1) L'Ospedale dei poveri e marinari di Nettuno
Per avere un'idea di quello che poteva essere l'assistenza sanitaria a Nettuno all'inizio del secolo 19°, e anche il genere di solidarietà che si praticava, è significativo questo documento relativo all'anno 1805, quando è maire di Nettuno Pietro Minelli (1):
1°- Gli ammalati o siano nettunesi o forastieri, ricevuto colla fede del medico e dell'Arciprete della Collegiata, che dovranno farla gratis e poi sottoscritta dal Priore del Luogo Pio, siano tenuti, subito posti a letto, confessarsi.
2°- Che gli infermi o feriti o poveri siano visitati dal Medico e Chirurgo senza pagamento alcuno a tenore dell'antica e immemorabile consuetudine e che l'Ospedale sia obbligato somministrare loro baj quattro al giorno ed al Chirurgo rubio uno di grano all'anno come sempre si è costumato.
3°- Che non si possano ricusarsi gl'infermi o feriti suddetti col pretesto di scrutinarsi prima, se siano poveri o no, ma tal ricerca si dovrà far poi a tenor della mente del Papa Innocenzo XII di Santa Memoria, come dalla Bolla che si conserva nell'Archivio, e nel caso di contravvenzione si incorra da chi farà ostacolo nella pena di scudi tre per ogni volta. Non essendo poi poveri, il Priore o Camerlengo dell'Ospedale possano esigere quanto fu loro somministrato anche per pagare i medicinali e le visite al medico e al chirurgo.
4°- Che non avendo dette persone solvibile danaro pronto per soddisfare a quanto si è detto sopra,, non perciò si possa ritenere gli abiti necessari agli infermi guariti, ma questi si dovranno restituire, contentandosi dell'obbligo scritto di pagare.
5°- Che essendo li forastieri o nettunesi benestanti e comodi e volendosi sperare [curare ?] da loro stessi potranno farlo e l'ospedale sia tenuto a somministrare loro solamente stanza e letto. Se poi saranno marinari si osservi lo stesso perché Santa memoria di Innocenzo XII unì il beneficio di San Nicola a questo luogo Pio anche per vantaggio dei medesimi marinai essendo poveri. Accadendo inoltre che qualche volta si fanno trasportare essendo infermi i condannati ad opus che stanno a Porto d'Anzo, si dovranno ancora ricevere questi e curare, ma però a spese della Reverenda Camera Apostolica come dalla Visita della Chiara Memoria del Cardinal Paolucci Vescovo di Albano.
6°- Perché appartiene all'Arciprete e suo Vice-Curato amministrare i SS.mi Sagramenti agl'Infermi suddetti ed assistenti nell'Agonia come sempre si è praticato così nel caso di morte sia tenuto a far l'esequie con i soliti suffragi senza pagamento., se saranno poveri. Così ancora celebrare per ogni defonto presente cadavere una messa bassa colla limosina di baj 15 che darà lo Spedale, non essendo poveri, possa pagare il solito emolumento.
7°- Che il Camerlengo debba conservare un libro ben legato, dove sia tenuto notare i nomi e cognomi dell'infermi, giorno, mese ed anno, che si ricevano nell'Ospedale e così scrivere il giorno che dal medesimo partiranno o passeranno all'altra vita".
Le notizie che ci vengono dal libro Descrizione Topografica di Roma e Comarca di Adone Palmieri, del 1864, dimostrano che già "Evvi in Nettuno anche un piccolo Spedale, una Congregazione di carità che va questuando, ed un annuale dotazione di scudi 30 della famiglia Soffredini. Tale situazione era pronta a servire le necessità sanitarie di circa 1500 anime insieme all'opera di un medico retribuito con 240 scudi, un chirurgo con 200 scudi ed un'unica farmacia di Tommasi figlio ".
L'Ospedale dei poveri e marinari di Nettuno si trovava tra l’inizio della via Romana e l'attuale "Largo Trafelli", nel caseggiato denominato Ospedaletto, al quale era annessa una propria chiesa, dipendente dell'Abbazia di san Nicola, sotto il controllo del monastero di Grottaferrata.
Successivamente nella stessa zona furono costruite dai Borghese abitazioni civili. Oggi il ricordo del vecchio ospedale è affidato solo alla fontanella posta all'inizio di via Romana, che veniva chiamata "fontana dell’ospedaletto".
Da carteggi della famiglia Soffredini (1870) si evidenzia che le offerte da parte di questa erano nettamente superiori ai 600 scudi romani e tale rendita serviva per curare i forestieri di ambo i sessi che venivano a lavorare le terre dei Nettunesi.
Nel 1872 l'ospedale dei poveri venne sottratto dall'autorità ecclesiatica ed in un lettera autografa del canonico don Benedetto Brovelli si legge delle perplessità sull'andamento e sull'attività di tale pio istituto, essendo stato affidato esclusivamente all'azione del solo camerlengo.
Per gli anni successivi, prima la famiglia Soffredini e poi i Brovelli-Sofrredini, furono sempre al centro dei rapporti tra l'ospedale e la povera gente che gli si rivolgeva con lettere dirette o tramite intercessione di preti o laici.
Una menzione particolare merita la Congregazione di Carità di Nettuno, che fin dall'origine andava presso le famiglie più ricche della nostra cittadina per trovare i soldi e curare i poveri. Tali Istituzioni seguivano le regole dettate dalla legge Crispi del 1890, successivamente modificata dal ministro dell'Interno Giolitti, che tendeva a ricondurre anche l'assistenza svolta a titolo di beneficenza sotto il controllo dello Stato. Giolitti nella seduta alla Camera nel 1903 avvertiva: "l'epoca nostra, che è essenzialmente un'epoca di transizione e di rinnovamento sociale, reclama urgentemente anche la riorganizzazione dell'assistenza pubblica".
Dopo il regio decreto di Vittorio Emanuele III, si deliberava nel Consiglio Comunale di Nettuno che fossero riservate a spese di culto solo 1500 lire, mentre alla Confraternita di Carità rimanevano 5000 lire per l'assistenza sanitaria. In verità già nel 1893 il concittadino Mariano Trafelli, allora presidente della Congregazione di Carità, aveva tentato una trasformazione, ma intervennero una serie di manovre dei gesuiti che riuscirono ad ottenere le dimissioni del Trafelli.
La verità degli effetti della legge fu che, restando sempre soddisfatte le giuste esigenze del culto, dovevano essere elargite somme più consistenti ai poveri di Nettuno.
Un'altra Pubblica Assistenza fu fondata nel 1903 col nome di Principe di Piemonte. Presidente ne fu il barone Francesco di Melhem. La loro opera era completamente gratuita. Nonostante la grande estensione del territorio di Nettuno, l'associazione riusciva a garantire l'assistenza a tutta la popolazione e portare gli ammalati all'ospedale.
Le malattie infettive erano le più pericolose, essendo l'entroterra una zona malarica. La squadra di soccorso partiva con qualunque mezzo per recuperare i malati. Intervenivano anche per incidenti o infortuni sul lavoro e per i malati di mente, in definitiva per ogni sorta di malanno.
Successivamente la Pubblica Assistenza fu dotata di barelle e perfino di un'autoambulanza trainata a mano. Molte calamità furono affrontate dai membri di questa associazione benefica, come durante il colera del 1909 e la famosa quanto triste spagnola del 1918, che seminò una grande quantità di vittime. La loro sede era nel magazzino comunale di Piazza S. Francesco, a lato del campanile.
2) L'Ospedale dei Fatebenefratelli
La prima traccia di una richiesta per avere la presenza dell'Ordine religioso dei Fatebenefratelli sul territorio di Nettuno ci perviene da una lettera inviata il 30 settembre 1885 al cardinale Raffaele Monaco La Valletta, vescovo di Albano, da parte del presidente della Congregazione di Carità di Nettuno, l'arciprete Temistocle Signori. In questa missiva si chiedeva tal vescovo di Albano di intercedere presso il Generale dell'Ordine religioso di Roma, padre Giovanni Maria Alfieri. "I religiosi potrebbero sul momento occupare l'Ospedale dei poveri esistente -scriveva il Signori- ed in seguito, con la contribuzione del municipio e di persone benefattrici, erigerne altro in posizione migliore e più confacente alla cura dei poveri infermi".
Una notizia curiosa viene dal collega dei Fatebenefratelli Salvino Leone, il quale ha rintracciato in un manoscritto dell'Archivio Segreto del Vaticano la notizia che già nei primi anni del 1700 si pensava di risolvere i problemi degli infermi e degli ammalati a Nettuno, affidando l'amministrazione ai Frati Buonfratelli (un sacerdote, due laici, un chirurgo).
L'Ospedale dei poveri si reggeva sulle donazioni, specialmente quelle provenienti dai proprietari terrieri, che avevano molti braccianti da curare.
Interessante è questa lettera inviata dal canonico Carlo Fontana, Rettore dell'Ospedale di Nettuno e dai deputati Giuseppe Trovarelli e Giovanni Moronesi, al principe Borghese.
"Emine(n)tissimo Principe,
II sig. avvocato Calcedonio Soffredini di Nettuno cedeva a favore di questo Ospedale de' poveri un suo credito verso l'universalità dei cittadini di Nettuno rappresentata dal comune per la somma di scudi romani seicento; questa cessione si accettava con atto consigliare del mentovato Comune del 12 luglio 1889; ove inoltre si deliberava di pagare all'Ospedale scudi trenta annui, finché non fossero soddisfatti i ripetuti scudi seicento...... In seguito il sig. Soffredini cedeva
all'Ospedale med.[esimo] una rendita consolidata di Lire cento annue..., vincolato ed intestato Ospitale civile di Nettuno.
Per questi capitali ceduti e donati... il prelodato sig. Soffredini vuole il corrispettivo che nell'Ospedale cioè siano ricevuti e di tutto curati (per quanto il comporta la mentovata rendita) i malati forastieri di ambo i sessi impotenti per la loro povertà a curarsi a proprie spese, i quali vengono a lavorare le terre dei Nettunesi, ed in specie quelle di esso Donante, suoi Eredi, e Successori, e che ne sia stipulato analogo istrumento, onde tutto ciò apparisca. Il canonico Carlo Fontana Rettore del menzionato Ven. Ospedale di Nettuno ed i Deputati Giuseppe Trovarelli e Giovanni Moronesi pregano l’Eminenza SS. Rev.ma, a volergli autorizzare di accettare quella, donazione fatta dal sig. Avvocato Soffredini con la riferita condizione, (la quale d'altronde non può dirsi onerosa, perché al presente ancora per titolo di carità, come ordina il regolamento, si ricevono all'Ospedale i malati poveri e derelitti)…”"
Nel giugno del 1889 venne stipulata la convenzione tra la Congregazione di Carità di Nettuno e Padre Orsenigo, grazie alla quale s'iniziò l'attività sanitaria nel vecchio ospedale dei poveri. Successivamente, per la costruzione del nuovo Ospedale, fra Orsenigo acquistò due lotti di terreno per circa 6.750 mq. al prezzo di 38.000 lire, dalla Società Anonima delle Ferrovie Secondarie Romane, con atto di vendila del notaio di Nettuno Luigi De Luca.
Dalla scarsa documentazione rimasta presso l'Archivio Generale dell'Ordine a Roma, si è cercato di seguire gli eventi che portarono alla costruzione del sanatorio a Nettuno.
Il 28 aprile del 1889 fu fatta la convenzione tra la Congregazione di Carità di Nettuno, presieduta da don Temistocle Signori e il Comune, nella persona del sindaco Stefano Grappelli ed Orsenigo Innocente Giovan Battista, domiciliato in Roma, per "la costruzione ed esercizio di un nuovo Spedale pei poveri in Nettuno". La Congregazione di Carità, amministratrice del vecchio Ospedale dei poveri di Nettuno, si impegnava a versare all'Orsenigo e suoi eredi un mensile di lire trenta libere da ogni tassa imposta e successivamente la prestazione medesima sarebbe aumentata fino a lire 430. La Congregazione dava all'Orsenigo tutti gli utensili esistenti nel vecchio Ospedale senza alcun compenso. Il Comune di Nettuno si obbligava a pagare in perpetuo al frate lire 500 annue per la gestione dell'Ambulatorio da aprirsi a servizio del paese e da tenersi aperto tre ore nella mattina e tre ore nel pomeriggio. L’Orsenigo e suoi eredi si obbligavano da parte loro ad acquistare nel territorio di Nettuno un'area di circa 5000 mq. nella quale costruire nel termine di tre anni a loro spese un Ospedale per gli uomini capace di 20 posti letto ed una camera separata di 5 letti per le donne povere. Si convenne, inoltre, che le parti contraenti la suddetta convenzione potevano effettuare eventuali ipoteche con spese a carico della parte che ne avesse fatto richiesta. L'acquisto di due lotti di terreno di proprietà della Società Anonima delle Ferrovie Secondane Romane per la costruzione del nuovo ospedale a Nettuno fu stipulato dall’Orsenigo nel giugno del 1889 e firmatari dell'atto furono anche padre Gasser (quale Generale dell'Ordine) e padre De Giovanni (futuro fondatore dell'Ospedale di Benevento). Successivamente furono accesi vari mutui e ipoteche per reperire ulteriori fondi, necessari per portare a termine la costruzione dell'Ospedale e il cui pagamento sarà una delle cause di difficoltà gestionale della struttura sanitaria a Nettuno.
Tra il 1890 e il 1891 si ritrovano in archivio i contratti, gli acconti di pagamento e i saldi a favore delle varie ditte, per l'ingegnere costruttore Candido Vaselli, il falegname e l'ebanista Camillo Fantini di Nettuno (che ne ricavò una vera fortuna), il direttore dei lavori ingegnere Enrico Paniconi, oltre ai muratori, ai carpentieri e agli stagnari.
Un valente pittore, Augusto Manfredi lasciò una testimonianza dell'Ospedale in un acquerello del 1891, oggi purtroppo smarrito.
Annessa all'Ospedale vi era una farmacia, ad uso esclusivo interno, com'era buona consuetudine dei Fatebenefratelli, successivamente aperta all'esterno, per tutto il territorio di Nettuno e di Anzio. Il 1° marzo del 1890 venne affidata alla gestione di un farmacista bresciano, Luigi Facchetti. Rimase sulla strada provinciale fino al 1975 ed attualmente è collocata in Piazza dei Cavalieri di Vittorio Veneto, conservando sempre il nome di "Farmacia Orsenigo".
La Chiesa si trovava tra il corridoio dell'ospedale e la strada esterna, con due aperture per poter essere frequentata anche dai fedeli non ricoverati in ospedale.
La ferrovia, che già dal 1884 collegava Roma a Nettuno, passando proprio di fronte al Sanatorio, costituiva un pericolo per le persone che dovevano accedere al mare. Per questo venne costruito nel 1892 un tunnel sotterraneo, eseguito dal sig. Picchioni, che poteva collegare il seminterrato dell'ospedale alla spiaggia, comunicazione ancora oggi esistente, ma completamente abbandonata.
L'architettura è rimasta pressoché invariata fino ad oggi. Sugli altari laterali spiccavano due enormi tele: a destra una raffigurazione di san Raffaele Arcangelo con l'abito dei Fatebenefratelli, opera del pittore nettunese Giuseppe Brovelli Soffredini (terminata il 13 ottobre 1902) ed a sinistra una Vergine che presenta il bambino a san Giovanni di Dio, opera del Sozzi, di cui esiste anche una copia all'ospedale di Benevento. Le tele sono oggi custodite presso la Provincia Romana dell'Ordine. Sull'altare maggiore di detta chiesa spicca ancora oggi l'immagine della Madonna del Buon Consiglio, alla quale era dedicato l'Ospedale.
In un dattiloscritto conservato presso l'Archivio generalizio, a firma di fra Augusto Carreto, si parla di una vigna, data dal Comune di Nettuno all'Ordine, distante 4-5 chilometri dall'ospedale, che tuttavia rimase passiva per molti anni, senza dare mai i guadagni previsti, a causa di infezioni continue di peronospera. Peraltro fu causa di continue dispute con l'Università Agraria.
Nel Regolamento del Sanatorio Orsenigo dei Fatebenefratelli in Nettuno, le disposizioni generali trovate dattiloscritte, a firma del padre Angelo De Giovanni (unico proprietario ed amministratore), presso l'Archivio Generale dell'Ordine, dimostrano chiaramente come la gestione della Casa di Salute fosse molto simile ad un'odierna clinica privata. Dagli scritti del padre De Giovanni, inoltre, si evince la convenzione con la Congregazione di Carità e con l'Amministrazione Comunale di Nettuno. Ad esse venivano applicate tariffe particolari per la degenza. Si potevano ricoverare solo infermi di sesso maschile, con l'esclusione di pazienti affetti da malattie mentali o contagiose e l'accettazione era demandata al direttore dell'Ospedale. Alle donne era riservata solo una stanza per le urgenze, poiché come spesso capitava all'epoca, un altro ospedale era riservato alle donne nella vicina città di Anzio.
La retta giornaliera era di 3 lire per i ricoverati in sale comuni e 3,5 per i casi chirurgici. La camera singola era fissata a 5 lire al giorno. La pensione poteva variare in aumento o in diminuzione secondo il genere della malattia, le esigenze e la condizione degli infermi. Il regolamento dell'amministratore prevedeva che la gestione della Casa di Salute "non aveva scopo di lucro". In realtà somigliava molto all'attuale sistema assicurativo privatistico americano, imponendo all'infermo di pagare un anticipo, corrispondente all'importo di circa 15 giorni con eventuale conguaglio finale.
Tale deposito poteva essere sostituito dalla garanzia di persona solvibile o di una amministrazione pubblica o privata. In mancanza di adeguate garanzie di pagamento, l'infermo poteva essere respinto o congedato.
Il servizio sanitario era assicurato da un direttore, figura di spicco dell'ospedale, con le stesse attribuzioni dell'attuale direttore sanitario. Egli aveva compiti di sorveglianza su tutto il personale medico e paramedico e sul vitto. Aveva, inoltre, l'incarico di accogliere i reclami fatti dai medici, dagli infermieri e dagli infermi, e di trasmetterli subito all'Amministrazione. Questa poteva prendere gli opportuni provvedimenti. Il direttore doveva vigilare che gli infermi venissero trattati con "carità ed amorevoli premure", ma contemporaneamente era tenuto a sorvegliare che non si verificassero disordini o insubordinazioni verso i sanitari (difensore dei diritti ma anche dei doveri del malato).
Due medici-chirurghi, dovevano visitare due volte al giorno i malati e dichiarare "a chiara ed intelligibile voce le prescrizioni per i singoli infermi", il che veniva annotato in apposito libro. Non erano nominati con contratto a vita, né potevano avere diritto ad una pensione, ma si ritenevano in servizio a discrezione dell'Amministrazione. Questo valeva anche per tutto il personale della Casa. Un infermiere capo, con mansioni simili a quelle di un odierno caposala e con mansioni di dirigente del servizio infermieristico, vigilava sul lavoro di un numero non ben precisato di altri infermieri, sul vitto, sui farmaci, ecc. All'ingresso prendeva nota del vestiario dei pazienti e degli oggetti di valore, che venivano consegnati al direttore. Inoltre doveva essere presente alla visita dei sanitari e riferire eventuali fenomeni osservati. Ad un farmacista, la cui nomina spettava all'Amministrazione, competeva di preparare le medicine che venivano somministrate. Un cappellano era incaricato ogni mattina di celebrare messa nella chiesa della Madonna del Buon Consiglio, "cappella dello stabilimento", doveva somministrare i sacramenti ai malati, assistere i moribondi e accompagnare la salma dopo due ore dalla morte nella camera mortuaria, indicando all'infermiere capo la data e l'ora del decesso.
Era previsto del personale in guardaroba ed in dispensa, per provvedere ad ogni esigenza, sia di "casermaggio", sia di provviste con adeguato registro di carico e scarico.
II segnale di una campanella avvertiva il personale della Casa che era giunta l'ora della distribuzione del vitto agli infermi, alle ore 11 e alle 17.
Dal rapporto statistico del movimento degli infermi nell'Ospedale Orsenigo di Nettuno nell'anno 1890, quando era ancora collocato nei vecchi locali dell'Ospedale dei Poveri, il medico dr. Norberto Perotti riporta i seguenti dati: "il numero totale dei ricoverati è stato di 163 unità, tra questi 139 vengono dimessi guariti, 7 migliorati, 13 morti e 6 sono ancora ricoverati. La mortalità è del 7-9% contro una mortalità media degli Ospedali del Regno dell’11-33%. Vengono ricoverate solo 7 donne, ma anche se il dato è mollo esiguo, dimostra una mortalità elevata rispetto agli uomini, questo probabilmente era legato al costume dell'epoca per il quale la donna si ricoverava in ospedale solo a malattia avanzata".
Le cause traumatiche (incidenti sul lavoro, ferite da armi) erano le lesioni chirurgiche più frequenti, mentre tra le forme mediche le infezioni malariche rappresentavano il 30% del totale dei ricoveri, rispetto al 4% degli ospedali romani, poiché il territorio di Nettuno abbracciava zone infestate dalla malaria, come Conca, Campomorto, il Fosso dell'Intossicata, Femminarmorta, Acquapuzza ed altri luoghi non certo salubri della Campagna Romana. La relazione si conclude con un augurio, che all'apertura della nuova Casa di Salute dei Fatebenefratelli si possa ricoverare un maggior numero di infermi ed in appositi locali assistere con caritatevole cura anche i convalescenti di Roma.
4) L'Odontoiatria a fine ottocento
Per meglio comprendere la figura di fra Orsenigo dentista, tra le tante notizie tramandate attraverso episodi reali ed altri leggendari, credo sia giusto descrivere lo sviluppo della branca odontoiatrica nel contesto generale della scienza medica.
L'Odontoiatria (dal greco "odous" dente e "iatrea" cura ) ha una tradizione antichissima e si può dire che nasce con l'uomo. In tutte le civiltà antiche si incontrano tracce della pratica odontoiatrica. Dalle tombe dei Fenici e degli Etruschi sono venuti alla luce apparecchi protesici di pregevole lavorazione. Nelle opere di Celso, Plinio e Galeno si ritrovano numerose osservazioni sulle malattie dei denti e sulla loro terapia.
Senza pretendere di tracciare una storia dell'Odontoiatria che percorra tutte le tappe della civiltà, è necessario, però, fare almeno un accenno al contributo scientifico di alcuni studiosi come Fauchard, autore del Manuale del Chirurgien Dentiste (1728), che segna un passaggio fondamentale nella storia, in quanto consente all'Odontoiatria di liberarsi dalle catene che fino ad allora la vedevano vincolata a bizzarre figure: ciarlatani e saltimbanchi.
Con il nuovo trapano ad archetto e le varie frese e con lo specchietto endorale di Levet (1743), la figura del dentista cominciò ad assumere, anche se con alcune difficoltà, un ruolo sempre più importante nel campo della Medicina, tanto è che lo stesso re di Francia (1759) ritenne necessario avere a corte un dentista personale. Pur avendo Luigi XIV creato in Francia, con decreto reale, la professione del chirurgica dentiste, bisognerà attendere nei vari paesi il 1827 per la costituzione di scuole odontoiatriche, con la nascita di ordinamenti legali della professione del dentista. Nel 1852 in Norvegia venne emanata una legge che obbligava i dentisti a superare un esame di abilitazione, necessario per esercitare la professione. Nel frattempo anche le attrezzature odontoiatriche subirono profonde modifiche: nel 1860 la poltrona cominciò ad avere regolazioni con leve e manovelle, successivamente sostituite con un sistema di regolazione dell'altezza mediante una pompa idraulica azionata a pedale (1877); nel 1866 comparve la sputacchiera (Whitcomb), a cui Jonston (1881) aggiunse un'aspirazione salivare. Nel 1870 Morrison introdusse un modello di trapano a pedale, sostituito da quello elettrico di Williamson nel 1890, dapprima fissato ad un sostegno e successivamente al muro. Da questo periodo in poi si delineo più evidente il "ritorno" dell'Odontoiatria in seno alla Medicina. Il dentista non si limitava più a studiare e curare il solo dente, ma comprendeva nel proprio ambito tutti gli organi della bocca. Divenne, quindi, stomatologia (dal greco "stoma" bocca); si sostituì alla mentalità meccanica del vecchio dentista quella biologica del medico stomatologo.
In Italia, questo indirizzo culturale aveva già trovato applicazione con il regio decreto n. 6850 del 24 aprile 1890, che consentiva l'esercizio dell'Odontoiatria soltanto ai laureati in Medicina e Chirurgia. L'art. 1 del provvedimento appena citato stabiliva testualmente: "Chi vuole esercitare l'Odontoiatria, la protesi dentaria e la flebotomia, deve conseguire la laurea in Medicina e deve essere munito di diploma di laurea in Medicina e Chirurgia". Con tale normativa, in realtà, si voleva sancire la competenza, ma anche la responsabilità, del medico nella cura dell'apparato di masticazione, considerando che l'attività di dentista finiva con l'essere svolta abusivamente da persone assolutamente non qualificate.
I Fatebenefratelli a Milano, fin dal 1785, prima ancora di migliorare l'edilizia del loro ospedale, avevano provveduto a formare professionalmente i Confratelli, essendo così in grado di affrontare le esigenze di un vero ospedale generale. Infatti, un decreto di ammissione dei nuovi candidati, prevedeva prove di idoneità in uno dei quattro campi della loro futura attività: la Chirurgia, la Medicina, la Farmacia e, per la prima volta in assoluto, l'Amministrazione Ospedaliera.
II decreto veniva applicato con tale severità, che lo stesso San Benedetto Menni, quando il 1° maggio 1860 aveva fatto il suo ingresso nell'Ordine, si era presentato portando con sé "una borsa di ferri di Chirurgia Minore, com’era allora richiesto nella Provincia di Milano ai giovani che aspiravano a ricevere il santo abito". E gli fecero fare un biennio di pratica chirurgica, la qual cosa gli riuscì preziosa, quando si prodigò per tre anni come volontario della Croce Rossa, sul fronte della guerra civile spagnola.
La pratica odontoiatrica era un settore regolarmente praticato ed incrementato dai Fatebenefratelli di Firenze. Infatti, dai periodici inventari delle attrezzature di quell'Ospedale, risultano fin dal 1843, in un'apposita stanza "una vetrina a muro con istrumenti odontalgici, una sedia impagliata con salitore di legno per la estrazione dei denti, una cassetta di marmo murata col suo rispettivo scolo per detto uso". Nell'inventario del 1850 si ritrovano "tre cassette di legno dove si conservano istrumenti per estrarre e pulire i denti". Nel 1853 l'apparato dentistico viene migliorato con "una sedia coperta di pelle nera con suo montatoio per l'estrazione dei denti".
Una volta a Roma, il maestro dei Novizi, fra Giuseppe Maria Cortiglioni, inserì nella cartella personale di fra Orsenigo un inventario degli oggetti personali che l'oblato aveva portato con sé, nel quale figuravano, oltre a 38 libri devoti, anche una dozzina di "ferri da denti", segno che, forse fin da Firenze, egli aveva già cominciato ad esercitare l'arte di dentista.
Un fattore di successo del famoso "cavadenti" fu la particolare situazione sociale della Roma del suo tempo. Infatti, specialmente dopo il trasferimento della capitale da Firenze a Roma e l'entrata in funzione dei vari Ministeri con tutto il loro numeroso personale, la popolazione andò più che raddoppiandosi e, senza una corrispondente adeguata crescita dei servizi sociali ed assistenziali, quella miriade di piccoli impiegati, non potendo affrontare le tariffe odontoiatriche dei pochi studi professionali esistenti, non aveva altra risorsa che l'ambulatorio gratuito di fra Orsenigo. Altro fattore di successo fu la grande generosità del frate e la sua grande pratica dentistica. Giunse ad avere una straordinaria sensibilità nelle dita, per cui gli era facile intuire il corretto asse di trazione lungo il quale far forza per estrarre il dente, riducendo quindi al minimo la sofferenza del paziente.
Si racconta anche di una soluzione inventata dall'Orsenigo, di cui non si conobbero mai i costituenti, che serviva per prevenire le carie e le gengiviti.
Definire l'Orsenigo un odontoiatra all'avanguardia, nella fine dell'ottocento a Roma, mi sembra eccessivo, nel momento in cui la chirurgia innalzava ad un vero e proprio compito specialistico la funzione del medico odontoiatra, che tendeva con varie strumentazioni, come trapani, frese, protesi, ad assumere un atteggiamento più conservativo del dente, rispetto al frate dell'Isola Tiberina, per il quale come, dice Piero Scarpa, "la pratica sostituiva la scienza, perciò egli si limitava a strappare i denti e non a curarli".
Infatti anche l'altro giornalista Filiberto Scarpelli, parlando di Orsenigo, scrive: "Padre Orsenigo, così esperto nello sradicare i denti degli altri, se si trattava della salute dei propri si rivolgeva ad un odontoiatra patentato, suo buon e vecchio amico, e precisamente al prof. Moretti, che ha ancora il gabinetto in via del Tritone [Benedetto Moretti, via del Tritone n. 197, tei. 38-64]"(2)
Tuttavia non dobbiamo cadere in quelle provocazioni anticlericali dell'epoca, che definivano il dentista Orsenigo "il maniscalco" dell'Isola. Ciò fece tanto infuriare il frate, che arrivò a dare "un santo sganassone" alla persona che lo aveva offeso, come ha raccontato Giuseppe Petrai.
Questo discreto afflusso di denaro destò reazioni non sempre benevoli, da parte anche di tanti medici della città, i quali imposero a fra Orsenigo di mettersi in regola con la legge: "dette il suo bravo esame all'Università di Roma., conseguì il diploma e continuò a cavare i denti con le mani". La notizia è menzionata dal giornale milanese L'Italia, n. 342 del 1919.
Ma il dato più interessante è l'esame di abilitazione sostenuto da Orsenigo nel 1875, anche se non esiste nessuna documentazione nell'Archivio della Curia Generalizia dei Fatebenefratelli.
Ad evitare ulteriori calunnie e diffamazioni alla legalità dell'ambulatorio dentistico di fra Orsenigo, il conseguimento del diploma fu portato a conoscenza dei pazienti e delle autorità e dei vari mezzi di comunicazione, come è stato dimostrato dall’ing. Gaetano Perrone, che, nell'edizione del 1904 della "Guida Monaci", alla voce "Medici - Chirurghi e Dentisti", ha segnalato:
Orsenigo fra Giov. Battista, de' Fate-Bene-Fratelli,
P. di S. Bartolomeo all'isola 39-40
Nello stesso volume, alla sezione "Comuni della Provincia di Roma", sotto la voce Nettuno, appare citato:
Ospedale Orsenigo e Casa di Salute (Sanatorium).
NOTE
1 - Si tratta di un allegato agli Atti della visita pastorale del 1805 a Nettuno da parte del Vescovo di Albano, esistente nell'Archivio della Curia Vescovile di Albano. Prima et secunda visitatio, fol. 171 v-173 r. E' riportato dal Bibliotecario della casa Generalizia dei Padri Passionisti di Roma padre Adriano Spina C.P. in "Nuove ricerche sullo stato della Chiesa e sulla diocesi di Albano nel periodo napoleonico (1810-1814)", edito da Diocesi di Albano. Studi storici. Albano Laziale, 1995, pagg. 53-54
2 - In Elenco Abbonati ai Telefoni dello Stato - Compartimento di Roma - Anno 1916, Annuari Giani, pag. 223 |