L'epoca di Marcantonio Colonna
Qual è l'epoca di Marcantonio Colonna?
Essendo nato nel 1535 e morto nel 1584, la sua epoca è il sedicesimo secolo, cioè il Cinquecento, dall'Umanesimo al Rinascimento. Gli storici indicano nel superamento della società feudale la nascita dello stato moderno, secondo alcuni nel 1492, in coincidenza con la scoperta dell'America, che sposta l'asse economico dal Mediterraneo all'Oceano; secondo altri, nel 1517, con la riforma protestante di Martin Lutero, che mette in discussione un sistema di governo papale, così fortemente coinvolto nelle vicende del potere temporale. La crisi religiosa che ne consegue si risolverà con la frattura dell'Europa in diverse confessioni e Chiese e, infine, con il dissolvimento dello Stato Pontificio.
La storia degli uomini e delle loro vicende non si presta a semplificazioni di questo genere, che possono essere fatte solo a scopo espositivo e didattico. La storia diventa tale solo dopo che tutto si è compiuto, ma mentre accade, e non è ancora storia, è solo la conseguenza concatenata di fatti precedenti, che, a loro volta, sono la causa e il presupposto dei fatti successivi. Così ogni giorno sembra uguale all'altro e solo successivamente, quando il tempo passato potrà essere osservato come in un cono di luce, che parte dall'alto, tanto più in alto, quanto più il tempo è lontano, quei fatti diventano la storia, "autobiografia della collettività". Certo è che l'Italia si portò addosso per secoli le conseguenze di quello che avvenne in quegli anni, e certi squilibri economici, sociali e culturali, che ancora oggi caratterizzano il nostro Paese, alla ricerca di un federalismo impossibile, affondano le loro ragioni proprio nei diversi governi che le nostre regioni ebbero, governi italiani e stranieri, a partire dal XV e XVI secolo, nel passaggio dal feudalesimo medioevale alla costruzione degli Stati moderni.
Il contesto politico internazionale, alla fine del Quattrocento, era caratterizzato dalle mire espansionistiche di Francia, Spagna, Impero Asburgico e Impero Ottomano. All'interno, la situazione era complicata da una miriade di lotte tra papi, sovrani e signorotti locali. A metà Quattrocento, la caduta dell'Impero Romano d'Oriente aveva spianato la strada all'espansione turca verso l'Europa. L'Italia, con le sue coste e i porti affacciati sul Mediterraneo, era un obiettivo primario delle potenze straniere. Nel 1453, Maometto II, sultano dei Turchi, aveva preso Costantinopoli, ponendo fine, dopo dieci secoli, all'Impero Romano d'Oriente, e di là aveva cominciato a spingersi, prima verso Atene, e poi verso Belgrado. La Serbia era stata presa dai Turchi nel 1459, la Bosnia nel 1463, l'Albania nel 1468. Il Peloponneso era stato occupato interamente nel 1460. Nel 1479 erano stati presi i domini veneziani in Grecia. Ma la minaccia turca non riuscì a creare nel nostro Paese i presupposti per la creazione di uno Stato unitario.
L'Italia, frastagliata in stati e staterelli, spesso in lotta tra loro, priva di un esercito e anche di una politica difensiva, fu assoggettata alle sorti dei vari governanti locali. La stessa frammentazione fu anche causa della mancanza di una politica economica unitaria e rese impossibile, quindi, realizzare un'azione economica competitiva sulle grandi rotte commerciali. Per supplire alle loro debolezze, i governanti si affidarono ora a questa, ora a quella potenza straniera. Bisognerà arrivare alla fine del millecinquecento per avere le prime forme di grandi organizzazioni statali, con eserciti permanenti, diplomazie, apparati burocratici, più vicine all'idea di stato che abbiamo oggi, che non al mosaico di signorie, feudi, possedimenti del medioevo. Molte autorità centrali cominciavano a creare corpi di norme unitarie e uniformi, nel tentativo di spiantare le innumerevoli signorie feudali e le fazioni politiche, che avevano caratterizzato il medioevo.
Lo Stato Pontificio e il nepotismo
Alla fine del 1400, lo Stato Pontificio possedeva un vasto territorio, che andava dal Lazio all'Emilia, attraverso l'Umbria e le Marche e aveva una popolazione di un milione e mezzo di abitanti. Tutta la campagna intorno alla città di Roma era divisa tra proprietà della nobiltà cittadina, dei monasteri e proprietà della grande nobiltà feudale. C'erano poi territori appartenenti direttamente alla Chiesa, che provvedeva alla loro coltivazione assegnandoli ad affittuari o enfiteuti, e quelli appartenenti a proprietari minori locali. La maggiore produzione agricola era quella delle aziende signorili, che approvvigionavano e controllavano anche il mercato della città di Roma. Ciò nonostante, le campagne andavano spopolandosi e le popolazioni rurali venivano ridotte in condizioni sempre più miserevoli.
I grandi proprietari, infatti, non temevano concorrenza sui mercati romani e potevano praticare i prezzi che volevano a una popolazione urbana in costante crescita. Per consentire la coltivazione di terreni abbandonati, nel 1476 il Papa Sisto IV aveva disposto che chiunque potesse occupare un terzo di quei terreni liberi. I nobili feudali si erano ribellati e, in particolare, i Colonna (1), una delle famiglie di grandi latifondisti dell'epoca. Ma il fronte non era compatto e conflitti erano esplosi tra famiglie già divise dalle loro simpatie ora per il papato, ora per l'impero, oppure dalla ambiziosa arrampicata alle più alte cariche nella curia, spesso vendute o concesse dai papi a parenti e nipoti.
Il nepotismo, questa pratica sfrenata di favoritismi, che condurrà progressivamente lo Stato Pontificio al declino, era probabilmente motivata, anche se non giustificata, dalla necessità dei papi di avere intorno a sé persone fidate. In tempi di eserciti mercenari, infatti, i condottieri e i signori proprietari di truppe, per un nonnulla potevano cambiare bandiera e quindi le sorti delle controversie.
Pio II (Enea Silvio Piccolomini, 1458-1464), anche se si distinse per aver dato uno scossone al potere militare dei signori locali, fece cardinali due nipoti, uno dei quali, Francesco Todeschini, sarà a sua volta papa col nome di Pio III. Sisto IV (Francesco della Rovere, 1471-1484), fece cardinali i nipoti Giuliano della Rovere, che sarà papa Giulio II, Pietro e Raffaele Riario. Innocenzo VIII (Giovanni Battista Cybo, 1484-1492) nominò cardinale il tredicenne Giovanni de' Medici, in cambio di ricchi benefici. Alessandro VI (Rodrigo Borgia, 1492-1503) nominò arcivescovo di Valenza e cardinale il figlio Cesare, che già era stato nominato protonotaro apostolico all'età di sei anni da Sisto IV e vescovo di Pamplona da Innocenzo VIII. Giulio II (Giuliano della Rovere, 1503-1513), più militare e condottiero, che religioso, fece cardinale il nipote Galeotto della Rovere. Paolo III (Alessandro Farnese, 1534-1549) nominò cardinali i nipoti Alessandro Farnese, quindicenne; Ranuzio Farnese, tredicenne; Ascanio Sforza, sedicenne e il figlio Pier Luigi, fatto comandante supremo dell'esercito pontificio, duca di Castro, conte di Ronciglione e Caprarola, duca di Parma e Piacenza. L'altro nipote Ottavio, all'età di 14 anni fu unito in matrimonio alla diciannovenne Margherita d'Austria, la figlia di Carlo V. Giulio III (Giovanni Maria Ciocchi del Monte, 1550-1555) nominò governatore di Spoleto e conte di Monte S. Savino il fratello maggiore Baldovino; gonfaloniere della Chiesa il nipote Giovanni Battista, e cardinale il quindicenne Innocenzo del Monte. Paolo IV (Gian Pietro Carafa, 1555-1559) nominò cardinale e segretario di stato il nipote Carlo Carafa. Pio IV (Giovan Angelo de' Medici, 1559-1565) elevò ad alte cariche componenti delle famiglie a lui imparentate dei Serbelloni, Hoenems e Borromeo. Gregorio XIII (Ugo Boncompagni - 1572/1585) nominò il figlio Giacomo, governatore di Castel Sant'Angelo e gonfaloniere della Chiesa. Sisto V (Felice Peretti, 1585-1590), anche se impose alla Chiesa una moralizzazione dei costumi e condannò il nepotismo, tuttavia nominò cardinale il nipote quindicenne Alessandro Peretti. Gregorio XIV (Niccolo Sfondrati, 1590-1591) elevò alla porpora cardinalizia il nipote Paolo Emilio Sfondrati, nominandolo anche segretario di stato. Clemente Vili (Ippolito Aldobrandini, 1592-1605) fece cardinali i nipoti Cinzio e Pietro Aldobrandini e inserì l'altro nipote laico Gian Lorenzo Aldobrandini nella direzione degli affari ecclesiastici, collocando nel Sacro Collegio il figlio quattordicenne di questi. Paolo V (Camillo Borghese, 1605-1621) nominò cardinale il nipote Scipione Caffarelli.
Gli statuti comunali e l'umanesimo
Tra le famiglie in lotta per costituirsi più ampi feudi e rendite, emergevano gli Orsini, vicini al papa, e i Colonna, legati al regno di Napoli.
Papa Paolo II (Pietro Barbo - 1464/1471) difese le libertà cittadine favorendo la redazione di nuovi statuti comunali, che distinguevano le competenze dell'amministrazione comunale da quelle del governatore pontificio e dei tribunali ecclesiastici. Egli aveva anche avviato una politica di sviluppo edilizio e urbanistico, che aveva dato dignità ai poteri comunali, e aveva introdotto in Roma l'arte della stampa. La stessa politica non era stata seguita dal successore Sisto IV, che, invece, aveva imposto un maggiore controllo dell'autorità pontificia sulla gestione cittadina. Egli aveva, però, messo a punto un sistema finanziario molto ben funzionante, per garantirsi una quantità di entrate e per fronteggiare le grandi spese della curia. Le vendite degli uffici curiali, delle nomine cardinalizie e delle indulgenze costituivano i capitoli più fruttuosi del bilancio. Alla morte di Sisto IV, le autorità comunali, appoggiate dai Colonna, si erano accordate per favorire l'elezione di un pontefice che ripristinasse i poteri laici. Nel 1484 era stato eletto Innocenzo VIII, il quale aveva protetto gli interessi dei Colonna, sempre in lotta contro gli Orsini. Non aveva però mantenuto gli impegni presi con il ceto municipale, continuando a nominare direttamente molte magistrature comunali e a venderne altre a persone gradite alla curia. Per ridurre ulteriormente il potere comunale, aveva fatto insediare a Roma una quantità di banchieri e mercanti, provenienti da altre regioni dell'Italia, ma fedeli al papa.
Gli interventi di politica agricola nei fondi amministrati direttamente, o tramite affittuari, dalla Chiesa miravano a garantire flussi di approvvigionamenti a Roma, tali da contrastare il monopolio dei grandi feudatari e moderare così i prezzi. Papa Alessandro VI intervenne pesantemente nell'economia rurale intorno a Roma, cercando di colpire la rendita baronale e di favorire i produttori più vicini alla S. Sede. Per combattere l'opposizione della nobiltà feudale, chiamò alle più alte cariche della curia suoi conterranei spagnoli e parenti, compresi il figlio Cesare e il cugino Giovanni Borgia-Lancol. Per opporglisi, i nobili romani fecero lega con il signore di Ostia, Giuliano della Rovere e il re di Francia Carlo VIII.
L'Italia contesa da Francia, Spugna e Impero d'Asburgo
Nel 1494 il re di Francia Carlo VIII, erede degli angioini, invase l'Italia e si impadronì del regno di Napoli dalle mani del re aragonese. Carlo VIII accettò le sollecitazioni delle forze italiane filo francesi, in vista di una rivendicazione dinastica, cioè i diritti della casa d'Angiò sul regno di Napoli, con il programma di fregiarsi, attraverso la conquista dell'Italia, della corona imperiale. Nelle intenzioni di Carlo c'era anche quella di fare della spedizione italiana un trampolino di lancio per una nuova crociata contro i Turchi. Egli poteva contare sull'appoggio di numerose forze italiane, dai baroni napoletani, agli oppositori di papa Alessandro VI, allo stesso Ludovico il Moro, duca di Milano. Appena messo piede in Italia, re Carlo produsse l'effetto di radicalizzare le contese locali. Ludovico il Moro a Milano tolse di mezzo il nipote Gian Galeazze Sforza, gli oppositori dei Medici a Firenze abbatterono la signoria e proclamarono la repubblica, i baroni napoletani presero il potere e lo offrirono al re francese.
A Carlo VIII reagirono gli stati europei, ma anche Venezia e Roma si coalizzarono contro di lui con la lega antifrancese e con l'appoggio di Massimiliano d'Asburgo e di re Ferdinando d'Aragona. Il risultato fu che già nel 1493, Carlo, battuto dagli spagnoli di Consalvo di Cordova, abbandonava l'Italia, per morire poi nel 1498.
La divisione politica dell'Italia e la sua debolezza militare avevano dimostrato a francesi e spagnoli quanto potesse essere facile ogni tentativo di sottometterla. D'altra parte, il possesso dell'Italia diventava un elemento essenziale per garantire il successo delle loro pretese egemoniche in Europa e sul Mediterraneo. Controllare i tenitori italiani appariva la fase preliminare e necessaria di ogni politica imperialistica. Di qui l'impegno che Francia e Spagna rivolsero, nel primo '500, alla contesa in terra italiana e l'intricata vicenda diplomatico-militare che nacque intorno ad ogni tentativo di conquista della penisola. Il successore di Carlo, Luigi XII, riprese il piano di recupero del regno di Napoli, rivendicandolo alla corona di Francia, in nome dell'antico dominio angioino. A questo, Luigi XII aggiunse le pretese sul ducato di Milano, che, dopo la scomparsa di Gian Galeazze, era governato da Ludovico il Moro. Luigi XII promise a Venezia il possesso di alcune terre della Lombardia, agli Svizzeri la contea di Bellinzona, al pontefice Alessandro VI Borgia un sostanziale appoggio e l'avallo alle mire di conquista del figlio Cesare, impegnato nell'abbattimento di tutte quelle signorie locali dello Stato Pontificio, che intralciavano l'affermazione del potere assoluto del papato. Nel 1500, Luigi XII si accordò con gli Spagnoli per una spartizione del sud dell'Italia in due aree di influenza, una francese e una spagnola. L'esercito del re di Spagna Ferdinando II d'Aragona, "il Cattolico", ebbe la meglio contro gli avversari francesi nel 1503, sul fiume Garigliano, e arrivò ad occupare Napoli. Luigi XII fu costretto a cedere le terre meridionali, accontentandosi del possesso del solo ducato di Milano.
La morte del papa Alessandro VI nel 1503 e l'avvento al soglio pontificio di Giulio Il cambiarono i termini della situazione italiana, prima che le conquiste spagnole potessero consolidarsi. Subito venne meno l'alleanza tra papato e Francia, poi scoppiò una nuova rivalità tra papato e Venezia. In queste vicende si inserì l'imperatore Massimiliano d'Asburgo, che da tempo voleva estendere i propri domini nella pianura veneta, legandosi al papa, alla Francia e alla Spagna. La morte di Giulio II e l'elezione di Leone X (Giovanni de' Medici, 1513-1521), meno propenso alla guerra del suo predecessore, non allentò la tensione. In Francia, Francesco I, succeduto a Luigi XII, riprese il progetto di appropriarsi dei possedimenti milanesi. Con la pace di Noyon (1516), la spartizione originaria della penisola (agli Spagnoli Napoli, la Sicilia e la Sardegna; ai Francesi il ducato di Milano), veniva nuovamente sancita e un relativo equilibrio subentrava nel concerto dei maggiori stati europei.
A riaccendere la contesa nel 1519 fu Carlo V d'Asburgo, che, grazie al danaro dei banchieri tedeschi Fugger, riuscì a ottenere la corona imperiale del nonno Massimiliano. Come figlio di Giovanna la Pazza, regina di Castiglia, Carlo era anche nipote di Ferdinando il Cattolico. Alla morte di questi, nel 1516, quindi, ereditò anche la corona spagnola. Francesco I non poteva accettare questa pericolosa morsa. Ma l'imperatore aveva una profonda ostilità anche tra gli Spagnoli, specialmente gli Aragonesi. Importanza centrale, nella politica di egemonia sull'Europa, svolta da Carlo V, ebbero le numerose guerre che egli sostenne contro Francesco I, per il possesso dell'Italia settentrionale. Nel 1525, a Pavia, i Francesi subirono una grave sconfitta, ma poi trovarono il sostegno della repubblica di Venezia e del papa Clemente VII (Giulio de' Medici, 1523-1534), che si sentivano minacciati dalle mire espansionistiche di Carlo d'Asburgo. Carlo inviò in Italia il suo esercito di mercenari, allo scopo di indurre il papa a staccarsi dagli alleati francesi e veneziani. Nel 1527 i Lanzichenecchi compirono quel saccheggio distruttivo, che è rimasto nella storia con il nome di "sacco di Roma". Francesco I allora venne in soccorso del papa, assediato in Castel Sant'Angelo, ma il doge di Genova, Andrea Boria, con la sua flotta, che prima era al servizio dei Francesi, passò al nemico e arrestò l'avanzata dei Francesi.
Con l'accordo di Cambrai del 1529, Carlo V rinunciava alla Borgogna, la Francia rinunciava alla Lombardia e Firenze veniva restituita ai Medici, dopo una breve parentesi repubblicana. Nel 1530, Carlo V otteneva da Clemente VII la corona imperiale. Oltre ai problemi italiani, egli si trovò a dover fronteggiare due grosse emergenze: il Luteranesimo in casa tedesca e i Turchi all'esterno.
Il pericolo turco si fece particolarmente sentire e suscitò in Europa grande spavento, quando il sultano Solimano, conquistata Belgrado, e sconfitto duramente l'esercito imperiale, comandato dal fratello di Carlo, Ferdinando d'Asburgo, pose l'assedio a Vienna nel 1529. Nel Mediterraneo, il capo dei pirati Khair ad-Din Barbarossa occupava Algeri e Tunisi e di là compiva frequenti scorrerie sulle coste italiane e spagnole. Il conflitto con i Turchi costituì uno dei maggiori insuccessi di Carlo V: alla fine del suo impero, la potenza ottomana era giunta al suo culmine.
La riforma protestante di Martin Lutero
Le tesi di Lutero contro le degenerazioni del papato, esposte nel 1517 alle porte del palazzo ducale di Wittenberg, diventarono presto motivo di opposizione al potere centrale dell'imperatore e movimento antispagnolo e antieuropeista della nazione germanica.
In Francia, alla morte di Francesco I, gli successe il figlio Enrico II, il quale continuò la lotta contro Carlo V. L'imperatore, tenuto alle strette dai protestanti, dai turchi e dai francesi, abdicò nel 1556 a favore del figlio Filippo II, cui andò la corona di Spagna, mentre il fratello Ferdinando I ereditava i domini asburgici e la corona imperiale. Carlo V morì nel 1558. Con lui falliva l'idea imperiale e trionfava l'idea dello stato nazionale.
La riforma luterana influì in modo determinante sulle vicende politiche, sociali ed economiche del secolo XVI, e impresse all'Europa moderna una svolta sostanziale.
Anche se l'epicentro del movimento si collocava nei Paesi dell'Europa centro-occidentale, il suo successo segnò l'inizio del declino del monopolio cattolico sull'occidente intero. Il luteranesimo, dopo aver conquistato i vari principati tedeschi, si affermò anche nel nord Europa, diventando la religione ufficiale della Danimarca, della Svezia e, a sud, per opera di Ulrico Zwingli, in Svizzera. La Chiesa reagì alla riforma protestante con il Concilio di Trento, convocato nel 1536 da papa Paolo III, iniziato nel 1545 e chiuso, dopo numerose interruzioni, solo nel 1563. La Chiesa realizzò, così, alcune riforme interne, che raccoglievano in parte le denunce luterane, ma rispose con una Controriforma, spinta spesso ad azioni repressive di inaudita violenza. Nel 1534 il monaco spagnolo Ignazio di Loyola fondò la Compagnia di Gesù, che elaborò la risposta papale alle tesi dei protestanti.
Il Concilio di Trento non si limitò a pronunciare una indiscriminata condanna delle dottrine luterane, ma fu anche il momento in cui venne sancita la riorganizzazione e purificazione della Chiesa, con l'obbligo dei vescovi di risiedere nelle loro diocesi, il divieto del cumulo dei benefici ecclesiastici, l'obbligo del celibato, il controllo delle gerarchie religiose sui predicatori, l'istruzione del clero. I sospettati di eresia furono perseguitati dal tribunale dell'Inquisizione, fino al rogo di Giordano Bruno, in Campo dei Fiori a Roma, nel 1600.
Il declino della Spagna e la minaccia turca
L'avvento di Filippo II sul trono spagnolo coincise con l'affermazione della nuova situazione politica determinata dal fallimento del tentativo di egemonia degli Asburgo in Europa, dalla spaccatura dell'unità cattolica nel mondo occidentale e dalla ripresa dell'offensiva turca verso l'Europa. Tutti motivi per cui, nel quarantennio di regno di Filippo II, la Spagna conobbe un inesorabile declino. Le regioni interne dell'Europa rimasero coinvolte dalle lotte religiose, mentre al nord, Olanda e Inghilterra sviluppavano i traffici mercantili oceanici, che ne faranno due grandi potenze economiche. I centri che si affacciavano sul Mediterraneo, sotto la minaccia costante dei Turchi, dovettero cedere di fronte a quei centri che, invece, potevano proiettarsi verso le colonie d'oltremare, attraverso l'Oceano.
La situazione che nascerà da questo intreccio di avvenimenti non avrà molto in comune con quella che aveva accompagnato gli inizi dell'età moderna. Le regioni più attive dell'Europa divennero quelle in cui il rafforzamento del potere pubblico, lo spegnersi delle guerre di religione e la conversione dell'economia avanzarono di pari passo. Altrove, cioè nelle regioni meridionali, non investite dalla riforma, e coinvolte nelle spire dell'imperialismo spagnolo, la stagnazione economica diventò cronica e l'evoluzione degli istituti politici fu compromessa da una burocratizzazione senza saldi punti d'appoggio.
A Cateau Cambrèsis nel 1559, Francia e Spagna si accordarono per lasciare a quest'ultima il possesso di gran parte della penisola italiana: Lombardia, regno di Napoli, Sicilia, Sardegna, Presìdi toscani. L'Italia, per il cui possesso furono combattute dalla fine del '400 le lunghe guerre, che si conclusero con la pace di Cateau Cambrèsis, cadeva quasi integralmente nell'orbita del potere spagnolo. I commerci della Spagna con il nuovo mondo le procuravano soprattutto metalli preziosi e terre di popolamento, e il possesso di gran parte della penisola italiana le metteva a disposizione risorse agricole e manifatturiere di notevole importanza commerciale: grano della Sicilia, seta e manufatti lombardi, prodotti orientali veneziani. Ma la presenza turca nel bacino mediterraneo rendeva spesso precaria questa esigenza di scambi e di collegamento, minacciando talvolta direttamente la sicurezza stessa delle regioni spagnole meridionali.
I turchi avevano ormai esteso in modo preoccupante la loro area di influenza. Oltre alle regioni africane, completamente sotto il loro controllo, essi dominavano la penisola balcanica, la Transilvania, la Moldavia, la Valacchia, e l'Ungheria. Per Filippo II, però, la minaccia più diretta era quella che proveniva dalla pirateria barbaresca dell'Algeria, vassalla del sultano turco. Ripercorrendo le orme di Carlo V, egli iniziò la penetrazione nelle regioni costiere dell'Africa occidentale, conquistando parte del Marocco. Nel 1560, però, i turchi sconfissero la flotta spagnola davanti all'isola di Gerbe, quindi invasero Malta, occuparono Cipro, abbattendo la fortezza di Nicosia e successivamente quella di Famagosta.
Nel 1571, per porre un freno all'espansione turca, che ormai minacciava da vicino anche le potenze navali italiane di Genova e Venezia, il pontefice Pio V (Michele Ghislieri - 1566/1572) si fece promotore di una lega antiturca, la Lega Santa, alla quale aderirono ben presto la Spagna e Venezia. Lo stesso anno, la flotta della lega si concentrava a Messina e poi, al comando di Giovanni d'Austria, fratello di Filippo II, partiva alla volta dei territori africani. A Lepanto avvenne lo scontro, che si rivelò favorevole alle navi della lega. Ma la battaglia non fu proseguita in terra d'Africa, per l'opposizione dei veneziani, ai quali premeva soprattutto di conservare le buone relazioni commerciali con i turchi. Tuttavia, dopo Lepanto, questi ultimi, per parecchio tempo rinunciarono a nuovi tentativi d'espansione nel Mediterraneo.
Nato soprattutto grazie all'ampia disponibilità di metalli preziosi forniti dalle colonie americane, l'impero spagnolo non aveva una vitalità interna che gli permettesse di sopravvivere prospero dopo l'iniziale baldanza. Quando la ricchezza in oro e argento dell'America finì quasi completamente ipotecata, a causa dei prestiti non restituiti di Filippo II, la monarchia spagnola non solo fu costretta a dichiarare bancarotta, ma si trovò senza le risorse nazionali per alimentare le grandiose esigenze dell'impero. La Spagna era diventata, in molte sue regioni anticamente prospere, un paese improduttivo. La persecuzione dei ceti economicamente più attivi, l'ampia emorragia di braccia da lavoro, dovuta alle necessità militari dell'impero, la crisi della sua produzione manifatturiera e del commercio, conseguenti all'acquisizione delle colonie, trasformarono la Spagna in un paese parassitario. Da ciò derivò un sempre più intenso sfruttamento e impoverimento dei domini extranazionali e l'instaurazione, da parte del governo madrileno, di rapporti vessatori nei confronti delle regioni di più recente acquisto.
L'Europa a due marce
L'afflusso di metalli preziosi in Spagna, speso tutto per importare beni di consumo, provocò un grande processo di inflazione, noto con la denominazione di rivoluzione dei prezzi: l'oro, infatti, come qualsiasi altra mescé, vale tanto meno quanto più è abbondante. I prezzi, nel secolo XVI quadruplicarono. I borghesi, commercianti, artigiani, proprietari di capitali mobili, non solo non ne risentirono negativamente, ma anzi si avvantaggiarono dell'espansione dei traffici e dell'aumento dei prezzi. Chi risentì maggiormente della crisi, invece, furono i nobili terrieri, che avevano ceduto l'uso della terra in compenso di rendite fisse. Quelli che subirono i costi della trasformazione da agricola a commerciale furono i salariati, le cui retribuzioni non aumentarono in proporzione all'inflazione, e i contadini, ai quali toccò solo una piccola parte dell'aumentato prezzo dei prodotti agricoli.
Alla fine del Millecinquecento, il Mediterraneo italiano e spagnolo, centro della controriforma cattolica, entrò in una fase di profondo regresso, che farà sentire i suoi effetti per secoli. L'Europa continentale e settentrionale, invece, iniziò a registrare forme sempre più intense di affermazione economica e progresso civile.
Qui cominciò a emergere una nuova borghesia di tipo imprenditoriale, mentre nei paesi della fascia mediterranea iniziavano un radicale declino dei ceti nobili e una netta ripresa delle categorie feudali di antica o recente formazione.
Il Rinascimento delle arti e delle scienze
II Millecinquecento non fu fortunatamente solo un secolo di guerre, intrighi, rivoluzione riformista ed eccessi controriformisti, squilibri economico-commerciali e dominazioni straniere.
Il Rinascimento fu così chiamato per lo straordinario fiorire delle arti, come la letteratura, la poesia, la scultura, la pittura, l'architettura, la musica, l'artigianato artistico, che si ispirarono per almeno la prima metà del secolo a canoni classicheggianti. La lingua, dalla fine del Quattrocento in avanti, cominciò ad abbandonare il latino e ad usare il volgare italiano. Nel 1516 Giovanni Fortunio pubblicò le Regole grammaticali della volgar lingua, prima grammatica italiana, basata soprattutto sulla lingua usata da Dante, Boccaccio e Petrarca. Niccolo Machiavelli scrisse nel 1513 Il Principe, che sarà pubblicato postumo nel 1532; la Mandragola, nel 1518; i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, nel 1519; i Dialoghi dell'arte della guerra, nel 1521; le Istorie Fiorentine, nel 1525. Pietro Bembo pubblicò nel 1525 le Prose della volgar lingua, fondamentale per lo studio della lingua e della letteratura italiana e Gian Giorgio Trissini, nel 1528, scrisse Il Castellano, dialogo sulla questione della lingua. Francesco Guicciardini terminò I Ricordi civili e politici nel 1530 e pubblicò la Storia d'Italia in 20 volumi nel 1540. Nel 1532 Ludovico Ariosto pubblicò l'Orlando Furioso. Sperone Speroni pubblicò il Dialogo delle lingue nel 1542. Nel 1550 Giorgio Vasari pubblicò Le vite de'più eccellenti architetti, pittori e scultori italiani. Nel 1573 Torquato Tasso compose la favola pastorale Aminta e nel 1575 terminò la Gerusalemme Liberata.
Ma già verso la seconda metà del XVI secolo, la grande letteratura del Rinascimento mostrò evidenti segni di crisi, per il fatto che l'iniziale ideale di eleganza e di affinamento culturale andò poi decadendo in pedanteria e civetteria.
In architettura si distinsero in questo periodo Donato Bramante (Roma: Chiostro di S. Maria della Pace, Tempietto di S. Pietro in Montorio), Baldassarre Peruzzi (Roma: La Farnesina, Palazzo Massimo), Raffaello Sanzio (Firenze: Palazzo Pandolfini, Roma: Villa Madama), Giulio Romano (Roma: Palazzo Farnese), Michelangelo Buonarroti (Firenze: San Lorenzo, Biblioteca Laurenziana, Roma: San Pietro), Jacopo Sansovino (Venezia: La zecca, Palazzo Corner), Michele Sammicheli (Venezia: Palazzo Grimani), Andrea Palladio (Vicenza: Palazzo della Ragione).
Nel campo della scultura questo fu il tempo di Michelangelo (Firenze: la Pietà, il David, il Mosè, le Tombe de' Medici), Andrea Sansovino (Tombe del cardinale Basso della Rovere e di Ascanio Sforza), Jacopo Sansovino (Firenze: Bacco, Porta della sacrestia di S. Marco), Benvenuto Cellini, orafo e scultore del Perseo. Ma fu la pittura a distinguersi in questo secolo con Leonardo da Vinci (La cena. S. Anna, La Vergine e il Bambino, La Gioconda), Bernardino Luini (Milano: affreschi a Villa della Pelucca e San Maurizio), Gaudenzio Ferrari (Milano: affreschi in S. Maria delle Grazie), Giovanni Antonio Bazzi il Sodoma (Roma: Le nozze di Alessandro e Rossana), Raffaello (Milano: Lo sposalizio della Vergine, Firenze: La velata), Michelangelo (Roma: II Giudizio Universale), il Correggio (Parma: Madonna di S. Girolamo, Danae), il Giorgione (I tre filosofi, La Tempesta, Venere), Tiziano Vecellio (Firenze: Venere, Napoli: Danae, Venezia: l'Assunta), il Tintoretto (Venezia: Il miracolo di S. Marco, La cena), Paolo Veronese (Venezia: Cena in casa Levi).
Il soffio del rinnovamento investì anche la musica. A Venezia, Roma, Milano e, soprattutto, Firenze, nelle case borghesi nacquero nuove melodie, prima solo vocali, ma poi anche strumentali, che presero i nomi di madrigali e di sonette, o canzonette. Nel 1500 l'editore Ottaviano Petrucci diffuse le prime note a stampa, facendo conoscere in tutti i paesi quello che prima era privilegio dei soli possessori di pochi manoscritti musicali. Tra i cultori più insigni del madrigalismo fu il bresciano Luca Marenzio (1553-1599), autore di molti volumi di madrigali, oltre che di musiche sacre, arie e villanelle (Villanelle et arie alla napolitana). Nel meridione si distinse il liutista Carlo Gesualdo, principe di Venosa (1560-1614), nipote di Carlo Borromeo, autore di molti madrigali profani. Le nuove canzoni avevano una lontana affinità col canto dei trovatori d'origine francese, e una larga base popolare. Mentre nelle chiese resisteva ancora la musica polifonica, presso le corti si sviluppò la musica da camera. Fu un periodo di transizione, nel quale convissero per un certo tempo l'antico e il moderno. La musica, che fino ad allora era stata al servizio della liturgia religiosa, cominciò ad affermarsi come arte autonoma. Fu questa l'epoca in cui cominciarono a svilupparsi l'individualismo e il nazionalismo anche nella musica. Dal XVI secolo si cominciò a parlare di musica italiana, francese, tedesca, con caratteristiche molto differenti tra loro. Il centro musicale di Venezia fu la chiesa di San Marco, che ebbe ben due organi. Maestro organista di San Marco fu il fiammingo Adrian Willaert (1490-1562), che compose, oltre a molti madrigali, le Canzoni villanesche alla napolitana, il Quinto libro di chansons e il Terzo libro di canzoni francesi. Ebbe come allievo Andrea Gabrieli (1510-1586), autore di una grande quantità di brani religiosi, oltre a composizioni profane, tra cui le cosiddette grechesche, in un misto di dialetto veneziano, dalmate e greco. Altro Gabrieli, eccellente organista, fu il nipote Giovanni (1557-1612).
Firenze è rimasta memorabile per aver dato i natali al melodramma, cioè l'opera. Nel palazzo del conte Giovanni Bardi aveva preso vita il cenacolo artistico noto col nome di Camerata Fiorentina. Questi fiorentini volevano richiamare in vita l'antica tragedia greca e inventarono questa nuova forma musicale. L'anno di nascita è fissato al 1594, quando alla corte di Bardi si mise in scena una piccola azione musicale, di argomento pastorale, dal titolo Dafne. Nel 1597 il sacerdote modenese Grazio Vecchi (1550-1605) rappresentò la sua composizione L'Amfiparnaso, un madrigale dialogato, che aveva già gli elementi caratteristici dell'opera: la narrazione di una vicenda, la musica, pochi protagonisti in primo piano e molte comparse sullo sfondo. Altri autori che innovarono il madrigale in senso melodrammatico furono Alessandro Striggio (Il cicalamento delle donne al bucato, 1567), Giovanni Croce (Mascharate piacevoli et ridicolose per il carnevale, 1590), Adriano Banchieri (Barca di Venetia per Padova, Festino nella sera del giovedì grasso avanti cena, 1605).
La prima opera vera e propria fu l'Euridice, di argomento naturalmente greco, su testo del poeta Ottavio Rinuccini e musiche di Jacopo Peri e Giulio Caccini. Fu rappresentata la prima volta a Palazzo Pitti nel 1600.
Nello Stato Pontificio, tutti i papi curarono molto l'abbellimento della città e la costruzione di edifici e chiese, con opere di grandi scultori e pittori. Il loro mecenatismo favorì la produzione di una grande varietà di opere d'arte in pittura, scultura e architettura. Verso la fine del XV secolo, Roma era diventata uno dei principali centri umanistici italiani. Paolo II aveva fatto costruire palazzo Venezia e la chiesa di San Marco; Sisto IV aveva costruito le chiese di S. Maria del Popolo, di S. Maria della Pace e di nuovi palazzi. Innocenze Vili aveva completato gli abbellimenti in Vaticano, costruito le fontane di piazza S. Pietro e la chiesa di S. Maria in via Lata. Erano stati chiamati pittori come Melozzo da Forlì, il Ghirlandaio, il Pinturicchio, il Perugino, il Mantegna, il Lippi. Sisto IV aveva fondato la Biblioteca Vaticana.
Come per tanti altri artisti, i papi furono mecenati anche di numerosi musicisti, tra i quali Girolamo Frescobaldi, che con la sua musica, alla fine del secolo, influì sulla cultura protestante. Ma Roma coltivò il maggior musicista dell'epoca: Giovanni Pierluigi da Palestrina (1525-1594), che visse proprio negli anni del lunghissimo Concilio di Trento. Siccome nella fase di decadenza della Chiesa, fra le melodie religiose si erano inserite arie profane, spesso con balletti, esteriorità e virtuosismi, che turbavano la mente dei fedeli, narra la leggenda che un gruppo di cardinali presenti al concilio aveva proposto l'esclusione di qualsiasi musica dalla Chiesa. Un altro gruppo proponeva di affidare a un musicista la composizione di un'opera, una messa, veramente religiosa e al tempo stesso artistica, capace di dimostrare che non già la musica, ma il cattivo uso di essa aveva condotto alle degenerazioni lamentate. Fu scelto Pierluigi e, secondo la leggenda, una notte gli angeli stessi gli cantarono a più voci l'opera, che egli trascrisse e che chiamò Missa Papae Marcelli. L'impressione che quella musica destò fu talmente profonda da far cessare ogni attacco all'uso della musica nelle liturgie sacre. Pierluigi diresse a Roma il coro infantile della Cappella Giuliani. Nel 1554 dedicò al papa Giulio III il primo libro delle sue messe (ne scrisse più di cento), quindi fu assegnato alla Cappella Sistina, fino a essere nominato compositore della Cappella Vaticana da parte di Pio IV.
Napoli contrappose al madrigalismo veneto-fiorentino e alla musica sacra romana, varie forme di canzoni popolari, chiamate villanelle o canzoni villanesche, adattando il contesto polifonico a testi spontanei e vivaci, spesso in dialetto. Il genere si diffuse poi nelle regioni del nord, dove fu coltivato, come abbiamo visto, dal Marenzio e dal Willaert.
Non solo la letteratura e le arti, ma anche le scienze ebbero particolare vigore in questo periodo: nel 1537, il matematico Niccolo Tartaglia pubblicò il trattato La nuova scientia, in cui pose le basi della balistica e Paracelso pubblicò Labyrinthus medicorum errantium, in cui evidenziò i processi chimici del corpo. Nel 1540 fu pubblicato il trattato di metallurgia De la pirotechnia di Vannuccio Biringuccio e il primo manuale sulle tecniche di tintura dei tessuti Plichto dell'arte de' Tintori di G.V. Rossetti; Camillo Vettelli di Pistoia costruì la prima pistola; l'arcivescovo Piccolomini a Venezia pubblicò il trattato astronomico Della sfera del mondo. Nel 1542 Andrea Vesalio scrisse il trattato di anatomia umana De Humani corporis fabrica. Nel 1543 l'architetto Bastiano da Sangallo realizzò la prima scena mutevole del teatro moderno. Nel 1546 Michelangelo progettò la cupola di San Pietro. Nel 1549 il medico Leonardo Fioravanti eseguì la prima operazione di asportazione della milza. Nel 1550 Gerolamo Cardano perfezionò la camera oscura e lo storico e geografo Leandro Alberti pubblicò la Descrizione di tutta l'Italia. Nel 1551 l'astronomo Erasmus Reinhold pubblicò le Tabulae Prutenicae e nel 1553 Francesco Antonio Pigafetta pubblicò la Relazione del primo viaggio intorno al mondo. Nel 1565 Bernardino Telesio pubblicò il De rerum natura iuxta propria principia, in cui sosteneva che la natura va studiata secondo i propri principi e non seguendo le erronee e superate dottrine del passato. Nel 1577 Guidobaldo del Monte scrisse il trattato Mechanicorum Libri IV. Nel 1586 Simone Verovio ideò un nuovo sistema di stampa musicale su lastre di rame.
Lo stesso spirito innovatore si diffuse in tutti i tenitori dello Stato Pontificio, dove cardinali, beneficiari e affittuari ecclesiastici si diedero a trasformare antiche strutture medievali in ville lussuose e verdeggianti, amplificando la committenza di pitture, sculture e architetture, fino a degenerare, alla fine, in quel gusto ridondante, che nel Seicento farà scadere il Rinascimento raffinato nel Barocco più pacchiano.
BENEDETTO LA PADULA
NOTE
1 - I Colonna hanno una parte importantissima nella storia di Roma e detta Chiesa, spesso in lotta con i pontefici e con altre grandi famiglie nobili romane, come i Castani e soprattutto gli Orsini. Fra i vari rami in cui i Colonna sono divisi in quest'epoca assume soprattutto importanza quello di Paliano, esistente fin dal secolo precedente, come ramo di Paliano-Genazzano, ed eretto in principato da Pio V nel 1570. Nel 16° sec., oltre a Prospero e a Fabrizio, si distinguono Marcantonio I, Ascanio, figlio di Fabrizio, e il figlio di lui, Marcantonio II, l'ammiraglio vincitore della battaglia di Lepanto nel 1571.
I Colonna sono signori di Nettuno dal 1426, quando papa Martino V (Oddone Colonna) assegna il possedimento al nipote, cardinale Antonio Colonna. Nel 1501, papa Alessandro VI (Bargia) espropria i Colonna e da tutto il feudo al nipote Rodrigo Bargia, bambino, facendolo amministrare dal figlio Cesare, il Valentino. Alla morte di Alessandro VI, poi, nel 1504, Nettuno ritornerà ai Colonna, per altri novant 'anni.
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