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CHIAREZZA CRITICA
NELL'OPERA DI
LAMBERTO CIAVATTA

a cura di

ARCANGELO JURILLI

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Chiarezza critica

 

A ME PARE che parte della critica saggistica sull'opera di Lamberto Ciavatta abbia aperto uno spazio vuoto non impegnato dalla valutazione storico-estetica, là dove afferma che in questa opera tutto è fortuito, causale o automatico; che la sua " genialità (è) ricca di umori tradizionali (?), ma spinta da velleità avveniristiche "; che l'artista " coordina le sue orditure secondo un accordo regolato da un istinto ".
Linguaggio critico questo ossidato da intemperie culturali. Sì, lo so. La critica, scomparsi Croce e Venturi, s'è lasciata contaminare dalla metodologia perimetrale dell'estetica nord-americana, secondo la quale l'Io, misura di tutte le cose, viene sostituito dall'Io-oggetto cui l'artista non può far altro che prendere le misure come un sarto.
Automatico Ciavatta è stato detto. Ma automatismo in psicologia (e in arte e in critica) è non libera laborazione di pensieri, gesti, modi, eloquio imposto da un ingranaggio di laboratorio mentale. Da qui deriva il processo della reiterazione di repertorio filologico della critica formalistica, o complicata ed estrosa come un ciclotone, o incasellata a gruppi d'appunti nello schedario, o banale e sciatta come un luogo pubblico di decenza dove continuamente si sente scorrere la solita convenzionale idiomatica della " composizione ", della " impaginazione ", della " scansione ", della " campitura ". Questo è automatismo.
Qual'è poi il criterio critico per distinguere obbiettivamente la " velleità avveniristica " dall'antiveggenza? Velleitario venne qualificato all'inizio tutto l'impressionismo francese, e l'Olimpia del caposcuola Manet ora al Louvre, venne respinta nel 1865 dalla giuria della mostra. Perché? Perché lo slancio di ogni nuovo ordine deve essere trattenuto nell'ambito della provincia culturale da quel giocattolame del sapere che ha preteso di chiudere l'ingresso a Kandisky, a Braque, a Burri... Stia quieto, Ciavatta. Non sente il fenomenologismo che sale dalla strada mescolato ai rumori della cucina e a quello delle interiora? Senta me. Non me, Leonardo. Negli Scritti lui racconta d'una volta che fece una pittura di donna circonfusa di divinità " la quale comperata dall'amante di quella, volle levare la rappresentazione di tal deità, per poterla baciare senza sospetto ". E commenta: " Or vedi tu, che, se il pittore vuoi fincere diavoli dell'inferno, con quanto abbondanzia d'invenzione egli trascorre ".
Al contrario una delle virtù predominanti in questo artista, è l'unificazione triunitaria della cultura, della coscienza e della strutturazione. Mai l'angoscia individuale e sociale così diffusa nell'arte gli è colata " casualmente e fortuitamente " sulla mano mentre dipingeva col sudore sulla faccia. Altro che " accordi e orditure "! La privazione della sintassi psichica la percepisce e la soffre verticalmente, e alla fine, incontenibile per eccesso, la espelle sulla tela, come la madre espelle dal ventre una creatura sul letto bianco che si macchia delle acque delle sue viscere. La sua violenza formale e cromatica non è fine a sé stessa, ma è associazione e scelta necessitata e perentoria, dirò di più, è storicizzazione plastica vocata da vortici umani fuoriusciti da esplosioni di pathos. La luce non viene da un'altra stanza, ma abbacina dall'icone in una successione di momenti di verità folgorate. Si potrebbe dire che i Profeti di Sion, se fossero stati pittori, si sarebbero lamentati con la stessa plastica veemenza. " Questo è un giorno d'angoscia, di rimprovero e di bestemmia - dice il Profeta Osea -. Perciò il giudicio germoglierà come tosco sui solchi dei campi ". Non c'è nell'artista l'eco di questa voce? La sua protesta dalla soglia della casa devastata non ha gli stessi accenti di dolore? Non sì abbevera anche lui alla fonte intorpidita della coscienza?
L'arte per lui è l'unico modo di pensare e di vivere il suo pensiero. E non c'è verso che si possa placare, nessuno che possa trattenerlo, neppure il materico carbone che invece ha incorporato nel divino e vedremo come e perché. La brutalizzazione dell'opera Sento il mio tempo non si esaurisce qui, in questo posto, come nel cosiddetto neo-concretismo isolato nella sua sostanza fisico-chimica di scafandro pressurato pittorico, ma è andata di là, all'autre cote de la rivière, è andata all'altra sua opera Salviamo l'umanità nella quale il plasma cosmico riorganizza le forme fuori dal Caos. Pittura presente e distaccata, grezza e raffinata, repulsiva e attirante, chiusa ed emanante, implacabile e sempre in atto di volersi partire verso regioni sconosciute. Pittura conflagrata, barbara e ad un tempo eroica. Se Vaction paiting ha un senso, c'è un'azione che trasborda dall'organo che la conclude.
La segnica e il tachismo, riflessi nella retina dell'osservatore, stentano per vero a trovare la via dell'intelligere. Non è colpa sua. Perché l'osservatore, in tanto trambusto e dissipazione, ha perduto l'intelligenza della sua realtà. Ciavatta è un albero dal tronco tormentato nella democrazia del bosco pittorico, ma la sua pianta è quella di Pier delle Vigne, il cui ramo spezzato da Dante nel Canto XIII dell'Inferno, lascia cadere sangue e lamento. I suoi fantasmi vaporano da un sottofondo di tristezza, e questa è vaga come il mare, imprevedibile per la distanza e gli abissi: è il motivo espresso nell'opera Gravitazione e ascesi nella quale forme difformi cadono in basso e si slanciano in alto metà umane e metà elementi. Il motivo si ripete nelle variazioni del nero, impiegato a piene mani dai tedeschi nel secolo scorso, e per lui è emanazione della notte dell'anima, quella di S. Giovanni della Croce nella quale la coscienza viene avviluppata. Si osservino le altre due opere I passi e Livido Presagio. In questa ultima una massa orizzontale di ombre vaghe, spinta da un'atmosfera sconvolta, fugge in atteggiamento disperato, e pare siano pezzi di carta e di cenci sorpresi dall'uragano in un vicolo, e invece è un pezzo d'umanità.
Quando ho contemplato i suoi dipinti del periodo Salviamo l'umanità, è stato immediato il contatto con tutti coloro che si sentono rubati, rotti e nascosti fuori la circonferenza del sé. Giacché lui ha mostrato come la luce dell'anima può mutarsi in uccello notturno. Il suo espressionismo coglie tracciati di sguardi sinistri e di pensieri carnivori. Le sue macilenti larve umane non sono amletiche, ma emergono dal limite della rovina per mostrarci come l'uomo viene rosicchiato da una muta di uomini. In questi saggi vi sono mucchi compatti di detriti che sono porzioni di volti, digitali di fango, spolverature di cenere, striature di luce, visualizzazioni di idee radicali. Se io dicessi a Ciavatta: Senta, mi traduca in termini mantici icastici il brano di Ezechiele 23-29 dell'Antico Testamento; " Essi (la muta) procederanno teco (con l'umanità) con odio e rapiranno tutti i tuoi beni e ti lasceranno ignuda e scoperta; e sarà palesata la turpitudine delle tue fornicazioni e la tua scelleratezza e i tuoi puttanesimi " - se gli chiedessi questo, la sua mano si metterebbe a saltare impazzita sulla tela. E su questa tela si vedrebbe l'oscurità cadere sulla luce e la luce sull'oscurità, il maniaco brillare di occhiate e di denti, i colorì di apparizione slabbrata che " bussano alla porta di Macbet ", e sgorghi di fiele, nidi dì fuochi esasperati, declinazioni frangiate di sensazioni, rifugi stupiti di silenzio, angolazioni che chiudono l'idea come una sentenza.

 


 

DOPO AVER DATO uno sguardo ai visceri dell'uomo Ciavatta, tentiamo una perquisizione esegetica approfondita sullo stile e sulla tecnica, rifuggendo dall'infilnare nel filo critico perle coltivate in serie.
Il problema più difficile a risolvere nell'arte visiva contemporanea è l'adeguamento del nucleo lirico alla struttura, perché frequentemente l'excursus dell'idea primaria suole straripare in sovrastrutture, oppure rimane allo stato di crogiuolo che bolle sotto il coperchio della struttura. Nel campo pittorico di Ciavatta vi è una circolarità calcolata e impensata che dalla pluralità si accentra nell'unità. Le quantità sono continue ed estese, tutte tendenti ad un fine. La cosiddetta " scuola dello sguardo " non è sufficiente a cogliere il suo plenum, perché numerose sono le finestre socchiuse o spalancate sull'immagine, mentre la quantità di ogni variazione di arte realista e neo-realistica e in re e de re.
Il suo disegno non ha la parrucca arruffata e incolta, non ha peli superflui e il suo colore non è sebo che incrosta l'icone, come comunemente ci accade di vedere, perché la linea e il colore travalicano gli argini anatomici.
Tanto la grafica quanto la pittura hanno la logica del diagramma trasferito dall'attività psichica a quella estetica. Pertanto chi ha parlato di " istinto " in quest'arte, ha, come al solito, giocherellato con le parole, mentre le parole, specie quelle della critica d'arte, dovrebbero uscire dalla penna con cautela come i biglietti dallo sportello della banca.
Il nostro artista sa bene - e lo dimostra nelle sue opere - quale funzione stilistica assumono oggi la valenza disvalente dei piani, l'armonia dei forti contrasti, i colori fondamentali che travolgono i colori complementari.
Il suo espressionismo non sbanda in un pipistrello senza meta, come l'espressionismo di Ensor e di Giacometti, ma quando si disgrega in squarci, ondate, voli e cadute, organizza qualcosa ben visiva che può essere ed è la compresenza di una entità, d'un verbo, d'un logos.
Il pigmento è fuliggine limo e creta? la sagoma è rocciosa? gocce di nitrato sono state versate sull'effige? Vi è sempre un componente d'omogeneità che conclude il traboccamento e il delirio.
Certo lo stile e la tecnica sono aliene da cadenze strofiche. Ma dove sono le strofe nelle opere dell'uomo attuale? Eppure nel registro di timbri e toni ci sono sempre attimi di sospensione, perfino col fiato mozzo, quando utilizzando l'esperienza informale e neo-figurativa, chiama il fumo, il fango, la roccia, il nitrato ad organizzare una plastica atta a preformare una fronte, un occhio, un labbro, emersi da un abisso puro. Sono questi grumi di crome, questi segni di croste e lapilli cosmici i protagonisti d'un nuovo gruppo di pressione stilistico non meno che concettuale nell'azione e nel sogno.
A questo punto cade l'opportunità di passare al vaglio critico il neofigurativo ciavattiano. Burri che da medico aveva guardato le feci e il sangue, e da combattente nella trincea ancora feci e ancora sangue (ed è facile assimilare nella mente ogni altro orrore), da pittore ha provato l'abborrimento per la figura umana conclusa e la sede divorante di ridurre la coscienza e la forma ad una condizione nativa. Esclusa l'iconografia umana, doveva essere la purezza rarefatta ad assorbire la fisicità opaca di ogni carne e di ogni cosa.
Ma noi siamo latini e per di più mediterranei, e non ci è facile scrollarci d'una civiltà della forma che va dalla grecità all'umanesimo ed oltre. Attenuatesi il senso dell'orrore, gli astrattisti hanno cominciato a far ritorno, esitanti e mogi, alla casa paterna. Da quel tempo e fino ai nostri giorni s'è avvicendata una successione ininterrotta di neo-figurativo svariatamente estratto, spesso ibrido e contaminato, con l'intento di tentare un processo di conciliazione dell'informale col figurativo. Da ciò deriva uria densa antologia di corpi-ombra, di corpi-luce, di corpi-vento, di corpi-acqua, ed anche di corpi-insetti. Morandi per es. fin dal 1915 ha dipinto l'opera Bagnanti nella quale le curve delle membra femminili senza volti sono defilate in forma di ondine e i seni in ciottoli arrotondati dalla risacca. E' un'opera questa storicamente anticipatrice di tutto
Il neo-figurativo.
Una più decisa determinazione venne data 16 anni or sono da pittori del nord-ovest d'Europa che presero il nome di Gruppo Cobra, dissolto poi nel marasma. E, con tali precedenti, sono disposto a ritenere che il neo-figurativo avrà vi-:i lunga, perché la sua ragione dì essere è in noi che non siamo soddisfatti dell'estetica di provenienza americana identificata nella proposizione : questo, solo questo, niente altro che questo. E lo credo fermamente dopo aver visto il neo-figurativo di Ciavatta.
Nelle sue creazioni l'uomo e l'oggetto sono in rapporto potenziale di flussi significanti. Il magistero della nuova figurazione poggia in lui, più che in altri, sulla necessità che il pensiero trascini con sé la forma che, proprio per la sua indeterminatezza, non si consuma lì e subito, ma si espande nella lontananza mentale. Non sì arresta agli orli della cornice, ma va in cerca di quelli della possibilità. Gli squarci delle sue pennellate devono avere un senso riposto e svelato, il decorso dell'immagine lascia una scia che si prolunga in molteplici punti della coscienza indivisibile, ed allora ciò che si ripercuote nel cervello è appunto la coordinata necessaria della funzionale primaria e transitiva dell'arte neo-figurativa.
In altri termini questo artista, in polemica violenta col neo-realismo, neo-concretismo, neo-costruttivismo, neo-oggettualismo, secondo cui la cosa rappresentata è lavoro finito, elegge un modus operandi solo possibile nell'arte: cambiare dal profondo le qualità limitate e statiche del reale in qualità variabili e impreviste. Chi non intende questo, non intende Arp, Burri, Scipione, Mafai, Viani. Non intende che l'invenzione, in arte non è metro e peso, ma chiave, percussione di nocche e magari calci per aprire, scoprire, inseguire profili fuggenti nel circolo spaziale. Non intende che l'uomo 1966 è questo, il cui pensiero è instabile e insaziato, che calpesta i limiti, raccoglie da ogni plaga gli inserti, salda le cesure, dilata i piani multilaterali e poliritmici come fa appunto Ciavatta con la nuova figura, e come hanno fatto in altra direzione Ernst, Kubin, Nolde e, indistintamente, tutti i surrealisti nord-americani e tedeschi.
Con lui la tecnica della rappresentazione e del modellato ha perduto definitivamente la consistenza naturalistica e propone, anzi impone, una dialettica che non si arresta al confine dell'umbratile. Le linee, tramite la pasta del colore, si sciolgono in varietà di analogie, ricordi, timori, preveggenze, sintomi, tracce, canali, orizzonti. Continua con lui la lezione degli impressionisti che ci hanno spinto all'infedeltà alla natura apparente che non lascia scoprire la sua anima. E Chagall gli ha insegnato a bastonarla di santa ragione fino a quando non si è lasciata capovolgere nel possesso.
La sua plastica latitudine è vasta quanto il concetto, e se la massa pittorica appare densa e l'impasto saturato, il suo metodo dirada l'emozione e la rende lucida, mediata da macerazione, colature, folate di crome. Bisogna comprendere le metafore di questo canto. Mi torna in mente ciò che dice un saggio indù: " Non si può - dice - parlare del mare ad una rana che canta nel pantano, perché essa è limitata alla sua buca ". Quanto pantano! quante rane! quante buche nell'arte e nella critica del tempo nostro!
Concludo questa seconda parte del discorso ritornando su ciò che ho detto all'inizio sul problema più difficile dell'arte. Non sempre Ciavatta riesce a raggiungere l'univalenza del contenuto e della forma. Le sue invenzioni talvolta non mantengono le promesse anticipate dalla mente all'origine. Per es. il genitis facendi nell'opera Il Caos, si è dato tanto da fare che, sotto la furia dell'impasto, ha celato quasi tutta l'intuizione iniziale, perché l'astrattismo, in questo tema così appropriato, gli ha preso la mano. Lì è la materia chimico-umanoide in formazione nella profondità elementare. Ma la materia ha soverchiato la nuova figura che, per raggiungere l'equilibrio, avrebbe dovuto prestarsi ad un maggior rendimento esprit di significato. Impresa tremenda. Perché come può fare un artista neofigurativo a rappresentare sematicamente ciò che si sprigiona dai gas gialli e bianchi di umori aleggianti sul cadavere di un criminale o di un eroe di guerra? Sarebbe facile cadere nell'amorfismo dell'estremo espressionismo privo di ogni espressione.
Consiglio Ciavatta, se posso, di aspettare un poco dopo aver ricevuto l'illuminazione e meditare. Aspetti prima di scatenarsi. Se ne stia buono tutto solo e tutto suo. Quando avrà trasferito il pensiero maturo sulla punta delle dita, incominci. Ma gli artisti sono impazienti. Considerano l'opera da dipingere come fosse la sposa da portare la prima volta nella camera nuziale. Poi nascono i malintesi.
Da che derivano cedesti malintesi nel neo-figurativo? Dalla parzialità della giustizia distributiva nel dare ed avere in arte come in amore. Il colore è ingiusto quando dal suo denso talamo intende limitarsi ai gesti sulla figura. E d'altra parte la figura non può pretendere di essere amata ogni giorno come nella pittura tradizionale. Se ne stia tranquilla essa nelle pieghe della memoria che non può obliare il mondo del reale radicato in lei. Penserà il pittore come evocarla. Ma come? Questa è la questione.
E' facile che la sensibilità moderna foggi visioni spettrali emerse dall'inconscio con un surrealismo superfetato. E allora la figura che ha coordinate fisse in natura, proiettata sulla tela, si defila da una distanza intransitiva, incompartecipe, direi separata da una cancellata dì cripta. Insomma quali sono le necessità interiori del pittore per aumentare o diminuire la carica informale o parafigurativa? Non si può parlare di fluttuante soggettivismo, di pessimismo o di ottimismo, di buon umore o di malumore. Si tratta invece di presa di coscienza. Ecco perché l'incertezza della riversibilità stilistica nella forma e nell'informe può essere ed è ad un tempo storia e fantasmagoria rispettivamente in Ciavatta, Morandi, Cagli, Sartoris, Vedova, Spazzapan... E' questa una prova di ricerca espressiva, dice la critica. Ma chi fa tali ricerche? Il gusto o il pensiero? Dov'è la loro compartecipazione equilibrata? Ci dev'essere pure una ragione giustificatrice sotto forma di perché formulato dal cervello, e se questa ragione non c'è, la pittura può essere cervellotica. Un esempio gioverà meglio per comprendere ciò di cui si tratta.

 

 

 


La figura, da un lungo viaggio, ritorna affranta alla mente dell'artista. Ma essa comunemente non trova ospitalità conso-latrice che non sia un canestro vistoso di offerta astrattista. E allora la figura si nasconde mortificata in un angolo di mitologia. Stiamo ancora nella dissociazione e non nell'associazione. Perché? E' un fatto che l'artista, per quanto abbia modificato il suo atteggiamento verso il reale della figurazione, esita a riconoscere la sua identità, memore dei suoi passati tradimenti, di quando, abbandonata l'idea pura, la figurazione è fuggita nelle regioni tenebrose dell'Ade. Ora si domanda: c'è un motivo veramente determinante del permanere, nella coscienza dell'artista, della diffidenza verso la figurazione? E qual'è? Mi guardo bene dall'istigare il colore di Ciavatta a coricarsi di nuovo accanto a questa Signora che ne ha fatto di tutti i colori. Ma il suo colore potrebbe ben avviarle i capelli con pettine di luce, potrebbe strapparle e buttare allo straccivendolo il mantello ricamato di lacrime e piaghe fattole indossare negli inferi, potrebbe condurla al bagno odoroso di simboli per mondarla di tutto il vomito raggrumalo vomitato su lei.
Su Ciavatta, figlio di Giove mutilato, io so che il suo corpo è diviso, che la sua testa è a Roma e il suo cuore è sepolto a Dakau. Sotto la pioggia banale della valutazione critica e per scale di flutti, vengo a lei per esortarla alla resurrezione della carne, allargando il rivolo della sua acqua umana e pittorica verso la terra della gentilezza, della speranza, della pietà, come ha già fatto con la Crocifissione materica di Cristo (fig. 1).

 

 

 

TRA TANTE RICERCHE, direi ansanti, di Lamberto Ciavatta, egli è pervenuto alla mistica del materico. E' mai possibile che un artista possa incontrare una partecipazione mistica a Sud della natura? (la tela di sacco, il ferro filato, l'escremento animale e tutto il cosiddetto polimaterico). Perché no - ha risposto Ciavatta - se un grande santo mezzo artista del duecento nel Cantico delle Creature ha chiamato sorella l'acqua e fratello il fuoco? Dopo aver descritto in Sento il mio tempo come lo spirito demoniaco viene incorporato dagli uomini nei mostri, ora io voglio - egli aggiunge - narrare un'altra storia di congiunzione nell'universo. E con queste meditazioni ha fatto un balzo avanti in un neo-figurativo collegato col materico di carattere gnomico.
Come e a quale fine? Un solo esempio che valga per tutte le opere di questo genere: Cristo crocefisso unificato nel carbone e questo unificato in Lui.
Bisogna rimontare al trecento per fissare una data relativa nella quale la materia inorganica è uscita dall'esilio per acquistare una dignità d'arte. Però gli astrattisti, forse senza aspettarselo e senza saperlo, hanno ricevuto il dono subcoscienziale dell'intuizione dalle "lacrymae rerum" di Lucrezio, e dalla biologia di Hoekel secondo cui nei corpi inorganici è riposta una sensibilità elementare. Ciavatta l'ha ricevuto dal carbone e ha scritto da capo questo materico, ispezionando i gangli del sistema oggettivo, come io mi propongo di succhiare le fibre dalla sua opera.
Tutta la storia del carbone era scritta sul palmo d'una mano. Era oppresso e solo nei meandri ciechi della terra. Poi è stato liberato per le funzioni accessorie in servizio dell'uomo storico. Adesso un artista, per sovrabbondanza di amore, attento ad afferrare uno stato di coscienza spostatesi dall'uomo alla cosa, ha coraggiosamente assunto il carbone ad un grado elevato di cristologica libertà. Capite questo? Bisogna spezzare gli schemi per poterlo capire.
Solo chi ha approfondito l'arte di Ciavatta può spiegarsi la sua predilezione per il Cristo sulla Croce. Ne ha parecchie di queste opere. E tutte rifuggono dall'incidente tecnologico d'un Destiil, o dal realismo paganeggiante d'un Guttuso, o dalla paranoia d'un Dalì che ha fatto deflagare, come una bomba, il corpo di Cristo in 32 pezzi.. In una Crocefissione ad olio 1,50x2 (ora di proprietà del già Presidente degli U.S.A. Eisenhower) non c'è niente e nessuno, madre, pie donne, soldati, cavalli, scale, arnesi. C'è solo il Cristo soffocato da un groviglio di rovi spinosi che dalle rosse bocche gli lanciano sul corpo una miriade di rossi morsi (o sono baci?): una natura che sarebbe piaciuta a Matisse, particolarmente per quella banda rossa che cinge i fianchi del Divino Martire, ed è quel rosso come un grido che, da un centro geografico, organizza lo spazio e il lutto e l'amore.
Torniamo al minerale. Un olio dalla misura 1.50x2 e dal titolo " Cristo tra i muratori " rappresenta l'Uomo-Dio sulla croce.
Al suo capo reclinato nella cadenza di una ombra, al petto spento, ai fianchi, alle gambe e ai piedi, sono incorporati grumi folti di carbone nero e poroso. Alla sommità i mucchietti di carbone, attraverso cunicoli, emettono un fiato bianco trapunto di consapevolezza. L'atmosfera dietro l'effige straripa con una pasta grigio-arancione che si sfalda nell'imponderabile, e non ci sono qui pullulazioni, sgorghi e chiazze di colori come nelle altre opere. A sinistra s'intravede una forma vaga disgregata in densa ombra. (Maria? Maria di Magdalo?) che sembra uscita da un incubo ed esita a riconoscere la realtà.
Da notarsi due particolari. Mentre il titolo di questa creazione (ho detto creazione e non " composizione " termine quest'ultimo di uso comune acritico odiato da Goethe perché - diceva - gli dava l'idea del cuoco in cucina) Cristo tra i minatori indica una categoria di lavoratori estrattori del carbone, nel testo non vi è traccia di essi. Perché? Ma l'autore non ha creduto - e ha fatto bene - di includerli in un saggio neo-figurativo-materico e li ha lasciati nel presupposto. E' vero o no che gli uomini su scala mondiale vengono lasciati nel presupposto della loro individualità? Non conta più l'uomo ma il prodotto, e così si spiega l'antiumanesimo attuale. Non è vero che la terra sia sovrappopolata dì uomini, anzi ne è priva. La rendono inflazionata invece le cose compresi gli uomini. Pertanto tra producenti e prodotto, l'artista ha scelto questo ultimo per trasformarlo da materia prima in materia lavorata (da lui).
L'altro particolare è la Croce. La croce di legno è stata soppressa, senza offesa alla storia. Perché? Perché, se la morte di Cristo può essere edificante per noi, la storia ora la facciamo noi, la fa l'artista nella sua inviolabile libertà. La croce per lui è la terra totale fosca sui quattro orizzonti, imbrattata di sangue e di fiele.
La trama morfologica di questa opera è arcaica e raffinata, coerente nei contatti e nei flussi, preforma e post-informale, meditazione e perizia, lucidità e sincope. Il carbone è germinale e vedremo presto che cosa germina. Opera scarna di gamme, cruda di grafia, imperativa nella densità. Plastica completamente offerta alla comprensione. Il processo coloristico è così appropriato all'idea primaria, che scioglie gli umori nei tempo-spazio e nella coscienza dell'osservatore. L'immagine è messa a fuoco dalla mano, ma sempre fuori fuoco dal naturalismo. L'efflorescenza della luce sull'agglomerato materico, l'ombra proiettata sulla scena solitaria, la trama del fondale stabiliscono un rapporto non già di gestione della rappresentazione, come comunemente accade, ma di relazione calcolata tra gli elementi stilistici che compongono una sintesi in quanto valore, in quanto possibile nuovo stato dell'essere.
E' qui arrivato il momento di toccare la radice del significato allusivo. E' qui che il mio compito critico deve ridurre ad esegesi razionale ciò che è baluginato nella profondità irrazionale dell'artista. La memoria, sfiorato S. Francesco, Lucrezio ed Hoekel, va ai greci, si trasferisce su Morandi, si posa sulla nuova conoscenza che gli scienziati ci hanno fornito della materia, e, dall'involvolo del carbone, vuole estrarre l'idea germinale. Vediamo, ragioniamo.
Che cosa era il materico fuoco, acqua, albero per i greci? Non certo mero concretismo se da questo concreto hanno estratto un dio, una dea, una ninfa. Che cosa era la natura morta per Morandi? Non certo oggettivazione elaborata da una manovalanza pittoricistica, ma sublimazione evocativa, mediante la luce-madre, di ciò che sarebbe l'anima delle cose in unione ipostatica col materico. Quale è l'ultima soluzione della problematica di Jonesco? Perduta ogni fiducia nell'umano, egli si rifugia nelle cose, chiede alla fedeltà dei muri e delle sedie comprensione e sostegno in un mondo vacillante. In quanto alla costituzione della materia, è noto che gli scienziati atomici ritengono la materia una fisica illusione. Disgregata essa in 110 particule, sono giunti all'ultima che non è più materia, ma " antimateria ", " particella strana energetica ", " entità ", che comunica il dinamismo alle altre componenti. Ora una domanda: come mai, mentre tutta la realtà oggettiva e tutto l'universo e la stessa cultura si vanno adeguando a questo sistema, non restano che i pittori e i critici del realismo, del primitivismo, del neo concretismo, del neo-costruttivismo, del neo-oggettualismo, del neo-polimaterico a presentarci il prodotto compatto coi suoi attributi di volume peso e misura? Se mai al materico il prefisso neo possa essere appropriato, è quello che Ciavatta intende come valore
Nel processo, creativo della Crocefissione è chiaro lo sviluppo dell'idea che, partita da Cristo, si diffonde nel materico e da questo risale a Lui.
Prima di carbone era astorico; ora è protostorico, avente un presentimento di storia. Era lontano dall'io il minerale, ora ne fa parte e aspira all'oltre, perché assimilato ai vasi, ai muscoli, alle giunture, alle arterie di Cristo, perché, in altre parole, partecipa ad un sistema che sa ad un tempo di nuovo umanesimo, d'immanenza, di trascendenza in un mondo che, negando intransitivamente tutto ciò, si avvia all'occaso d'un sistema opposto mentale, al posto che aveva prima il minerale. Altra domanda: c'è o no la possibilità che la totalità degli uomini possa essere mutata in un deposito di minerale?
Pare che questo artista abbia argomentato: Se la Redenzione non è valsa la salvezza carismatica dell'uomo che, al contrario, si compiace di appendere visceri umani al collo della notte, sia concesso a me dì spostare la stessa Redenzione dall'uomo alla materia con la quale si identifica l'uomo attuale. Naturalmente codesta impostazione sfugge all'ortodossia teologica. Ma non è tutto l'uomo a sfuggirla nascondendo il volto dietro una maschera di cristianesimo?
Lamberto Ciavatta non si nasconde, anzi è scoperto e calmo nel pensare, generoso e impetuoso nel dipingere ciò che ha trovato dì nuovo nel territorio dell'esistenza. Egli è così partecipe e responsabile, che con la forma e il colore toglie la parola di bocca ai politici, ai sociologi, ai guerrieri e la sostituisce con la sua verità. Egli si affaccia ai bordi d'un cratere dal quale una lava informe si solleva dall'imo e trabocca bruciando la coscienza. Chi ha avuto la fortuna di contemplare la sua opera " La Battaglia Atomica " (dico fortuna perché, con le sue enormi proporzioni, non è collocabile sulle pareti d'uno studio o d'una comune galleria), ha la sensazione quasi tattile di piegarsi fino a terra per mescolarsi criticamente al nesso linguistico che sorge dalle profondità della condizione dell'uomo attuale. La tensione delle linee, il giuoco serrato dei volumi e dei vuoti, il dinamismo frenetico e variato, i fasci di muscoli accompagnati da fasci di ritmi, Io stravolgimento delle masse di natura sorprese da un attimo di terrore, tutto questo è tecnica sorprendente, spettacolare. Ma l'opera raggiunge un plenum estetico nell'andamento d'un vento di follia vorticoso e tondo come l'O-rrore, nel quale le immagini sono attirate e consumate da acidi cosmici e vanno mutandosi in pomice e cenere. Più che in Italia dove le esplosioni in arte sono quelle provocate dalla indigestione di stili e tecniche straniere, è nelle città sedi di cultura per la distruzione delle armi atomiche che questa opera dovrebbe essere conosciuta e condivisa. In quanto poi alla raccolta delle ossa insepolte sparse sul campo di battaglia, si potrebbe dare l'incombenza alla Cooperativa di consumo, il cui consiglio di amministrazione è composto dai Dubuffet, Ben Shahn, Mathieu, Warhel, Rouault, Leger, Novelli, Pizzinato...
Nella variazione degli atteggiamenti spesso arbitrari, più spesso forzati del virtuosismo neo plastico, dopo il mercato pittorico e critico delle vacche puntualmente ricorrente sulla piazza, e mentre la corruzione del costume prende ad usura dalla povertà inventiva; il nuovo plasticismo di Ciavatta è genuino nell'ispirazione, controllato nel mezzo, rapido nel fine e, ciò che più importa, storiografico. La linea, il segno, il tocco da sé stessi fanno plastica tanto sulla tela quanto nella cassa cranica dell'uomo del nostro tempo così gremita di linee, segni, tocchi materici.
L'elemento della novità nella plastica di questo artista (già avviato verso a grandezza malgrado sia trattenuto per la falda che spesso gli viene strappata) consiste nella posizione strettamente relazionale del referente segno col riferito pensiero. E' un dialogo concitato semirrazionale della struttura con la mente oggi in buona parte irrazionale. E' uno strumento rigoroso di comunicazione del linguaggio che impiega linee e segni d'urti coscienziali. Non così in tutta l'economia pittorica di camuffamento centro-sinistro. In questa il colore, carente di linee, ha una sua propria autonomia che presume di bastare a sé stesso per esprimere significati. Ciò richiama la vita dell'animale sequestrata dalle sensazioni in atto, coi centri di percezione inviluppati dentro involucri organici. La linea in talune correnti d'avanguardia - confusione del cosiddetto globismo - ha le arterie fisiologicamente irrigidite e ipertese. La linea intasata, l'imbratto del colore, il mucchio materico ci guardano da un isolamento funzionale con occhi opachi, appunto d'animali. Si pensi a Bacon e ai suoi numerosi derivati.
La linea di Ciavatta invece non è eredità della specie. In ogni modalità essa è capostipite. E' sempre genetica, vorrei dire generatrice di corrente, estrosa pur nella severità, trascinante il fenomeno, essa stessa fenomeno. Mediante la continuità stilistica senza interruzione, concatena l'una all'altra le parti d'una fenomenologia reale o possibile in una data fase storica. Vorrei farmi intendere da coloro che si sentono colti solo quando passano per Piazza di Spagna. Per esempio Sacco e Vanzetti. Vennero fulminati sulla sedia elettrica in America 39 anni or sono colpevoli del delitto d'essere progressisti. Come li ha rappresentati Ben Shann? Li ha irrigiditi a distanza in un linearismo fumettato quali fossero ossa che hanno ripreso una forma interessante il suo bebé. Eh no. Voi, o che siate reazionari o che siate rivoluzionari, li potrete incontrare nel tachismo grafico vitalistico del " Giudizio Universale " che Ciavatta sta tracciando nella mente lungo grandi linee d'orizzonti e di abissi.

 


Tutti i giorni vediamo profilazioni di paesaggi, di uomini, di bestie, di cose, di opere. Prevale una narrazione visiva topica (che vive incompartecipe a sé) le cui linee sono stipate e insieme sconosciute l'ima all'altra come in una via o in un autobus di città. Ma Ciavatta si direbbe che voglia soffiare linee del suono d'una tromba nelle orecchie. Egli non si diverte davvero ad infilare linee nella cruna dell'ago senza scopo, per il solo gusto di riuscire ad infilarle presto presto, come fa il peggiore Picasso tra una folta maestranza di pittori. Al contrario predomina nelle sue creazioni la linealità dell'Epos dilatata fino all'astrazione pura.
Ecco un modello su tema ricorrente di pittura storico-culturale : Il Padrone del mondo post-atomico (fig. 2). Così, come in questo quadro, è stato ridotto il mondo dall'uomo. Aveva egli vagheggiato nell'inconscio la fine in un deserto di sale, ha voluto cadaveri carbonizzati dal fracasso giù dall'alto, ed eccone uno, Ciavatta gli ha dato il suo cadavere nel suo sale. E' irresistibile l'impulso del netturbino di andare a vederlo. Non Io sapete? Nella sua tuta azzurra, l'operaio della nettezza urbana, quando suona alla porta per vuotare il secchio della spazzatura, chiede ai famigliari di Ciavatta di fargli rivedere il quadro. E che fa? Che fa! 'Niente. Sta lì. L'indumento azzurro forse pensa che non ce la fa lui solo, deve farsi dare una mano per rimuovere tutti quei residui. Dov'è l'uomo di Stato? Non c'è nessuno. Il lavoratore dei rifiuti organici (organici?) è immobile, muto e affascinato. Da che? Dal concetto evidente. Ma più ancora - bravo il mio Pasquale Sanategami d'anni 42 nativo di Roccasmibalda - dal diffuso luminismo d'ottone riverberato sull'area della tela, dal sottile non spento anelito che emana da! minerale, dal lirismo aforistico scarnificato scandito dai soli due toni elementari del nero e dell'oro grezzo con sfumatura intermedia del rosso vecchio raggrumato.
L'Eros è assente. Non c'è più posto per gli eroismi in questo universo ipocristallino. La luce della folgore ha mietuto ed ora indugia uniforme sui detriti, e il chiaroscuro è restio a comparire nell'atmosfera sgomenta. La linea è acida, direi vomitata. Il segno è ulcera. Il carbone che confonde la figura corrosa del cadavere, estratto dai suoi visceri, ora vi si rinchiude. L'immondezzaio se n'è andato in punta di piedi e di penseri, in punta dei suoi bambini. Resta l'uomo civile che continua a friggere nell'olio dell'angoscia esistenziale, il rassegnato, il fenduto, U bue che muggisce solo quando sente odor di fieno. Quest'opera è il tutto che io vado chiedendo da tempo all'arte: sintesi stilistica scarna proiettata da un sistema del pensiero e del fare. Qual'è in questo caso? Presentimento d'una condizione parapsichica nella quale un centro senza circonferenza e senza lati è sospeso sull'orrore del vuoto. Il vuoto in questo quadro sembra assoluto. Ma da esso si espande un sentore di solfato alcalino, non saprei, di arseniato, di " cenere infeconda ", la stessa che emana dal terribile Canto XXXIV di Leopardi.
Infeconda. Abbiamo cercato io e la tuta azzurra un filo d'erba, un verme e non abbiamo trovato niente. Ciavatta non ci ha lasciato sperare. Almeno gli americani trovarono la speranza d'un bimbo e d'una bimba dopo la distruzione radicale della tribù india e della loro terra e della loro civiltà. Crebbero i due, ma tutto il loro linguaggio consisteva in un solo vocabolo : mie (io nella mia mano, nel mio ventre, nel mio sesso). E i pittori Tobey, Chili, Maurer ne hanno ricavato una corrente neo-empirica, quella dell'inieismo, in arte e ce l'hanno trasmessa attraverso uno dei neo-dadaismi.
Perché l'autore di quest'opera non ci ha dato il tempo, prima dello spavento, d'indossare una giacca azzurra? Non doveva farci questo. Lo sappiamo che lui non c'entra per nulla, che... Ma non poteva collocare nell'angolo più derelitto un sonaglio d'argento? Che posso dire? Una bocca, un becco che sta per emettere il grido. Quanto ci avrebbe rinfrancato! Invece qui non c'è uno spiraglio d'attesa. Non un fruscio. E noi restiamo di sasso. Non possiamo fare un moto silenzioso di narici e fuggire. E dove fuggire? La sua distruzione è disseminata di tane piene di tossico. La tana psichica e materiale era stata il rifugio della paura dell'uomo, il sesso, l'auto, la trincea, l'arte oggettivale, come paracuori, della sicurezza e dell'agguato quando i rapporti umani si sono tesi. Ma quando si sono rotti? Dite che avviene quando si sono rotti? Oh! Mi accorgo d'un principio di delirio che mi viene da questo quadro.
Mi disse una volta un noto artista: " Lei è il critico più... " Ed io: " Lo so, grazie, ma... ". Ma ora - ve lo dico con la mano sul petto - vorrei tanto che il mio nome fosse pronunziato dal Manzanarra al Reno solo per imporre l'opera di Ciavatta agli scìosciamocca dell'arte e della critica. Ma oggi non vi è fulmine possibile che tenga dietro il baleno, e bisogna cucirlo filo a filo nell'anticamera dell'intrigo. Filo a filo io devo liberamente dire: Guardate, ecco chi è l'uomo imbrattato di succhi intestinali nel volto che si sfalda sotto i reagenti chimici del colore; ecco gli incontri dei verdi Goya coi verdi dei morenti quando il secondo avverso Dio diguazza nel sangue di massa; ecco il trapasso di intimi rapporti del concetto puro col plasticismo di simboli che odorano di decomposizione. La storia visiva che narra questo artista non è di ipocrite decoro, né di esibizione nel circo. E' storia squassata e inchiodata nella struttura i cui echi fluttuano nello spazio pittorico e insieme in quello dell'anima. Quella semiumanità da lui estratta dalle radici è umida di terra, sa di Lazzari risorti in lenzuoli macchiati che soffrono due volte, nell'atto di morire e in quello di essere richiamati a vita, perché ciò che sono stati ieri ricalcitra a ciò che devono essere ancora domani. Capite il discorso fottuto? No? Angeli!

 


Insomma che altro posso dire per...? Sentite: Come state per benessere e pace? Male, figuratevi. Eh si! Il male oggi trova il suo tellurismo in una latitudine determinata, ma l'esercizio stilistico e tecnico di questo artista ne ha una più vasta, indeterminata, direi tra la carogna e la Bibbia. Altro che il vostro male e quello dell'attività artistica letteraria economica amministrativa, l'uno e l'altro prevalentemente condizionati da vasi vescicole secrezioni. Devo insistere nel costringervi a guardare nella chiarificazione del rapporto ciavattiano tra luce-papilla-idea, scienza-essere furtivo-tenebra, odio-amore. L'ho già scritto: Dieci artisti come lui e possiamo ricominciare un CID. Non vi va? Quanto è fesso l'uomo! - dissero Socrate e Doumier quando l'uno si apprestava a bere la cicuta e l'altro quando da pittori, critici e poliziotti venne spinto in prigione.

 




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