personaggio principale, ma anche dalla materia trattata, in quanto Alceo richiama direttamente il nome del grande poeta greco di Mitilene, Alceo appunto, esponente della lirica monodica, nella cui vasta opera in dialetto eolico sono presenti ardore bellico e politico, gioia del convito e dell'amore, consapevolezza del dolore e della morte e che fu l'inventore del metro alcaico. Del resto la stessa Eurilla, il personaggio femminile della favola dell'Ongaro (il cui nome evoca il vento), sembra essere anch'ella mutuata dal poeta di Mitilene, soprattutto da una sua lirica intitolata Tempesta di mare che qui mi piace riportare: "Stupisco alla violenza dei venti: / di qua un'onda rotola, / di là un'altra; e noi in mezzo al mare / con la nave nera siamo travolti // molto penando per la gran tempesta, / poi che l'acqua ha raggiunto la base dell'albero / e la vela è già tutta lacera / e larghi brandelli ne pendono giù // e cedono le scotte ...
Inoltre un'altra suggestione interpretativa mi pare presente nel titolo dell'Alceo: come Alceo il poeta greco inventò un nuovo metro, l'alcaico appunto, simile operazione intese realizzare l'Ongaro con la sua opera: dare forma a una rinnovata favola che non fosse più quella pastorale esemplata sul modello aminteo, ma che, partendo da questo, rivitalizzasse il genere, utilizzando ambientazioni caratteristiche, proprie, delle pescatorie.

46 - Cfr. A. Ingegneri, op. cit., pp. 7-8.

47 - Alceo viene descritto dall'Ongaro come "timido e desioso" e fornito di "grazia, bellezza, ricchezza"; Timeta è personaggio nobile e gentile non per descrizioni specifiche, ma per il suo modo di agire (cfr. A. Ongaro, Alceo, cit., atto III, scena I, vv 85, e scena II, vv. 159-162; al contrario per Timeta si rimanda il lettore a tutta la favola).

48 - Eurilla viene descritta come "torva e sdegnosa", "cruda, ingrata", "arrogante", "superba", "priva d'umanità", "cruda fera omicida" e ancora "peggior tigre [...] spietata tanto" che ha "d'alpe e di macigno il core" e il cui "silenzio disdegnoso [è] pieno di mal talento" (Ivi, atto III, scena I, vv. 62-63, 87, 116-117; scena II, vv. 137-138, 231-234; scena IV, vv. 510-518; atto V, scena II, vv. 215, 228, 235).

49 - Orazio Ariosto, pronipote di Ludovico, scrisse uno dei quattro intermezzi dell'Alceo; (cito da M.L. Doglio, op. cit., p. 34, nt. 1. Qui la Doglio cade in errore allorché afferma che l'Alceo fu rappresentato per la prima volta a Ferrara nel 1581).

50 - L'atto I è suddiviso in due scene; gli atti II e V sono suddivisi in tre scene; gli atti III e IV sono suddivisi in quattro scene.

51 - Le dieci scene che non superano i centocinquanta versi sono la I e la II, del II atto; la I, la II e la III dell'atto III; la II e la IV dell'atto IV; la I, la II e la III dell'atto V. Le altre scene che superano abbondantemente i duecentocinquanta versi sono: la I e la II dell'atto I; la III dell'atto II; la IV dell'atto III; la I e la III dell'atto IV.

52 - Di monologhi in cui un unico personaggio occupa da solo l'intera scena nella quale appare se ne contano tre: quello di Venere nel prologo che si distende per novantadue versi; l'altro di Tritone nella scena I dell'atto II che si distende per centotredici versi e che per la repentina e inattesa apparizione del mostro marino interrompe la narrazione diacronico-logica, inserendo nella storia un nuovo episodio di fatto funzionale all'intera favola; l'altro, infine, di Timeta nella scena I dell'atto V che si dilunga per soli quarantuno versi. Mentre nella scena IV dell'atto III, l'atto dalla più complicata costruzione strutturale e in cui appare per la prima volta nella pastorale l'eco, si possono contare altri due monologhi entrambi legati al personaggio di Alceo, che per tipologia compositivo-strutturale non sarebbero tali perché inseriti all'interno di un reticolato dialogico che vede impegnati Alceo, Eurilla e Alcippe, ma che per la natura e la modalità in cui si svolgono di fatto assumono la caratteristica più propria del monologo: un primo in cui Alceo rispondendo a Eurilla finisce per parlare ininterrottamente per più di cento versi, da v. 425 a v. 533 per la precisione; e un secondo in cui Alceo, dopo che Alcippe lo invita ad aspettare Eurilla, si lascia andare a propositi di suicidio che finiscono per essere fuori dal contesto dialogico che lo ha visto impegnato e che si prolungano per trentatré versi consecutivi, da v. 608 a v. 641.

53 - Cfr. A. Ingegneri, op. cit., p. 16.

54 - Ibid.

55 - Ivi, p. 17.

56 - Ivi, p. 20 passim.

57 - Cfr. G. Ferroni, Il teatro e la scena, Bulzoni, Roma 1980, p. 9; e M. Costanze, Il gran theatro del mondo, Scheiwiller, Milano 1964, p. 18. Per una visione di insieme si confrontino M. Costanze, op. cit., pp. 7-46; AA.W., Le lieu théàtral a la Renaissance, études réuniespar J. Jacquot, C.N.R.S., Paris 1964; L'invenzione del teatro. Studi sullo spettacolo del Cinquecento, a cura di F. Cruciani in "Biblioteca teatrale", f. 15-16, 1976; Lo spettacolo dall'Umanesimo al Manierismo. Teoria e tecnica, a cura di F. Marotti, Feltrinelli, Milano 1974; L. Zozzi, Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana, Einaudi, Torino 1977.

58 - Cfr. E. Raimondi, Il tragico in Accademia, in Id., I sentieri del lettore, vol. I. Da Dante a Tasso, a cura di A. Battistini, II Mulino, Bologna 1994, p. 383; G. Ferroni, op. cit., p. 9. In proposito così scrive Costanze: "In una lettera a D. Rullo del 5 gennaio 1544, C. Gualteruzzi paragona l'esistenza dell'uomo su questa terra a una "fabula": e il paragone ritorna in una lettera di F. Della Torre a B. Rhamberti dell'8 maggio dello stesso anno" (M. Costanze, op. cit., p. 18).

59 - G. Ferroni, op. cit., p. 11.

60 - Ivi, p. 13; G. Bàrberi Squarotti, Il "fargrande" del Guarìni, in "Critica letteraria", XXII, 1994, 3 (84), pp. 430 e 436. "Edifici di chimere" definiva il teatro J. Bonfandio in una lettera a P. Manuzio (cfr. Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini, et eccellentissimi ingegni, scritte in diverse materie, Libro Primo, Venezia, in casa de' Figliuoli di Aldo, ed. 1549-1550, p. 64; cit. da M. Costanze, op. cit., p. 12). In uno studio recente sul Pastor fido del Guarini, G. Bàrberi Squarotti legge la natura profonda del genere dell'ecloga e della favola pastorale fin dai tempi di Teocrito come "gioco in maschera di letterati e, [...] nell'Aminta del Tasso, di cortigiani" e quindi come "rappresentazione del gioco di linguaggio proprio e di linguaggio figurato" (G. Bàrberi Squarotti, op. cit., pp. 425 e 429).

61 - Cfr. E. Raimondi, op. cit., p. 386, G. Bàrberi Squarotti, op. cit., pp. 430, e G. Ferroni, op. cit., p. 11. E così Ferroni precisa: "Ma tutti i suoi attori e i suoi spettatori devono essere convinti della sua consistenza e della sua realtà, del suo essere naturale; l'illusione (di quanti la vedono e di quanti in essa si muovono) sulla verità dello spettacolo e sulla realtà del simulacro è la condizione necessaria perché la scena consista, si espanda, abbia una funzione politica". Del resto che il concetto di simulacro fosse radicato nella cultura manieristico-barocca è ulteriormente testimoniato da M. Costanze che in proposito riporta due passi, uno di Tasso: "Quindi si ritirò nel ciclo, e tutti gli dei, quasi spettatori, rivolsero gli occhi al nuovo abitator dell'universo [cioè] all'uomo or ora creato, che, portando il simulacro de la divina bellezza, nel teatro del mondo cominciava l'azione del suo quasi poema" (cfr. T. Tasso, -II Messaggiero", Dialoghi, ed. critica a cura di E. Raimondi, Sansoni, Firenze 1958, voi. II, tomo I, p. 300); l'altro di Marino: "II principe può dirsi simulacro del Sole nel Teatro della civiltà" (G.B. Marino, La Lira, "Dedica"al cardinale Doria), (cit. da M. Costanze, op. cit., pp. 22 e 27).

62 - "Pescatoria picciolissima e di niuna valuta" definiva la sua opera con falsa modestia l'Ongaro (cfr. A. Ongaro, Agl'Illustri fratelli, il Signor Girolamo et il Signor Michele Ruis, in Id., Alceo, cit., b 2).

63 - [...] scendo oggi dal ciclo in questa parte / dove serba i vestigi e le ruine / del tempio di Fortuna il lido ancora; /[...] questi scogli, quest'alghe e quest'arene (cfr. A. Ongaro, Alceo, cit., prologo, w. 12-14, 87). Del resto la puntualità e precisione della descrizione dei luoghi è la caratteristica dell'Alceo come ben dimostra la descrizione della località di Torre Astura (Ivi, atto IV, scena III, v. 389). Per questo aspetto specifico della descrizione dei luoghi della marina di Nettuno, come lo Scoglio d'Orlando, rimando a un libriccino, anche se non sempre puntuale e scientificamente inoppugnabile, fatto pubblicare dalla città di Nettuno in occasione del 420° anniversario della prima rappresentazione dell'Alceo. Sui passi di Alceo con Antonio Ongaro, a cura di B. La Padula, Aracne, Roma 2001.

64 - Qui così si legge: "La scena si finge nei lidi dove fu già Anzio, dove è ora Nettuno, Castello dei Signori Colonnesi".

65 - Cfr. A. Ongaro, Alceo, cit., prologo, vv. 22, 23, 33-34, 42.

66 - Del resto è la stessa presentazione che Venere fa di se stessa a segnalare questo processo di raddoppiamento se non addirittura di triplicazione: "Io son la Dea del terzo Cielo, io sono / la stella che tra i lucidi confini / della notte e del dì splende e fiammeggia, / dal mondo or Alba, or Espero chiamata; / Vener io son, la madre de l'Amore" (Ivi, prologo, vv. 7-11).

67 - In proposito si leggano questi versi: "Sono le sue dolcezze / tutte d'amaro assenzio, anzi di fele; / e le tue contentezze / sono le doglie e i pianti"; -Non sarà infesto a' naviganti Arturo, / negheranno il tributo i fiumi al mare, / beverà l'Arno il Trace e l'Ebro il Tosco / prima ch'alberghi nel mio petto Amore" (Ivi, atto III, scena IV, w. 653-657; atto I, scena I, v. 106-109; cfr. pure atto IV, scena I, v. 119).

68 - Ivi, atto III, scena IV, vv. 618-638. La lettura delle ultime sillabe delle parole reiterate dall'eco, mi sembra possa procedere non solo per linee orizzontali, ma anche per linee verticali e in quest'ultimo caso con un forte valore semantico che ribadisce il clima di sofferenza e di morte dei versi in questione.

69 - Ivi, atto IV, scena I, vv. 1-174.

70 - Si leggano per l'appunto questi versi: "Da far pietosa l'impietosa istessa", "e non veduta vidi un pescatore"; "or mi sovien ch'una mattina / ne lo spuntar del dì la bell'Aurora / [...] / richiamava i mortali a l'opre usate / dai lor riposi, e tu dal tuo balcone / con la chioma ondeggiante ti mostravi / quasi nuova Fortuna: et io, ch'ascoso / era dietro una macchia di lentischi, / ambedue vi mirava, e non sapeva / scerner qual di voi due fosse più bella; / e più volte credei che tu l'Aurora / in terra fossi, et ella in ciclo Eurilla" (Ivi, atto III, scena IV, vv. 464-476; atto IV, scena II, v. 205; scena III, v. 278).

71 - Ivi, prologo, vv. 67-68.

72 - Ivi, atto I, coro, vv. 571-573. Qui così si legge: "Lasciate [...] gli orgogli / e le bugiarde idolatrie d'onore".

73 - Ivi, atto III, scena I, vv. 15-18; scena IV, vv. 350-351, 352-354; atto V, scena I, vv. 36-37.

74 - Ivi, atto IV, scena III, vv. 403-404.

75 - Che Timeta e le Ninfe diano e quindi siano la voce di Alceo risulta chiaramente dai seguenti versi: "Non voglio più aspettare: tu [Timeta] se m'amasti / [...] fa che sia noto a tutti i pescatori / ch'Eurilla fu cagion de la mia morte"; "Belle di Doride figliuole / scrivete il duro caso [il suicidio di Alceo] in questi scogli, / sì che sia nota a tutti i pescatori" (Ivi, atto III, scena IV, vv. 366-367; atto IV, scena III, vv. 383-386).

76 - Rustiche membra/celesti membra; acqua/fuoco; cortesia somma/somma villania; morte/vita; ghiaccio/foco; morir alle doglie/nascer alle gioie (Ivi, atto III, scena I, w. 65-66, 72-73, 107-108; scena II, w. 119-120; scena IV, v. 369; atto IV, scena III, vv. 297-298).

77 - Se non c'è diversità alcuna, ovvero contrasto e contrapposizione descrittivo-rappresentativa a livello fisico tra i due personaggi in quanto entrambi sono belli e giovani (Alceo "porta april nel viso, e ne le labbra il riso" ed è "il più bel pescatore" che si sia mai visto nel mar Tirreno; Eurilla è di "divinissima bellezza" ed ha "sì biondo il crin, sì vago il viso, sì vermiglie le labra" (M, prologo, vv. 23-24; atto I, scena I, v. 206, 212-213; scena I, vv. 7-8, scena II, w. 253); tale contrasto, tale opposizione, è la nota dominante che caratterizza, al contrario, i due personaggi a livello psicologico-esistenziale (Alceo è un giovane squisito, raffinato e colto: "il più vago, il più saggio, il più gentile", "un giovinetto che i più vecchi agguagli / d'ingegno e di saper"; Eurilla al contrario è dura come "il diaspro", "neghittosa", "più cruda de' venti, più fredda del ghiaccio", "dispietata" per "tanta durezza", "crudele e omicida", dal "cor di pietra" e, quindi, "solinga e scompagnata" in quanto seguace di Diana, piuttosto che di Venere (Ivi, atto I, scena I, vv. 206-208, 212-213; scena II, vv. 222-223; prologo, v. 28; atto I, scena I, vv. 2, 47, 50, 74, 76, 163, 164, 194, 256).

78 - Ivi, atto IV, scena IV, vv. 315-318, 437.

79 - Ivi, atto III, scena II, vv. 139-141; atto IV, scena I, vv. 41-42.

80 - Ivi, atto III, scena IV, vv. 642-646, 658, 670-671.

81 - Ivi, atto III, scena III, vv. 267-268, 328, 335-337.

82 - Ivi, atto III, scena III, vv. 280-281, 293-294.

83 - Ivi, atto III, scena III, w. 264-268.

84 Ivi, atto IV, scena III, vv. 15-18.

85 - Per Eurilla mascolinizzata si vedano questi luoghi dell'Alceo: "Sono stanca d'udirti, ti rispondo / ch'accettar non ti voglio per amante, / né per compagno men, né men per servo, / che non m'aggrada quel, / questo non merlo; / anzi s'è vero che mi porti amore, / per l'amore che mi porti, ti scongiuro / a non amarmi" (Ivi, atto III, scena V, w. 533-539; ma pure cfr. atto III, scena II, v. 229; scena IV, vv. 353-354, 363-364, 377, 390-391, 397-398, 401; atto IV, scena II, v. 177). Per Alceo femminilizzato si leggano questi versi: "Ch'ella mi cavi di man propria il core? / E me 1 cavasse pur, che non sarebbe / vita che non cedesse al morir mio; / io son morto Timeta, s'io non moro / s'io non ruino giù da qualche scoglio, / son ruinato" /; e ancora: "Soave si lagnava: pianse, / e sospirò; le lagrime e i sospiri / seguirò poi queste parole" /. (Ivi, atto III, scena III, vv. 296-301; atto IV, scena III, vv. 287-289; ma pure cfr. atto III, scena I, vv. 99-101; scena III, vv. 253-254, 289-290; scena IV, vv. 368-374, 379, 425-463, 489-490, 496-500, 540-569, 585-590, 601-606, 608, 618).

86 Ivi, prologo, v. 28.

87 - Ivi, atto I, scena II, vv. 366-367; cfr. pure scena II, vv. 373-386.

88 - Ivi, prologo, w. 26-27, atto I, scena II, vv. 182-183, 270-271, 336-338, 366-367, 440-455, passim, e 554-555.

89 - Ivi, atto I, scena I, vv. 83-105, 110-160. Voglio accennare all'antitesi, al contrasto, tra la natura idillica e la condizione esistenziale di Alceo, che caratterizzata dalla noia, sembra anticipare il sentimento moderno del Leopardi: "O dolce rimembranza / o passata mia gioia / quanto, quanto t'avanza / la presente mia noia" (Ivi, atto I, scena II, vv. 335-338).

90 - Si leggano in proposito questi versi: "Oimè, ch'intorno al core / un non so che d'incognito mi serpe, / che mi punge e rimorde, / con incognito affetto / mi fa mesta e dolente, e par che tiri / dal cor agli occhi il pianto, / a la bocca i sospiri / [...] ben avrei di marmo, / se non piangessi, il core; / [...] oimé, che sento il core / schiantarsi per dolore; / [...] Deh non voler per Dio / aggiunger esca al fuoco / de l'alto dolor mio, / ora m'aveggio ch'io / fui sconoscente ingrata, / e me ne dolgo, e pento, e questo pianto / ne da fermo argomento" (Ivi, atto IV, scena III, vv. 238-244, 260-264, 290-291, 330-331, 363-364, 380-382; scena IV, vv. 428-434, 486-503).

91 - Ivi, atto V, scena III, vv. 220-228.

92 - Ivi, atto V, scena III, vv. 229-244.

93 - "Ove alberga bellezza, è cortesia", scriverà l'Ongaro (Ivi, atto V, scena III, v. 198).

94 - Ivi, atto I, coro, v. 573.

95 - Ivi, atto I, scena I, vv. 222-231.

96 - Ivi, atto I, scena I, vv. 67-69.

97 - Così scrive in proposito l'Ongaro: "[...] Donna senz'amante è a punto come / nave senza nocchiero in gran tempesta" (Ivi, atto I, scena I, vv. 38-39). Giova appena accennare come questi versi rimandino a Dante della Commedia. Ma la presenza di Dante è sporadica e occasionale nell'Ongaro. Non così è però per la presenza del Petrarca la cui vena, i cui ritmi, i cui toni improntano tutta la favola dell'Alceo.

98 - "Amore è malagevole a celarsi / e se ben uom celarlo s'affatica / egli in un viso pallido e tremante, / in un avido sguardo, in un loquace / silenzio, in un riguardo, in un sospiro / in un detto, in un moto si rivela" (Ivi, atto I, scena I, vv. 273-278).

99 - I topoi della decadenza e della morte attraversano come un filo rosso tutta la favola dell'Ongaro (Ivi, atto I, scena I, v. 29; scena II, vv. 527-528; coro, vv. 587-607; atto IV, scena III, vv. 309, 319, 322, 329; scena IV, v. 467; atto V, scena II, vv. 118-123). Questi temi saranno ripresi, più tardi, dalla letteratura e dall'arte secentesca sino a dar corpo a una poetica della rovina, della decadenza. In proposito rimando a R. Paternostro, Il "maraviglioso" nei "Panegirici sacri", in Paolo Segneri: un classico della tradizione cristiana. Atti del Convegno Internazionale di Studi su Paolo Segneri nel 300° anniversario della morte (1694-1994), Nettuno 9 dicembre 1994, 18-21 maggio 1995; a cura di R. Paternostro e A. Fedi, Filibrary, New York 1999, pp. 311-313, e alle pp. 75-100 del presente volume

100 - Cfr. A. Ongaro op. cit., atto I, coro, vv. 580-583, 611-612.

101 - "E se il mar non mi inganna, ove sovente, /[...] mi specchio" [...] "se talor ti contempli, e ti vagheggi / nei cristalli del mar" (Ivi, atto II, scena I, vv. 39-49, 54-56).

102 - "Così immagine e segno / de l'anime immortali / son forse i sogni, onde il futuro spesso / awien che s'appresenta, / quasi in specchio lucente, / sotto mistiche forme, / sopiti i sensi, all'alma che non dorme" (Ivi, atto II, coro, vv. 481-487).

103 - Questa teoria si specifica laddove l'Ongaro afferma che i sogni nascono dalle cose pensate o viste nel giorno, oppure che in essi si presenta ciò che si desidera o di cui si ha paura, con la precisazione, però, che fa torto al vero "chi crede tutti i sogni esser fallaci / quanto chi crede tutti esser veraci" (Ivi, atto II, scena III, vv. 392-401, 498-500).

104 - Ivi, atto II, scena II, vv. 239-284; atto IV, scena I, vv. 19-23, 24-67.

105 - Ivi, atto II, scena II, vv. 125-159.

106 - Ivi, atto III, scena I, vv. 7-9.

107 - Ivi, atto II, scena III, vv. 297-332.

108 - Ivi, atto V, scena II, vv. 171-178.

109 - Ivi, atto V, scena III, vv. 203-209, 220-223.

110 - Ivi, atto V, scena II, vv. 153-163- Del resto il sensualismo che si legge in questi versi è ulteriormente rafforzato sia dal ricorso che l'Ongaro fa al verbo "godere" nell'accezione di Alceo che gode di Eurilla, sia dal fatto di chiamare il bacio "cibo soave" (Ivi, atto V, scena II, v. 166; scena III, v. 184, 248).

111 - Ivi, atto III, scena II, w. 202-203, 207-209, 222-223; scena IV, vv. 394-396. Come indizio indiretto si leggano questi versi con i quali Ongaro ci da notizia dell'età di Alceo: "Egli ha passato quattro lustri appena / se non m'inganno, e non gl'ingombra ancora / noiosa piuma le leggiadre guancie" (A. Ongaro, Alceo, cit., atto III, scena II, vv. 145-147). Guarda caso l'età di Alceo è la stessa dell'Ongaro!

112 - Ivi, atto V, scena II, vv. 68-100.

113 - Cfr. M. Guglielminetti, op. cit., pp. XXIV-XXV.






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AUTORIZZATA DALL'AUTORE ROCCO PATERNOSTRO

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