C
LEMENTE
M
ARIGLIANI
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la rete sui capelli; orecchini lunghi a penda-
glio, di oro ; calze di colore e scarpa bassa,
oppure zoccolo a pianella»
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.
Una interessante descrizione dei costu-
mi dei pastori e di coloro che esercitavano il
mestiere per via ci è stata lasciata da
Romolo Trincheri «Gli abbronzati montana-
ri del passato, dal personale maschio e
robusto, dalle zazzere folte e nere, dalle
barbe incolte, usavano una foggia di vestia-
rio, un costume assai pittoresco, ricordo
della primitiva semplicità dei secoli prece-
denti. Portavano il cappello conico nero, con
fascia rossastra, ornato di penne di uccello;
la giacca di panno turchino nella stagione
buona ovvero nella cattiva il pelliccione; il
panciotto rosso con una grande tasca di
pelle destinata a riporvi il coltellaccio o la
piffera; le cosce ricoperte dai guardamacchi
in pelle; i sandali di cuoio (cioce) tenuti
fermi alla gambe da cinturoni attorcigliati
fino al polpaccio nella buona stagione o gli
strungumieri sopra scarponi di cuoio nella
cattiva. Spesso una mantella turchina con
pellegrina alle spalle»
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. Molti di questi per-
sonaggi nei periodi di festa si trasformava-
no in pifferari o suonatori di ciaramelle (o
zampogna) e con i loro suoni propiziavano
il ballo del “salterello” oppure nel periodo
natalizio suonavano le nenie tipiche del
Natale. Una nota curiosa sui “pifferari” ci
viene da Stendhal «Sono quindici giorni che
i “pifferari”, o suonatori di cornamuse, ci
svegliano alle quattro del mattino. È gente
capace di far odiare la musica. Son rozzi
contadini ricoperti di pelli di capra, che in
occasione delle feste discendono dalle mon-
tagne abruzzesi e vengono a Roma a far
serenate alle Madonne. Arrivano quindici
giorni prima di Natale e ripartono quindici
giorni dopo: ricevono due paoli (un franco e
quattro centesimi) per una serenata di nove
giorni, sera e mattina. Chi vuol essere stima-
to dai vicini e non vuol incorrere in una
denuncia al parroco, nonché tutti quelli che
temono di passare per liberali, si abbonano
per due “novene”.
Non c’è niente di più odioso dell’essere
svegliati nel cuore della notte dal suono
melanconico delle cornamuse , un suono
cha dà ai nervi come quello dell’armonica.
Leone XII, che li conosceva bene già prima
di salire al pontificato, proibì ai pifferari di
svegliare i cittadini prima delle quattro»
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.
Con il trascorrere degli anni tuttavia
tutte le tradizioni lentamente scemavano.
Persino le feste del carnevale perdevano pro-
gressivamente il loro antico sfarzo ed il
costume tradizionale veniva sempre più con-
finato in ristrette rappresentazioni quali le
processioni ultime manifestazioni in cui l’an-
tico abito veniva indossato. Intanto gli abiti
non rinnovati, corrosi dal tempo divenivano
sempre più rari. Nel Novecento (soprattutto
nel periodo fascista) trovarono spazio nel
rappresentare i vari comuni alle manifesta-
zioni ufficiali oppure davano testimonianza
di sé in alcune mostre appositamente orga-
nizzate. Una vera e propria amarcord del
costume popolare fu la mostra organizzata
dalla Provincia di Roma nel 1927. Cosi scri-
veva il ministro Tittoni al comitato promoto-
re della mostra «raccoglierli è necessario,
perché col rapido espandersi della civiltà,
coll’intensificarsi dei rapporti tra regione e
regione, col grande fenomeno emigratorio,
certe forme della vita locale e i loro docu-
menti salvo quelli scritti sono destinati a
diradarsi o a svanire del tutto»
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.
Struggente è il lamento di Luigi Huetter
sulle tradizioni che declinano irrimediabil-
mente: «E di Roma saluteremo con rimpian-
to sincero l’ormai tramontato “costume”,
ombra evanescente nel ricordo, viva soltan-
to negli ingialliti rami pinelliani e nelle
stampe o litografie d’un tempo lontano.
Addio, dunque, giacchette di seta
imbottita, che foste onore delle “minenti”