Pagina 46 - costume di nettuno 2

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C
LEMENTE
M
ARIGLIANI
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bigliamento femminile, appariva la mutata
degli uomini, la quale nei giorni di gala si
componeva dei calzoni corti, volgarmente
detti “mutanne” per la somiglianza che
avevano con esse, stretti al ginocchio con
bottoni, più raramente con fibbia, e chiusi
in avanti da un pattino abbottonato sulla
cinta; della gran fascia di tela bianca girata
più volte attorno ai fianchi; delle calze di
cotone bianche e colorate; della giacca
aperta piuttosto lunga e delle scarpe non
molto alte allacciate con correggiuoli, alle
quali alcuni sostituivano le scarpette basse
ornate di fibbia. Il copricapo era dato da un
cappello a cencio, chiamato per scherzo
«come ce pare» oppure dall’altro duro di
scacciacavallo, a pan di zucchero, dalla
tinta nera, bigia o caffè–latte, di cui il nastro
ricadeva in due strisce di differente lun-
ghezza giù dalle falde. Come si trova prati-
cato tuttora in qualche paese dell’Italia cen-
trale e meridionale anche i lanuvini non
omettevano di ornare i lobi delle orecchie
con minuscoli cerchietti d’oro, scomparsi
del tutto dall’uso nella seconda metà del
secolo scorso»
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.
È indubbio che l’attenzione maggiore
verso il costume femminile si aveva duran-
te le feste religiose e quelle civili.
Il costume della festa era quello che si
tramandava con maggior cura e per il quale
si spendeva di più. Le donne meno abbienti
rimediavano con la maggiore abilità nel
ricamo o nel riutilizzare tessuti preziosi
altrimenti riciclati. Una suggestiva nota
degli abiti della festa ci viene da Costantino
Maes «Le nostre antiche popolane nelle loro
feste sfoggiavano le vesti più appariscenti.
Un gran fazzoletto di seta, di solito rosso
fiammante o di altro vivo colore copriva le
spalle incrociato sul petto e annodato alla
vita; nelle solennità indossavano solo abiti
di seta o velluto tempestato di margheriti-
ne… La veste giungeva al collo del piede;
scarpe basse con fibbia d’argento o stivalini
verniciati di vario colore, ma soprattutto in
tanto sfarzo la decenza ingloriava le roma-
ne: nessuna scollacciatura.
Nei giorni di festa un pettine di tartaru-
ga alto una spanna coronava come un dia-
dema le chiome corvine; dentro le trecce fic-
cavano spilloni d’argento a ghirlanda come
aureola o nimbo, bruniti, a pallini superiori,
quelli di sotto a spadino con un’impugnatu-
ra o guardia, l’elsa terminante in una mano
che serrava un pomo o uno scettro.
Le spose vi aggiungevano la rosa d’oro
tremolante. Le più anziane chiudevano la
capigliatura in una reticella di seta verde.
Nell’alta tenuta delle maggiori solenni-
tà l’acconciatura,già così vaga, aveva un
finimento oltremodo pomposo e bello. Un
vero cimiero coronava quelle superbe teste
scultoree. Le Minenti mettevano bombette
e tube da uomo con rose o penne altissime
svolazzanti. Questo piccolo cilindro era il
famoso
rat-musqué
detto così perché di fel-
tro nero o più generalmente color caffè e
latte con pelo lungo e arruffato a bella posta
ornato di fiori, nastri e penne dai più viva-
ci colori. Le bombette erano altresì contor-
nate di fregi in pittura che si potevano
variare; alla Madonna del Divino amore vi
ponevano l’immagine della Madonna.
Le Minenti splendevano per collane
d’oro, gemme e pietre preziose; il collo ed il
seno coperti di catene d’oro; alle orecchie
lunghe scioccaje di grossissime perle, vere
perle orientali. L’oro, i brillanti e le perle
false, lusso della moderna miseria, erano
aborrite dall’opulenza plebea. I gioielli con-
densavano in breve spazio somme invidia-
bili di danaro. Di anelli tanto i maschi che le
femmine ne avevano quattro o cinque per
dito; gli uomini, oltre solide, pesantissime
catene d’oro per l’orologio portavano fib-
bioni massicci d’argento alle scarpe e orec-
chini d’oro che paiono cerchi di botte»
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