L'iniziativa della Cassa Rurale ed Artigiana di Nettuno di ristampare, in occasione del III centenario della morte di Paolo Segneri, due piccole antologie ottocentesche delle sue novelle, potrebbe apparire - com'era apparso inizialmente anche a me - omaggio forse modesto ad un così importante personaggio della Controriforma. L'esiguità stessa del numero di queste novelle - sette in tutto, e qualcuna, più che novella, rapidissimo exemplum che non supera due paginette - è a prima vista una goccia nell'immenso mare della produzione segneriana. Eppure, nella loro essenzialità e brevità, ed anche nella loro improprietà di novelle (che il termine si è mantenuto per mero ossequio al titolo delle due raccoltine ottocentesche), questi sette testi possono contribuire a mettere a fuoco alcune importanti problematiche morali del Segneri e, più ambiziosamente, ad individuare meglio la personalità di questo intellettuale gesuita, che, proprio per il suo estremo rigorismo, appare tutt'oggi originale ed atipica anche al di dentro della religiosità e della storia del suo potente ordine.
I primi due testi qui ristampati, Il cavaliere impenitente e La signora di Crotone, sono tratti dal Quaresimale e sono quelli che più legittimamente - anche secondo la concezione secentesca di questo genere letterario - possono esser chiamati novelle, vuoi per la lunghezza, vuoi per la struttura narrativa, vuoi per le loro caratteristiche di esibito fondamento cronachistico. L'autore non ci indica, come altrove, la fonte, ma in entrambi i casi sembra riferirci fatti veri, realmente accaduti: il primo è addirittura ricondotto alla testimonianza di un confessore personalmente "noto" al Segneri; il secondo è storicamente collocato sul finire del 1500 ed è documentato dalla "fama grande", la vox populi, ancora viva nell'intera città di Crotone ("com'è fama anche grande in quella città"). Entrambe le novelle, poi, raccontano "successi" (cioè, avvenimenti) "terribili", che devono fare "inorridire" il pubblico e che impegnano, nelle loro fasi salienti, le forze tutte del predicatore e, come viene richiesto in un inciso de La signora di Crotone, "un'energia, un'efficacia pari al successo". Siamo, cioè, al di dentro di una precisa strategia persuasoria e di una tecnica retorica così ben applicata da fare del Quaresimale uno dei capolavori dell'oratoria sacra barocca.
Un barocco, s'intende, decisamente moderato nelle sue forme e frutto di un'interpretazione rigidamente univoca delle teorie e dei puntuali consigli che il Segneri ricevette dal suo maestro Sforza Pallavicino. Dopo le ingenue e rozze marcature stilistiche dei Panegirici sacri, costruendo via via il Quaresimale durante i periodici riposi invernali delle sue missioni, il Segneri è sempre meno disposto ad indulgere ad artifici letterali e sempre più teso verso la dura sostanza dei suoi ideali di riforma. La severa disciplina cui ha voluto sottoporre il suo stile oratorio è solo un riflesso del rigore di vita e dell'estrema povertà che si è imposto dopo i fatidici esercizi spirituali del 1660. Così, questo esile gesuita, missionario in terra italiana, che, lacero, emaciato e sempre più curvo sotto i supplizi delle sue terribili penitenze, trascina folle invasate dalla sua parola nei grandi borghi rurali come nelle piazze cittadine e combina paci tra famiglie in lotta da generazioni, ha concepito il suo Quaresimale quasi come una scarna e fedele redazione delle prediche tenute sui più diversi pulpiti. E, nel licenziarne Veditto princeps del 1679, dopo tre lustri di sacre missioni, in forte polemica con i predicatori del suo tempo, "dicitori idolatri della lor gloria", proclama di aver voluto imitare Cristo stesso, "il quale mai non curò di tirare i popoli al Cielo per altra strada che per la règia di ragioni veraci". A tale scopo, ispirandosi a "un Leone, un Gerolamo, un Crisostomo, un Cipriano e talun altro de' padri fra noi più tersi", ha costruito le sue prediche come "un cammino, fiorito no, ma bensì agiato ed andante", con quella "nettezza", quel "decoro", quella "sincerità" che ne fanno innanzitutto prediche "da battaglia".
Il che non significa scrivere "a caso"; anzi: ogni singola parola è "inserita con gran considerazione" ed è controllata da una severità "non difforme", che non indulge a fronzoli o a divagazioni, ma chiude gradatamente l'assunto della predica in argomentazioni sempre più serrate, "come il torcolo, che quanto più cammina, tanto più strigne". E proprio questa "mira principalissima" della sua parola, "non già di arrecar con essa alla gente un diletto vano, ma un solido giovamento", gli ha fatto scrivere queste prediche non per l'occhio (che "legge tuttodì con diletto ciò che rappresentasi su tante scene, o scurrili, o satiriche, o maestose"), ma per l'orecchio, "censore men avveduto, e così men aspro", ma certamente più adeguato a cogliere la sostanza del messaggio ed in più stretto rapporto con l'anima, cui può immediatamente suscitare sentimenti di commozione, di sdegno, dì pietà.
Prediche da udirsi, dunque, quelle del Quaresimale, ed orchestrate in un crescendo di tensione che culmina proprio nella seconda parte di ciascuna, folgorante conclusione dell'argomento trattato nella prima parte, dove il predicatore stringe il "torcolo" del suo assunto coinvolgendo emotivamente l'uditorio con il racconto di casi orribili e realmente accaduti. Nel primo di questi casi qui antologizzati è in scena "un cavaliere chiaro di nascita, ma sordido di costumi". L'esemplarità della novella è subito assicurata dall'antitesi, intollerabile per l'ideologia di Paolo Segneri, tra la nobiltà di sangue e l'immoralità. Un'immoralità consistente in un fatto privato - un amore vissuto more uxorio nella propria casa e qualificato dal predicatore come libidinoso trastullo" (diversamente da come il finale della novella, vedremo, ci farà intendere) - ed aggravato da una componente razzistico-confessionale: il nobile cavaliere si è invaghito di "una certa fanciulla, benché moresca": non solo l'amata non è socialmente alla pari, ma (e c'è un "benché" di segno inequivocabilmente negativo e pregiudiziale) è di ascendenza araba e, quindi, di fede musulmana, o, forse, un'araba convertita, discendente dagli spregevoli moriscos spagnoli. Lo scandalo è dunque evidente e la sua duplice natura, religiosa e politica, fa immediatamente scattare gli interventi dei sacerdoti, con le loro "severe ammonizioni", e degli amici nobili, con richiami più "piacevoli", ma ugualmente insistenti. La fermezza del cavaliere nel rivendicare il suo diritto, all'amore come "necessità di natura" prepara una soluzione del caso tipica delle tecniche di convincimento segneriane: ciò che non può lo zelo degli uomini spesso possono la morte e la paura dell'eterna dannazione.
Il cavaliere s'ammala gravemente ed "essendo già dichiarato pericoloso" entra in campo il buon confessore con la sua strategia. Dapprima agisce con estrema circospezione e delicatezza ("non tutti muoiono di questa malattia - gli sussurra a un di presso - ma, nondimeno, sarebbe opportuno prepararsi"), poi, vista la disponibilità dell'infermo a "sortire una buona morte", si fa molto più franco e brutale: "I medici unitamente v'han disperato, però se volete compro le vostre partite, se volete nettar la vostra coscienza, poche ore vi rimarranno!". Ed il cavaliere è pronto a corrispondere virilmente a tutte le richieste del confessore: solo all'ultima, più impegnativa, dichiara di non poter soddisfare, cacciare eli casa "quella giovane". Ed a nulla vale l'incalzante violenza del religioso, che prima brandisce il crocefisso, poi minaccia di non amministrargli i sacramenti, quindi gli ricorda l'inferno, infine sfodera un ragionamento di gretto utilitarismo mercantile, ponendo il moribondo di fronte alla folle sconvenienza della sua ostinazione: "Non è meglio perder solo la donna, che perdere e la donna, e la riputazione, e '1 corpo, e l'anima, e la vita, e l'eternità, e i Santi, e la Vergine, e Cristo, ed il Paradiso"? La conversione, insomma, come un vero e proprio affare, un'utilità privata e pubblica che permette di sanare in extremis una deviazione più sociale e classista che morale. E questa in-terpretazione del peccato appare decisamente interessante anche per spiegare l'importanza politica delle missioni del Segneri all'interno di un mondo come quello di secondo Seicento, in cui i vari clan nobiliari non riescono più ad amministrare la giustizia e sono indeboliti dalle loro stesse regole comportamentali (si pensi alla piaga dei duelli o alle inarrestabili faide in-terfamigliari, contro le quali giungeva davvero come un rimedio miracoloso e più che onorevole la pace cristiana imposta dal missionario gesuita).
Proprio in quest'ottica politica, è riprovevole, per il Segneri, lo sdegnoso rifiuto del cavaliere di salvarsi in punto di morte, liberandosi dell'oggetto - peraltro inutile, ormai - del suo peccato. E quelle parole, che in un altro contesto potrebbero anche suonare come la dignitosa ripulsa di una salvezza troppo comoda e la difesa della propria scelta morale o, perché no?, di un amore davvero forte e capace eli esaltare la donna amata contro ogni pregiudizio religioso o di casta ("Questa è stata la mia gloria in vita; questa è la mia gloria in morte; e questa sarà la mia gloria per tutta l'eternità"), nella novella del Segneri sono solo il preludio della perdizione finale dì uno "Spirito disperato" che si esalerà tra le "sozze braccia" dell'amata. Di minore bellezza, anche perché più regolare e scontata nei suoi esiti drammatico-narrativi, è la seconda novella, La signora di Crotone. Perfettamente inserita nel contesto della XXIII predica del Quaresimale, che condanna "il mal costume di quei che sogliono praticar nelle chiese con tanto poco eli religiosità e di rispetto", questa storia ricava i suoi effetti orrifici dalla devastante presenza delle forze clemoniache, in vita ed in morte accanto a questa "donna tra le più illustri" della "nobil città di Calavria". Colpita da un fulminante castigo per la persistente esibizione della sua bellezza nei luoghi di culto, la "signora di Crotone" rifiuta le discrete ma stringenti argomentazioni del confessore, che la invita a pentirsi prima di morire, ed il diavolo s'impadronisce di lei. Non d'altri che di un'indemoniata sono infatti i sintomi di quel "viso torbo" che, come "una furia, che uscisse allor dagli abissi, s'invelenì, s'infierì", e, dopo un'arrogante sfida a Dio, "cominciò rabbioso a muggire". E non d'altri che del demonio sono i terribili effetti che si verificano nella sua camera all'arrivo del Viatico: un "furiosissimo vento" sbarra la porta in faccia al sacerdote, mentre dentro sembra scatenarsi un "piccolo inferno", con un "fracasso di strascinate catene, un calpestìo di piedi, un dibattimento di mani, una confusione di voci così tartaree". Allontanatesi il Viatico, appare un "ferale spettacolo": ogni cosa è sconvolta, messa sossopra, distrutta, e lei è là, sconciamente rovesciata sul pavimento, ignuda ed esanime, "con un volto sì spaventoso a mirarsi, che ben vi si potea leggere su la fronte descritta la dannazione". Ma la vendetta di Dio non è ancora compiuta, né i demoni sono sazi di quel possesso terreno, e l'infuocato predicatore promette all'uditorio un finale ancor più drammatico. Il misero padre dell'indemoniata - per salvare almeno la reputazione del casato - con un funerale notturno, fa seppellire in fretta e furia la figlia nel sagrato della chiesa. Ma, il giorno dopo, il suo corpo giace all'aria insepolto. Comincia, allora, un'affannosa sequela di inutili sepolture: in qualunque luogo sia calato, queU'"obbrobrioso cadavere" ritorna alla luce. Il padre, montato infine in "furia altissima", chiama i demoni che si vengano a prendere quel corpo di cui già possiedono l'anima. E la novella si chiude con una scena di forte sapore leggendario medievale, con uno "stuol di diavoli" che, "quasi stormo avidissimo di avoltoi", cala dal ciclo a portarsi via, "con una festa propriamente infernale, quell'infelice cadavero".
Lo stacco tra queste due novelle del Quaresimale e le cinque che l'anonimo editore ottocentesco aveva tratto dal Cristiano instruito nella sua legge, è nettissimo. Si tratta innanzitutto di testi più brevi e sicuramente meno elaborati, se non addirittura trascurati o grezzi. Inseriti in veri e propri Ragionamenti morali (questo è il sottotitolo dell'opera, scritta quasi vent'anni dopo il Quaresimale, ad uso di sacerdoti e predicatori), che si offrono come spunti meditativi di stampo antiquietistico e che hanno lo scopo - come dice il Segneri nella dedica "Al Serenissimo Ferdi-nando, principe di Toscana" - di ricondurre gli uomini a Dio per le vie naturali con cui "tutti i fiumi trovino tanto facilmente la via di ritornare al mare", questi racconti sono dominati da un'urgenza eminentemente asseverativa ed esemplare, che poco bada alle tecniche narrative. All'interno, cioè, di un'opera "massimamente dottrinale", lo stile si è fatto ancor più scarno ("è piaciuto usare primieramente vocaboli piani e propri") e l'elocuzione si è ridotta a mero strumento per parlare "sapientibus et insipienti-bus", è "una chiave - come si precisa nella Dichiarazione dell'opera - il cui pregio sommo non consiste nell'esser chiave d'oro, o chiave di ferro, ma chiave che apra". E, nella loro estrema concretezza, i cinque brani del Cristiano instruito nella sua legge sono sottoposti ad un ritmo narrativo che non si cura dei normali tempi del racconto novellistico, ma punta unicamente a sconvolgere il lettore con un crescendo di scene orribili, quasi sempre segnate dal sangue.
"Udite cosa più orrida - esclama il Segneri proprio nel bel mezzo del primo racconto, Esterminio di uno spergiuro, e dopo che già due bambini sono stati uccisi dalla loro madre e questa stessa è stata trucidata dal marito - e se potete, lasciate a ciò ch'io dirò di raccapricciarvi". E di lì Vexemplum si snoda in un paio di altre orribili uccisioni: il figlio maggiore si offre come boia per giustiziare il padre; poi, preso dal rimorso "d'essersi lui fatto carnefice sulla piazza sin'a chi lo avea generato", si uccide. Cinque delitti consumati tra consanguinei in un incredibile "esterminio" (e in un crescendo di reazioni umane vistosamente paradossali; una concatenazione di straordinaria incongruenza psicologica), e tutto per dimostrare la veridicità della -"gran protesta che fece Dio" contro gli spergiuri per bocca del profeta Zaccaria: "Male-dictio veniet ad domum jurantis (...) et consu-met eam, et Ugna eius et lapides eius". Il sangue, anzi, un lago di sangue, domina anche il terzo dei cinque esempi morali, Sventurata fine di due amanti, che, pur essendo all'interno di un Ragionamento che illustra la "durezza del cuore cagionata dal peccato", ha come motivo centrale la condanna della passione amorosa (il tema, peraltro, ritorna in maniera specifica nel Ragionamento XXVII, da cui è tratto l'ultimo dei nostri brani antologici: un rapidissimo exemplum sulla "Cecità lagrimevole" di una fanciulla innamorata). E sul peccato d'amore è abbastanza prevedibile il castigo divino: alla vanitosa fanciulla siciliana che, spalleggiata dalla madre, invita a cena lo studente "discolo" e giace con lui "dopo esser pieni l'uno e l'altro di vino e di disonestà", è riservato l'orribile risveglio nel cuore della notte e lo "spettacolo funesto" del sangue dell'amato che, uscito da una vena male cicatrizzata, ha imbrattato ogni cosa e che prelude anche alla sua stessa tragica, eppur giustissima, fine. Ciò che non è prevedibile, invece, è la Pietà esemplare di una gentildonna bolognese, tema della seconda novella ricavata dal Ragionamento XX "sopra la moderazione dell'ira" e sulla quale vale la pena di soffermarsi un po' più analiticamente.
La storia, che ripropone, con qualche variante di rilievo, uno degli Exempla virtutum et vitio-rum di Micio Eritreo (cfr. Vili: "Inimicìtias non esse persequendas"), ha come protagonista una "signora riguardevole e ricca [che] era rimasta vedova con un figliuolo unico, nel quale el-l'avea riposto tutto il suo bene". L'insistenza con cui il Segneri delinea la condizione sociale ed economica della nobildonna bolognese (molto più indefinita nel testo dell'Eritreo: "matronae cuiusdam") prepara già il finale "esemplare". E qualche altra variante può esserci utile in questo senso. Dunque, nella novella del Segneri, il figlio della nobildonna sta giocando a palla nella sua contrada allorché è disturbato, "o a caso, o per insolenzà", da un forestiero. Ne nasce un diverbio in cui quest'ultimo fa emergere il suo temperamento arrogante: "Quanto facile a fare ingiurie, altrettanto difficile a sopportarle", mette mano alla spada ed infilza l'ingenuo ragazzo (nell'Eritreo non v'è traccia né della lite, né dei suoi futili motivi, né dell'arroganza del forestiero: il delitto è dato come avvenuto). Preso dal panico, l'assassino s'infila nel primo portone che trova aperto, sale al piano nobile con la spada insanguinata ancora in mano e si trova davanti alla madre dell'ucciso. La quale, pur inorridita dal racconto ed ignara di chi sia l'ucciso, promette sicurezza all'omicida e lo nasconde. Arrivano le guardie e cercano di farsi consegnare l'assassino rivelando brutalmente alla nobildonna che l'ucciso è suo figlio. Nella novella segneriana la terribile notizia è all'interno di uno stratagemma degli sbirri che, desistendo dalla perquisizione, cercano di far leva sul dolore e sul naturale desiderio di vendetta della madre. Questa situazione offre al Segneri maggiori possibilità di realismo psicologico (nell'Eritreo la risposta della matrona era invece perentoria, quanto clamorosa ed incredibile): il "freddo orrore" che le corre per le vene e l'istintivo desiderio di seguire il figlio nella morte, precedono la ricomposizione del suo animo. La donna riconquista cioè quella "grazia divina che avea nel cuore" e si dispone ad offrirsi a Dio "per onore della sua legge, e per gloria della sua fede", nonché a "perdonare immantinente a chi tanto le aveva cagionato di male".
Ma, per l'esemplarità della novella, questa conclusione sarebbe tuttavia poca cosa. Ed allora ecco che il Segneri accoglie e dilata il rapido finale dell'Eritreo.
Per dimostrare che il suo perdono per l'assassino del figlio viene veramente dal cuore, la nobildonna "Si offerse a prenderlo per figliuolo in luogo del morto, costituendolo erede di tutto il suo. E in fatti l'eseguì, dandogliene fino allora caparra certa nella somministrazione di non poco danaro, che gli sborsò, per sottrarsi dalla giustizia, e eli quello maggiore che gli promise". E davvero un "esempio eminente ed eroico di pietà cristiana", dove il teorema del Segneri sull'utilità economica e sociale del perdono trionfa: perdonando, infatti, la nobildonna riacquista il figlio perduto, salva il patrimonio famigliare, consegna alla fama il suo clamoroso gesto ("da indi in poi chiamossi quella contrada, come di sopra v'ho detto, la strada Pia"). Una simile lettura potrebbe sembrare interpre-tazione troppo riduttiva e persino un po' trascurata e stridente rispetto all'effettivo valore cristiano del nobile gesto compiuto dalla matrona bolognese, se non ci venisse sott'occhio un'altra novella della raccoìtina ottocentesca, Sdegno d'un padre verso una figliuola delinquente, dove è di scena ancora un "nobile gentiluomo", anch'egli rimasto vedovo, con un ricco patrimonio e una figliuola -troppo vivace" e troppo ansiosa di amoreggiare col suo giovane vicino.
U exemplum, che potrebbe anch'esso inquadrarsi nel già citato Ragionamento XXVII, ove "si biasima l'usanza di fare all'amore" (e sulla pazzia prodotta dalla febbre d'amore e sui suoi devastanti effetti morali insiste vigorosamente il predicatore), è invece tratto dal Ragionamento XI, che dimostra che "il peccato da la morte dell'anima", molto più grave e disonorevole di ogni altra morte. Esecutore spietato di questo assunto morale è proprio il padre della fanciulla. Accortosi che la figlia, nonostante i suoi persistenti richiami, ha perso Inonestà" (di estrema forza, pur nel naturale pudore segne-riano, il rapido resoconto della scoperta del padre: "Tornato un giorno a casa improvvisamente, vide con gli occhi proprj spettacolo tale, che a non vederlo avrebbe desiderato non aver occhi"), il gentiluomo è prima tentato di vendicare col pugnale l'"oltraggio che gli facea la figliuola", poi escogita una "vendetta più moderata, ma più anche significante". Scaccia di casa "la malvagia" e, annunciata la sua morte, fa celebrare solenni funerali, pronunciando egli stesso un'orazione funebre "con parole di som-mo duolo". Dispone quindi un nuovo testamento a favore di "uno de' suoi più prossimi" ed a chi prova, anche dopo che è passato molto tempo, ad intercedere per quella "meschina", risponde sdegnato: "La mia figliuola è già morta, parliamo d'altro".
Insomma, l'inesorabile padre non conosce il perdono cristiano, né, tantomeno, sembra aver mai ascoltato la parabola del figliuol prodigo, quando si tratta di mettere a repentaglio l'onore della propria casa.
E questa, che è forse la storia più terribile di tutte quelle che sono contenute nell'antologia, si illumina ed integra proprio se è accostata a quella della pietà della gentildonna bolognese. Il perdono - questa fondamentale legge del Vangelo e questo grande cavallo di battaglia del Segneri missionario e "facitore di paci" - è celebrato come esemplare eroismo quando risponde all'ottica conformistico-nobiliare della conservazione del patrimonio e del potere; ma perde ogni valenza positiva e, direi, ogni sua ragion d'essere, allorché entra in conflitto con l'onore del casato, valore che, per la mafiosa società secentesca in cui Paolo Ségneri fu chiamato a vivere ed a predicare, risulta molto più forte della cristiana, ed umana, pietà.
Quinto Marini
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