Il confine di Nettuno è segnato, ad est, da Astura, località molto apprezzata fin dai tempi dell'antica Roma. Era un tempo terra dei Volsci che, nell'anno 416 di Roma, vennero vinti ed assoggettati dal console Caio Menenio. Roma fece di tutto il lido fino ad Anzio, ma principalmente dell'Astura, un luogo di ozi raffinati per patrizi e imperatori e, in ville sontuose, profuse tesori di arte e di bellezza.
Fra queste ville, una di Marco Tullio Cicerone, il quale ne possedeva ben 18, ma prediligeva quella di Astura, che sorgeva sul mare ed aveva alle spalle una selva di querce e cerri millenari tanto decantati dal grande oratore. Era qui che Cicerone si riposava dalle sue fatiche, era qui che meditava e preparava eloquenti orazioni che sarebbero state tramandate ai posteri, era qui che si abbandonava al piacere della lettura o alla tristezza e al pianto per la morte di sua figlia. Fu qui, infatti, che scrisse il suo "Trattato della Consolazione", proprio per trovar conforto alla perdita della sua Tulliola. E molte delle 396 lettere indirizzate da Cicerone al suo grande amico Tito Pomponio Attico parlano delle delizie di Astura. "Non vi è nulla di più sereno, splendido e ameno", egli scriveva, "Astura è un paradiso". Infine fu qui (secondo alcuni, secondo altri a Formia) che, nel 42 a.C. Cicerone si rifugiò, quando lo cercavano i sicari di Antonio, dai quali fu poi ucciso.
Augusto e Tiberio vi contrassero la malaria, malattia che doveva restare misteriosa per altri 19 secoli, ed alla quale veniva dato un nome che oggi suona buffo: "languidezza di forze". Nell'anno 41, nelle acque di Astura, l'imperatore anziate Caligola vide nella remora che, con la sua ventosa, si era attaccata al timone della nave, un presagio di morte. Certo la remora non voleva dire assolutamente nulla; comunque, quattro mesi dopo, sul Palatino, Caligola fu ucciso dagli uomini di Cassio Cherea. Dopo la florida epoca romana, Astura sprofondò nel buio del Medio Evo. Le sue ville ed i suoi templi vennero messi a sacco ed a fuoco dai pirati.
Non si trova più traccia di Astura fino al 987, quando il conte Benedetto Tuscolano e Stèfana sua moglie donarono all'abate Leone del monastero di Sant'Alessio parte dei terreni posseduti in Astura. E i monaci vi costruirono chiesa e Monastero. Estinta la famiglia dei Tuscolani, Astura passò a Leone e Manuele Frangipane, loro parenti.
I Frangipane appartenevano ad una grande ed antica famiglia dalla quale ebbero origine gli avi di Dante Alighieri. Lo afferma il Boccaccio e lo conferma il Tommaseo che, com'è noto, oltre ad essere filosofo, critico, pedagogista, romanziere, sociologo e patriota, fu anche dantista. I Frangipane erano così potenti che, nel 1118, Cencio Frangipane aggredì e percosse per ben due volte papa Gelasio II, e lo costrinse a fuggire in Francia, ove morì l'anno dopo, nell'abbazia di Cluny. Tuttavia i Frangipane sostennero validamente Innocenzo II contro l'antipapa Anacleto. In una lettera scritta nel 1218, papa Onorio III esaltò l' "invitta fedelià di generazione in generazione dei Frangipane per la Chiesa romana".
I Frangipane erano signori di Astura dal 1141. Del castrum di allora con più chiese ed edifici e cinto di solide mura non restano che miseri ruderi, ma la rocca, più volte restaurata, s'impone a chiunque da Nettuno guardi verso il Circeo. La progettò l'architetto Mariano cli Giacomo detto il Taccola, e venne poi modificata dai Colonna. Alberto Guglielmotti (1812-1893) nel suo volume sulle "Fortificazioni della spiaggia romana", dopo aver minuziosamente e magistralmente descritto le torri pentagonali, così dice di quella di Astura: "Sul dorso dello scoglio isolato che fuor d'acqua gira centocinquanta metri, tutto lo spazio è coperto da fabbriche diverse, ridotte alla forma di una sola fortezza. Il reticolato del tempo imperiale si congiunge al tufo rustico del Medio Evo; i macigni della casa Malabranca addentano i quadrelloni dei Frangipane; i baluardi dei Colonnesi sovrastano i magazzini dei Borghesiani.. .". Ed afferma che quella di Astura è la torre pentagonale più bella, più grandiosa e meglio conservata.
Il nome dei Frangipane restò legato ad Astura più per opera di un poeta che degli storici. Nel bagaglio culturale di varie generazioni di italiani vi è la poesia di Aleardo Aleardi che parla del castello di Astura. lo stesso me la sono portata in giro per il mondo. Me la sono recitata tante volte ed, evocato dalla magia del verso, mi son visto riapparire, "ermo, bruno, sinistro" il castello d'Astura ed i corvi che ne cingono "volando le torri". Ho udito il vento imitare "il suono di cadente scure" e ho visto l'onda "di sangue incolorata", che sempre ne flagella il fondo. L'adolescente Corradino mi è apparso "pallido e bello e colla chioma d'oro, colla pupilla del color del mare ed un viso gentil da sventurato", mentre toccava "la sponda dopo il lungo e mesto remigar della fuga. Avea la sveva stella d'argento sul cimiero azzurro, avea l'aquila sveva sul mantello". Ed ecco "sul perfido ponte, a consumare un'opera di sangue, in sembianze di blando ospite" il traditore Giovanni Frangipane che poi - dice sempre l'Aleardi - l'arresterà nel sonno per consegnarlo a Carlo d'Angiò che, in Napoli, il 22 ottobre 1268, lo farà decapitare. Un grosso effetto raggiungeva il poeta, quando invitava drammaticamente a segnarsi: "Vuoi saperne il nome? O fida come il sol, tu che non sai che sia tradir, deh! segnati in prima col segno della croce, Italia mia! è il castello d'Astura".
Oggi a noi gente disincantata di una certa età, che ha conosciuto un epoca di scorpacciate retoriche, questi versi se non fanno ridere fanno almento sorridere. Tuttavia, recentemente, ho visto una dodicenne che, dopo aver letto la poesia, era lì cogli occhi sognanti, già innamorata del romantico eroe svevo. Si può quindi immaginare l'effetto che facevano sui ragazzi della mia epoca (subito dopo la prima guerra mondiale). Li mandavamo a memoria alla seconda ginnasiale e c'impressionavano talmente, che i miei compagni di classe ed io fummo portati a odiare un vecchio professore, anche se era il più buono del liceo-ginnasio di Benevento, proprio perché si chiamava Giovanni Frangipane. In realtà egli era l'ultimo discendente di quel Giovanni Frangipane che nella provincia di Benevento aveva avuto i feudi di Apollosa, Torrecuso, Ponte e Fragnito, assegnatigli da Carlo d'Angiò dopo l'arresto di Corradino.
Suggestionati dai versi dell'Aleardi, vedevamo il vecchio professore in una luce sinistra, e lo immaginavamo dedito a chi sa quali pratiche mostruose. Gli facemmo tanti dispetti. Eppure non diceva nulla. Si limitava a guardarci con i suoi occhi stanchi e addolorati. Gli rendemmo la vita difficile e ne porto ancora il rimorso, tanto più che ora, essendomi interessato alla vicenda di Corradino, mi sono dovuto convicere che l'Aleardi si lasciò prendere la mano dalla musa, e distorse talmente la verità, che la sua poesia potrebbe essere considerata un vero e proprio falso.
Giovanni Frangipane forse non era uno stinco di santo, ma certamente non era un traditore, anche se molti storici lo affermano. E cercherò di dimostrarlo, sulla base di approfondite ricerche bibliografiche. Il primo risultato della mia fatica è stato un autentico guazzabuglio. E si spiega: ero in un periodo in cui i personaggi principali erano circondati da imperiali e pontifici, guelfi e ghibellini, baroni e borghesi, tedeschi, francesi, spagnoli e, naturalmente, italiani, i quali formavano pericolose fazioni sempre in lotta fra loro e sempre pronte a cambiar padrone. Il ghibellino di oggi era il guelfo di ieri ed il righibellino di domani; l'imperiale diventava facilmente pontificio, e la creatura sveva si trasformava in angioina.
Stavo addirittura per rinunziare a cercare la verità, quando, via via che riflettevo su fatti e personaggi dei quali ero andato leggendo, il buio si diradava e le acque torbide decantavano. Tutto sommato, costatavo che il mondo è sempre andato più o meno allo stesso modo. Ora credo di poter inquadrare la situazione.
Siamo nel 1267. È passato un anno da quando, nella battaglia di Benevento, le forze angioine hanno sbaragliato quelle sveve, e Manfredi, figlio di Federico Il e Bianca Lancia, è stato ucciso. Carlo d'Angiò, re di Napoli e figlio di Luigi VIII re di Francia, è al culmine della gloria. Era stato chiamato da Clemente IV, perché Manfredi che passava di successo in successo, metteva in grave pericolo il dominio temporale. Carlo ha 41 anni; è avido di potere e di ricchezze; è generoso cogli amici, spietato coi nemici. E' una figura contraddittoria. Benedetto Croce lo chiamerà "il grande e austero Carlo d'Angiò", mentre il biografo francese Jordan definirà "nefasta la sua opera", e giungerà alla conclusione che "l'Italia è in diritto di maledire la sua politica". Per il cronista fiorentino Giovanni Villani, Carlo sarà "savio, di sano consiglio e prode in armi, e aspro e molto temuto e ridottato da tutti i re del mondo, magnanimo e d'alti intendimenti, in fare ogni impresa sicuro, in ogni avversità fermo, e veritiero d'ogni sua promessa...>>, mentre il biografo genovese Galega Panzano, dirà che Carlo "non mantenne mai la parola da quando ebbe compiuto i sette anni" ed era "avaro quando era soltanto conte, doppiamente avido da re e non valutava il mondo intero più di un paio di guanti".
Carlo d'Angiò sogna maggiori conquiste. Ma la casa sveva non è finita. In Baviera, nel castello di Landstrut sul lago di lsar, vi è l'ultimo degli Hohenstaufen, Corradino, figlio di Corrado IV e nipote del grande Federico II. È un quindicenne biondo e snello, bello e romantico. Scrive poesie. Sogna il suo regno tanto diverso dalla Baviera fredda e piovosa. Sogna la terra amata dal sole, fiorita di mandorli e profumata di zagare, ove nacquero suo padre, suo zio e suo nonno.
Su questo adolescente si appuntano le speranze di tanti baroni italiani che da Palermo, Lucera, Siena, Pisa, Verona e Parma gli mandano messaggeri per convincerlo a scendere in Italia per prendere possesso del suo regno. Ed alla fine vi riescono. Sulla decisione molto influisce Galvano Lancia, fratello di Bianca Lancia, madre di Manfredi, zio di Corradino.
Chi più di tutti teme Corradino è Clemente IV. Come il suo predecessore, Urbano IV, egli è acerrimo nemico degli svevi che costituiscono una terribile minaccia per la Chiesa. Seguono, infatti, la politica, di Federico II che è quella di uno stato unitario italiano, in cui il potere della Chiesa sia limitato alla parte spirituale. Come Urbano IV anche Clemente IV è francese. Si chiamava una volta Guido Foulques le Gros ed era un grande avvocato. Alla morte della moglie si diede alla vita monastica, nella quale ebbe un successo maggiore di quello riscosso in campo forense. Fu presto cardinale e, il 5 febbraio 1265, fu eletto papa. L'incoronazione avvenne 17 giorni dopo, a Perugia.
Clemente IV segue attentamente gli avvenimenti e sa benissimo delle pressioni che vengono esercitate su Corradino. Il Pontefice non usa balestre, spade o lance, ma un'arma molto più potente: la scomunica, che, in un epoca dominata dalla paura dell'inferno, fa tanto leva sul popolo, che i re, per non perderne il consenso e l'appoggio, sono costretti a piegarsi.
Corradino non ha colpe, anche perché non ha avuto il tempo di peccare. Eppure il Papa tuona contro di lui: "Dal seme del drago è nato un basilisco, il cui alito pestilenziale già riempie la Toscana. Dovunque uomini empi, nidiata di serpi, ugualmente nemici della Chiesa e di re Carlo, si abbandonano a rei propositi creandovi nella narrazione di cose false un partito nelle città e nei castelli, presso i nobili e presso il basso popolo. Il basilisco è il bimbo Corradino, nipote del fu Imperatore Federico li respinto da Dio e maledetto dal rappresentante terrestre del Signore. I capi del partito dei ghibellini toscani sono quelli che intendono erigere quell'idolo infame per sostituirlo all'unico sovrano legittimo e designato dalla Chiesa, re Carlo di Sicilia".
Il Papa scomunica Corradino, ma questi, nel settembre del 1267, entra in Italia con un esercito di 12.000 uomini, il 21 ottobre è a Verona il 17 gennaio a Pavia, il 17 aprile a Pisa, dove lo raggiunge il suo esercito enormemente cresciuto. Il Papa è a Viterbo. Chi lo tiene lontano da Roma è Enrico di Castiglia.
Enrico di Castiglia, fratello di re Alfonso di Castiglia, è il classico tipo dell'avventuriero. Si era messo al servizio di Edmondo d'Inghilterra quando il Papa gli offriva invano il regno di Sicilia per opporlo a Manfredi; era poi passato al servizio del Sovrano di Tunisi ed aveva debellato le tribù ribelli vicine accumulando enormi ricchezze. Si era unito quindi a Carlo d'Angiò, al quale aveva prestato grosse somme di danaro, che non furono mai restituite, ed aveva anche combattuto contro Manfredi. A Roma le sue ricchezze, la sua vita splendida, le sue feste, la sua munificenza incantano tutti e viene nominato Senatore, carica che gli mette a disposizione enormi poteri. Un bel mattino, Enrico di Castiglia, che quando si è coricato la sera prima era guelfo, si sveglia ghibellino, invita in Campidoglio tutte le personalità che parteggiano per il Papa e le fa arrestare. Sfuggono alla cattura i Savelli, i Colonna, i Segni e i Frangipane. Questi ultimi si rifugiano nel loro castello in Astura.
Enrico di Castiglia accoglie Corradino in modo trionfale, il popolo inneggia a lui e tutta la nobiltà gli offre i suoi servigi, i festeggiamenti durano un mese. Poi, il 24 agosto, Corradino ed il suo esercito, al quale si è unito Enrico di Castiglia con le sue truppe spagnole, si mette in marcia per raggiungere le Puglie. Re Carlo, che finalmente ha ascoltato le esortazioni del Papa, va a tagliargli la strada. I due eserciti si scontrano a Scurcola, presso Tagliacozzo (Abruzzi). In un primo momento le forze sveve sbaragliano quelle angioine. Già si inneggia alla vittoria, quando Carlo, che si era tenuto nascosto dietro una collina, parte alla carica con 800 cavalieri e ben presto travolge e mette in rotta le forze nemiche. Corradino in fuga arriva alcuni giorni dopo a Roma, insieme a Galvano Lancia, Federico d'Austria, alcuni nobili romani e 50 cavalieri, ma trova porte chiuse. Tutta la nobiltà che si era fatta ghibellina è ritornata guelfa. Non gli resta che cercare di riparare in Puglia o a Pisa restate fedeli.
E qui conviene dare la parola agli storici: Collenuccio Pandolfo (1444-1504) nel suo "Compendio della Istoria del Regno di Napoli", dice che "Corradino con il duca Federico d'Austria, meschini giovani accompagnati da Galvano Lancia e Galeazzo suo figliolo ed uno scudiero, investiti in abiti d'asinari, avendo errato tre dì per i boschi, né sapendo dove andare, finalmente pervennero, per or malasorte, nel bosco di Astura, in Ripa Romana, sopra la marina, ove, vedendo una piccola barca di pescatore lo pregarono (sic) li volesse condurre ai lidi di Siena o di Pisa".
Occorrevano dei viveri per i quali il pescatore chiese del danaro che essi non avevano. Gli diedero un anello perché lo vendesse, cosa che egli fece. ma era inevitabile che egli parlasse dei "due giovani di bello aspetto ma malvestiti" che gli avevano dato l'anello prezioso. Ottenuti i viveri, il barcaiolo "se ne tornò alla marina e dati de' remi in acqua... s'inviò al cammin designato. La fama dì questa cosa... pervenne alle orecchie di Giovanni Frangipane... il quale subito s'avvisò uno di quei giovani esser Corradino, il quale Carlo d'Angiò con molta diligenza faceva cercare. Onde, subito armato un galeone, lo mandò alla volta della barca del pescatore e, raggiuntala, presi i poveri signori, li condusse all'Astura".
G.A. Summonte (1540-1602) nella sua "Storia della Città e del Regno di Napoli" narra che "Corradino ed i suoi compagni arrivarono alla spiaggia di Roma sconosciuti, in abiti di contadini, presso una terra chiamata Astura, la quale era di due fratelli della famiglia Frangipane, l'uno chiamato Pietro e l'altro Giovanni... Ivi fermatisi alquanto patteggiarono una barca, ove entrati sconosciuti, uno dei fratelli signori del luogo, veggendo belli giovani e di gentile aspetto, avendo già inteso che l'esercito di Corradino era stato rotto ed egli esser fuggito, giudicò esser Corradino un di quei giovani e con questa occasione poter divenire ricco col prenderli e darli in mano a Carlo (come poi fece)".
Ludovico Muratori (1672-1750) nei suoi "Annali d'Italia" dice che Corradino e compagni presero travestiti la via della maremma con pensiero di tornarsene a Pisa. Arrivati ad Astura noleggiarono una barchetta, ma perché furono riconosciuti per persone di alto affare, Giovanni Frangipane li prese...".
Ferdinando Gregorovius storico e poeta tedesco (1821-1891), nella sua "Storia della Città dì Roma" dice: "Corradino fuggì per la campagna, traversò la via Appia e si mise per le maremme sotto Velletri e giunse al mare vicino all'Astura... I fuggiaschi si misero in un battello sperando di giungere all'amica Pisa, ma Giovanni Frangipane, signore del castello... cacciò nelle loro tracce dei rapidi vogatori, forse lo fece di proprio impulso, forse perché erano state pubblicate lettere del Papa e di Carlo con l'ordine di catturare i fuggitivi. Arrestatigli nel mare, li condusse al castello d'Astura...".
Sempre secondo il Gregorovius, il Frangipane si trovò sottoposto a due pressioni, quella di Roberto di Laveno, ammiraglio di Carlo, in nome del quale egli chiese che gli fosse, consegnato Corradino, e del cardinale Giordano da Terracina, che gli chiedeva, a sua volta, la consegna dei prigionieri, come "scomunicati della Chiesa e malfattori presi nel suo territorio...". Finì per cedere al più forte, cioè all'ammiraglio, che li consegnò poi a Carlo, in Genazzano.
Ora torniamo alla poesia dell'Aleardi. Se la confrontiamo con quanto hanno detto gli storici, ci accorgeremo che Corradino in fuga s'era guardato bene dall'indossare il cimiero azzurro con la stella d'argento e il mantello con l'aquila sveva. Era, infatti, vestito da asinaro. Non era giunto all'Astura remigando, ma per via terra. Inutile aggiungere che chi visitasse il castello, invano cercherebbe di distinguere nel soffio del vento il tonfo della bipenne che recise il capo di Corradino, nè tanto meno potrebbe scorgere il sangue nell'onda che flagella il fondo del castello. Anche la bella fine della poesia, in cui la madre di Corradino chiede all'aquila sveva che torna al suo Reno se ha visto suo figlio, ha una base falsa. Infatti Corradino fu esumato e sepolto nella chiesa del Carmine, solo dopo che l'imperatrice sua madre si recò a Napoli e fece intervenire l'arcivescovo Anglerio. Come si vede, l'Aleardi non ne azzeccò una, e tuttavia fino a questo punto non vi è nulla da obiettare perché, non essendo egli uno storico, non aveva alcun dovere di rispettare rigorosamente i fatti. Con la sua : fantasia poteva volare anche più alto dell'aquila sveva che torna al natio Reno.
Invece non mi sembra giusto che Giovanni Frangipane sia stato tramandato ai posteri come un infame, che avrebbe accolto Corradino da amico ed ospite, per poi tradirlo ed arrestarlo nel sonno. Si, è vero, l'Aleardi non è uno storico, ma generazioni di studenti gli hanno creduto e molti di coloro che hanno scritto di Corradino sono stati certamente influenzati dai versi che abbiamo citato.
Si consideri ad esempio cosa dice lo storico sannita Alfonso Meomartini (1841-1918) nel suo libro sui "Comuni della Provincia di Benevento": "Nel 1269, questo paese (Apollosa) venne con altri donato ad Emmanuele Frangipane (quello che arrestò Corradino per la maggioranza di coloro che ne hanno scritto fu Giovanni, ma alcuni lo chiamarono Jacopo e qui diventa Emmanuele) in premio della turpissima azione da lui commessa di consegnare a Carlo d'Angiò il giovane Corradino e Federico d'Austria, catturati in Astura mentre in sua fiducia si mettevano. Il nome di Apollosa rivela indirettamente quella famosa turpitudine del Frangipane, esecranda per qualunque anima gentile". Ed ecco lo storico Francesco Capecelatro (1596-1670) che nella sua "Storia della Città e del Regno di Napoli", riferendosi ai feudi di Apollosa, Torrecuso, Ponte e Fragnito avuti in dono come "guiderdone" per il "tradimento", dice che per poco tempo i Frangipane li ebbero in possesso "non permettendo Iddio che terre acquistate con si cattivo modo e concedute per prezzo di sangue cristiano lungamente durassero nel loro legnaggio".
Con tutta la buona volontà non mi pare che nel nostro caso si possa parlare di tradimento. Si tradisce un parente, un amico, un alleato, qualcuno cui si è vincolati da un contratto o da una promessa. Ora mentre i Frangipane erano legati tanto a Clemente IV che a Carlo d'Angiò, non avevano legami con Corradino; ed anche se è vero che in epoca lontana avevano avuto dei favori dagli Hohenstaufen, poi si erano guastati ed erano stati in cattivi rapporti con Manfredi. Del resto abbiamo visto che i Frangipane si trovavano in Astura, proprio perché erano sfuggiti alla retata operata da Enrico di Castiglia contro la nobiltà guelfa alla vigilia della visita a Roma di Corradino. Il quale doveva saperlo; altrimenti, giunto all'Astura, invece di noleggiare una barca (su questo tutti gli storici concordano), si sarebbe rivolto allo stesso Frangipane.
Giovanni Frangipane lo arrestò e lo consegnò agli uomini di Carlo, re amico, il quale, come aveva fatto Clemente IV, aveva dato ordine di arrestare Corradino. Giovanni Frangipane, dati i suoi rapporti col Papa e col Re, doveva ad essi obbedienza. Come mai l'aver eseguito i loro ordini sarebbe tradimento? Piuttosto, non sì sarebbe invece il Frangipane comportato male, sia verso Carlo che verso Clemente IV, se avesse lasciato fuggire, o avesse addirittura protetto lo "scomunicato" Corradino?
Si tenga presente che Corradino rappresentava tale un pericolo per Clemente e Carlo che, secondo Io storico Guldenfingen Costantiense nelle sue "Croniche d'Austria", quando Carlo chiese a Clemente che cosa dovesse fare di Corradino prigioniero in Napoli, il Pontefice gli avrebbe risposto: "Vita Corradini mors Caroli, mors Corradini vita Caroli".
Concludendo, io non ho inteso difendere gli angioini contro gli svevi. Ritengo anzi che la fine degli Hohenstaufen che si consideravano italiani (in parte lo erano), abbia ritardato la marcia della civiltà. Se avessero vinto, forse saremmo potuti arrivare sei secoli prima ad un'Italia unita con giuste leggi e diritti e doveri uguali per tutti. E per quel che riguarda Corradino, sono anch'io sensibile alla mala sorte del nobile giovinetto, la cui morte commosse il mondo.
Ho cercato piuttosto di ristabilire la verità per varie ragioni. Prima di tutto per amor della stessa verità che è o dovrebbe essere il principio informatore di chiunque scriva di storia; poi per cancellare questo neo dalla storia di Nettuno, I Nettunesi, fieri ed innamorati della loro città, hanno sempre sentito un senso di disagio per il cosiddetto tradimento. Ho voluto, infine, difendere la memoria di un uomo bollato con troppa facilità col marchio di traditore e fare così ammenda dei dispetti che feci ad un povero professore cogli occhi tristi che si chiamava Giovanni Frangipane.
Ed ecco la seconda considerazione a cui sono giunto durante le mie ricerche. È noto che molti dantisti si sono chiesti come mai Dante, che nel suo poema ha ricordato più volte Manfredi, si sia limitato per Corradino ad un fugacissimo accenno nei versi 67-68 del canto XX del Purgatorio: "Carlo venne in Italia, e, per vicenda / Vittima fe' di Curradino". Eppure la vicenda di Corradino era forse anche più importante di quella di Manfredi.
Ma come abbiamo visto, Dante discendeva dai Frangipane. Visto che l'arresto di Corradino sembrava una cosa poco pulita, non avrebbe il divin poeta sorvolato sull'intera vicenda per amor di famiglia?
Oscar Rampone
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