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Città di Nettuno

Fra Giovan Battista Orsenigo
e l'Ospedale di Nettuno

di
Benedetto La Padula
Vincenzo Monti
Fra Giuseppe Magliozzi o.h.

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Fra Giovanni Battista Orsenigo,
il più celebre pendolare di Nettuno

di Fra Giuseppe Magliozzi, o.h.


Fra Orsenigo ricevette la cittadinanza nettunese nel 1889 ed a Nettuno chiuse i suoi giorni il 15 luglio 1904, ma in quei quindici indimenticabili anni mai gli fu possibile di risiedervi stabilmente e dovette contentarsi di fare il pendolare, divenendo assiduo cliente del treno a vapore, che dal 1884 aveva reso facile e veloce il collegamento con Roma.

Fra Orsenigo era nato alle nove della sera del 24 gennaio 1837 a Pusiano, un Comune dell'alta Brianza a mezza strada tra Lecco e Como, Il parto avvenne in casa, con l'assistenza della levatrice autorizzata Luigia Frigerio. I genitori, Giovanna Civati e Pietro Orsenigo, erano entrambi fornai; e parimenti era fornaia Adelaide Orsenigo, la cugina che gli fece da madrina il 26 gennaio 1837 quando fu battezzato col nome di Innocente nella Parrocchia locale di Santa Maria Nascente.

Fu penultimo di dodici fratelli, di cui quattro morirono prima che lui nascesse. Sappiamo ben poco degli anni d'infanzia, tranne che studiò alle scuole comunali del paese e che crebbe in una famiglia che con l'essere numerosa gli agevolava una più armonica maturazione psicologica; e con l’essere abbastanza agiata gli garantiva quella buona alimentazione, che fu certo uno dei fattori della sua non comune crescita staturale e della soda muscolatura che andò sviluppando. A detta di chi lo conobbe, si distingueva per "indole buona, natura esuberante, carattere franco, gioviale, espansivo e gran facilità di comunicazione".

Quando era appena quindicenne, gli vennero a mancare entrambi i genitori, che gestivano in paese un'osteria con annessa salsamenteria e macelleria: perse dapprima il papà, morto il 25 marzo 1852 all'età di 55 anni, giusto pochi mesi prima di raggiungere i trent'anni di matrimonio; e poi quello stesso anno perse anche la mamma, morta il 6 dicembre all'età di 53 anni. Quella duplice terribile perdita, anche se mitigata dalla presenza dei numerosi fratelli, dovette certamente incidere nel suo animo, rendendolo più attento ai valori della fede che i genitori avevano saputo inculcargli.

Nel 1855 fu nominato parroco di Pusiano don Felice Mariani, il cui zelo eucaristico, che anticipava di mezzo secolo quel frequente accostarsi alla Comunione di cui San Pio X nel 1905 si sarebbe fatto ufficialmente promotore, trovò favorevole risposta in molte anime, alcune delle quali, dopo esser divenute fedeli alla Comunione quotidiana, si affiatarono a costituire un gruppetto informale, che egli amava definire "Giardino della Santa Parola". Innocente che, come attesta Huetter in un articolo del 1953, rimase poi sempre fedele alla Comunione quotidiana, entrò presto nell'orbita del gruppo e ne diventerà uno dei più attivi propagatori.

Quando nel 1859 scoppiò la Seconda Guerra d'Indipendenza, che si concluse con l'annessione della Lombardia al Regno d'Italia, Innocente aveva l'età giusta per essere arruolato, tanto che nelle liste di Leva del Comune di Pusiano apparve elencato come "requisibile", ma l'arruolamento era a sorteggio e la guerra fu così breve che non corse alcun rischio di dover partire per il fronte. Alieno da avventure militari, egli si guardò bene dall'imitare l'esempio di uno dei suoi fratelli, che entrò nell'esercito finendo ufficiale nel 42° reggimento di linea, però decise anche lui di lasciare il paesello e di cercar lavoro a Milano, mettendo a frutto la sua esperienza nella salsamenteria della famiglia per farsi assumere in qualche analogo negozio della capitale lombarda.

Il suo primo impiego fu di commesso in una pizzicheria fuori Porta Ticinese, di proprietà della signora Rosa Ghezzi, che non solo lo prese a benvolere, ma divenne presto anch'ella una devota del "Giardino della Parola" e cominciò a recarsi con frequenza a Pusiano per ricorrere alla direzione spirituale di don Mariani e per confidarsi con altre appartenenti del gruppo, specie le due sorelle Angela e Teresa Isacchi, che si mostravano spesso capaci di leggere nei cuori e di farsi tramite di ammonimenti divini.

Già nel 1856 una delle devote del gruppo, Maria Annone, aveva avvertito la vocazione religiosa ed era entrata nel Convento delle Carmelitane Scalze di Ferrara, dove aveva assunto in religione il nome di suor Maria Caterina di Gesù Crocifisso e sarebbe poi morta in odore di santità, tanto che si pensò ai tempi di San Pio X di avviarne il Processo di Canonizzazione. Durante gli anni che lavorò a Milano, anche Innocente Orsenigo cominciò ad avvertire il desiderio di consacrarsi al Signore. Egli stesso in alcuni suoi appunti narra che quando Iddio gli fece la grazia della vocazione religiosa, gli fece anche comprendere i grandi beni che si ricevono nell'aderire ai desideri divini. Ne provò un tal giubilo in cuore da sentirsi assolutamente risoluto a lasciare il mondo e diceva a se stesso che anche se fosse stato padrone di colossali ricchezze, vi avrebbe rinunciato pensando alla felicità di servire il Signore. Ed avvertiva una tale consolazione interiore, che nel camminare gli sembrava di volare.

Nonostante le tante consolazioni interiori che accompagnarono il sorgere della vocazione religiosa, venne però il momento della prova e del dubbio. Non solo la famiglia si mostrò contraria e gli negò ogni aiuto finanziario per le spese occorrenti all'ingresso in Noviziato ed al mantenimento durante il periodo iniziale di discernimento e di formazione, ma ostacoli più grossi gli vennero dalla sua modesta formazione culturale, avendo frequentato unicamente le Scuole Elementari di Pusiano.

Al problema finanziario trovò facilmente soluzione, continuando a lavorare finché arrivò ad accantonare dalla sua paga una somma adeguata. Molto più problematico, come vedremo, fu rimediare alla mancanza di titoli di studi, ma per intanto cerchiamo di intuire come mai scelse di concretare la sua consacrazione al Signore entrando nell'Ordine Ospedaliere di San Giovanni di Dio, in Italia conosciuto con l'appellativo popolare di Fatebenefratelli.

Lavorando nella macelleria della famiglia e poi nella pizzicheria di Milano, aveva acquisito una manualità con i taglienti che un giorno gli sarebbe riuscita utile. Forse fu proprio questa sua abilità a fargli vagheggiare la possibilità di divenire un famoso chirurgo, come lo era stato fra Ambrogio Appiani, nato anche lui sulle sponde del lago di Pusiano e poi entrato dai Fatebenefratelli, che l'ammisero in Noviziato a Tivoli il 23 ottobre 1773 ed in seguito gli fecero studiare Chirurgia a Venezia e Parigi, dove fu discepolo del famoso chirurgo Pierre-Joseph Desault. Esercitò poi con successo la chirurgia negli Ospedali che i Fatebenefratelli avevano a Corfù e Zara, finché nel 1802 divenne Chirurgo Maggiore a Milano nell'Ospedale Santa Maria Aracoeli, che i Fatebenefratelli avevano a Porta Nuova e nel quale morì nel 1827.

Di fra Ambrogio l'Orsenigo aveva forse sentito mirabolare le gesta da qualche anziano del paese, specie dai parenti di Teresa Prina, nativa di Pusiano e madre del celebre frate, ma ai tempi della sua adolescenza il chirurgo dei Fatebenefratelli più famoso in Lombardia era il milanese fra Benedetto Nappi che, preso l'abito diciannovenne a Milano nel 1827, s'era poi addottorato a Pavia in Chirurgia nel 1842 e successivamente, nel 1849, anche in Medicina, per di più ottenendo al contempo l'abilitazione ad insegnare qualsiasi materia medico-chirurgica, il che gli consentì d'aprire quell'anno a Pavia una Scuola Medico-Chirurgico-Farmaceutica quinquennale e gratuita. Nappi esercitò poi a Milano in Ospedali sia pubblici sia privati ed ottenne riconoscimenti scientifici per l'ideazione dì nuove attrezzature chirurgiche. Nel 1856 egli fu nominato Segretario Generale dei Fatebenefratelli e per (al motivo spese un triennio all'Isola Tiberina, dove gli impegni curiali, tutto sommato meno pressanti, gli lasciarono tempo di dare alle stampe in Roma un apprezzato Manuale di Chirurgia. Rientrò poi a Milano nel 1859, ricoprendo per due trienni consecutivi l'incarico di Superiore Provinciale. Lo scrittore Antonio Fogazzaro, che nel 1860 era stato operato con successo dal Nappi, s'ispirò a lui per il personaggio di padre Tosi nel celebre romanzo "Malombra".

L'Orsenigo ammirava il Nappi, ma certo non immaginava che un giorno avrebbe rivaleggiato in fama con lui, come sentirà predirsi da Angela Isacchi quando nel 1868, probabilmente mentre l'accompagnava in pellegrinaggio al Santuario Mariano di Lezzeno, ebbe un memorabile incontro col Nappi a Varenna, un Comune della sponda orientale del lago di Como distante una quarantina di chilometri da Pusiano, forse mentre il frate era diretto al vicino Istituto Climatico della frazione di Regoledo per visitarvi qualche paziente. In quell'occasione Angela Isacchi predisse testualmente a fra Orsenigo: "Tu diventerai anche più celebre di questo Padre".

La predizione s'avvererà, ma per intanto non risultò facile per l'Orsenigo indossare lo stesso abito religioso del Nappi. Colpito dalla personalità di questi frati chirurghi che utilizzavano la loro bravura professionale a vantaggio dei malati poveri, e certamente incoraggiato da Teresa Isacchi, l'Orsenigo provò a mettersi in contatto con i Fatebenefratelli milanesi, che di recente avevano incrementato l'attività chirurgica aprendo nel 1860 una filiale a Porta Vercellina, l'Ospedale di Santa Maria di Loreto. Quando però chiese di poter indossare il loro abito, n'ebbe una risposta dilatoria: per essere ammesso nell'Ordine occorreva che prima provvedesse a migliorare la sua modesta preparazione culturale.

In realtà, in casi come il suo c'era la possibilità di una soluzione di ripiego: invece d'entrare subito in Noviziato per prepararsi alla Professione perpetua dei Voti, poteva entrare come postulante e dopo un anno di prova essere inserito in Comunità come Oblato, ossia senza l'emissione di Voti e senza godere del diritto dei frati Professi di volare e d'esser votati, però indossando ufficialmente l'abito religioso dell'Istituto ed adottando lo stesso stile di vita e di apostolato del resto della Comunità, senza contare che non si trattava di una scelta irreversibile, poiché assai spesso dopo qualche anno gli Oblati riuscivano a guadagnarsi tanta stima da esser autorizzati ad iniziare il Noviziato.

In un primo momento l'opzione di divenire Oblato non fu però minimamente ventilata all'Orsenigo. Forse si trattò di una manovra tattica, sia per metterne alla prova la serietà d'intenzioni, sia per stimolarlo, visto che appariva sveglio e generoso, a conseguire per intanto qualche titolo di studio, che tra l'altro gli avrebbe facilitato l'eventuale futura iscrizione ad un corso di Chirurgia Minore, per la quale si dichiarava così portato.

Risoluto a meritarsi il suo ingresso in Noviziato, l'Orsenigo decise verso la fine del 1862 di lasciare il suo lavoro a Milano e di tornarsene a Pusiano per farsi dare lezioni private dal suo Parroco. I suoi fratelli non furono per niente contenti di questa sua decisione e l'Orsenigo, per evitare polemiche e visto che aveva qualche risparmio, prese alloggio per conto suo. Va notato che la sua non era la prima vocazione in famiglia, poiché due suoi zii paterni, don Carlo e don Innocente Orsenigo, erano divenuti Parroci in Brianza, ma forse l'opposizione non era al suo consacrarsi al Signore, ma al suo entrare in un Istituto Religioso, con la conseguente emissione del Voto di Povertà, il che avrebbe modificato i suoi rapporti con i parenti assai più che divenendo prete diocesano; tuttavia negli anni successivi i rapporti dell'Orsenigo con la famiglia sarebbero tornati ottimi e, per esempio, quando il 21 gennaio 1873 il fratello Cipriano, rimasto vedovo, convolerà a seconde nozze con Giulia Carolina Colombo, egli verrà appositamente da Roma per partecipare alla cerimonia.

Tornando agli eventi del 1862, del suo abbandonar Milano e rientrar al paese natio troviamo menzione in alcune dichiarazioni che l'Orsenigo rilasciò sul finire del 1866 a don Giovanni Pierini per il giornale fiorentino "La Vera Buona Novella", nelle quali egli afferma che quattro anni prima si era trattenuto cinque mesi a Pusiano, prendendo alloggio dalla signora Maria Pellegata, in un quartino della cui casa viveva a fitto anche la veggente Maria Colombo e suo padre. Questa convivenza nella medesima casa non solo permise all'Orsenigo di verificare di persona che la veggente, che era una delle appartenenti di spicco del "Giardino della Santa Parola", si nutriva unicamente delle specie eucaristiche, ma gli dette modo di ascoltare dalle sue labbra la previsione di "fatti inattesi della sua vita futura che poi si verificarono a capello". Però, nonostante l'incoraggiamento della Colombo e le lezioni private del parroco, i risultati furono modesti ed i mesi passarono senza che l'Orsenigo riuscisse ad entrare dai Fatebenefratelli: infatti, ad un secondo colloquio, gli fu di nuovo rifiutata l'ammissione.

Confidò il suo scoramento a Teresa Isacchi, che con aria ispirata gli assicurò che sarebbe stato accettato se fosse andato in pellegrinaggio a Locarno ed avesse chiesto la grazia alla Madonna del Sasso, che vi è venerata in un famoso Santuario.

Mentre l'Orsenigo si chiedeva come organizzarsi per andare a Locarno, distante un centinaio di chilometri, accadde che incontrò dal parroco i coniugi Giuseppe e Rosa Guenzati, che egli ben conosceva poiché venivano spesso da Milano a Pusiano per visitare le sorelle Isacchi. In quel momento il Guenzati era in cattiva salute e non riuscendo a rimettersi era venuto ad affidarsi alle preghiere delle Isacchi, che anche a lui assicurarono piena guarigione se si fosse recato in pellegrinaggio alla Madonna del Sasso: egli decise di farlo ed invitò Teresa Isacchi ad accompagnarlo. Quando seppe che anche l'Orsenigo aveva avuto il medesimo suggerimento, gli propose di noleggiare assieme una carrozza a due cavalli e di dividere le spese.

L'Orsenigo accettò la proposta, ma poi prese a lambiccarsi come avrebbe fatto ad andare dai Fatebenefratelli se la Madonna gli avesse davvero ottenuta l'ammissione.

I suoi risparmi erano scesi ad un trecento lire e temeva che si sarebbero volatilizzati viaggiando una settimana insieme a persone aduse ad un alto tenore di vita. Volle comunque fidarsi della Provvidenza e partì con loro.

Durante tutto l'itinerario si prodigò premurosamente come improvvisato infermiere col Guenzati, che s'era assai indebolito. Raggiunto Locarno, vi pernottarono ed al mattino s'avviarono al vicino Santuario. Oggi c'è una funicolare che dall'altitudine di 193 metri della città porta rapidamente ai 378 metri d'altezza del Santuario; a quel tempo c'era invece solo un ripido sentiero, impercorribile non solo alle carrozze ma a qualsiasi cavalcatura. Per l'Orsenigo non restò altra soluzione che accollarsi l'infermo e portarlo in braccio fin sulla vetta.

Dopo essersi trattenuti a lungo in preghiera ed aver ascoltata la Santa Messa, il Guenzati si sentì guarito e pervaso da gran gioia interiore. E Teresa assicurò l'Orsenigo che la Madonna gli aveva concesso due grazie: una era d'entrare in Religione e l'altra l'avrebbe direttamente saputa tra poco.

Tornato a casa, il Guenzati provava in cuore così tanta felicità e riconoscenza che non volle accettare un soldo dall'Orsenigo, senza il cui aiuto non sarebbe mai riuscito a salire fino al Santuario. Costui invano cercò di pagare la sua quota e alla fine capì che in questo consisteva quella seconda grazia preannunziatagli da Teresa.

E quando fece ritorno a Pusiano, scoprì d'aver ricevuto anche la prima, poiché il Parroco l'informò che gli era arrivata la risposta dal Superiore Generale dei Fatebenefratelli che acconsentiva a che l'Orsenigo entrasse nella Comunità di Firenze.

Quel fruttuoso pellegrinaggio a Locarno non solo mise felicemente alla prova l'effettiva capacità dell'Orsenigo di prendersi cura dei malati, ma lo tolse finalmente dai dubbi d'essere davvero chiamato dal Signore a divenire membro di un Ordine che si dimostrava così esitante ad accoglierlo.

La lettera d'accettazione che gli consegnò il parroco fu indubbiamente in risposta a qualche petizione che costui aveva inviato, a quanto sembra di capire senza informarne previamente l'Orsenigo, che comunque gioì dell'iniziativa, considerandola ispirata dalla Madonna, che egli con tanta fede aveva invocato a Locarno.

Non abbiamo idea in che data il parroco avesse spedito la petizione e quale ne fosse il contenuto, ma possiamo facilmente intuire che don Mariani fosse rimasto contrariato delle difficoltà che i Fatebenefratelli di Milano continuavano a porre all’Orsenigo ed avesse tentato di sciogliere il nodo interpellando direttamente a Roma il Superiore Generale dei Fatebenefratelli, il milanese fra Giovanni Maria Alfieri, che forse aveva avuto modo di conoscere quand'era ancora Priore dell'Ospedale di Verona, prima che nel 1860 andasse a Roma come Consigliere Generale e vi ascendesse poi alla guida dell'Ordine il 19 maggio 1862.

A don Mariani lo spedire la petizione a Roma dovette sembrare una mossa strategica, convinto che se l'Alfieri, che apparteneva alla Provincia Milanese dell'Ordine, avesse inviato a Milano due righe di segnalazione per l'Orsenigo, i Confratelli avrebbero senz'altro fatto il possibile per accontentarlo. In realtà, con la sua lettera don Mariani spinse gli eventi in una direzione abbastanza diversa e inaspettata.

Accadde che certamente nella lettera don Mariani avrà elogiato la non comune tempra spirituale del suo parrocchiano e ciò fece presa sull'Alfieri, poiché egli da Generale fu sempre alla ricerca di anime di grande levatura interiore con le quali formare delle Comunità pilota, nel cui ambito cominciare ad applicare quella riforma che il Beato Pio IX, con l'enciclica "Ubi primum" del 17 giugno 1847, aveva additato a tutti gli Istituti Religiosi, auspicando il loro ritorno alla perfetta osservanza della Vita Comune e l'eliminazione di quei compromessi, specie nell'ambito del Voto di Povertà, adottati sotto la spinta di situazioni di emergenza create dalle leggi eversive emanate da vari governi liberali e massonici, che più volte negli ultimi decenni avevano disperso le Comunità Religiose e confiscati i loro beni.

Nei suoi 36 anni di generalato l'Alfieri, incoraggiato dal Beato Pio IX che lo stimava grandemente e l'annoverò perfino tra i suoi confessori, riuscì ad aprire a Brescia due Comunità di perfetta osservanza, mantenendole sotto la sua immediata dipendenza; riuscì inoltre a costituire in Austria un'intera Provincia riformata, quella di Stiria, e soprattutto avviò secondo tale spirito la Restaurazione dell'Ordine nella penisola iberica e nell'America Latina.

Come vedremo in seguito, l'Alfieri nell'agosto 1868 ingaggerà ufficialmente in quest'ampio progetto di riforma dell'Ordine anche l'Orsenigo e per intanto, dando credito alle assicurazioni di don Mariani, se lo fece venire nella Provincia Romana, di cui aveva immediato controllo, assegnandolo per una prima fase di discernimento alla Comunità di Firenze.

L'Orsenigo rimase sorpreso di dover fare l'ingresso nell'Ordine a Firenze invece che a Milano, ma accettò la novità in spirito di fede, convinto che rientrasse nei disegni del Signore. Ovviamente a Firenze, in attesa che verificassero la possibilità di ammetterlo in un secondo tempo in Noviziato nonostante il modesto livello culturale, gli veniva per il momento semplicemente offerto d'entrare come aspirante Oblato, il che comunque non lo esimeva dal presentare l'usuale documentazione richiesta per chiunque voleva entrare in Religione. Per quanto riguarda la documentazione civile, l'Orsenigo ottenne il 14 giugno 1863 dal sindaco di Pusiano, Pietro Pellegata, l'attestazione che "non fu mal inquisito per alcun reato e tenne sempre una condotta regolare e conforme alle Leggi".

Per quanto riguarda la documentazione ecclesiastica, in data 22 marzo 1863 il parroco gli aveva rilasciato senza problemi il Certificato di Nascita e di Battesimo, ma restava il problema di quello di Cresima, poiché l'Orsenigo era arrivato a ventisei anni senza averla ancora ricevuta. Don Mariani, dimostrando ancora una volta quanto tenesse a cuore l'aspirazione dell'Orsenigo ad entrare dai Fatebenefratelli, si mobilitò personalmente, non solo accompagnandolo di sabato a Monza il 27 aprile 1863 per farlo cresimare dal vescovo Caccia, che era il Vicario Generale dell'Arcidiocesi Ambrosiana in Sede allora forzosamente Vacante per ostruzionismo del Governo, ma impetrò ed ottenne dal Prelato, giacché si trattava d'agevolare una vocazione religiosa, di poter fungere eccezionalmente da padrino, nonostante la propria condizione sacerdotale.

Completata la documentazione, arrivò finalmente il momento di congedarsi dal parroco e dalle sorelle Isacchi e di lasciare definitivamente la natia sponda del lago di Pusiano, dando addio, come la Lucia manzoniana, al profilo ineguale del monte Resegone, che in quelle nitide giornate di giugno si stagliava possente oltre la distesa d'acque e le colline. E se il Manzoni nel 1827 se n'era andato a Firenze per "sciacquare in Arno" il suo romanzo, l'Orsenigo ora v'andava per imprimere una svolta decisiva al romanzo della propria vita, lieto che il Signore, dopo avergliene paternamente tracciato la trama fin dal grembo materno, avesse ora cominciato a disvelargliela attraverso le veggenti di Pusiano.

Quella trama prevedeva che la tappa finale sarebbe stata Roma e forse non fu male che prima d'arrivarvi l'Orsenigo apprendesse dai fiorentini quel linguaggio fin'allora parlato quasi solo in Toscana ed ora adottato dall'intero Regno d'Italia, nel quale il Granducato era già confluito come effetto collaterale della Seconda Guerra d'Indipendenza. Ad ogni modo, il suo primo approccio linguistico con i Confratelli di Firenze fu facilitato dal fatto che il Capitolo Generale del 1862 aveva eletto come loro Superiore il milanese fra Giovanni Luigi Caimi.

Con un modesto fagottello, ma con l'animo pieno d'entusiasmo, l'Orsenigo il 18 giugno 1863 fece il suo ingresso a Firenze, che s'apprestava a celebrare il suo Patrono San Giovanni Battista, anche se in modo sommesso ed interiore, essendo le tradizionali manifestazioni popolari ormai rimaste soppresse dal nuovo Governo liberale. I fiorentini avevano scelto il Battista come loro Santo Patrono perché fu l'inviato da Dio a testimoniare l'avvento di una nuova epoca del mondo e volevano anche loro divenire artefici di una nuova età. L'Orsenigo non lo sapeva ancora, ma il giorno che a Roma gli avrebbero concesso l'abito di Novizio, gli avrebbero anche a lui assegnato come nuovo nome in Religione quello di San Giovanni Battista, il profeta dei tempi nuovi.

Quando arrivò in Borgo Ognissanti e mise per la prima volta piede nell'antico Ospedale di Santa Maria dell'Umiltà, dove i Fatebenefratelli si prodigavano nell'assistenza ai malati fin dal 1588. certamente fu colpito dall'eleganza delle facciate dell'Ospedale e della Chiesa, ben all'altezza di quella Firenze città d'arte, che con ammirazione aveva appena cominciato a percorrere. Ma molto più lo colpì il monumentale atrio dell'Ospedale, con ai piedi della duplice scalinata le statue della Fede e della Speranza ed in cima, invece della statua della Carità, quella dell'eroe della Carità, San Giovanni di Dio, scolpita in marmo da Girolamo Ticciati nel 1738. L'Orsenigo posò lo sguardo su quella statua e promise in cuor suo che avrebbe seguito il Santo sulle vie della carità.

Subito dopo la statua del Santo, un grande arco immetteva nella Sala dei malati ed in cima all'arco v'era un cartiglio latino con un versetto biblico che assicurava !a benedizione del Signore per quanti varcavano quella soglia: Benedictus eris tu ingrediens et egrediens, ossia "Sarai benedetto quando entri e quando esci" (Dt 28, 6). Quella Sala divenne per l'Orsenigo il suo regno e le innumerevoli volte che ne varcò la soglia risultarono davvero di benedizione per la sua vocazione ospedaliera, che ne uscì rafforzata.

Tutti in Comunità apprezzarono l'impegno del nuovo postulante, come appare dall'unanime decisione presa nei suoi riguardi ad appena cinque mesi dal suo arrivo. Nel verbale della Congregazione Conventuale del 28 novembre 1863 leggiamo, infatti, che "il Padre Priore propose di ammettere all'abito religioso i giovani Mosè Morlacchi e Innocente Orsenigo, facendo osservare che conveniva pensare ad essi, poiché già da molto tempo si trovavano fra di noi in qualità di postulanti. Fu da ognuno riconosciuta giusta tale proposta; fu convenuto che verrebbero ammessi alla vestizione, facendo peraltro precedere la visita medica, secondo le ordinazioni del Rev.mo Padre Generale".

Giusto alla sera di quella fatidica riunione cominciarono gli annuali Esercizi Spirituali, ossia una speciale settimana di riflessione e di discernimento che ogni Comunità aveva l'obbligo di organizzare una volta l'anno sotto la guida di un predicatore. L'Orsenigo vi partecipò per la prima volta e durante quei giorni di speciale raccoglimento ebbe modo di fare un primo bilancio della sua nuova vita e ringraziare il Signore d'essere col suo aiuto riuscito a rispondere alle attese di tutti i Confratelli di Firenze. Nei mesi che aveva speso a lezione dal suo Parroco, i risultati erano stati deludenti, trattandosi di cognizioni teoriche che la sua memoria non riusciva a fissare; ma ora si trattava di un tirocinio pratico di assistenza infermieristica ai malati e ogni Confratello era rimasto compiaciuto dell'abilità con cui egli, mosso da un sincero amore ai sofferenti di cui aveva saputo fornir prova fin da quel pellegrinaggio alla Madonna del Sasso, riusciva a mettere immediatamente in pratica tutto ciò che gli insegnavano, specie nell'ambito di quella che allora era chiamata "bassa chirurgia", nella quale poteva mettere a buon frutto la notevole prestanza fisica e la gran forza muscolare, che egli per tutta la vita si sarebbe preoccupato di mantenere possente, ricorrendo a quotidiani esercizi d'allenamento.

Agli inizi del 1864 l'Orsenigo ebbe la sorpresa di veder arrivare a Firenze fra Benedetto Nappi, il famoso chirurgo che aveva destato in lui il desiderio di farsi fatebenefratello. Con il trasferimento della capitale da Torino a Firenze erano divenuti più conflittuali i rapporti degli Istituti Religiosi con i nuovi funzionari governativi, spesso apertamente ostili alla Chiesa, e per salvare le sorti dell'ospedale fiorentino il Superiore Generale dei Fatebenefratelli, fra Giovanni Maria Alfieri, provò a far intervenire Nappi, che era in quel momento il frate che godeva di maggior prestigio in Italia, conferendogli a tal fine con lettera dell'11 gennaio 1864 il titolo di Commissario Generale per l'ospedale di Firenze. L'incarico non richiedeva una presenza permanente del Nappi a Firenze, giacché fra Giovanni Luigi Caimi continuava ad essere Priore e Maestro dei Neoprofessi, ma dalla pur scarna documentazione dell'Archivio Generalizio dei Fatebenefratelli risulta provata una presenza saltuaria già dagli inizi del febbraio 1864.

Grazie al Nappi, ci fu una certa schiarita per i Confratelli di Firenze, che si sentirono incoraggiati a fissare una data per la cerimonia della vestizione da oblato dell'Orsenigo, scegliendo quella assai significativa della mattina dell'8 marzo 1864, festa del fondatore San Giovanni di Dio, col cui nome, tra l'altro, fin dall'inizio dell'Ottocento i fiorentini, certo in omaggio ai frati che lo reggevano, avevano ormai preso a denominare l'Ospedale che un prozio del famoso navigatore Amerigo Vespucci aveva invece fondato col titolo di Santa Maria dell'Umiltà, probabilmente in riferimento toponomastico al vicino Convento degli Umiliati.

Per la festa dell'Assunta del 1864 fra Giovanni Maria Alfieri giunse a Firenze per effettuarvi fino al 25 agosto la Visita Canonica, ossia la visita ispettiva prevista una volta ogni triennio per tutte le Comunità della Provincia, e fra Orsenigo fu lieto di poterglisi presentare con finalmente indosso l'abito dell'Ordine.

Alla Visita partecipò anche fra Benedetto Nappi e forse fu lui che, commentando col padre Generale le potenzialità di fra Orsenigo, suggerì che il suo tirocinio si concentrasse in quel particolare settore della chirurgia minore rappresentato dalle estrazioni dentarie.

Era questo un settore regolarmente praticalo ed incrementato dai Fatebenefratelli di Firenze, come possiamo dedurre da una lettura comparata dei periodici inventari ottocenteschi delle attrezzature sanitarie dell'Ospedale. Se risaliamo, ad esempio, all'inventario del 1843, troviamo già descritta accanto alla Medicheria un'apposita stanza fornita di "1 vetrina al muro con suo sportello, e cristallo, che serve agl’istrumenti odontalgici, 1 sedia impagliata con salitore di legno per la estrazione dei denti; 1 cassetta di marmo murata col suo rispettivo scolo per detto uso". Nell'inventario del 1850 compaiono anche "Tre cassette di legno tinto con suo cristallo ove si conservano diversi istrumenti per estrarre e pulire i denti". E va infine notato come nell'inventario del 1853 il riunito dentistico appaia migliorato: "Una sedia coperta di pelle nera con suo montatojo per l'estrazione dei denti".

Riguardo tali inventari, merita per inciso notare che oggi preferiamo dire strumenti odontoiatrici, che significa “per la cura dentale”, mentre all'epoca si usava chiamarli odontalgici, che significa "per il dolore dentale", poiché le affezioni dentarie erano ritenute dolorose per antonomasia, specie allora che quasi mai si faceva ricorso agli analgesici ed agli anestetici locali. Il grande successo della tecnica estrattiva di fra Orsenigo sarà legato appunto alla sua capacità di ridurre per altra via la componente dolorifica e l'ansia ad essa collegata.

Il compito di addestrare fra Orsenigo nell'arte odontoiatrica fu certamente affidato a fra Bartolomeo Pezzatini, che quando il 17 luglio 1883, a 66 anni d'età e 34 di Vita Religiosa, chiuse i suoi laboriosi giorni nell'ospedale fiorentino, meritò che nel Necrologio della Provincia Romana venisse ricordato con la significativa annotazione che era "abilitato assai nell'odontalgia".

Il tirocinio di fra Orsenigo come oblato proseguì fruttuoso per tre anni esatti. Nel 1867 fra Benedetto Nappi, assegnato per un sessennio come Priore di Firenze, fece il suo ingresso nella città del giglio il 20 marzo alle otto di sera, e già il 25 marzo convocò la Congregazione Conventuale mettendo all'ordine del giorno la valutazione della condotta dei due oblati fra Mosè Morlacchi e fra Innocente Orsenigo e la loro idoneità ad essere ammessi in Noviziato: essendo per entrambi risultate buone le informazioni, fu messa a voti segreti la proposta di farli partire per il Noviziato di Roma, restando approvata con voti nove su dieci per fra Mosè e con voti tutti e dieci favorevoli per fra Innocente.

L'abbondante dotazione di strumenti nel Gabinetto Dentistico dell'ospedale, oltre ovviamente all'apprezzamento per le capacità odontoiatriche dimostrate da fra Innocente Orsenigo nei quattro anni di prova trascorsi a Firenze dapprima come postulante e poi come oblato, dovettero indurre il Priore ad autorizzarlo, al momento d'inviarlo all'Isola Tiberina, di portare via con sé a Roma ben dodici "ferri da denti", come risulta dall'inventario dei beni personali di fra Orsenigo redatto dal suo Maestro dei Novizi, fra Giuseppe Maria Cortiglioni, quando l'ammise in Noviziato.

Roma in quell'anno era ancora sotto il dominio temporale del Papa e pertanto per lasciare Firenze e varcare il confine i due oblati dovettero chiedere l'autorizzazione delle Autorità Italiane, alle quali per prudenza non menzionarono Roma ma dichiararono che desideravano recarsi in treno a Napoli passando attraverso lo Stato Pontificio. Ottennero a vista il passaporto dalla Prefettura di Firenze il 26 marzo 1867 e mostrandolo alla Legazione di Spagna in Firenze, che faceva da intermediaria data la rottura dei rapporti diplomatici, ottennero in quella stessa data un lasciapassare per entrare nello Stato Pontificio.

Ultimate velocemente le pratiche, i due oblati prepararono il loro modesto bagaglio e si congedarono dai Confratelli e dai malati, mettendosi in viaggio la sera del 28 marzo per l’Isola Tiberina, dove giunsero all'indomani.

Possiamo immaginare con quanta commozione fra Orsenigo fece il suo ingresso a Roma. Anche se fosche nubi si addensavano sulla sopravvivenza dello Stato Pontificio, che aveva già perduto Umbria e Marche, ancora s'avvertiva per le strade dell'Urbe la speciale atmosfera d'una città che aveva il privilegio d'essere il Centro della Cristianità e nella quale per la celebrazione del diciottesimo centenario del martirio dell'Apostolo San Pietro confluirono nel giugno 1867 all’incirca 500 vescovi, 14.000 sacerdoti e 130.000 pellegrini.

L'Apostolo San Pietro è il Patrono della Provincia Romana dei Fatebenefratelli e certamente fra Orsenigo visse con profonda partecipazione quelle celebrazioni, ma al centro della sua attenzione erano ormai saldamente situati i malati, al cui servizio desiderava consacrarsi con lo speciale Voto di Ospitalità, ossia di totale dedizione agli infermi anche a rischio della propria vita, Voto che contraddistingue l'Ordine Ospedaliere di San Giovanni di Dio e che egli ora si preparava a vivere non più solamente in maniera privata ed interiore come frate Oblato, ma ufficialmente e canonicamente come frate Professo perpetuo.

L'Ospedale dei Fatebenefratelli all'Isola Tiberina aveva cominciato fin dal giugno 1585 - significativamente "per la festa di San Giovanni Battista", come annotato nell'antico Catastro del Convento - ad accogliere i malati ed al tempo di fra Orsenigo essi erano ripartiti in due corsie. La maggiore era la Sala Assunta, oggi tuttora in parte visibile e dotata allora di cinquanta letti, all'occorrenza raddoppiabili a cento, ed al suo estremo era un altare, in modo che i malati potessero ascoltare la Santa Messa senza muoversi dai loro letti; ai lati dell'altare v'erano due brevi rampe semicircolari che immettevano in un'ulteriore Sala di venti letti, oggi non più visibile, che era situata sullo stesso asse, ma sopraelevata di circa due metri. Questa seconda Sala era stata inaugurata nel 1702 da Clemente XI, il cui stemma figura, infatti, nel fastoso arco, tuttora visibile, che la separava dalla Sala Assunta; al tempo di fra Orsenigo quest'ambiente superiore si chiamava Sala Amici, dal nome del benefattore che aveva permesso di totalmente ristrutturarla, facendone un vero capolavoro di edilizia ospedaliera per le innovative soluzioni, specie riguardo al ricambio dell'aria ed alla climatizzazione dell'ambiente.

Tra i numerosi dettagli escogitati all'architetto Azzurri per assicurare il massimo conforto dei malati, i due che più stupirono fra Orsenigo fu che a capo d'ogni letto c'era un pulsante elettrico collegato con uri pannello dell'Infermeria per evitare che, specie di notte, il paziente dovesse gridare per chiamare l'infermiere; e che nelle vasche da bagno l'acqua calda, già miscelata con la fredda, v'arrivava con un condotto che s'apriva sul fondo di esse, poiché dal basso il calore si diffonde immediatamente ed uniformemente verso l'alto, mentre se l'acqua fosse caduta, com'è ancor oggi usuale, da un rubinetto in alto, per permettere una perfetta diffusione del calore sarebbe stato necessario durante l'afflusso agitare continuamente l'acqua della vasca.

Il grande zelo di fra Orsenigo con gli ammalati non passò inosservato ai Superiori, che pertanto, dopo un breve periodo d'osservazione, s'inclinarono ad ammetterlo in Noviziato e l'incoraggiarono a presentare domanda per iscritto al padre Generale. In essa fra Orsenigo, firmandosi "umilissimo e devoto servo", lo pregò di poter iniziare il "tanto mio desiderato Noviziato", ma intuendo le perplessità che alcuni ancora nutrivano nei suoi riguardi, chiuse la petizione scrivendo: "e prego ancora la Carità di tutti i Molto Reverendi Padri a volermi ammettere".

Fra Alfieri trasmise la petizione al Definitorio della Provincia Romana, che l'esaminò nella seduta del 23 aprile 1867. Dal Verbale risulta che, dopo averlo esaminato "nella lettura, scrivere, far di conto, come nel Catechismo Romano", a voti segreti lo dichiararono idoneo all'ammissione in Noviziato con quattro voti favorevoli ed uno contrario.

Nessun voto contrario ebbe invece dai sei Confratelli del Definitorio Generale nella seduta del 14 giugno 1867, per cui quello stesso giorno fra Alfieri chiese il parere della Comunità durante un'apposita Congregazione Conventuale, nella quale precisò che dei due oblati giunti da Firenze, fra Morlacchi risultava "sufficientemente istruito" e fra Orsenigo "suppliva con la sua bontà". A voti segreti la Comunità approvò la candidatura del primo, con 11 voti favorevoli e 3 contrari, e del secondo, con 9 voti favorevoli e 5 contrari, per cui fra Alfieri, fatti entrare in Sala Capitolare i candidati, "fece a ciascuno la sua esortazione e stabilì il giorno 24 Giugno, dedicato alla festa della Natività di S. Giovanni Battista, per la Santa funzione, avvertendo a prepararvisi coi Santi Esercizii; ed ingiungendo loro di ringraziarne i Padri, li licenziò".

Fra Orsenigo tirò un sospiro di sollievo all'apprendere d'aver superato lo scrutinio e ringraziò con sincera gratitudine la Comunità, ma soprattutto si rallegrò della scelta della data, divenutagli cara nei quattro anni trascorsi a Firenze; ed ancor più si rallegrò che d'ora in poi il suo nuovo nome da frate, che come di consuetudine era imposto al momento d'iniziare il Noviziato, per lui sarebbe stato proprio quello di Giovanni Battista.

Terminata la prescritta settimana di Esercizi Spirituali, la mattina del 24 giugno il padre Generale vestì fra Orsenigo del santo abito e gli assegnò il nuovo nome di fra Giovanni Battista, affidandolo quindi al Maestro dei Novizi, che era allora il sacerdote fra Giuseppe Maria Cortiglioni. La cerimonia si svolse in maniera semplicissima all'altare della Sala Assunta, ma fra Orsenigo gioì che ciò avvenisse in mezzo ai suoi cari malati, nei quali venerava la presenza di Cristo sofferente, una presenza mistica ma assolutamente reale, come gli ricordava il grande paliotto di quell'altare, datato 1681 e raffigurante in scagliola policroma San Giovanni di Dio mentre lava i piedi ad un malato, il quale improvvisamente si trasfigura in Gesù ed incoraggia il Santo dicendogli: "Giovanni, quando lavi i piedi ai poveri, è a Me stesso che li lavi".

Nella cartella personale di fra Orsenigo figura un inventario dei suoi beni, compilato, com'era prassi canonica, dal Maestro dei Novizi al momento di riceverlo in Noviziato. Vi si elenca il poverissimo vestiario che aveva portato da Firenze e due sole serie di oggetti, ossia i famosi già ricordati dodici "ferri da denti" e ben 38 "libri di devozione". Questi 38 libri ci dicono il suo discreto amore alla lettura ma anche come il suo interesse fosse concentrato unicamente in campo spirituale.

Fra Alfieri era ben lieto di tanto suo fervore spirituale, però si rese conto che per superare le perplessità che ben cinque Confratelli avevano espresso sull'idoneità di fra Orsenigo, non bastava esaltarne la bontà d'animo, ma occorreva cercare di migliorarne il modesto livello culturale, altrimenti al successivo scrutinio i voti contrari rischiavano di superare i favorevoli, facendo così naufragare la possibilità di avvalersi di lui come ulteriore valida pedina di quella graduale riforma dell'Ordine auspicata dal Beato Pio IX e che era diventato il suo obiettivo primario come Superiore Generale dei Fatebenefratelli.

Nei suoi appunti così fra Orsenigo narra l'iniziativa che volle prendere fra Alfieri nei suoi riguardi: "Essendo io mancante d'istruzione, il Padre Generale, oltre i consueti maestri dei novizi., mi fece venire un maestro secolare in certe ore del giorno, acciocché potessi profittare sempre più; ma, per mia disgrazia, mi trovavo sempre come al principio. Allora i maestri dissero al Generale che era inutile il continuare la scuola, perché era tempo perso, non apprendendo io nulla. Allora il Padre Generale mi disse che al ballottaggio della Comunità poteva darsi che io sarei stato escluso dalla votazione. Io gli risposi che fin da quando mi trovavo in Firenze il Signore mi aveva fatto sapere che la votazione era favorevole. Allora il Generale disse di continuare ancora un poco di tempo alla scuola, aggiungendomi: speriamo e preghiamo. Ma mentre io pregavo, mi trovavo assai angustiato per tutti questi incidenti, e ne ero veramente addolorato. Quand'ecco nel momento delle mie afflizioni vedo giungermi una lettera da Pusiano dell’Angiolina, dove mi diceva che aveva avuto un'apparizione di S. Pietro e S. Paolo, che le avevano rivelato che "era volontà di Dio che io non dovevo andare avanti negli studi e che dovevo rimanere come ero, cosicché non mi angustiassi più, e non mi applicassi perché era tempo inutile, perché Iddio permetteva ciò per compiere i suoi disegni; e perché il volgo non avesse potuto dire che dipendeva dal mio talento, ma bensì avesse detto che tutto ciò era opera di Dio e io non ero che un istrumento da lui inviato".

Nonostante l'insuccesso negli studi, fra Orsenigo riuscì a guadagnarsi la stima di sempre più Confratelli ed a superare tutti gli scrutini previsti nel corso dell'anno di Noviziato: nel primo quadrimestre venne valutato "sufficientemente bene" e riportò 9 voti favorevoli e 5 contrari; nel secondo quadrimestre venne valutato '''degno di lode" e riportò 12 voti favorevoli e 3 contrari; nel terzo quadrimestre venne valutato "bene" e riportò 10 voti favorevoli e 2 contrari.

Prima di finire il Noviziato fra Orsenigo dovette però affrontare un'altra assai più angosciante prova, creata dalla crescente lotta del Governo Sabaudo alle Istituzioni Religiose. La legislazione mirante alla soppressione degli Istituti Religiosi era iniziata nel Regno Sardo con la legge 29 maggio 1855 e proseguita nel 1860-1861 con decreti locali emanati nelle Due Sicilie, nell'Umbria e nelle Marche, man mano che tali province confluivano sotto i Savoia. Costituitosi il Regno d'Italia, il Parlamento unificò tali norme frammentarie e disomogenee nella legge 6 luglio 1866, che verrà poi applicata con legge 19 giugno 1873 anche al dissolto Stato Pontificio. La legislazione eversiva del 1866, pur rispettando i diritti civili dei singoli religiosi ed in particolare quello di poter dar vita ad associazioni, cancellava qualsiasi riconoscimento civile ai Voti canonici e soprattutto negava la personalità giuridica a tutti gli Enti Ecclesiastici, dei quali inoltre confiscava ogni proprietà ed interdiva ogni futuro acquisto. Le Comunità Religiose degli Enti Ecclesiastici maschili erano dunque costrette ad abbandonare gli immobili dove vivevano ed ogni bene, potendo unicamente richiedere un sussidio personale per chi era inabile a provvedere a se stesso. Le Suore potevano chiedere di vivere in Comunità negli edifici che avrebbe concesso loro in uso il Governo, col perentorio divieto d'accettarvi Novizie. In altre parole, la legge del 1866 mirava alla progressiva totale scomparsa degli Istituti Religiosi maschili e femminili, adottando per opportunità delle agevolazioni provvisorie ed a titolo personale per coloro che avevano fatto la Professione dei Voti prima dell'entrata in vigore di tale legge.

Oggi sappiamo che la legislazione eversiva del 1866 creò enormi problemi agli Istituti Religiosi dell'Italia, tagliandone le risorse e decimandoli negli organici, ma non riuscì ad annientarli. Grazie alla libertà d'associazione ed a differenti scappatoie legali scovate poco alla volta, un certo numero di Comunità potè sopravvivere ed accogliere ufficiosamente candidati che dettero continuità agli Istituti. Nel caso specifico dei Fatebenefratelli, che avevano nel 1864 ben 46 Ospedali in Italia, raggruppati in quattro Province, ne dovettero lasciar subito molti, ma in altri, come in quello dell'Isola Tiberina, pur avendone perso la proprietà, ottennero per intanto di restarvi a lavorare come associazione laica di infermieri, il che diede loro tempo nel giro di alcuni decenni di aprire nuovi ospedali, ovviamente non intestati all'Ordine, ma a qualche singolo Confratello od a Società fittizie, di cui erano azionisti i frati, finché il Concordato del 1929 tra l'Italia e la Santa Sede non ridiede agli Enti Ecclesiastici italiani la capacita giuridica e la conseguente possibilità, sia pure con alcune limitazioni, di acquisire beni immobili.

All'immediato indomani della legge del 1866 era però difficile prevedere il futuro e pertanto i Superiori si ritennero in dovere di avvertire i Novizi che non v'era garanzia della sopravvivenza delle Comunità italiane e che nessun sussidio sarebbe stato concesso dal Governo a chi al momento non era ancora Professo, per cui era forse opportuno che tornassero alle loro famiglie.

Fra Orsenigo rimase desolato da tale suggerimento, che arrivava quando, dopo anni di difficoltà e di attese, s'avvicinava infine il giorno della Professione Religiosa perpetua. Narra il frate che "quando i Superiori gli consigliarono di ritornare al secolo, si rivolse a Teresa ed Angiolina Isacchi affinchè pregassero per lui per essere illuminato in merito al genere di vita che avrebbe dovuto abbracciare nel caso di forzato ritorno al secolo. E le prelodate Serve di Dio pregarono e gli risposero: Gesù e Maria ci dicono che sei chiamato da loro in Religione, e che devi restarvi. Allora io dissi all’Angiolina e alla Teresa che dicessero alla Madonna che vi era la soppressione religiosa. La Madonna mi fece sapere che già la conoscevano questa cosa, e che non solo dovevo andare avanti, ma che già avevano preparato in Roma le anime disposte per professarmi. L’Angiolino disse che Gesù le aveva detto che questa soppressione religiosa non era di distruzione, ma di parificazione, e tutto permetteva perché era dimenticata troppo l'osservanza delle Regole e Costituzioni, ma che quei religiosi che aderivano ai divini voleri, il Signore se ne sarebbe servito, dopo le grandi catastrofi, per rinnovare gli Ordini".

Fra Orsenigo proseguì dunque fiducioso il proprio anno di Noviziato, che si protrasse di qualche mese per attendere il ritorno a Roma del padre Generale, recatesi nel 1868 per la terza volta in Spagna, dove s'era trattenuto dal 31 maggio al 14 luglio a Barcellona con San Benedetto Menni, che vi aveva appena aperto il primo degli oltre venti ospedali con cui fece man mano rifiorire l'Ordine nella penisola iberica. Rientrato a Roma, fra Alfieri vi presiedette la Congregazione Conventuale del primo agosto 1868, nella quale la Comunità dell'Isola Tiberina dette, come abbiamo visto, giudizio favorevole sull'ultimo quadrimestre di Noviziato di fra Orsenigo; terminata la votazione, leggiamo nel Verbale che fra Alfieri lo chiamò in Sala per comunicargliene il risultato positivo, ascoltarne esplicita assicurazione di volersi votare a Dio ed avvertirlo "di prepararsi coi Santi Esercizii alla Santa Cerimonia della Professione de' Voti semplici, la quale si eseguirebbe nella Domenica seguente, giorno nove del corrente mese".

Quella memoranda giornata del 9 agosto 1868 ebbe per fra Orsenigo due momenti centrali. Il primo fu alle otto del mattino, quando alla presenza del Maestro dei Novizi e del Superiore Generale, firmò una dichiarazione giurata con cui s'impegnava in perpetuo a Vita Comune perfetta secondo lo spirito primitivo,osservando i Voti col massimo rigore, senza mai indulgere a quei compromessi o mitigazioni che altri talora ritenevano giustificato adottare per l'asprezza dei tempi ed il clima politico apertamente ostile alla Vita Religiosa; si protestava inoltre disponibile a recarsi in qualsiasi Comunità, anche estera. Quella delle otto fu una cerimonia assolutamente privata, ma con la quale fra Orsenigo si rendeva moralmente disponibile a far parte di qualcuna delle Comunità pilota che fra Alfieri aveva cominciato a costituire per il suo piano di riforma dell'Ordine.

Il secondo momento memorabile di quella domenica d'agosto fu alle 11 del mattino la Professione dei Voti Semplici perpetui, emessi da fra Orsenigo nelle mani del padre Generale. A differenza della prima, questa seconda cerimonia ebbe carattere pubblico e si svolse con dovuta solennità non nella Sala Assunta, ma ai piedi dell'altar maggiore della millenaria Chiesa di San Giovanni Calibita, un prezioso scrigno d'arte, ricca di marmi e di pregevoli dipinti.

Non sappiamo se alle 11 qualche malato fu in grado di lasciare il proprio letto e mescolarsi agli invitati per assistere alla Professione Semplice del loro beneamato fra Orsenigo, ma il ricordo dei malati era comunque assicurato in chiesa da quel cartiglio latino, che due angioletti vi sorreggono in posizione strategica giusto in cima all'arco dell'abside: in esso vi si legge la beatitudine promessa dal salmo 41 a chi si prende cura dei poveri malati, Beatas qui intelligit super egenum et pauperem ossia Beato chi si prende cura del malato e del povero, il che era proprio l'impegno prioritario che fra Orsenigo s'assunse quel 9 di agosto con l'emettere il Voto perpetuo di Ospitalità, da lui poi vissuto con costante dedizione e senza limiti d'orario nei restanti 36 anni che trascorse all'Isola Tiberina.

Dopo emessa la Professione Semplice, fra Orsenigo fu lasciato di Comunità all'Isola Tiberina e ben presto la sua attività ospedaliera vi divenne così apprezzata ed insostituibile, che assolutamente mai i Superiori presero in considerazione l'ipotesi di trasferirlo in qualche altra Comunità. In ossequio a precise direttive canoniche, certamente non gli poterono affidare concrete responsabilità nell'Ospedale Tiberino prima di quel 9 agosto 1868 in cui terminò il suo Noviziato, ma è difficile fissare una data esatta per l'inizio del suo prodigarsi non più solo genericamente in campo infermieristico, ma specificamente in quello odontoiatrico.

Nei suoi appunti fra Orsenigo non fornisce date ma si limita a così raccontare la definitiva conferma avuta a Pusiano della vocazione dentistica e la profezia del futuro immenso successo: "Nel maggio 1867 io mi trovavo in casa del Parroco di Pusiano. L’Angiolina pochi anni indietro, poiché soffriva di gran dolori di denti, passando un Cappuccino per la cerca, si fece da lui estrarre il dente. L'operazione riuscì però talmente male e le si gonfiò il viso cosi straordinariamente, che vi si dovettero applicare sei sanguisughe. Ora mentre io mi trovavo presente, venne a dolere ad Angiolina un altro dente. Io mi offersi (lustrarglielo, ma, rammentando la cosa accaduta pochi anni addietro, ella si dimostrava un poco titubante. Allora dissi all'Angiolina: vai in Chiesa da Gesù Sacramentato e dimandagli cosa devi fare. Essa andò subito, ritornò e disse che Gesù le aveva detto di farsi estrarre pure il dente da me, e l'operazione riuscì benissimo. L’Angiolina disse, per rivelazione, che Gesù l'aveva avvertita di applicare un impiastro di farina di lino sulla guancia, che il giorno dopo ella sarebbe completamente guarita. E così fu. Anche alla Teresa estrassi un dente. Dopo aver estratto il dente all’Angiolina, questa disse: verrà un giorno che quasi tutta Roma cercherà di estrarsi i denti da te, e ricordati che in convento avrai molte spine, contraddizioni e dispiaceri; e nel mondo avrai molte rose e sarai molto lodato; ma però tu devi stare sulla strada della giustizia, e dovrai dire sempre: tutto è di Dio, io sono nulla. E quando ti vorranno fare elogi, devi sempre rispondere che tu sei niente ed è tutta opera di Dio".

Spigolando nella massa di pubblicazioni uscite su fra Orsenigo, ce n'è una sola, ma fra le più antiche e risalente perciò a tempi in cui ancora vivevano dei testimoni, la quale fornisce date concrete sull'inizio della sua attività odontoiatrica all'Isola Tiberina. Si tratta di un articolo del giornale milanese "L'Italia" del 13 dicembre 1919 nel quale tra l'altro si legge testualmente: "A Roma dal 1867 cavò denti nei conventi e dal 1870 li cavò pubblicamente".

A Roma l'attività odontoiatrica di fra Orsenigo sarebbe dunque cominciata già nel 1867 ma, certo a motivo del suo stato di Novizio che non gli consentiva di assumere un impegno ufficiale di lavoro in Ospedale, fu limitata inizialmente all'estrarre denti in maniera privata a molti religiosi della città, recandosi nei loro Conventi; tale settoriale saltuaria attività continuò poi sempre, tanto che nel breve testo inserito alla sua morte nel Necrologio della Provincia Romana dei Fatebenefratelli si legge che "esercitò la sua opera gratuita a' molti Istituti".

Sempre secondo l'articolo milanese del 1919, solo dal 1870 fra Orsenigo avrebbe aperto al pubblico un Ambulatorio nell'Ospedale dell'Isola Tiberina. Non è specificato il mese, ma appare probabile che fu posteriormente a quella memoranda mattina del 20 settembre 1870 quando, dopo sei ore di battaglia, i bersaglieri irruppero per la Breccia di Porta Pia, ponendo fine allo Stato Pontificio. Il Papa fu relegato nella Città Leonina, ma i Religiosi rimasero nei loro Conventi e quelli dell'Isola Tiberina si prodigarono nell'assistere i feriti ed i malati dell'esercito invasore, mettendo a gratuita disposizione l'intera Sala Amici che accolse, coi loro attendenti, 14 ufficiali piemontesi feriti, l'ultimo dei quali fu dimesso il 13 maggio 1871. Altri militari furono accolti dai Fatebenefratelli nei loro vicini Ospedali di Tivoli, Velletri, Tarquinia, Civitavecchia e Frascati.

La destinazione per così lungo tempo dell'intera Sala Amici ad esclusivo uso militare comportò la perdita del contributo alle spese di degenza, che l'Opera Pia Amici usava versare regolarmente ai Fatebenefratelli per i malati di tale Sala, sicché sembra logico che si cercasse di avviare qualche altra attività che garantisse, sia pure sotto forma di spontanea donazione, nuove entrate che andassero a bilanciare almeno un poco le pesanti spese di gestione dell'Ospedale.

In effetti, l'Ambulatorio Dentistico di fra Orsenigo incontrò tale successo che, per evitare la quotidiana ressa dei suoi clienti all'interno dell'Ospedale, i Superiori decisero di collocarlo in un locale attiguo alla Sacrestia e che aveva il vantaggio di aprire direttamente sulla strada, giusto accanto a Ponte Fabricio, tra la spalletta di questo ed il portone della Chiesa di San Giovanni Calibita; un tendone di tela grezza proteggeva l'ingresso e per segnalare l'Ambulatorio vi figurava a caratteri cubitali il cognome del frate, che i popolani, poco avvezzi a quell'appellativo brianzolo, storpiavano pronunciandolo sdrucciolo, forse per assonanza con la parola arsenico, e spesso, non so se in omaggio alla ben nota facezia romanesca che non rispetta neppur Papi e Sovrani, addirittura cambiandone l'iniziale e facendolo così divenire "Arsènigo", che è l'usuale nomignolo con cui ancor oggi i vecchi romani tramandano il ricordo di colui che, per dirla in dialetto con il poeta romanesco Amilcare Pettinelli, rimase famoso come "er cacciadenti auffa de 'na vorta". Quanto al termine auffa, in dialetto romano sta per gratuito: il termine deriva dalla sigla A.U.F. (= Ad Usum Fabricae) posta sui materiali edilizi destinati alla Basilica Vaticana, in modo che ai varchi del Dazio passassero gratuitamente, senza pagare imposte.

Se la decisione di assegnare a fra Orsenigo l'atrio su strada della sacrestia fu dettata semplicemente dal desiderio di evitare all'interno dell'Ospedale la ressa dei suoi pazienti, quando nel 1878 accadde che il Municipio di Roma prese in possesso l'intero complesso edilizio, la scelta si rivelò provvidenziale, poiché tale locale venne considerato appartenente alla sacrestia e l'attività caritativa che vi svolgeva fra Orsenigo sfuggì alla gestione pubblica di tutti i restanti ambienti dell'Ospedale Tiberino. La legge prevedeva infatti due possibilità di utilizzo degli edifici ecclesiastici confiscati dal Demanio, essere venduti a privati, oppure ceduti al Comune per pubbliche finalità, ed è grazie a questa seconda possibilità che il Comune di Roma ottenne il complesso edilizio dei Fatebenefratelli all'Isola Tiberina perché servisse da Ospedale pubblico, ponendovi proprio personale direttivo, ai cui ordini i frati si offrirono di continuare ad assistere gli infermi; quando nel complesso edilizio c'era una chiesa, la possibilità era ugualmente duplice, ossia poteva essere sconsacrata e venduta, oppure il Comune, in base a ragioni di culto, poteva chiedere che divenisse chiesa pubblica, la qual cosa avvenne per la Chiesa di San Giovanni Calibita, che il Comune ritenne necessaria alle esigenze di culto dei pazienti ricoverati nell'Ospedale e lasciò affidata agli stessi sacerdoti che già vi erano, per cui fra Orsenigo fu l'unico che potè continuare a lavorare alle dipendenza dei suoi vecchi Superiori.

A parte questi successivi vantaggi d'ordine esterno, Fra Orsenigo, che si distinse sempre per una fervida devozione mariana, fu comunque fin dal primo momento ben lieto di lavorare in un angolo di sacrestia situato muro a muro con l'altare della Madonna della Lampada, anche se il locale, innicchiato com'era tra intoccabili strutture ultramillenarie e lambito dal Tevere, non aveva alcuna possibilità di espandersi e pertanto fu impossibile dotarlo di sala d'attesa: quando fra Orsenigo al mattino spalancava il portone, i primi arrivati sostavano giusto al riparo della tenda, assai simile a quella di una bottega di caffè, mentre gli altri si sparpagliavano sul marciapiede e lungo Ponte Fabricio, popolarmente chiamato Ponte Quattro Capi.

Quella coda all'aperto rimase indelebile nel ricordo di Piero Scarpa, che in un articolo del 1953 su fra Orsenigo racconta il suo disappunto quando da ragazzo, essendo andato all'Isola Tiberina a farsi togliere due denti dal frate, costui non volle levarglieli uno dopo l'altro, ma gli impose per il secondo dente di rimettersi in fila sulla strada, anche se era una giornata piovosa.

Da profano, Scarpa non si rese conto che quell'intervallo era necessario per dar tempo alla muscolatura boccale di rilassarsi e rendere così meno dolorosa la seconda estrazione. Suppongo che in un angolino del suo cuore dovette serbare un certo astio per fra Orsenigo, poiché nel suo articolo ne ricorda la metodica estrattiva con tinte caricaturali, che a noi del nuovo millennio appaiono ancor più caustiche, mancandoci un qualsiasi punto di riferimento per valutare forzature e distorsioni. Questa la sua vivace descrizione: "Più che curiosità, destavano pietà quei popolani, uomini, donne e ragazzi che ogni mattina attendevano in coda, affollando il breve tratto della piazzetta di San Bartolomeo e alcuni tratti del ponte Quattro Capi, il loro turno comprimendosi le guancie con il fazzoletto per attutire il dolore che li tormentava. Il paziente entrava in quella specie di bottega adattata a sala operatoria dalla porta a vetri che dava direttamente sulla strada e subito veniva accolto con cordialità dal frate, il quale rapidamente ed energicamente gli apriva le mandibole a scopo di esplorazione. Gli rivolgeva qualche domanda e toccando le gengive cercava d'indovinare il dente che doveva estirpare, raccogliendo rassicurazione dell'interessato che il più delle volte, invece di stare seduto sul seggiolone di cuoio, forse perché non lo sciupasse, era tenuto all’impiedi. Poi si voltava, afferrava la tenaglia del tipo che riteneva utile al caso appoggiata su una mensola e stringendola in pugno la nascondeva dietro la schiena. Con la mano sinistra copriva la parte superiore della faccia del cliente in modo che non vedesse, e gli piegava con violenza la lesta all'ingiù. Un attimo gli era sufficiente per imprigionare il dente nella tenaglia, scardinare la radice biforcuta dalla morsa della gengiva che la stringeva ed agitando il polso verso destra e sinistra giungeva con impeto alla fase finale, cioè all'estrazione".

Oggi giorno, abituati come siamo a sedute dentistiche affrontate comodamente adagiati su poltrone irte di attrezzature elettroniche e beneficiando di procedure analgesiche sempre più sofisticate, i toni troppo sarcastici di Scarpa rischiano di farci giudicare fra Orsenigo un istrione senz'arte né parte. Se però andiamo a leggerci qualche testo odontoiatrico del tempo, scopriremo la professionalità delle procedure adottate da fra Orsenigo, quale, ad esempio, il preferire che il paziente restasse in piedi durante l'estrazione dentaria invece di farlo accomodare sul seggiolone di cuoio; nel Manuale "Il giovane chirurgo agli atti operativi", che certamente fra Orsenigo conobbe poiché ne era autore il suo famoso confratello chirurgo, fra Benedetto Nappi, s'ammonisce infatti di non utilizzare sedie durante l'estrazione dei denti, facendo eccezione unicamente per le donne in gravidanza.

D'altra parte, la stima universale di cui godeva l'Orsenigo, non solo dalle classi sociali più modeste che non avevano allora altra risorsa che lui, ma anche da personaggi al vertice della società romana che non disdegnarono di divenire suoi clienti, fa escludere che le sue metodiche fossero anche solo lontanamente istrioniche. Egli ricevette infatti foto con dedica dal poeta Giosuè Carducci; dal drammaturgo Pietro Cossa; dallo scultore Giulio Monteverde; dai ministri Quintino Sella, Michele Ceppino e Ruggero Bonghi; da Merlotti Garibaldi; dall'ammiraglio Ferdinando Acton; da donna Laura Minghetti; da Eugenia, la principessa ereditaria di Svezia e Norvegia; dall'attore Cesare Rossi e dalle cantanti Adelina Patti e Stella Bonheur; e da una serie d'altri celebri personaggi del tempo.

Fu tale la sua fama che venne chiamato sia alla Corte Sabauda che a quella Pontificia. Fra Luciano Del Pozo in un suo libro del 1917 attesta infatti che fra Orsenigo assistette la Regina Madre, Margherita di Savoia, ed un'eloquente conferma indiretta la troviamo nella contabilità dell'Ospedale di Nettuno, dove al 6 maggio 1901 è registrata un'entrata di cento lire quale "incasso per offerta da Sua Maestà la Regina Madre e solita a darsi a P. Orsenigo per la festa di Maria SS.ma del Buon Consiglio".

Grazie ai messaggi ed ai preannunzi delle veggenti di Pusiano, fra Orsenigo aveva valide ragioni per umilmente ritenere opera di Dio il proprio immenso successo professionale, ma egli lo raggiunse senza dispiego di prodigi soprannaturali, il che ci consente di individuare le circostanze concrete attraverso le quali il Signore, che normalmente agisce inavvertito all'interno della storia, guidò al successo il frate.

Una di queste circostanze fu certamente la particolare situazione sociale della Roma del suo tempo. Con il trasferimento della Capitale da Firenze a Roma e l'entrata in funzione dei vari Ministeri con tutto il loro vasto personale, la popolazione dell'Urbe andò più che raddoppiandosi, salendo da 213.633 abitanti nel 1871 a 432.215 nel 1900, senza che crescessero di pari passi i servizi sociali ed assistenziali, per cui le turbe di piccoli impiegati, non potendo affrontare le tariffe odontoiatriche dei pochi studi professionali, non avevano altra risorsa che l'Ambulatorio Gratuito di fra Orsenigo, come ben fece notare il cronista de "Il Messaggero" nel trafiletto funebre del 16 luglio 1904 in cui, precisato che "il vecchio frate era popolarissimo a Roma, dove da circa un quarto di secolo nel suo gabinetto dentistico all'isola di S. Bartolomeo, prestava gratuitamente o quasi la sua opera di dentista a prò dei sofferenti", aggiunse che "ora ci sono i gabinetti dentistici popolari, dove si spende poco; ma fino a qualche anno fa i dentisti a Roma erano ancora pochi, e le loro tariffe erano assai elevate".

A questa necessità sociale fra Orsenigo, guidato dalla premura del Signore per i diseredati e stimolato dalla beatitudine che Egli promette nel salmo 41 a chi si prende cura di loro, seppe rispondere con grande generosità, prodigandosi in Ambulatorio senza limiti d'orario. Il lunghissimo tempo speso in Ambulatorio divenne un'altra ragione del suo successo, poiché gli permise d'acquisire una straordinaria sensibilità nelle dita, che gli rendeva facile intuire il corretto asse di trazione lungo il quale far forza per estrarre il dente, riducendo quindi al minimo la sofferenza del paziente.

Altrettanto importante fu il costante impegno a mantenere in forma fino alla vecchiaia la muscolatura che il Signore gli aveva donato. Come attesta infatti Petrai, fra Orsenigo "tutte le mattine, dopo un bagno ghiaccio, si esercitava un quarto d'ora a roteare una specie di clava dei peso di una diecina di chili". Non meraviglia dunque che conseguisse una presa talmente erculea da spesso consentirgli, già in fase esplorativa, di rimuovere i denti direttamente con le dita, senza ricorrere all'ausilio di pinze, la cui sola vista ben sappiamo quanto terrorizzi i pazienti, irrigidendone la muscolatura ed ingigantendone di conseguenza il dolore: in un'epoca nella quale era ancora poco diffuso il ricorso all'anestesia, l'imprevista ed istantanea estrazione a mani nude smussava drasticamente un trauma che nella psicologia della gente era tra i più paventati, al punto che l'espressione "togliamoci questo dente" è stata scelta ad indicare tutto ciò che vorremmo posporre per la tremenda sofferenza che sappiamo ci costerà, ma che non ci è dato di ulteriormente rinviare.

Considerando che il merito di quanto operava apparteneva al Signore, fra Orsenigo ritenne giusto che restasse della propria attività odontoiatrica qualche memoria esteriore, che desse gloria a Dio. Se per i clienti famosi tale memoria poteva esser costituita dalla loro foto con dedica, per la moltitudine dei clienti ordinari gli sembrò che il modo più semplice fosse di conservare tutti i denti che estraeva. Petrai narra d'aver visto nell'Ambulatorio di fra Orsenigo "tre enormi casse della capacità di quasi un metro cubo, piene zeppe di denti cavati da lui, e divenuti col tempo di un giallo scuro, somiglianti a grossi chicchi di caffè crudo. In una vetrina poi stavano esposti i denti più strani e mostruosi, denti doppi, storti, dalle radici enormi e contorte, e persino dei pezzi di ganasce con due o tre denti attaccati". Il già citato articolo milanese del 1919 ce ne precisa il numero, affermando che "fino al 1888, ne aveva raccolti due milioni settecento quarantaquattro". In un articolo del 1930 Ceccarius affermava che tale cifra fosse stata invece raggiunta nel 1903: tale data continua ad essere citata fino ad oggi ed è finita perfino nell'edizione 1972 del Guinness dei primati; ed in quella del 1992 la si commenta con l'osservazione che tale cifra equivale ad una media giornaliera di 185 estrazioni!

Fra Martino Guijarro, che assistette fra Orsenigo nell'ultima sua malattia, scrisse nel 1907 un articolo in spagnolo, nel quale così precisò il peso e l'ingloriosa fine di quei denti: "Davvero dispiace pensare che non tutti quei denti (più di 120 kg) si conservino. Qualche mano incosciente li gettò a Tevere, mentre con essi si sarebbe dovuto innalzare un monumento al più celebre dei dentisti. Nessuno della vecchia Roma avrebbe rifiutato di contribuire a tale originale ricordo in onore di fra Giovanni Battista Orsenigo, considerato che ben pochi se ne incontrerebbero che non siano stati da lui beneficati".

Quegli oltre due milioni di denti finirono davvero nelle acque del Tevere, che sciabordavano sornione sotto la finestra dell'Ambulatorio Tiberino? Secondo un giocoso articolo di Scarpelli, a convincere fra Orsenigo a gettare lui stesso a Tevere le tre casse di denti, fu un suo buon amico, il dentista Benedetto Moretti, che aveva lo studio in Via del Tritone. Sorge però il dubbio se fra Orsenigo abbia davvero messo in atto il suggerimento o quantomeno se chi ipoteticamente fu da lui incaricato di gettarli a Tevere, abbia eseguito davvero l'ordine oppure abbia preferito provare a trame qualche utile personale: il collega Timoteo Galanti m'ha infatti raccontato che una ventina d'anni or sono, trovandosi a New York, volle visitare l'Empire State Building e non avendo velleità agonistiche di salire a uno a uno i 1.576 gradini che portano in cima al grattacielo, s'avviò agli ascensori; al momento d'entrarvi, s'accorse che accanto ad essi c'era una Sala d'Esposizioni e volle dargli una guardata, notando con sorpresa che v'era una capace cassapanca piena di denti ed un cartellino che spiegava che erano stati estratti da un dentista ospedaliere romano: pare abbastanza fondato sospettare che fossero quelli di fra Orsenigo, sfuggiti al tuffo e portati oltre oceano come insolito souvenir di qualche turista yankee, cui erano stati venduti alla chetichella.

Quando nel 1870 fra Orsenigo si assunse la responsabilità dell'Ambulatorio Dentistico dell'Isola Tiberina, il futuro di tutte le Comunità Religiose del Regno d'Italia era quanto mai fosco, ma egli, assicurato come abbiamo visto dai messaggi delle veggenti di Pusiano, non si perse mai d'animo ed appena ultimò il triennio previsto come durata minima della Professione Semplice perpetua, che aveva emesso il 9 agosto 1868, immediatamente presentò, in data 12 agosto 1871, petizione al padre Generale, nella quale lo supplica "perché, se crede, si degni accordarmi emettere la mia Professione Solenne, non curando nulla la presente situazione de' tempi e la legge civile, ma desidero colla grazia del Signore e voglio dedicarmi stabilmente al servizio di Dio nell'assistenza de'poveri infermi".

La richiesta fu prontamente accolta: nella cartella personale di fra Orsenigo si conserva l’atto originale della Professione Solenne ed in più un'attestazione di fra Alfieri, legalizzata in calce dal pubblico notaio Tommaso Gradassi che ne redasse rogito lo stesso giorno, nella quale si specifica che fra Orsenigo, avendo ottenuto l'approvazione del Definitorio Generale e preparatovisi con i Santi Esercizi, emise nella Chiesa di San Giovanni Calibita per la festa di Sant'Agostino, alle 11 del mattino del 28 agosto 1871, nelle mani del Superiore Generale, la Professione Solenne "innanzi alla Famiglia Religiosa, al Notaio e ai due testimoni".

Da un punto di vista canonico, l'emissione della Professione Solenne conferì a fra Orsenigo la possibilità d'essere eletto Priore di qualche Comunità, ma tale ipotesi non fu mai presa in considerazione, non per poca stima ma, al contrario, per troppa stima, ritenendolo assolutamente insostituibile nell'attività odontoiatrica così felicemente avviata nel Gabinetto Dentistico datogli accanto alla spalletta di Ponte Quattro Capi.

Proprio dettata dal rammarico di non poterlo nominare Priore effettivo, nacque la proposta di nominarlo almeno Priore ad honorem, presentata all'esame del Definitorio Generale già nella seduta del 6 aprile 1875 e ratificata nella successiva seduta dell' 11giugno in riconoscimento della sua "condotta costantemente lodevole ed attiva". Bisogna infatti sapere che così come tra i Vescovi ce ne sono di residenziali, ossia con la responsabilità concreta di una Diocesi, e di titolari, cui è attribuita sulla carta qualche antica Diocesi ormai abolita, analogamente anche all'interno degli Istituti Religiosi, ed in particolare tra i Fatebenefratelli, si usava in quei tempi sottolineare i meriti di qualche Confratello conferendogli il titolo di Priore onorario di qualche Casa non più esistente: a fra Orsenigo venne perciò conferito il titolo di Priore ad honorem del Convento-Ospedale di Santa Maria della Sanità, che in passato la Provincia Romana dei Fatebenefratelli aveva avuto a Cesena.

Anche se le norme araldiche prevedono che i frati nominati Priori di una Comunità possano fregiarsi di uno stemma personale, fra Orsenigo non si diede mai pensiero di crearsene uno, però quando nel giugno 2003 il pittore Eladio Santos lo effigiò in un ritratto ad olio destinalo alla sala d'attesa dell'Ambulatorio Odontoiatrico dell'Isola Tiberina, gli sembrò opportuno, ispirandosi allo schema dei ritratti dei Superiori Generali dell'Ordine conservati nella Curia Generalizia, disegnare nel drappeggio alle spalle di fra Orsenigo un blasone di sua ideazione, ottenuto sovrapponendo allo stemma comunale di Cesena la melagrana che è l'emblema dei Fatebenefratelli.

Altro segno dell'eccezionale stima di cui godeva fra Orsenigo è che i Confratelli della Provincia Romana, sia nel corso del Capitolo Provinciale del 1890 sia nel corso di quelli del 1896 e del 1902, lo elessero come loro vocale, ossia loro rappresentante, rispettivamente per il Capitolo Generale del 1893, del 1899 e del 1905, al quale ultimo la morte gli impedì di partecipare. Un grazioso dettaglio a riguardo è l'episodio avvenuto durante la celebrazione del Capitolo Generale tenutosi all'Isola Tiberina dal 19 al 26 aprile del 1893, cui egli intervenne appunto come primo vocale della Provincia Romana: il 24 aprile, sentendosi poco bene ed incapace per la debolezza di lasciare il letto, non partecipò alla seduta e proprio quel giorno venne il fotografo per la tradizionale foto ricordo del Capitolo; a quel punto i Confratelli, dispiaciuti che egli non avesse forze di scendere in cortile per posare con loro, ebbero la simpatica idea di porre sul muro una sua foto incorniciata, affinché almeno in quel modo figurasse nel gruppo anche il suo volto. Doveva essere una foto di parecchi anni prima, dato che fra Orsenigo vi figura con indosso il vecchio modello di scapolare dal cappuccio appiattito, la cosiddetta "lumaca", che ormai quasi nessuno dei Capitolari del 1893 appare più indossare.

Accanto a questi segni di stima, fra Orsenigo ebbe anche a sperimentare lotte ed avversioni, come gli aveva preannunziato Angela Isacchi avvertendolo che a Roma ci sarebbero state per lui sia rose sia spine. Infatti, il successo del suo Gabinetto Dentistico e la circostanza che, pur essendo gratuito, non mancassero pazienti che gli lasciassero offerte, suscitò reazioni non sempre benevole. Nell'ampio necrologio dedicategli dal settimanale romano "La Vera Roma"' nel trigesimo della morte, non manca un accenno a tale lato spiacevole e tuttavia sempre accettato serenamente da fra Orsenigo, che "infaticabile nel suo gabinetto presso S. Bartolomeo all'Isola Tiberina, da mane a sera prestò la gratuita opera sua a vantaggio dei sofferenti, e dalla quale non valsero a sottrarlo, né la malvagità degli invidiosi, né la tassa di ricchezza mobile indebitamente applicata all'esercizio della sua carità".

Oltre all'invidia ed alla tassa di ricchezza mobile, ci fu un'altra spregevole reazione, ossia un tentativo di ricatto che, a distanza di quindici anni dalla morte di fra Orsenigo, troviamo così menzionato nel citato giornale milanese del 1919: "A Roma nell'Isola Tiberina di S. Bartolomeo si ammirano molte curiosità storiche, ma fino a pochi anni or sono la più interessante fra tutte era rappresentata da Frate Orsenigo, il dentista dei Fate-bene-fratelli, il cui ricordo è ancor vivo nel popolo. Strappava i denti ai pazienti il più delle volte con le dita, anzi che con i ferri e li raccoglieva in tre enormi casse. Nel 1875 il direttore di un giornaletto settimanale gli tentò un ricatto. Poi l'insultò bestemmiando. L'atletico dentista gli misurò un pugno tale, che per poco non gli fracassò tutti i denti. Pochi giorni dopo il giornaletto pubblicò un articolo intitolato "II maniscalco dell'Isola Tiberina". Frate Orsenigo gli rispose mettendosi in regola con la legge: dette il suo bravo esame alla Università di Roma, conseguì il diploma e continuò a cavare i denti con le dita".

In qual modo, nonostante le difficoltà sempre incontrate nei suoi studi, arrivasse questa volta a conseguire un diploma, ce lo racconta nei suoi appunti lo stesso Orsenigo: "Subito che aprii il mio gabinetto a Roma, il concorso era tale, che destò gran gelosia ed invidia in tutti i dentisti; e cominciò gran guerra di calunnie di ogni sorta per arrestare la corrente di clienti. E non solo ricorsero alle Autorità Governative e Municipali, ma fecero pure delle calunnie ai miei Superiori per farmi allontanare da Roma. Allora mi trovai nella necessità di provvedermi il diploma di dentista e della bassa chirurgia. Un terribile pensiero era per me quello di dare un esame, mentre io non avevo istruzione...ma d'improvviso capitò nel mio gabinetto il Dott. Fioretti, medico del Municipio di Roma e Capo dell'Ufficio di Sanità, che avendo saputo tutti gli incidenti della guerra che era caduta sopra di me, mi propose di impegnarsi presso il Ministro dell'Istruzione ed alla Regia Università per ottenermi una speciale facoltà di dare l'esame senza dare i due anni di Università, che erano obbligatori. E per far vedere bene coi fatti alla mano la mia valentia, si prese molti fogli di carta bollata e si fece fare una cinquantina di certificati dai primi medici di Roma. Presentati all'Università un numero così ragguardevole di certificati, il Ministro dell'Istruzione Pubblica accordò la grazia di dare un esame pratico senza fare i due anni di Università. Il giorno 25 febbraio 1875 era il giorno destinato per dar l'esame all'Università. In quei giorni il mio cuore era straziato dal pensiero di dover andare davanti a quattro professori, ed io, pensando che erano così eruditi, mentre io ero senza scuola, non sapevo come l'avrei passata, e mi raccomandavo alle orazioni di tutti. Quando andai all'Università, mi sentivo il cuore straziato, ma appena entrato nella sala dei professori, mi trovai tutto cambiato, era sparito ogni timore, ed a tutte le interrogazioni dei professori le mie risposte erano tali, che rimanevano sorpresi. Anzi, certe mie espressioni sembravano cose nuove per loro, laonde, dopo un'ora e mezzo di esami, terminarono col concedermi la patente, rallegrandosi meco del brillante esame, ed incoraggiandomi a continuare nella mia opera benefica. Mentre sortivo dalla sala degli esami, nella sala appresso mi trovai in faccia pia di venti medici sostituti che mi fecero ala facendomi molti elogi, non di aver dato un esame comunque, bensì d'aver dato un esame da professore".

Ad evitare ulteriori contestazioni alla legittimità dell'Ambulatorio Dentistico di fra Orsenigo, il conseguimento del diploma fu ovviamente portato a conoscenza dei pazienti e delle autorità, nonché dei mezzi di comunicazione, quale ad esempio la Guida Monaci, che già dall'edizione del 1883 prese a segnalare fra Orsenigo come "chirurgo dentista" e con indirizzo personale, ossia in Via Ponte Quattro Capi 40, vale a dire al numero civico, rimasto immutato fino ad oggi, del portone del suo Ambulatorio; negli anni successivi gli attribuisce sempre due numeri civici, ossia il 39 con riferimento al domicilio di residenza, ossia l'Ospedale, ed il 40 con riferimento al domicilio di lavoro, ossia l'Ambulatorio.

Quel crescente rivolo di offerte che fra Orsenigo riceveva dai suoi pazienti, non solo destò tante spiacevoli reazioni dei malevoli, ma preoccupò lo stesso frate, che temette di restar anche lui contaminato da quel denaro, che negli scritti devoti è pittorescamente definito come "stereo del diavolo" per ammonire sul pericolo di restarne insozzati. Come aveva già fatto in altri momenti d'angustia, fra Orsenigo chiese l'aiuto della Madonna perché lo guidasse a vivere con coerenza il proprio Voto di Povertà e fu proprio in questa circostanza che fra Orsenigo prese l'abitudine d'invocare Maria con un titolo ben appropriato alla situazione, ossia di Madre del Buon Consiglio.

La popolarità della devozione alla Madonna del Buon Consiglio è legata soprattutto all'omonimo santuario di Genazzano. Questa cittadina laziale, un tempo feudo dei Colonna, fu sede di uno strepitoso miracolo: il pomeriggio del 25 aprile 1467 nella Chiesa di Santa Maria, che i Colonna avevano affidata dal 1356 agli Agostiniani Eremitani, comparve su di una parete un affresco che alcuni esuli albanesi riconobbero poi come proveniente da Scutari, una piazzaforte albanese che stava per cadere in mano turca. All'indomani, ossia il 26 aprile, fu grande l'afflusso dei fedeli e tale data restò poi sempre quella della festa della Madonna del Buon Consiglio.

La devozione di fra Orsenigo alla Madonna del Buon Consiglio fu ispirata dal fatto che non solo fin dal 1787 Pio VI aveva concesso ai Fatebenefratelli d'inserire come memoria nel loro calendario liturgico tale festa, ma che fra Orsenigo arrivò a Roma proprio all'immediata vigilia della ricorrenza del IV Centenario del Santuario di Genazzano e che sulla scia di tale centenario fra Alfieri il 15 aprile 1869 ottenne dal Beato Pio IX di darvi maggior rilievo liturgico e di poter in perpetuo lucrare in tal giorno l'indulgenza plenaria, il che ebbe grande risonanza nell'animo di fra Orsenigo, che aveva da poco emesso la Professione Semplice perpetua.

Giusto l'anno successivo all'iniziativa di fra Alfieri, fra Orsenigo aprì il Gabinetto Dentistico e gli venne spontaneo affidare alla Madonna del Buon Consiglio quel suo lavoro così stimolante, ma anche così pieno d'insidie. Egli si sentì davvero protetto da Lei e, quando s'avvicinò la data del 26 aprile 1871 in cui ne andava celebrata la ricorrenza liturgica, chiese al padre Generale di poterla organizzare lui con la massima solennità e continuò poi sempre a farlo fino alla morte, ossia per ben 34 anni. Fra Alfieri l'autorizzò ad utilizzare a Lai fine le offerte che gli lasciavano i pazienti ma dispose che, in consonanza con l'impegno di vita comune perfetta che fra Orsenigo aveva sottoscritto nell'agosto 1868, egli consegnasse tali offerte al Procuratore Generale dell'Ordine, fra Giuseppe Maria Cortiglioni, affinché ne formasse un deposito vincolato, il cui annuo interesse fosse "esclusivamente impiegato per le spese del Triduo e festa di Maria SS. ma sotto il titolo del Buon Consiglio nella, Chiesa di S. Giovanni Calibita". Il capitale anelò talmente crescendo che a partire dal 6 aprile 1885 venne deciso di aprire un secondo deposito, ugualmente affidato a fra Cortiglioni ma con destinazione un poco differente, ossia la costruzione di un Ospedale da intitolare alla Madonna del Buon Consiglio e nel quale insediare una Comunità di "perfetta osservanza e vita comune", secondo i criteri di graduale riforma dell'Ordine suggeriti dal Beato Pio IX.

Poiché il Santuario di Genazzano dista appena una cinquantina di chilometri dall'Isola Tiberina, fra Orsenigo ebbe facilità di recarvisi in pellegrinaggio e vi restò affascinato dallo schema compositivo del prodigioso affresco, ispirato alla tradizione iconografica bizantina della Madonna della tenerezza o del dolce amore, detta in greco Glykophilousa, in cui l'affettuoso reciproco abbraccio di Maria e del Bambino ci invita a meditare il mistero di Colei che fu al contempo Vergine e Madre; sovrasta la scena un arcobaleno, che promette pace alle procelle del nostro tormentato itinerario umano. Al ritorno dal pellegrinaggio fra Orsenigo convinse un giovane pittore ad eseguirgli su tela una fedele replica dell'affresco, che per il triduo fu collocata dietro l'altar maggiore della Chiesa del Calibita, tra un profluvio di lumi e di fiori artisticamente disposti.

Durante la festa fra Orsenigo, oltre a far celebrare varie Messe Solenni, invitò una corale per il canto delle Litanie Lauretane dinanzi la copia del quadro di Genazzano e dette istruzione che al termine di esse n'aggiungessero una nuova, ossia quella alla Madonna del Buon Consiglio.

Si trattò di un'aggiunta liturgicamente un po' arbitraria, ma che un giorno fra Orsenigo sarebbe riuscito a far ufficializzare da Leone XIII grazie alla preziosa amicizia di un cardinale e non per meriti suoi professionali, come si sarebbe portati a sospettare, visto che ebbe l'onore di estrarre a tale Papa l'ultimo dente, secondo quanto così ci narra fra Martino Guijarro nel citato articolo spagnolo: "Il Pontefice Leone XIII aveva subito un intervento chirurgico che lo debilitò assai a causa dell'età avanzata. Appena convalescente gli comparve una tumefazione nelle gengive. Era un inizio di alveolo-periostite e occorreva rimuovere il contiguo dente. Furono chiamati a consulto i medici, compreso il celebre Loppini. Erano tutti d'accordo che era necessario un intervento, però il Santo Padre esitava per timore di complicazioni ed accolse con piacere il suggerimento del card. Mocenni di chiamare fra Orsenigo. L'avvisarono per telefono e, con quella stessa santa semplicità del nostro Fondatore quando si presentò a Filippo II e lo chiama fratello, fece fra Orsenigo la sua comparsa dinanzi la dotta assemblea. Informato del problema, disse che era una cosa da nulla, anzi la più facile del mondo. Obiettò il Santo Padre che il parere dei medici considerava necessario un vero intervento. Il cavallo di Troia che ne smantellò la riluttanza fu la rotonda replica, della quale nessuno si sentì offeso, "Questi, Santità, non capiscono nulla". E accostando le dita al dente del Pontefice, glielo rimosse tranquillamente e se lo mise in tasca. Nessuno s'era reso conto di quel ch'era successo, poiché tutti pensarono che fra Orsenigo si fosse limitato ad un atto d'osservazione. Ma il Papa avvertì la mancanza del dente e fra Orsenigo fu obbligato a restituire il maltolto, tra i rallegramenti e complimenti degli astanti".

Oltre all'aspetto liturgico, fra Orsenigo ebbe a cuore di organizzare durante il triduo la distribuzione di pane ad un centinaio di poveri e ad una moltitudine assai maggiore il giorno della festa, per un costo complessivo tra le duemila e le duemilacinquecento lire.

L'attenzione che fra Orsenigo prodigava con i tanti che in città pativano la fame non gli faceva però dimenticare il rispetto per i beni altrui, come mostra il gustoso episodio di quando l'informarono che ad un fruttaiolo, che da Piazza Montanara stava venendo all'Isola col suo carretto, erano cadute varie ceste d'uva, sulle quali era subito piombata una frotta di poveracci per impadronirsi di qualche grappolo, senza curarsi delle urla disperate del proprietario. In un lampo fra Orsenigo si precipitò sul luogo e, afferrata una pertica, la roteò minaccioso sui ladruncoli, che ritennero prudente non misurarsi con quell'omone dai muscoli d'acciaio.

Un altro episodio in cui risultò preziosa l'erculea corporatura di fra Orsenigo fu quello che così narra Petrai: "Una volta, un confratello restò chiuso in uno stanzino dal quale non sapeva più come uscire. L'Orsenigo si appoggiò con le spalle alla porta, - una porta a muro - puntò i piedi e dette una stratta, il muro cedette: la porta si scardinò e il varco fu aperto".

Ovviamente non era solo la forza fisica a rendere popolare fra Orsenigo. La gente accorreva da lui anche per averne consiglio e conforto spirituale e per chiedergli preghiere nella convinzione che erano più efficaci di quelle di altri. Perfino i suoi Superiori gli sottoponevano le situazioni più spinose per avere ispirazione su come risolverle.

Il problema più grosso che fra Orsenigo riuscì a risolvere per i suoi Superiori fu quello del riacquisto dell'Ospedale dell'Isola Tiberina, unico modo di sottrarsi alla pesante ingerenza pubblica e di dare di nuovo in proprietà alla Curia Generalizia la sede che aveva avuto per tre secoli. L'edificio, in forza della legislazione eversiva del 1866, estesa a Roma nel 1873, era stato dichiarato proprietà demaniale il 10 luglio 1875 dalla Giunta Liquidatrice dell'Asse Ecclesiastico, che lo cedette al Municipio di Roma affinché lo utilizzasse come Ospedale Pubblico; il Municipio ne prese possesso l'8 febbraio 1878, ma consentì ai frati di rimanervi a lavorare come dipendenti, giuridicamente considerati non più come religiosi ma come appartenenti ad una semplice associazione laica di infermieri; dopo la presa di possesso l'Ospedale fu gestito per cinque anni direttamente dal Municipio, poi passò il 31 dicembre 1883 alla Commissione degli Ospedali di Roma, la quale venne nel 1891 surrogata dal Regio Commissario Augusto Silvestrelli, che dopo circa sette mesi vendette l'edificio ai Fatebenefratelli.

Bisogna premettere che dopo il 1878 i frati avevano ottenuto dal Municipio di proseguire a lavorare accanto ai malati come dipendenti pubblici, ma questo li aveva esposti a frequenti angherie da parte dei nuovi amministratori laici. Un giorno il Superiore Generale, che era il tirolese fra Cassiano Maria Gasser, se ne era lamentato con fra Orsenigo, che egli chiamava confidenzialmente Battistino, e questi promise di parlarne con un vecchio amico, l'avvocato lodigiano Carlo Scotti, che era allora Consigliere Provinciale di Roma per il Mandamento di Valmontone, affinché verificasse se c'era possibilità di ricomprare l'edificio, unico modo di sottrarsi alla pesante ingerenza pubblica.

L'avvocato Scotti studiò la situazione e tornò presto con buone notizie: la gestione degli Ospedali Riuniti di Roma era in crisi per un grosso scoperto dell'Ospedale Santo Spirito e pertanto il Commissario Silvestrelli, chiamato a risolvere la drammatica situazione, era disposto ad alienare l'ospedale dell'Isola Tiberina, pur di avere immediatamente una caparra di 300.000 lire per sanare lo scoperto ed altre 100.000 alla firma del contratto. Il prezzo complessivo, del tutto adeguato al valore dell'edificio, sarebbe dunque stato di 400.000 lire, al quale andavano aggiunte 40.000 lire in balzelli, per un importo di 10.000 in Comune e di 30.000 in Prefettura.

Fra Gasser ne riferì subito in Consiglio, ma gli obiettarono che era impossibile trovare su due piedi tanto denaro. Fra Orsenigo però non si dette per vinto e convinse il padre Generale ad inviare telegrammi alle Province dell'Ordine, chiedendo loro immediato aiuto per cogliere al volo l'irrepetibile occasione di dare di nuovo in proprietà alla Curia Generalizia la sede che aveva avuto per tre secoli ed allo stesso tempo attuare la direttiva dell'ultimo Capitolo Generale di acquistare un adatto edificio dove garantire autonomia alla Curia.

L'appello ebbe successo: la Provincia Francese offrì 100.000 lire ed altrettanto la Bavarese; 60.000 la Spagnola e 50.000 l'Austriaca. Si potè così stipulare in data 17 marzo 1892 l'atto notarile d'acquisto, che fra Orsenigo firmò come testimone, venendovi individuato con la qualifica di chirurgo dentista. Da un punto di vista legale, le leggi eversive italiane proibivano all'Ordine, in quanto Ente Ecclesiastico, di acquisire immobili, perciò il contratto fu firmato a nome personale da tre confratelli, fra Emanuele, fra Lazzaro e fra Arbogasto, menzionati con i loro rispettivi nomi civili: il medico Federico Leitner, ed i sacerdoti Alessandro Eugenio Berthelin e Pietro Celestino Menétré. Erano tutti e tre stranieri, sia come ulteriore misura cautelare nei confronti del Governo italiano, sia come forma di esprimere gratitudine alle Province estere che avevano prontamente offerto il loro contributo economico. Per inciso, la prontezza della loro risposta dipese dal fatto che l'argomento era stato affrontato nell'ultimo Capitolo Generale, tenutosi nel 1887.

Fin dal primo dei Capitoli Generali, celebrato nel 1587, la loro sede era stata sempre l'Ospedale dell'Isola Tiberina, ma la confisca dell'edificio nel 1878 rese impossibile utilizzare i tradizionali locali e pertanto il Capitolo del 1887 fu dovuto convocare a Venezia per poter ospitare in tutta libertà nell'Ospedale di S. Maria dell'Orto, inaugurato nel 1884 e di proprietà dell'Ordine, l'assemblea dei 27 rappresentanti di tutto il mondo.

Sfogliando gli Atti del Capitolo Generale del 1887, svoltosi dal 14 al 19 giugno, risulta che fin dalla prima seduta il Superiore della Provincia Romana, fra Michele Paragallo, espose "la convenienza che si stabilisse in Roma, una casa internazionale, per premunirsi di un locale nel caso che si venisse costretti ad abbandonare la Casa Generalizia del Calibita". La proposta fu assecondata "da quasi tutti i vocali". L'argomento fu ripreso nella seduta del 18 giugno e "tutti annuirono alla proposta di comperarsi una casa in Roma, senza farvi innovazioni, tenendola nel caso che i Religiosi non potessero più rimanere nella Casa Generalizia del Calibita ".

Se per cinque anni non si dette seguito concreto a tale proposta, fu sia perché non capitò un'occasione adatta, sia soprattutto perché già dal 1885 si era preso a lavorare sull'ipotesi di fondare un Ospedale a Nettuno, distante solo una sessantina di chilometri da Roma e che quindi, nella malaugurata ipotesi d'un esodo forzato dall'Isola Tiberina, avrebbe potuto facilmente divenire la nuova sede della Curia Generalizia. Quando fra Orsenigo suggerì di consultare le varie Province, lo fece perché consapevole della proposta approvata dal Capitolo Generale del 1887 e che finalmente la Provvidenza permetteva di concretizzare nel migliore dei modi, ossia non comprando in città un edificio qualsiasi o riservandosi un'ala dell'erigendo Ospedale di Nettuno, ma ritornando proprietari della storica sede dove in quel quinquennio, pur tra mille angherie, aveva continuato ad essere alloggiata la Curia Generalizia.

L'acquisto dell'Ospedale Tiberino non bloccò comunque il progetto di Nettuno, in quanto rientrava nella strategia elaborata da fra Alfieri per superare la micidiale prova della legislazione eversiva varata dal Governo Italiano contro tutti gli Istituti Ecclesiastici. Fra Alfieri, che fu l'artefice della rinascita dell'Ordine nella penisola iberica, aveva studiato a fondo le ragioni che avevano provocato l'estinzione delle tre fiorenti Province spagnole: il primo colpo era stato dato dalla soppressione degli Istituti Religiosi decretata nell'effimera dominazione napoleonica, quando le Comunità furono obbligate a disperdersi, però, col ritorno al vecchio regime, i frati erano stati poi autorizzati e rientrare nei loro Conventi; quando nel 1835 il Governo, che in quel momento era d'ispirazione massonica, decretò di nuovo la soppressione, i frati si dispersero, ma conservando la speranza che dopo qualche tempo sarebbe stato possibile anche questa volta ricostituire le Comunità; invece gli anni passarono senza che la legislazione cambiasse ed i frati andarono uno dopo l'altro morendo mentre si trovavano ancora dispersi.

La conclusione che fra Alfieri trasse dall'esperienza spagnola fu che l'unico modo di evitare l'estinzione in Italia era di mantenere unite le Comunità e di continuare tutti insieme ad assistere gli infermi, anche se come semplici salariati dei nuovi amministratori laici, nominati dalla Autorità Civili per gestire gli ospedali confiscati ai Fatebenefratelli. Chiaramente tale soluzione rendeva ardua la vita della Comunità, ma era vista come una tappa provvisoria che permettesse di sopravvivere fino al momento di poter organizzare in proprio una qualche nuova attività assistenziale, senza più la pesante dipendenza da amministratori pubblici che spesso erano accesi anticlericali. Quando dunque il Parlamento Italiano approvò la legge eversiva del 1866, fra Alfieri supplicò i Confratelli di restare negli ospedali e di stipulare dei rapporti di lavoro con le rispettive Autorità Municipali, il che fu possibile in varie città e per periodi discretamente lunghi, a Roma fino al 1882 nell'Ospedale San Giacomo, fino al 1891 nell'Ospedale di San Gallicano e fino al 1892 nell'Isola Tiberina, ricomprata in tale anno; a Benevento fino al 1896; a Civitavecchia fino al 1893; a Corneto fino al 1917; a Firenze fino al 1910; a Foggia fino al 1896; a Jesi fino al 1905; a Milano fino al 1885; a Napoli fino al 1890; a Narni fino al 1896; a Rieti fino al 1905; a Salerno fino al 1872; a Sant'Agata fino al 1896; a Tivoli fino al 1923; a Velletri fino al 1903; a Venezia fino al 1902; a Verona fino al 1914; ed a Perugia addirittura fino ad oggi.

Il caso di Perugia si spiega con i buoni rapporti sempre esistiti con le Autorità Civili, tanto che l'iniziale Convenzione firmata con la Congregazione Comunale di Carità il primo gennaio 1873 non ha mai avuto bisogno d'essere modificata. Nelle altre città si arrivò invece prima o poi al punto di rottura perché le Autorità Civili erano spesso massoniche o quanto meno ostili ai religiosi. Quei decenni di precaria e faticosa sopravvivenza di un certo numero di Comunità, permisero comunque ai Fatebenefratelli d'avere il tempo d'aprire nuovi Ospedali di loro proprietà, uno dei quali fu quello di Nettuno di cui, ancora una volta, portò il merito fra Orsenigo.

L'iniziativa partì da un insigne nettunese, don Temistocle Signori, che per quarantenni fu canonico della Collegiata di San Giovanni, nonché arciprete parroco di Nettuno dal 1882 al 1919. Persona di grande iniziativa e profonda cultura, fu lui nel 1882 ad invitare a Nettuno i Passionisti, cui affidò il Santuario della Madonna delle Grazie, e fu lui nel 1899 a fondare la Cassa Rurale di Nettuno "San Isidoro Agricola". Nel 1880 ricevette l'incarico, sostanzialmente onorifico, di Presidente della Congregazione Comunale di Carità, però l'anno dopo, con lettera del 25 settembre 1881, il Municipio gli affidò la gestione del Venerabile Ospedale dei Poveri ed egli tentò d'esimersene, ma l'avvocato Calcedonio Soffredini intervenne presso la Curia Vescovile di Albano affinché lo convincessero ad accettare ed egli obbedì ad una lettera speditagli in tal senso dal vescovo ausiliare monsignor Giuseppe Ingami il 29 ottobre 1881.

Questo Ospedale dei Poveri, inizialmente dipendente dal vescovo e nel 1870, dopo la presa di Roma, consegnato alla Congregazione Comunale di Carità, era praticamente inagibile, come appare dalla descrizione datane dall'avvocato Carlo Scotti: "esistevano soltanto quattro letti sgangherati, a pagliericcio, in un paio di camere di una vecchia casupola posta nell'interno dell'abitato di Nettuno, e tolta la volenterosa assistenza dei medici condotti, tutto il resto mancava sotto ogni punto di vista, e non soltanto da quello dell'igiene, sicché non vi era ammalato che volesse godere di simile ospitalità". Fu questa situazione disastrosa che indusse don Signori a carezzare il progetto di affidarlo ai Fatebenefratelli e di aiutarli a costruirne quanto prima uno più dignitoso. Pertanto in data 30 settembre 1885 egli, firmandosi con la qualifica di Presidente della Congregazione di Carità, indirizzò al suo vescovo, il cardinale teatino Raffaele Monaco La Valletta, la seguente petizione:

"Eminenza, allo scopo di migliorare le condizioni e l'andamento del nostro venerabile Ospedale de' poveri e procurare agl'infermi una più sollecita assistenza curativa e religiosa, questa Congregazione di Carità, nominata dal Municipio è venuta nella determinazione d'invitare alla direzione del detto Luogo Pio il benemerito Istituto de' Fate-bene-Fratelli, che tanto plauso meritatamente riscuote da ogni persona di senno per il nobilissimo ufficio, cui si è consacrato.

I Religiosi del prefato Istituto potrebbero sul momento occupare l'Ospedale esistente adattato per loro uso, ed in seguito colla contribuzione del Municipio e di persone benefattrici erigerne altro in posizione migliore, e più confacente alla cura de'poveri infermi.

Col venire i medesimi in possesso del Luogo Pio si toglierebbe ancora l'inconveniente rimarcato dall'Eminenza Vostra nella Sacra Visita di quest'anno, che cioè le donne abbiano a passare per la sala degli uomini, stante che i Religiosi prendono la cura de' soli uomini, lasciando che per le donne si provveda altrimenti, obbligandosi essi a mantenere due o tre letti fuori dell'Ospedale.

Prima peraltro di entrare in trattative formali col Reverendissimo Padre Giovanni Maria Alfieri, Generale dell'Istituto, la Congregazione da me rappresentata porge umili istanze all'Eminenza Vostra perché si degni presentare il suo consenso, e permettere che il sullodato Istituto possa avere anche in Nettuno una casa religiosa, e regolarsi secondo le norme proprie, e coi soliti privilegi di parrocchialità per i suoi malati.

Ripromettendomi con fiducia L'implorato consenso, La prego perché voglia farne spedire analogo Decreto dalla nostra Curia, corredato della sua Benedizione, e di qualche parola di conforto a' Religiosi perché si accingano a questa nuova impresa di carità verso Dio ed il prossimo.

Prostrato al bacio della Sacra Porpora imploro a nome di tutti la Pastorale Benedizione".

Ovviamente informato dell'iniziativa, fra Alfieri inviò anche lui, in data primo ottobre 1885, questo breve messaggio al vescovo di Albano: "Prima che noi veniamo a stringere col Comune di Nettuno alcun patto all'oggetto di venire all'esecuzione del nostro Istituto, è troppo giusto che imploriamo il di Lei attento beneplacito per essere assicurati di quella protezione, ed esenzione, e di quei privilegi che ovunque la Santa Sede ci accorda ne'suoi Stati sia per riguardo all'Ordinariato, come pel rapporti col Parroco. Noi dunque umilmente imploriamo di conoscere la di Lei volontà, protestandole fin d'ora il sommo piacere che proviamo coll’esser toccati ancora di quell’amorevole protezione che come Vicario ci accordava in Roma: e in attesa di un riscontro, a nome di tutti le bacio la Sacra, Porpora".

Già il due ottobre il cardinale dette il suo assenso con rescritto apposto in calce alle due suddette petizioni, che furono entrambe poi consegnate a fra Alfieri. Su quella di don Signori il vescovo scrisse: "Sono contentissimo, che i fatebenefratelli prendano ad aiutare il piccolo ospedale di Nettuno: sta alla prudenza del loro padre priore generale e del signor arciprete determinare il modo, dopo di che la curia vescovile farà gli atti necessari". Poiché entrambe le petizioni erano state date a fra Alfieri, che evidentemente non aveva ancora avuto modo d'informarne l'arciprete, questi in una successiva lettera inviata al vescovo il 16 ottobre 1885 manifesta, tra altre cose, il desiderio d'aver un riscontro, dicendogli che "riguardo all'affare dei Fate bene Fratelli, se non un decreto, attendo almeno dall'Eminenza Vostra qualche documento che riesca di soddisfazione": al che il vescovo, con lettera del 27 ottobre 1883 gli risponde che "aveva manifestato al Padre Generale dei Fate bene Fratelli il suo gradimento che l'Ospedale di Nettuno fosse affidato ai suoi correligiosi" .

Se a livello della Curia Diocesana il progetto ricevette un'approvazione praticamente istantanea, lunghissimo fu invece l'iter burocratico per ottenere il consenso delle Autorità Civili, per cui fra Alfieri pensò bene d'incaricarne fra Orsenigo, non solo perché aveva amicizie dappertutto, ma anche perché fu deciso di utilizzare proprio per la costruzione dell'Ospedale di Nettuno quello speciale deposito per nuove fondazioni istituito il 6 aprile 1885 e nel quale fra Orsenigo faceva confluire tutte "le spontanee offerte in riconoscenza, delle sue odontalgiche prestazioni" . Non solo tale deposito, grazie allo zelo di fra Orsenigo, divenne la principale fonte di finanziamento del progetto di Nettuno, ma costui si rivelò come il più entusiasta sostenitore dell'iniziativa e fu pertanto meritatamente prescelto anche come prestanome legale per l'acquisto del terreno, la firma delle convenzioni ed il rilascio delle licenze d'esercizio.

Nonostante la buona volontà di fra Orsenigo, passarono quattro anni prima di riuscire a formulare un accordo definitivo con le Autorità Civili. Dagli Atti di Consiglio del Definitorio Generale dei Fatebenefratelli sappiamo che nel dicembre 1887 la pratica era ancora all'esame della Prefettura e si suggeriva a fra Orsenigo di procedere con cautela e sempre d'intesa col Cardinale Protettore; nell'agosto 1888 il Definitorio prendeva in esame il testo di convenzione presentato dal sig. D'Andrea, uno dei membri della Congregazione di Carità di Nettuno, e suggeriva a fra Orsenigo di concordare alcune modifiche; nel febbraio 1889 si concordavano istruzioni per fra Orsenigo affinché definisse l'acquisto a Nettuno di un lotto edificabile.

Finalmente il 28 aprile 1889 fu raggiunto l'accordo e provvisoriamente sottoscritta una scrittura privata, in attesa di stipulare la definitiva convenzione non appena il Comune e la Congregazione avessero ottenuto l'autorizzazione necessaria dalle competenti autorità tutorie, il che avvenne nella seduta del 21 maggio 1889 della Deputazione Provinciale di Roma, che approvò e rese esecutive sia la delibera comunale del primo maggio 1889 che aveva ratificato la convenzione stipulata dal Sindaco di Nettuno Stefano Grappelli, sia la delibera del 25 aprile 1889 della Commissione Amrninistratrice della Congregazione di Carità di Nettuno che aveva ratificato la convenzione stipulata dall'arciprete Signori.

Si giunse così all'atto burocratico finale, quando in data 11 giugno 1889 dinanzi al notaio nettunese Luigi De Luca venne firmata la convenzione ufficiale tra Comune, Congregazione di Carità e fra Orsenigo per la costruzione di un ospedale a Nettuno.

In data 12 giugno 1889, giusto all'indomani della firma della convenzione per edificare l'Ospedale di Nettuno ed in immediata applicazione di essa, fra Orsenigo firmò anche, questa volta congiuntamente al suo Superiore Generale ed al suo Superiore Provinciale, l'atto d'acquisto di una splendida area con vista sul mare, sita all'uscita di Nettuno lungo la litoranea per Anzio, subito prima della Villa Borghese, e ceduta per 38.000 lire dalla Società delle Ferrovie Secondarie Romane.

Avendo la legislazione eversiva italiana privato l'Ordine della personalità giuridica, tutti e tre i suddetti frati firmarono a titolo personale e coi loro rispettivi nomi secolari: Innocente Orsenigo, Angelo De Giovanni e Giorgio Gasser. Trattandosi però di una semplice finzione giuridica, poiché in coscienza essi avevano acquistato non per se stessi ma per il loro Ordine, essi fecero successivamente testamento a favore di altri Confratelli, in modo che in caso di morte la proprietà acquistata non passasse ai propri parenti, ma restasse alla Comunità Religiosa.

Fra Orsenigo redasse in duplice copia il proprio testamento olografo il primo agosto 1890, designandovi i Confratelli Gasser e De Giovanni come "eredi universali a parti uguali ed in specie per tutto che mi riguarda in Nettuno". Tali ultime volontà non vennero mai più modificate e pertanto, due settimane dopo la sua morte, il semplice fogliettino di 17 righe che le conteneva fu pubblicato dal notaio romano Marzio Ambrosi Tommasi in data 29 luglio 1904, repertorio n. 13087, che ho potuto consultare nell'Archivio Notarile di Roma e che è identico alla copia conservata nell'Archivio dei Fatebenefratelli.

Per permettere ai Confratelli di acquistare il terreno di Nettuno, fra Cortiglioni estinse lo specifico deposito bancario in titoli a medio termine, nel quale fin dal 6 aprile 1885 erano andate confluendo le offerte lasciate dai pazienti del Gabinetto Dentistico dell'Isola e che avevano raggiunto l'importo complessivo di 41.000 lire: l'intera somma fu consegnata in contanti e fu interamente spesa per pagare sia il venditore, sia le spese notarili e di registrazione.

L'area acquistata era un rettangolo d'oltre cinquemila metri quadrati, poggiante su uno sperone che s'ergeva di una diecina di metri sul livello del mare ed era formato di macco, una pietra calcarea locale di color giallino assai utilizzala nell'edilizia. Il fronte mare era ampio un quaranta metri ed era delimitato dalla linea ferroviaria, immediatamente oltre la quale correva la strada litoranea, oggi Via Antonio Granisci, snodantesi a breve distanza dalla spiaggia. Verso l’entroterra la proprietà s'estendeva per un centotrenta metri, restando delimitata sul retro dalla stupenda passeggiata alberata di Santa Barbara, oggi Via dell'Olmata, e sul fianco di ponente dalla Via del Colle, oggi Via San Benedetto Menni, che contornava l'immenso parco della Villa Borghese. A quel tempo sul fianco orientale del presente edificio ospedaliere non correva ancora l'attuale strada che il Comune ha voluto giustamente intitolare a fra Orsenigo.

La scelta del terreno era stata concordata sia con la Congregazione di Carità sia col Comune di Nettuno, i cui rispettivi rappresentanti fin dal febbraio avevano collaborato insieme con l’ingegner Giacomo Paniconi, divenuto consulente fiduciario di fra Orsenigo, a definire col rappresentante delle Ferrovie i termini del contratto d'acquisto del terreno.

In base agli articoli 6, 7 ed 8 della convenzione che aveva firmato l’11 giugno 1889, fra Orsenigo, a nome personale e dei suoi futuri eredi, si era impegnato ad acquistare nel territorio di Nettuno un'area di circa 5.000 metri quadrati per costruirvi, nel termine di tre anni ed a tutte sue spese, un ospedale maschile di venti letti e ad organizzare in un edificio comunale un'infermeria per cinque donne; inoltre restavano a suo carico il mobilio, l'attrezzatura medica, le spese di gestione ed i salari del personale; in più, con l'articolo 12 si obbligava ad aprire una farmacia per uso dell'Ospedale ed erogarvi gratis per i poveri di Nettuno medicinali per un valore annuo di 200 lire.

Ovviamente fra Orsenigo assunse tali onerosi impegni in base a due dati concreti: limitatamente alle spese iniziali d'impianto dell'ospedale, confidava di riuscirvi a far fronte con le offerte dei suoi pazienti, ma poiché quel cespite straordinario non poteva certo durare all'infinito, riguardo invece le spese di gestione ordinaria, contava sull'impegno che il Comune e la Congregazione di Carità s'erano assunti firmando la suddetta convenzione, con la quale restavano obbligati a contribuire per sempre alla gestione con una quota fissa annua, per inciso non superiore a quella già da loro finora mediamente spesa e che, per carenza di strutture, non aveva però mai permesso d'offrire alla popolazione un'assistenza sanitaria adeguata per qualità e quantità. Come risulta dalla minuta provvisoria della convenzione, nel corso delle trattative era inizialmente stato ventilato che la Congregazione di Carità desse anche un contributo una tantum alle spese di costruzione nella misura di 40.000 lire, che pensava di ricavare dal vendere o ipotecare alcune proprietà dell'Ente, ma tale offerta fu poi ritirata.

Un'idea del bisogno assistenziale del circondario la possiamo ricavare sia dai dati, certi ma non aggiornati, del censimento del 31 dicembre 1871, che segnalava per Nettuno 2.165 abitanti su una superficie di 8.027 ettari; sia da uno studio di fattibilità che fu presentato al Consiglio Generale dell'Ordine, nel quale si valutava che nell'abitato di Nettuno ci fosse durante i nove mesi della buona stagione un'addizionale presenza di duemila villeggianti e che nelle contigue tenute di Conca e Campomorto fosse impegnato nei lavori agricoli un bracciantato fluttuante di circa tremila persone; inoltre si considerava la possibilità di servire anche i militari dell'istituenda Scuola di Tiro, nonché il comune di Anzio, distante appena un chilometro e la cui popolazione fluttuante si stimava sulle mille persone, oltre ovviamente a quella stabile, che al censimento del 1871 era risultata di 1.932 abitanti su una superficie di 4.312 ettari.

Nel suddetto studio di fattibilità si precisava che, a norma delle Tavole di Fondazione dell'esistente Ospedale di Nettuno, avevano diritto al ricovero gratuito i residenti poveri del paese ed i marinai che venissero sbarcati per infortunio dai navigli di passaggio, ed andavano ovviamente aggiunte le migliaia di braccianti agricoli fluttuanti.

La Congregazione Comunale di Carità, tenendo conto di tali cifre e potendo contare su circa 5.000 lire di rendita l'anno, decise d'impegnarsi, come precisato nel primo articolo della convenzione, a versare mensilmente a fra Orsenigo un importo mensile, provvisoriamente fissato in 300 lire finché egli avesse gestito i ricoveri nel vecchio Ospedale, somma forfetaria con cui intendeva indennizzare tutti i ricoveri gratuiti da lei richiesti fino ad un tetto di 1.600 giornate di degenza l’anno; se per ipotesi tale tetto fosse stato superato, avrebbe corrisposto una diaria di due lire per ogni ulteriore giornata. Nel momento poi che fosse entrato in funzione il nuovo Ospedale, la Congregazione di Carità, tenuto conto che in tale edificio i costi d'esercizio sarebbero stati maggiori, avrebbe incrementato il proprio contributo forfetario mensile a 430 lire. Tale incremento intendeva inoltre, anche se in maniera dilazionata e diluita nel tempo, sostituire in qualche modo quel contributo alle spese di costruzione che era stato ventilato all'inizio delle trattative.

Il Comune, in forza degli articoli 3, 4 e 5 della convenzione, s'impegnava ad aiutare la gestione dell'Ospedale in tre modi: un sussidio annuo di 500 lire, quale corrispettivo dell'obbligo che, in forza dell'articolo 9 della convenzione, fra Orsenigo s'assumeva di tenere aperto due ore il giorno un ambulatorio gratuito per i poveri; la perpetua fornitura gratuita per l'Ospedale di due once d'acqua della sorgente Tinozzi, che già dal 1884 il Comune aveva incanalata in condotti di ghisa per distribuirla in quel versante dell'abitato; la concessione di sei ettari di terreno incolto, da ridurre ad uso agricolo per assicurare un certo approvvigionamento alimentare all'Ospedale.

Riguardo al terzo punto, bisogna tener presente che il Comune, al duplice scopo d'incrementare la popolazione residente e di ridurre a coltura le centinaia di ettari incolti di proprietà comunale, aveva deciso di assegnarne parcelle a chiunque fosse o divenisse cittadino di Nettuno. Per favorire dunque la realizzazione del nuovo Ospedale, il Comune pensò di applicare tale norma, dichiarando cittadini nettunesi fra Orsenigo ed i suoi eredi nella proprietà dell'Ospedale, ammettendoli a tutti i diritti civici e concedendo a tal titolo sei ettari di terreno, in zona da individuare successivamente.

La cessione di sei ettari incolti e sabbiosi in contrada La Seccia fu formalizzata il 23 maggio 1890. Diligentemente fra Orsenigo li fece dissodare e vi fece piantar viti, ortaggi e alberi da frutto, scavare un pozzo, edificare una casa colonica, corrispondendo dunque in pieno alle aspettative del Comune. Per quanto riguarda invece il trasferirsi a vivere a Nettuno, bisogna onestamente precisare che gli fu impossibile farlo in modo stabile, poiché avrebbe significato interrompere la sua attività odontoiatrica all'Isola Tiberina, fonte indispensabile per finanziare i lavori dell'Ospedale, tanto che nel citato articolo spagnolo del 1907 si commenta icasticamente che l'edificio "fu costruito con i denti" . Vi si recò però spessissimo, specie per seguire i lavori, ed a Nettuno volle chiudere i suoi giorni e vi fu sepolto, facendo davvero onore alla sua cittadinanza nettunese, anche se vissuta da perenne pendolare.

Fra Orsenigo s'era impegnato a costruire l'Ospedale entro tre anni e vi riuscì, ma il primo anno se ne andò solo per definire il progetto, già grandioso in partenza e che lo divenne ancor di più quando fu deciso che in un'ala parallela a quella ospedaliera si sarebbero approntati gli ambienti per trasferirvi la Curia Generalizia dell'Ordine ed il Noviziato della Provincia Romana, essendo divenuto sempre più conflittuale il rapporto con gli amministratori pubblici dell'Ospedale Tiberino insediativisi dopo la confisca; tra l'altro, l'articolo 2 della citata legge eversiva del 19 giugno 1873 tollerava che esclusivamente i Superiori Generali in carica conservassero il diritto di abitare nei loca]i delle Curie Generalizie, ma non più i loro successori, perciò alla morte nel 1888 di fra Alfieri, il suo successore fra Gassar aveva dovuto stipulare un contratto d'affitto per continuare ad usare il proprio ufficio. Per inciso, appena fu possibile nel 1892 ricomprare l'Ospedale Tiberino e risolvere il problema della Curia Generalizia, la costruzione a Nettuno di tale ala parallela fu bloccata per sempre, restandone finiti solo gli scantinati.

Nell'attesa di costruire il nuovo Ospedale, fra Orsenigo restaurò e riorganizzò il vecchio Ospedale, avendo l'11 settembre 1889 ottenuto il permesso dei Superiori d'utilizzare a tal scopo le 25.000 lire che s'erano andate accumulando nel deposito creato nel gennaio 1883 per la celebrazione all'Isola Tiberina della festa della Madonna del Buon Consiglio. A Natale del 1889 fra Orsenigo fu pertanto lieto d'informare i due Enti firmatari della convenzione che, giusto a cominciare dal nuovo anno, era già in grado d'accettare ricoveri. Don Signori gli rispose il 29 dicembre: "Mi pregio partecipare alla Signoria Vostra che comunicata la sua del 25 corrente alla Congregazione di Carità, relativamente all'apertura dell'Esercizio di questo Spedale col 1° Gennaio 1890, la Congregazione medesima ha deliberato, nell'adunanza del 26 corrente, nulla esservi in contrario". Il Sindaco di Nettuno, Stefano Grappelli, gli rispose parimenti il 29 dicembre 1889: "Mentre ringrazio la Signoria Vostra della partecipazione della riapertura, col 1° Gennaio entrante, dell'Ospedale e dell'ambulatorio a forma delle convenzioni, mi compiaccio significarle il mio gradimento per la data disposizione, che arriva dopo lunga ma inevitabile attesa a soddisfare ad uno dei maggiori bisogni del paese tanto pei riguardi umanitari che sanitari e igienici".

Nella seduta del Consiglio Generale del 18 dicembre 1889 fu stabilita la seguente composizione della prima Comunità Religiosa di Nettuno: il medico fra Stefano Signorini come Priore, fra Faustino Ghidini come infermiere e fra Bonaventura Bignetti come dispensiere. La Comunità fu posta sotto la protezione della Beata Vergine Maria del Buon Consiglio e di San Giuseppe; con questo titolo viene designata nel prospetto statistico dei 1892, che al primo gennaio fornisce la seguente ampliata composizione della Comunità di Nettuno: Priore e Cappellano, fra Luigi Maria Pozzi; aiutante chirurgo, fra Faustino Ghidini; aiutante farmacista, fra Alessio Piacentini, e per i restanti compiti i confratelli fra Raffaele De Montis, fra Pacomio Benedicto, fra Carlo Maria Grandi, fra Cannilo Benfigli e fra Pio Maria Guidoboni.

In data 13 febbraio 1890 fra Orsenigo chiese a titolo personale dalla Prefettura l'autorizzazione ad aprire anche una Farmacia, che il primo marzo iniziò a funzionare ad uso interno dell'ospedale e divenne poi pubblica, avendo fra Orsenigo rilevato l'11 luglio 1890 la licenza d'esercizio di quella intestata in Nettuno a Cesare Tomasi; la farmacia portava ovviamente il nome di Orsenigo e lo conservò anche quando i Fatebenefratelli nel 1920 lasciarono l'Ospedale di Nettuno, anzi lo conserva ancor oggi, pur avendo ormai gestione autonoma e tutt'altra ubicazione, ossia in Piazza dei Cavalieri di Vittorio Veneto.

Quanto al nuovo edificio ospedaliere, del quale l'ingegner Giacomo Paniconi aveva ultimato il progetto, fra Orsenigo potè infine avviarne la costruzione stipulandone il contratto d'appalto il 22 luglio 1890 con la ditta dell'ingegnere Candido Vaselli. Quello stesso mese iniziò lo scasso del terreno ed il 15 settembre le prime opere murarie.

La prima pietra della costruzione viene posta mercoledì 15 ottobre 1890 con gran concorso di popolo, come leggiamo in questo promemoria dell'Archivio Diocesano di Albano: "La benedizione della prima pietra del magnifico edificio fu fatta con grande solennità dell'eminentissimo Cardinale Lucido Maria Parecchi, Vescovo di Albano Laziale, assistito dal Venerabile Seminario Diocesano, con l'intervento di tutte le autorità civili e religiose di Nettuno, di Anzio e della Provincia. In poco spazio di tempo il maestoso edificio fu condotto a termine da tre lati, con ampia corte nel mezzo, un giardino ed un orto e due casette per i servizi accessori".

Fra Orsenigo seguì personalmente il progredire della costruzione, la cui grandiosità stupiva talmente che qualcuno cominciò a dubitare che sarebbe stato possibile completarla ed il dubbio si diffuse a macchia d'olio, fino a provocare il panico degli appaltatori, come ci narra con gran vivacità un suo amico inglese, Joseph Augustine Englefield: "Mentre stava per terminare la sua fabbrica i suoi appaltatori vennero ad una subitanea decisione di voler essere pagati tutti insieme. Forse qualche cattiva lingua aveva sparso che fra Giovanni stava per fallire, poiché aveva intrapreso un lavoro superiore alla prudenza umana. In ogni modo essi vennero contro il poveruomo con tale mancanza di delicatezza che non si sarebbe aspettato da chicchessia. Allora fra Giovanni dichiarò che non poteva pagare tutti assieme, e che avessero un po' di pazienza. Ma essi dichiararono che non volevano aspettare e che si abusava di loro. Quando i monaci seppero tutto ciò, si rivoltarono contro fra Giovanni che la sua presunzione danneggiava l'Ordine, che Iddio non poteva averlo ispirato di fare un'opera sì gigantesca e rammentandogli che era stato tante volte avvisato di non fare una fabbrica sì colossale. Il poveruomo fu, talmente abbattuto che per cinque giorni rimase come pietrificato senza mangiare e parlare. Egli ascoltò tutti riconoscendo le sue miserie. Era la prova di Dio. Egli mi ha spesso ripetuto che in quella circostanza non faceva che ripetere Signore pietà di me, sono un peccatore. Alla fine la tremenda prova terminò. Una gran somma di denaro venne e con essa la benedizione di Dio. Allora chiamò tutti gli appaltatori e gli disse che sarebbero tutti pagati fino all'ultimo centesimo, ma che gli dessero il tempo di respirare o altrimenti potevano vendere la casa non finita, realizzandone ciò che potevano. Si ritirarono e tornarono col dire che volevano aspettare. Allora tutto cambiò e tutti quelli che lo avevano accusato dovettero lodare quest'uomo che nella tempesta era restato sempre lo stesso".

La costruzione del nuovo Ospedale proseguì in maniera abbastanza spedita, giungendo in un anno al tetto, come possiamo dedurre dal registro di spese, nel quale è annotata un'uscita di 110 lire "a rimborso del pranzo dato e fatto ai 60 operai nella prima domenica di novembre 2891 per la copertura della fabbrica", la qual domenica quell'anno cadeva il primo novembre.

I lavori terminarono nell'autunno seguente. Oltre agli ambienti di ricovero, fu approntata una spaziosa Cappella, con ingresso anche sulla strada. La Cappella disponeva di un altare principale e di altari al centro delle due pareti laterali, rispettivamente dedicati uno a San Giovanni di Dio e l'altro a San Raffaele Arcangelo, che sono i due Santi Patroni dei Fatebenefratelli.

Sugli altari laterali fra Orsenigo collocò due grandi tele: quella di San Giovanni di Dio, collocata sull'altare a sinistra entrando, era un dipinto, firmato e datato 1886, dell'artista romano Marcello Sozzi, ispirato al quadro dell'altar maggiore dell'Isola Tiberina e raffigurante la visione che, secondo la tradizione, il Santo ebbe in Spagna nel Santuario mariano di Guadalupe, ossia la Vergine che gli porgeva il Bambinello affinché lo fasciasse.

Nell'altare di destra entrando, verrà invece collocata una grande tela, firmata e datata 1902, del pittore nettunese Giuseppe Brovelli Soffredini, che raffigura l'Arcangelo San Raffaele con indosso lo scapolare dei Fatebenefratelli e porgendo del pane, in allusione a quell'episodio della vita di San Giovanni di Dio quando, mancandogli il pane da distribuire ai malati, se ne vide offrire una cesta da San Raffaele, apparsogli con uno scapolare analogo al suo e rassicurandolo con queste parole: "Apparteniamo allo stesso Ordine, poiché Dio ci vuole fratelli nella medesima carità. Non affliggerti dunque vedendo di non aver abbastanza per ipoveri, poiché mai si esaurirà la dispensa celeste''.

Come si deduce da una prima uscita di 250 lire "per le spese della benedizione della Cappella", registrata in data lunedì 17 ottobre 1892, fra Orsenigo, anche se il quadro di San Raffaele sarebbe arrivato solo dopo dieci anni, cercò di completare e benedire la Cappella già in ottobre, forse per potervi celebrare il 24 ottobre la festa dell'Arcangelo San Raffaele.

Poco dopo riuscì a terminare anche l'arredamento degli ambienti di ricovero, per cui sabato 12 novembre 1892 fu possibile lasciare il vecchio Ospedale ed inaugurare il nuovo, che venne intitolato alla Madonna del Buon Consiglio, la cui immagine è ancor oggi venerata all'altare maggiore della Cappella: il dipinto ha le stesse modeste dimensioni del miracoloso affresco di Genazzano ed è racchiuso in una cornice decorata con melagrane, quale simbolo dell'Ordine, e circondata da una grande raggiera con nugoli di angioletti, a ricordare che l'affresco originale volò prodigiosamente nel 1467 a Genazzano, "portato da mani angeliche"' che volevano evitarne la profanazione da parte delle truppe turche che stavano per conquistare la fortezza albanese di Scutari.

Il sigillo della Comunità Religiosa della nuova Casa mostrava al centro l'immagine della Madonna del Buon Consiglio e all'intorno la dicitura "Ospedale Orsenigo a S. M. del Buon Consiglio - Nettuno", ma la gente lo chiamava semplicemente "Ospedale Orsenigo", anche perché sul fronte mare dell'edificio spiccava a caratteri cubitali la scritta "Farmacia Orsenigo" per segnalare la Farmacia pubblica che v'era al pianterreno.

Anche dopo finiti i lavori, fra Orsenigo continuò a seguire da vicino le vicende dell'Ospedale ed a venirvi di frequente, anche se mai entrò a far parte della Comunità, che nell'aprile 1893 risultava formata dal quarantenne Priore e Cappellano, fra Luigi Maria Pozzi, arrivato a Nettuno il 30 giugno 1890; dal chirurgo minore fra Faustino Ghidini, di 48 anni ed a Nettuno dal primo gennaio 1890; dal farmacista minore fra Alessio Piacentini, di 47 anni ed anche lui lì dal primo gennaio 1890; dall'infermiere fra Antonino Poletti e dal cantiniere fra Carlo Grandi, entrambi di 44 anni ed entrambi a Nettuno dal 4 novembre 1892; e dal dispensiere fra Bonaventura Bignetti, di 27 anni, Terziario Professo di Voti Semplici e lì dal 13 aprile 1893.

A norma della convenzione stipulata nel 1889, con l'inizio dell'attività nel nuovo Ospedale la Congregazione Comunale di Carità avrebbe dovuto cominciare a adeguare l'importo del sussidio mensile per i ricoveri gratuiti, ma purtroppo, forse anche perché don Signori non n'era più Presidente, il nuovo Presidente Mariano Trofelli non solo si rifiutò di applicare l'aumento, ma aveva addirittura preso l'abitudine di posporre i pagamenti o di dare solo piccoli acconti, tanto che alla fine del 1892 s'era già accumulato un arretrato di quasi 9.000 lire, con la conseguenza che fra Orsenigo, risultati vani i tentativi di conciliazione, si vide costretto a denunciare l'inadempimento della convenzione. La denunzia fu presentata il 10 giugno 1893 ed accolta in Tribunale con sentenza del settembre 1893, confermata nel febbraio 1894 e che dichiarò rescissa la convenzione e condannò la Congregazione di Carità a pagare sia gli arretrati sia la penale, per un importo complessivo di oltre 37.000 lire; fra Orsenigo a quel punto avrebbe potuto subastare il patrimonio della Congregazione di Carità per ottenere tale somma, ma preferì addivenire ad una transazione amichevole, stipulata il 9 luglio 1895 dinanzi al notaio Luigi De Luca, per la quale accettava che il debito gli venisse pagato in rate annuali di 3.600 lire (in pratica l'equivalente del famoso sussidio mensile di 300 lire pattuito nel 1889), poi per ulteriore benevola concessione ridotte alla metà, ossia a 1.800 lire annue.

Va sottolineato che tale generosità di fra Orsenigo era dovuta unicamente al suo cuor d'oro, perché la situazione finanziaria dell'Ospedale di Nettuno era tutt'altro che rosea. Infatti, dal citato rapporto presentato al Capitolo Generale del 1899, risulta che il costo complessivo delle strutture edilizie era stato di 450.000 lire e che, per saldare tale importo e quelli degli arredi, era stato necessario contrarre dei mutui al 4%, che non si riusciva ad estinguere, tanto che a dicembre del 1898 l'ammontare del debito era ancora attestato a 282.796 lire.

Per contenere i debiti, si cercò di incrementare i ricoveri, sia stabilendo convenzioni col Comune di Anzio e con la Scuola d'Artiglieria, sia diversificando la tipologia dell'assistenza ed aprendo in maniera ufficiosa un Reparto per degenze sanatoriali, per le quali fra Orsenigo riuscì infine il 9 marzo 1903 ad ottenere a suo nome l'autorizzazione della Prefettura. D'allora l'Ospedale prese ad essere denominato anche Sanatorio e ce lo testimonia la novella "Va bene", scritta da Pirandello presumibilmente nella primavera del 1905 e pubblicata per la prima volta in "Nuova Antologia" il primo novembre di quell'anno: è ambientata a Nettuno ed il protagonista, feritosi nel Parco dei Borghese, vi si legge che ricevette sette punti di sutura nel "vicino Sanatorio Orsenigo dei Fate Bene Fratelli".

Gli Ecclesiastici ed i Religiosi di Roma, da sempre fedeli clienti del Gabinetto Dentistico di fra Orsenigo, furono tra i primi ad utilizzare il Reparto di degenze sanatoriali che egli aveva allestito nell'Ospedale di Nettuno. anche se per qualche tempo lo fecero in forma privata come ospiti, pendendo ancora il rilascio dell'autorizzazione prefettizia.

Il ricovero che più rallegrò il cuore di fra Orsenigo fu quello, conclusosi nell'aprile 1901 secondo quanto risulta da alcune note contabili, del cardinal Serafino Cretoni, poiché si rivelò il tramite provvidenziale per dar infine compimento ad un suo devoto auspicio covato da decenni, come ci svela questo trafiletto funebre, apparso in una rivista spagnola del 1909 e dovuto alla penna di fra Martino Guijarro: "E' morto il card. Cretoni, Nunzio a Madrid in anni passati e ospite nostro per vari mesi a Nettuno. Con lui condivisi gioie e dolori. Ristabilitosi dei suoi acciacchi, fu nominato Prefetto della Congregazione dei Riti. Fu lui ad ottenere dal Santo Padre Leone XIII che si contentasse il nostro Padre Orsenigo, introducendo nelle Litanie Lauretane la sua invocazione preferita "Mater Boni Consilii". Semplice e buono, Sua Eminenza amò entusiasticamente gli spagnoli. Il cardinal Vives lo preparò a ben morire. Che riposi in pace l'amico sincero degli ospedalieri di San Giovanni di Dio e di tutti gli spagnoli!".

In effetti, non appena il 7 gennaio 1903 il cardinale aveva ricevuto la nomina a Prefetto della Congregazione dei Riti, ossia proprio del Dicastero Vaticano responsabile in campo liturgico, aveva già in marzo, con l'incoraggiamento del Papa, messo allo studio la proposta, che fu approvata il 21 aprile dalla Congregazione dei cardinali e resa poi ufficiale da Leone XIII con decreto del 22 aprile 1903 che prescrisse d'inserire nelle Litanie Laureatane l'invocazione alla Madre del Buon Consiglio subito dopo quella alla Madre Ammirabile. Il decreto fu pubblicato in maggio, trascorsa già la festa della Madonna del Buon Consiglio, per cui solo per la festa del 1904 fra Orsenigo ebbe la gran gioia di dargli applicazione.

Il ruolo svolto nella vicenda da fra Orsenigo fu pubblicamente riconosciuto nel necrologio che gli dedicò nel trigesimo della morte il settimanale "La Vera Roma", in cui si legge: "Nutrì sempre una tenera devozione alla Vergine del Buon Consiglio, celebrandone a tutte sue spese, e con la massima solennità, l'annua festiva ricorrenza; ed a lui si deve che da oggi il popolo cristiano nelle Litanie Laureatane sotto un tal titolo la saluta ed invoca".

Quella del 1904 fu l'ultima volta che fra Orsenigo organizzò la festa all'Isola Tiberina, così descritta in Cronaca Cittadina da "L'Osservatore Romano" del 27 aprile: "Quest'oggi nella Chiesa di S. Giovanni Calibita a S. Bartolomeo all'Isola è stato con pompa solenne celebrata la festa della Madonna del Buon Consiglio, la cui immagine tra lumi e fiori artisticamente disposti, spiccava nel mezzo dell'Altare Maggiore. Nella mattina varii Prelati e dignitari Ecclesiastici si sono recati a celebrare la Santa Messa nella Chiesa, che è stata sempre affollata di devoti. La Messa solenne, accompagnata da scelta musica gregoriana, secondo le ultime disposizioni del Santo Padre, diretta dal Maestro Corani. Capocci, è stata celebrata da S. E. Mons. Ceppetelli Patriarca di Costantinopoli, Vicegerente di Roma. Nel pomeriggio dopo il Panegirico detto dal R.mo P. Ferrini, lo stesso Mons. Ceppetelli ha impartito la Benedizione col Venerabile. I religiosi Fate Bene Fratelli, che durante Vanno distribuiscono a moltissimi poveri la minestra, oggi, in occasione della festa hanno fatto una speciale distribuzione di pane. La bella e solenne ceremonia, è stata celebrata come già da 33 anni, a cura del valente e caritatevole odontoiatra Fratel G. B. Orsenigo, il quale sebbene infermo - a lui che oggi ha voluto levarsi per assistere allo, sua festa si sono rivolti gli auguri più sinceri di pronta guarigione - nulla ha trascurato perché la festa in onore della Madonna del Buon Consiglio riuscisse solenne quanto meglio si potesse".

Per fra Orsenigo quella festa fu in qualche modo il canto del cigno, poiché purtroppo non si realizzò quell'auspicio di "pronta guarigione" formulategli dal cronista de "L'Osservatore Romano".

Anche altri cronisti romani, nel dare resoconto della festa all'Isola Tiberina, evidenziarono i problemi di salute di fra Orsenigo. Quello de "La Voce della Verità" scrisse: "i Religiosi Fate Bene Fratelli, celebrarono, ieri, dopo devoto triduo, con la consueta pompa, la festa della Madonna del Buon Consiglio, a cura di Fr. Giovanni Battista Orsenigo, che testé riavutosi da affezione morbosa, volle rendere anche più solenne la festa".

Per tutto maggio la sua salute non migliorò ed allora fra Orsenigo, sperando che un cambio di clima potesse giovargli, provò a cercar qualche sollievo nel suo Sanatorio di Nettuno, recandovisi questa volta da degente.

Da un necrologio che gli dedicò in morte "Il Giornale d'Italia" apprendiamo che fra Orsenigo trascorse a Nettuno "un mese e mezzo" per "cercar sollievo e cure al Sanatorio da lui fondato, nella speranza di guarire da una ulcerazione allo stomaco". La stessa diagnosi è riportata nel già citato articolo dedicatogli nel trigesimo della scomparsa dal settimanale "La Vera Roma", nel quale si legge che chiuse i suoi giorni a 67 anni, "consunto da un'ulcerazione allo stomaco". Più vago a riguardo è invece il necrologio pubblicato all'indomani della morte da "II Messaggero": "un male allo stomaco minava da tempo la sua esistenza".

Non sappiamo esattamente quando era iniziata la sintomatologia, ma probabilmente durava da almeno un decennio, come farebbe pensare il già menzionato episodio avvenuto durante il Capitolo Generale del 1893, quando misero sul muro un suo ritratto non avendo egli le forze di lasciare il letto e scendere in cortile per la foto ricordo dell'Assemblea. Come già nel 1893, in quelle ultime settimane di vita trascorse a Nettuno fra Orsenigo fu spesso costretto a restarsene a letto per la debolezza. Il suo amico avvocato Scotti così ne descrive drammaticamente gli ultimi giorni: "in seguito a lunga malattia, per la quale era impedita la nutrizione dell'infermo, questi erasi ridotto, il 13 luglio 1904, in stato di debolezza tale da non reggere a qualsiasi fatica e da essere nella fisica impossibilità di scrivere".

Gli fu spesso accanto in quegli ultimi giorni il suo confratello cappellano, fra Martino Guijarro, che dal marzo era anche il Priore della Casa, essendo succeduto in tale carica a fra Stefano Gazzurelli. Fra Guijarro, nel visitar fra Orsenigo, notò con quanto fervore guardasse il quadretto mariano che aveva in stanza e gli ricordò come, giusto due anni prima, anche Marietta, l'eroica adolescente che oggi veneriamo come Santa Maria Goretti, nella ore d'agonia spese nell'Ospedale di Nettuno egli l'avesse vista sempre con lo sguardo rivolto ad un quadro della Madonna che era sul muro della saletta di degenza, anzi ad un certo punto ella aveva chiesto alla mamma se potevano metterla nel letto libero attiguo, che era, più vicino e più in direzione del quadro. La mamma di Marietta, come depose poi al Processo di Canonizzazione, riferì che la fanciulla, vedendo che non esaudivano quel suo desiderio di cambiar letto, commentò: "Perché noti mi volete fare andare con la Madonna?".

L'eroica Marietta, che fra Martino aveva aiutato a morire da Santa invitandola al perdono ed iscrivendola tra le Figlie di Maria, era in quei giorni l'argomento principale di conversazione, in quanto il settimanale "La Vera Roma" aveva promosso una sottoscrizione popolare per erigerle un monumento, che fu scolpito in marmo da Raffaele Zaccagnini ed inaugurato la mattina di domenica 10 luglio 1904.

Giusto quattro giorni dopo quella cerimonia, la sera del 14 luglio, fra Orsenigo entrò in agonia e spirò, come annotato nel suo certificato di morte, mezz'ora dopo scoccata la mezzanotte, ossia quando era appena iniziata la giornata di venerdì 15 luglio.

Ai funerali, come sottolinea il più volte citato necrologio pubblicato dal settimanale "La Vera Roma" nel trigesimo della morte, "i Municipi di Anzio e Nettuno. Le civili e militari Autorità gli resero il tributo della loro stima e della loro gratitudine accompagnandone con solenne pompo, la di lui salma al sepolcro".

Per dare dignitosa sepoltura a fra Orsenigo, il 20 dicembre i Fatebenefratelli di Nettuno acquistarono per 200,10 lire nel Cimitero Comunale un riquadro di 20 metri quadrati, giusto dirimpetto a quello dove era sepolta Santa Maria Goretti, e vi eressero la tomba della Comunità, nella quale hanno riposato per un secolo i resti di fra Orsenigo.

Nel 1929 la salma della Goretti fu trasferita nel maggior Santuario Mariano di Nettuno, dove è oggi venerata ai piedi della Madonna delle Grazie. Si stanno facendo pratiche affinché in quest'anno del centenario anche la salma di fra Orsenigo possa essere trasferita dal Cimitero Comunale alla Cappella del nostro antico Ospedale e riposarvi mirando l'effigie della Madonna del Buon Consiglio, che ancor oggi sovrasta l'altar maggiore.

Anche se dal 1921 i Fatebenefratelli hanno lasciato l'Ospedale di Nettuno, continua però ad aleggiarvi il ricordo di fra Orsenigo, non solo perché una lapide posta nel 1946 nel Salone principale lo ricorda come Fondatore, ma molto più perché il Comune, che per gratitudine gli aveva concesso nel 1889 la cittadinanza, ha voluto intestargli la strada che scorre su di un fianco dell'edificio, esattamente nel lato della Cappellina, tra le cui mura Santa Maria Goretti spese le sue ultime decisive ore, quelle dell'eroico perdono; inoltre ad Orsenigo continua ad essere intitolata la Farmacia di Piazza dei Cavalieri di Vittorio Veneto.






OPERA APPARTENENTE AL FONDO BIBLIOGRAFICO
"100 LIBRI PER NETTUNO" Edizione del Gonfalone 2004
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