Pagina 164 - costume di nettuno 2

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arina
S
ciarelli
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nel Xii secolo, apprendiamo da ottone
di Frisinga che ruggero il normanno non
rese i prigionieri catturati durante la guerra
di grecia, ma da tebe e corinto li deportò a
palermo (1146) col compito preciso di inse-
gnare l’arte tessile ai suoi. dopo Federico ii
la corte venne trasferita a napoli, in inven-
tari del 1295 sono ricordati tessuti di
Salerno, amalfi e napoli, soprattutto a
napoli una tradizione tessile dovette conti-
nuarsi, localizzata a portici e in particolare
a San leucio.
ma per i meno abbienti il capo d’abbi-
gliamento era considerato un bene di con-
sumo importantissimo: doveva essere
durevole, si utilizzava per anni e poi si
lasciava in eredità. la produzione di panni-
lani risulta assai fiorente, corporazioni
diverse si occupano delle varie fasi della
lavorazione della lana greggia, distinguen-
done la lavatura, la cardatura, la filatura,
l’orditura, la tessitura e infine la cimatura e
la tintura.
nello studio del costume italiano un
elemento che ha una grande importanza e
un carattere estremamente suggestivo e
attraente è il colore che viene ottenuto gra-
zie allo straordinario progresso dell’arte
tintoria, per ottenere la porpora i romani si
servivano del murice, un piccolo mollusco
marino di varia specie: ogni animaletto
dava una sola goccia di colore, perciò per
tingere una tunica ce ne volevano migliaia;
di qui il suo prezzo elevatissimo, perduta la
tradizione di utilizzare il murice, la produ-
zione del rosso nell’alto medioevo era otte-
nuta per mezzo del sangue di certe blatte,
che riusciva però poco pregiata. «ma nel
Xii e Xiii secolo, nuove sostanze fino allora
sconosciute o malamente usate perfeziona-
no l’arte tintoria. molto importante si rivela
la sostanza estratta dal coccus ilicis, insetto
parassita delle querce, già adoperato in
roma, dove si ha notizia di vesti rosse dette
coccineae. il cocco disseccato per l’uso tin-
torio si presentava come un granello. il
colore che se ne estrae nel duecento era
appunto detto grana, nome che si applica in
poesia descrivendo le colorite guance della
donna amata»
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.
per riassumere nel medioevo vediamo
l’uso delle lane e la sua lavorazione con
pratiche tintorie specializzate, l’uso delle
sete e di un perfezionato artigianato sarto-
riale. ma anche negli accessori (le acconcia-
ture, i ricami, le calzature, i gioielli) del
nostro costume nettunese sono riconoscibi-
li elementi assai antichi. nel Quattrocento
vige l’uso di appendere al collo con un
semplice cordoncino nero i gioielli da por-
tare sul petto, o anche quello di collane a un
filo, di corallo rosso o di onice nero con
attaccati dei pendenti.
«il pezzo di stoffa che, semplice e
monocromo o variamente atteggiato, deco-
rato e colorato, copre il capo. il mèsero ligu-
re, che, così come è giunto a noi, è un pro-
dotto del progresso tecnico tessile del
Settecento, è già documentato nel duecento
e nel trecento e il suo nome è da collegarsi
all’arabo mi’zam e all’uso orientale di vela-
re il capo. lo shijèpi presente in italia a San
paolo albanese, a Spezzano ed a piana
degli albanesi, conferma questo tipo di
indumento nelle zone di influenza bizanti-
na; e non v’è regione d’italia dove esso non
sia con vari nomi: vetta, vettarella, tovaglio-
lo, panno, pieta, cittello
[
…] o ridotta a una
pezza di panno policromo (nettuno)»
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.
a partire dai primi decenni del
Quattrocento, soprattutto in italia setten-
trionale, le donne calzano al di sopra delle
calze scarpette o
caligae
, con suola di cuoio
e tomaia di stoffa (panno di lana o, negli
esempi più sfarzosi, velluto e addirittura
broccato d’oro). Queste calzature, tuttavia,
probabilmente erano troppo delicate per le
donne delle classi popolari (impegnate in